Le tre identità di Arendt

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Beatrice Magni

                                                       My thinking is my fighting:
                                                       la concezione arendtiana
                                                       della politica

                            «Ho una metafora che non ho mai pubblicato, ma che ho conservato
                                  per me sola, l’ho definita «pensare senza ringhiere». In tedesco
             Denken ohne Geländer: si salgono e si scendono le scale, e si è sempre trattenuti dalla
                         ringhiera, in modo da non cadere. Ma noi abbiamo perso la ringhiera.
                                       Questo mi sono detta. E questo è quello che cerco di fare»
                                                                                 Hannah Arendt

      1. Le tre identità di Arendt

      Hannah Arendt è una pensatrice politica tanto interessante quanto contro-
      versa: la sua biografia si intreccia, più o meno costantemente, con l’opera,
      condizionandola. L’arco temporale della sua vita è, del resto, significativo:
      1906-1975, ovvero due Guerre mondiali, i totalitarismi, i movimenti per i
      diritti civili, la disobbedienza civile. A tutte queste vicende Arendt partecipò
      in prima persona.
          Hannah Arendt è ebrea. Nasce il 14 ottobre del 1906 a Linden, un sobbor-
      go di Hannover, da Paul Arendt e Martha Cohn, due giovani ebrei tedeschi
      di classe media appartenenti alla cultura socialdemocratica di assimilazione,
      e quindi piuttosto lontani dall’ambiente sionista. Perde prematuramente le
      due figure maschili della casa, il padre e il nonno, che muoiono entrambi
      nel 1913, e viene cresciuta dalla madre, donna «emotiva e generosa» (che si
      risposò in seguito), che la educa seguendo il modello allora in voga tra l’élite
      culturale tedesca, e cioè attraverso la Bildung, la consapevole formazione del
      corpo e della mente, di cui Goethe era l’oracolo tedesco, colui che ne definì
      le parole d’ordine: autodisciplina, incanalamento costruttivo delle passioni,
      rinuncia, responsabilità verso gli altri, estrema attenzione alla socievolezza. A

            Biblioteca della libertà, LIII, 2018
settembre-dicembre, n. 223 • ISSN 2035-5866
               DOI 10.23827/BDL_2018_3_5           3
         Nuova serie [www.centroeinaudi.it]
Beatrice Magni
            My thinking is my fighting:
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distanza di cinquant’anni, in un’intervista televisiva nel 1964, Arendt ancora
dichiarava di sentire che sotto la tutela della madre era cresciuta senza pregiu-
dizi (Arendt 2006):
   Io provengo da una vecchia famiglia di Konigsberg, gli Arendt. Ma in casa la
   parola “ebreo” non veniva mai pronunciata. La prima volta che l’ho sentita
   (ma veramente non vale neanche la pena di parlarne) è stato mentre giocavo
   per la strada, con dei bambini che facevano osservazioni antisemite: e ne
   rimasi, per così dire, illuminata… Un pò più grande, ma sempre bambina,
   io sapevo, per esempio, che avevo un aspetto da ebrea… e cioè un aspetto
   un pò diverso dagli altri. Ma non in modo che mi facesse sentire inferiore:
   lo sapevo e basta, tutto qui. E anche mia madre, anche la mia casa erano un
   pò diverse da come sono di solito le case, anche se paragonate a quelle di altri
   bambini ebrei… Tutto mi sembrava un po’ diverso, ma è molto difficile per
   un bambino dire precisamente in cosa consista la differenza… Mia madre
   non era molto teorica… la questione ebraica non aveva per lei alcuna impor-
   tanza. Naturalmente era un’ebrea! Non mi avrebbe mai fatto battezzare, e me
   le avrebbe date sul serio se mai avesse avuto motivo di credere che io negavo
   di essere ebrea. Ma l’argomento non era mai oggetto di discussione, era fuori
   questione che lo fosse… Vede, tutti i bambini ebrei venivano a contatto con
   l’antisemitismo. E l’animo di molti bambini ne veniva avvelenato. Con me la
   differenza stava nel fatto che mia madre insisteva perché io non mi lasciassi
   mai umiliare. Ci si deve difendere! Se qualche insegnante faceva un’osserva-
   zione antisemita, io ero stata istruita ad alzarmi in piedi immediatamente,
   uscire dall’aula e andarmene a casa, lasciando il resto al regolamento della
   scuola. Poi mia madre avrebbe scritto una delle sue molte lettere, e con ciò
   finiva completamente il mio coinvolgimento nella faccenda. Avevo avuto un
   giorno di vacanza, e naturalmente trovavo la cosa molto piacevole. Ma se
   il commento veniva rivolto contro di me da altri bambini, mi era proibito
   di andare a casa a raccontarlo. Non era una cosa che contava. Ci si doveva
   difendere da soli da osservazioni fatte da altri bambini. Quindi queste cose
   non sono mai divenute veramente problematiche per me. C’erano regole di
   condotta, le regole della casa per così dire, dalle quali la mia dignità veniva
   protetta, protetta in modo assoluto.

   La limpidezza di questa sua dichiarazione a posteriori non deve, comun-
que, distrarre dal fatto che fu l’esperienza del totalitarismo a costituire lo
sfondo della sua teoria e delle sue riflessioni, il pensiero ricorrente e la nota
dominante che segnò una frattura irrimediabile della modernità, un colpo di
grazia a ogni dottrina morale, l’evento inedito che, nelle parole di Arendt «ha

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polverizzato le categorie morali della tradizione, al punto che ci ritrovammo
a dover pensare tutto dal principio» (Arendt 2006).
    È filosofa di formazione – segue a Marburg i seminari di Heidegger, a
Friburgo un semestre di corso con Husserl, prepara a Heidelberg la sua tesi
di Dottorato con Jaspers – una formazione filosofica solida almeno quanto
solido, ostinato e costante sarà il suo rifiuto di dirsi filosofa e di farsi ricono-
scere nel novero degli intellettuali dell’epoca. Heidegger e Jaspers sono i suoi
maestri, importanti e diversi (Arendt 2007):
   La novella lo diceva semplicemente: il pensiero è ridiventato cosa viva, poiché
   egli fa parlare tesori culturali del passato che si credevano morti, ed ecco che
   propongono cose tutte diverse da quelle che credevamo. C’è un maestro: pos-
   siamo, forse, imparare a pensare.

    Così scriveva Arendt nel saggio in occasione degli ottant’anni di Heideg-
ger: a proposito del suo insegnamento, diceva che aveva sperimentato con
lui «il pensare come pura attività», vale a dire che aveva appreso che filoso-
fare è, in primo luogo, stupirsi, in ogni modo cercare l’invisibile nel visibile,
sperimentare e scoprire le origini reali dei concetti più tradizionali, al fine di
estrarre da questi di nuovo lo spirito originario. Si tratta di un «pensare ap-
passionato», che prende l’avvio come passione a partire dal semplice fatto di
essere-nati-nel-mondo. Questo insegnò Heidegger ad Arendt: a fare filosofia,
«raggiungere le cose» che non sono (solo) un affare accademico, ma la cura
dell’individuo che pensa. Fare filosofia, dunque, significa pensare, ma ciò non
coincide con la trasmissione di verità organizzate, di una disciplina filosofica,
né con una divisione del lavoro in qualche misura codificata. Fare filosofia
significa esercitare «lo stupore per ciò che è in quanto è». Ma qui ci si deve
fermare: se con Heidegger «il mondo prende la parola», il mondo di Arendt
non prende la parola nello stesso modo, e il suo pensare appassionato è di
tutt’altro genere: se Heidegger pensa, Arendt pensa la politica, e si tratta di un
pensiero vivente, poiché gli uomini sono esseri per la vita, non per la morte.
Arendt riuscì a riconoscere nella potenza heideggeriana del pensiero degli eco
dispotici, e quella malsana forma di miopia, che può colpire il pensatore più
puro, nel momento in cui si rinchiude nella prospettiva, sia pure vertiginosa,
ma pur sempre limitata, delle sue meditazioni. Se Heidegger era dunque un
re, un «re del reame del pensiero», questo pensiero è tuttavia restato, sempre,
un pensiero sconnesso rispetto al presente. Jaspers invece, scrive Arendt in
una lettera, «è sempre qui», è la sua unità di misura (Arendt 2007):

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   Sul piano umano e personale lei mi ha sempre convinta, e in tale misura, che
   per lunghi anni io sono stata sicura di lei quasi più di quanto non fossi sicura
   di me stessa… lei domanda, e le sue domande sono certo come una mano
   tesa…

    Jaspers rappresenta la filosofia declinata al tempo presente: con lui, Aren-
dt condivide un’adesione al mondo che è cresciuta sul fondamento stesso
dell’assenza di terreno, e che ha saputo compiersi nel distacco di «chi fa le
sue prove». Ma Arendt e Jaspers condividono anche la passione per il mon-
do, una passione più costitutiva e polemica in Arendt, in Jaspers più tardiva
e meditata. Tra i due si stabilisce un ponte, luogo di corrispondenze, come
lo è la loro, epistolare, in un carteggio che è la filigrana sovrapposta di due
esistenze, e di un dialogo senza riserve, che non ha mai alterato i confini tra
riflessione teorica e mondo.
    Alla politica, e alla consapevolezza della politica, Arendt giunge tardi: il
1933, anno in cui Hitler arriva al potere in Germania, rappresenta un anno
cruciale, e a questa data risale la sua presa di coscienza personale di una re-
sponsabilità politica. Ciò che ha contato maggiormente, non fu solo lo choc
dell’incendio del Reichstag e gli arresti che ne seguirono, ma soprattutto
l’ondata di conformismo e collaborazione che si diffuse tra gli intellettuali
tedeschi:
   Il problema, il problema personale non era dunque tanto ciò che facevano
   i nostri nemici, ma quello che facevano i nostri amici…». Intorno a noi si
   formava il vuoto… potevo constatare che tra gli intellettuali allinearsi era la
   regola, mentre non avveniva in altri ambienti. E non l’ho mai dimenticato.
   Me ne andai dalla Germania con quest’idea fissa, naturalmente un pò esage-
   rata: mai più! Mai più mi farò toccare dalle storie degli intellettuali.

    A questa bancarotta morale, e alla «maggioranza che salì sul treno del-
la storia», Arendt risponde, in un primo tempo, difendendosi attivamente,
schierandosi, collaborando alla fuga degli esuli da Berlino e lavorando ille-
galmente per l’Organizzazione sionista tedesca e per Kurt Blumenfeld. Viene
arrestata, insieme alla madre, interrogata, incarcerata, infine rilasciata. Pro-
fuga, priva di documenti di viaggio, si trasferisce clandestinamente a Parigi,
passando da Praga e da Ginevra, nello stesso 1933, e lì rimane fino al 1940. A
Parigi è segretaria esecutiva della sezione parigina della Youth Aliyah, un’or-
ganizzazione sionista che assisteva i giovani profughi e li preparava alla vita in

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Palestina (Arendt è per la creazione, in Palestina, di uno stato binazionale).
Nel 1940 evade, sottraendosi alla sorveglianza, dal campo di internamento di
Gurs, nel Sudovest della Francia. Cerca di convincere le compagne del cam-
po, dove era rimasta per quasi due mesi, a fuggire con lei: rifiutano, saranno
quasi tutte deportate ad Auschwitz. A 35 anni affronta il suo secondo esilio:
nel 1941 si imbarca, sempre clandestina, per gli Stati Uniti, e non rivedrà
più l’Europa, se non per brevi soggiorni. La Germania, dice, resta per lei
la lingua materna, la poesia, la filosofia, anche se in ogni suo viaggio, come
scrive a Blucker, il marito, deve fare i conti con una familiarità ingannatrice. I
primi anni americani sono difficili, economicamente e moralmente: resta una
apolide, priva dei diritti di cittadinanza e dei diritti politici, per diciassette
anni, fino al 1951, quando diventa cittadina americana, e fino ad allora (fino
a cinquant’anni) è costretta a vivere di collaborazioni editoriali.
    In continuo movimento, continuamente sradicata, né tedesca, né america-
na, né appartenente al ghetto, né assimilata, né filoisraeliana, né credente, né
rinnegata, senza legami chiari nemmeno con l’ebraismo, molto contrastata, per
nulla pacifica: ci troviamo di fronte alla storia di una persona la cui immagine
reale sfugge, e che, soprattutto, non riusciamo (perlomeno, nessuno vi è ancora
riuscito) a includere in alcuna delle categorie a nostra disposizione per definire
una pensatrice o un pensatore. Arendt sottolineò sempre la sua estraneità alla
accademia dei filosofi: le sue opere, e lei con loro, furono sempre circondate
da un alone di sospetto ideologico e politico, sospetto che, del resto, Arendt
fece sempre ben poco per dissipare: allergica alle pubbliche relazioni, come lei
stessa si definiva, fu sempre isolata, e deliberatamente distaccata da scuole e
accademie, da partiti politici e sistemi ideologici. Se si dovessero individuare le
ragioni di questa sfortuna, questa fama tardiva, di questo disinteresse così pro-
lungato nei suoi confronti, la ragione principale e identificabile più agevolmen-
te risiede proprio nella sua autonomia di pensiero e indipendenza da qualsiasi
scuola o corrente dottrinaria, indipendenza e autonomia del pensare che pagò
a caro prezzo in termini di esilio, isolamento e di scarsa legittimazione teorica.
Hannah Arendt è stata per molti anni una voce inascoltata nel panorama del
pensiero, soprattutto europeo. Come colui che non ha una casa, e, come era
solita dire, «sta tra tutti gli sgabelli»: per utilizzare un termine della sociologia,
si potrebbe dire dunque che Hannah Arendt è una delle più grandi outsider
del pensiero politico del xx secolo. Fin dalla pubblicazione de Le origini del
totalitarismo (lo scritto oggi di lei più conosciuto), nel 1951, i suoi saggi hanno
attirato e creato controversie molto intense: Le origini del totalitarismo fu in

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un primo tempo acclamato come una profonda analisi del Nazismo e dello
Stalinismo, e poi respinto come un saggio di propaganda della Guerra Fredda.
The Human Condition e On Revolution, le sue opere teoriche fondamentali,
non subirono sorte migliore. Più dibattuto di tutti fu Eichmann a Gerusalemme
(che le costò un indubbio isolamento dall’ebraismo stesso), nel quale Arendt
rende conto delle sedute del processo (cui lei aveva assistito in qualità di inviata
del New Yorker) svoltosi nel 1961, a Gerusalemme, contro Adolf Eichmann:
Eichmann era l’ex SS cui era stata affidata in gran parte l’organizzazione dello
sterminio ebraico (e che i servizi segreti israeliani avevano catturato e rapito in
un sobborgo di Buenos Aires): il testo di Arendt sollevò l’indignazione di alcuni
esponenti dell’ebraismo, poiché non vi erano taciute ambiguità e debolezze nel-
la lotta contro il Nazismo, non solo da parte degli stati vincitori, ma anche di
alcune comunità ebraiche. Le polemiche non erano, tuttavia, legate solo al suo
giudizio nei confronti dei capi delle comunità ebraiche, ma anche al giudizio
disincantato su Eichmann, che si era rivelato essere per Arendt non il mostro
disumano che l’accusa era intenzionata a mostrare al mondo, e che il mondo si
attendeva di vedere, ma più semplicemente un funzionario scrupoloso, piccolo
burocrate, la cui «normalità» costituiva, agli occhi di Arendt, il reale pericolo e
l’autentico problema del processo.
    Non è dunque difficile intuire la difficoltà di inquadrare Hannah Arendt,
di metterla a fuoco e comprenderne il pensiero, anche se, ormai, si potrebbe
dire che la sua statura di teorica della politica non sia più in discussione, e che
le sue idee abbiano oggi acquistato nuova rilevanza. Arendt oggi può essere
letta in molti, e differenti, modi: la via d’accesso all’originalità della sua rifles-
sione sull’agire politico che ho scelto come introduzione riguarda la relazione
critica che Arendt mantenne sempre aperta, su almeno tre fronti cruciali:
   •    il rapporto con l’identità filosofica;
   •    il rapporto con l’identità ebraica;
   •    il rapporto con l’identità femminile.
   Perché proprio questi tre aspetti di Arendt? Perchè credo che il contributo
arendtiano sulla questione dell’identità, e delle sue trappole, sia una utile
chiave per la lettura della sua concezione della politica.

1.1 Il rapporto con la filosofia
Il peculiare equilibrio tra appartenenza e distacco che qualifica il carattere
delle riflessioni arendtiane è evidente nella concezione del filosofo. Anche

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della filosofia, infatti, Arendt si appropria con circospezione e diffidenza, ri-
dimensionandone, in un certo senso, le ambizioni, fino a giungere a sostenere
quanto le preoccupazioni di un certo tipo di filosofia possano essere, talvol-
ta, profondamente antipolitiche. Secondo Arendt, in questo vicina al Rawls
dei quattro ruoli della filosofia politica (Rawls 2009), il filosofo è colui che
chiarifica esperienze comuni a tutti: egli resta pertanto un uomo come te e me,
uno che vive tra uomini e non tra filosofi (Arendt 2004). Uomo tra gli uomini,
cittadino tra i cittadini, Socrate è per eccellenza il cittadino-pensatore, cui
fare riferimento per imparare a pensare politicamente. In altri termini, il ri-
fiuto arendtiano della filosofia, e della filosofia politica, è il rifiuto del proget-
to politico platonico: questo intende dire Arendt, quando dichiara di «voler
guardare alla politica con occhi sgombri dalla filosofia» (Arendt 2006). Dopo
la condanna a morte di Socrate da parte di Atene, la città non è più un luogo
sicuro per il filosofo, costantemente in balia dei voleri della moltitudine. Pla-
tone toglie così la filosofia dalla città, disimpegnandola. La reazione platonica,
tuttavia, implica un capovolgimento radicale di quella che Socrate intendeva
per pratica filosofica, ovvero una pratica dialogica e mondana. Il progetto
platonico si inaugura con il rifiuto di tale modalità socratica: da allora, il filo-
sofo diventerà un solitario e amondano ricercatore di verità, e la filosofia, da
Platone in poi, assumerà il compito del governo, ovvero del disciplinamento
della vita caotica e disordinata della città (che si traduce nel tentativo della
filosofia di tenere sotto controllo l’imprevedibilità della vita politica). Il risul-
tato è la separazione tra filosofia e politica, laddove, per Socrate, non esiste
filosofare che non sia immediatamente politico. La filosofia diventa lo spazio
della ricerca della verità, la politica si trasforma nello spazio delle opinioni
incontrollabili e inaffidabili dei più.
    Per questo motivo, il lavoro di Arendt potrebbe essere sintetizzato in una
rivalutazione di tipo normativo della politica, contro i rischi professionali in
cui cade ricorrentemente la filosofia: fare teoria politica, in senso arendtiano,
significa allora elaborare un interesse autonomo, giustificato e mondano, per
il «mondo comune» (Arendt 2017). Se, in altre parole, gli scopi inediti del
totalitarismo sono la riduzione delle persone a un fascio di reazioni nervose,
la trasformazione di uomini e donne in puri esseri di una specie, e l’elimi-
nazione, tramite cancellazione dei suoi confini, del mondo comune – quello
spazio di scelta e azione entro il quale gli individui si trovano in una relazione
di simmetria e dal quale guardano grazie a una pluralità di sguardi e di pro-
spettive – ridare valore autonomo alla politica significa tracciare di nuovo il

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confine del territorio nel quale la politica abita, e distinguerlo da altri terri-
tori (quale, per esempio, il territorio del “sociale”). Il compito arendtiano è
legato alla divisione di competenze e di ambiti: la politica è uno spazio sepa-
rato da confini, e la sua qualifica spaziale è cruciale, in quanto garanzia della
permanenza del mondo comune medesimo. In questo senso, il totalitarismo
diventa nell’analisi di Arendt una sorta di laboratorio che assume un caratte-
re esemplarmente negativo nella rivalutazione della politica: il totalitarismo
svaluta ogni forma di agency, e priva gli individui della loro capacità fonda-
mentale, la capacità di prendere delle iniziative, di “rinascere” politicamente
nel mondo comune e plurale. Il lavoro del totalitarismo è un lavoro di natu-
ralizzazione dell’identità, poiché esso le predispone a rispondere a stimoli: il
suo soggetto ideale è il cane di Pavlov, l’automatismo, la reazione obbligata
di soggetti condizionati, ridotti a meri esseri replicanti. Nemico del totalita-
rismo è tutto il resto, gli agenti morali o, nei termini di Arendt, tutti coloro
che sono “portatori di tendenze” non dissimili, per il regime, dal portatore di
una malattia (Arendt 2015a). Il totalitarismo è nemico per eccellenza di ogni
capacità performativa umana – che si estende dalla costruzione di ponti alla
redazione di costituzioni – laddove una delle tesi cruciali di Arendt risiede
nella convinzione che gli umani siano capaci di prendere le distanze dalla loro
natura. Nella tensione aggiornata da Arendt tra la vita activa e la vita con-
templativa del filosofo, la riproposizione della vita activa sarà quella ispirata,
come già sottolineato, alle figure di Socrate e Kant.

1.2 Il rapporto con l’identità ebraica
Il modo arendtiano, insieme consapevole e responsabile, di porsi nei confron-
ti del mondo, è alla base del suo rapporto con la propria ebraicità. Per chiarire
questo rapporto, è utile fare riferimento al processo Eichmann: in Eichmann
a Gerusalemme, Arendt esibisce un vincolo profondamente laico con la sua
identità. Ne deriveranno polemiche intense, ostracismo, rottura di amicizie.
Il punto è che Arendt rifiuta di esaminare il processo Eichmann dal punto di
vista della sofferenza degli ebrei, dichiarando apertamente di non voler con-
fondere la questione delle vittime di un avvenimento senza precedenti con
il processo a una singola persona, e sostenendo un profondo attaccamento
all’ideale freddo della legge: in un’aula giudiziaria non si processa un sistema,
né un popolo, ma un individuo. In questa circostanza, tra le polemiche e le
accuse rivolte ad Arendt, è degna di nota una lettera che le scrisse Gershom

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Scholem, un amico, il quale la accusa di «avere un tono beffardo e malevolo»,
di dimostrare di «odiare se stessa», e di non usare alcun tatto del cuore, alcun
riguardo nell’accostarsi alle vicende del proprio popolo. Leggiamo la risposta
di Arendt (Arendt 2009b):
   Hai perfettamente ragione, non sono animata da alcun amore di questo gene-
   re, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o
   collettività – né il popolo tedesco, né il popolo francese, né quello americano,
   né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo “solo” i miei amici, e
   la sola specie di amore che conosco e in cui credo, è l’amore per le persone.
   In secondo luogo, questo «amore per gli ebrei» mi sembrerebbe, essendo io
   stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o
   qualcosa che so essere una parte essenziale della mia persona.
   La verità è che io non ho mai avuto la pretesa di essere qualcosa d’altro o
   diversa da quella che sono, né ho mai avuto la tentazione di esserlo. Sarebbe
   stato come dire che ero un uomo e non una donna – cioè qualcosa di insensa-
   to. So, naturalmente, che esiste un “problema ebraico” anche a questo livello,
   ma non è mai stato un mio problema – nemmeno durante l’infanzia. Ho
   sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei dati indiscutibili, della
   mia vita, che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare. Esiste una sorta di
   gratitudine verso ciò che è così come è; per ciò che è stato dato e non è, né
   potrebbe essere, fatto; per le cose che sono “physei” e non “nomo”.

    Arendt considerava quindi il proprio essere ebrea un dato assolutamente
imprescindibile, un dato di cui essere consapevoli e responsabili. Non lo mi-
stificava, come facevano i sionisti, ma nemmeno lo subiva, come i parvenu:
piuttosto, ne era lucidamente responsabile. Nella scelta tra essere pariah –
l’outsider che non taglia le proprie radici, colui o colei che non è disposto
a pagare il prezzo della cittadinanza con l’assimilazione, colui o colei che
pretende di essere assimilato in quanto ebreo, e che volta le spalle al mondo
che lo esclude – o parvenu – l’ebreo che ripudia la propria identità tentando
di mimetizzarsi tra i gentili e che, di fatto, accetta e condivide lo status quo,
diventando l’ebreo d’eccezione – Arendt decide di diventare una pariah con-
sapevole, ovvero colui/colei che, anche se è escluso, non perde l’amore né l’im-
pegno per il mondo, ma, anzi, si ribella al mondo in termini comprensibili,
cioè politici, affidandosi a risorse cognitive e non affettive.
    Nella risposta a Scholem, appare chiaro come Arendt rifiuti di essere figlia
di una qualunque identità, risulta chiara la sua diffidenza per il presunto
ruolo strutturante dell’identità e di qualsivoglia comunità, la caparbietà del

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voler andare contro ciò che sarebbe “atteso”, che da lei ci si sarebbe potuti
aspettare. L’identità ebraica è un fatto naturale, un dato di nascita, physis, su
cui non c’è, in fondo, molto da dire. Tranne in un caso: nel caso in cui questa
identità venga indebitamente attaccata (come nel primo esempio riportato).
Soltanto nel momento in cui si viene provocati, solo nel caso in cui l’identità
corre il rischio di essere oppressa, noi siamo autorizzati, secondo Arendt, a
considerare e trattare la nostra identità (l’ebraicità, nel caso specifico) come
una questione di dignità (Arendt 2009b):
   In tempi di diffamazione e di persecuzione, non ci si può difendere se non
   nei termini dell’identità che viene attaccata. Coloro che rifiutano le iden-
   tificazioni che vengono loro imposte da un mondo ostile, possono sentirsi
   mirabilmente superiori al mondo, ma la loro superiorità non è più di questo
   mondo: è la superiorità di un “paese dei sogni” più o meno ben attrezzato.

    Nel momento in cui si viene attaccati, nella logica arendtiana l’identità
viene attivata, e diventa politicamente rilevante (nel senso dell’agire, il che
comporta anche una dimensione di imprevedibilità), e si “politicizza”, a causa
della contestazione che solleva. Rispondere alla domanda “chi sei?”, “sono
un’ebrea”, significa per Arendt nominare qualcosa che indica un radicamento
di nascita, ma non corrisponde a un’appartenenza, a una professione, a un’i-
dentità di cui poter rivendicativamente disporre. Ecco perché, per descrivere
la posizione amondana che la storia aveva assegnato al suo popolo, Arendt
ricorreva spesso all’aforisma di René Char: «La nostra eredità non è preceduta
da alcun testamento» (Char 2018).
    L’identità ebrea non viene riconosciuta sulla base di una essenza condivisa,
o anche sulla base di una esperienza condivisa di oppressione: Arendt insiste
molto sul fatto che si possa affermare di essere ebrei, senza che ciò implichi
che essere ebrei significhi condividere alcune istanze essenzialistiche predeter-
minate. Semplicemente, accade talvolta che gli avvenimenti politici spingano
gli individui a riconoscere il fatto politico di alcune categorie identitarie, per
esempio se queste sono attaccate, e, se si vuole resistere, lo si deve fare nei
termini dell’identità che è attaccata.

1.3 Il rapporto con l’identità femminile
In un’autrice che ha spinto così lontano le sue argomentazioni, gli elementi
manifesti di cui non ha detto nulla sono, a maggior ragione, più degni di
attenzione. L’atteggiamento di Arendt sulla questione femminile assomiglia

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in modo significativo ad un silenzio. L’opzione-silenzio contiene in sé una
pluralità di significati: il silenzio può essere un modo di resistere a qualche
forma di riduzionismo, tradurre un disinteresse, oppure essere un silenzio
rappresentativo. Quest’ultimo è il caso di Arendt.
   Arendt era una donna sicuramente emancipata, fortemente presente al
suo tempo, due volte moglie, ricca di amici: fu la prima donna a ricevere
premi pubblici, la prima donna a fare seminari a Princeton, la prima donna,
insomma, a occupare posizioni che la consuetudine aveva, fino a quel mo-
mento, assegnato a colleghi uomini. In una lettera a Kurt Blumenfeld del
1953, Arendt si mostrerà piuttosto irritata da questo ruolo di “donna d’ecce-
zione” che le veniva attribuito, e in una dichiarazione al New York Times dirà:
   Non mi turba affatto essere una donna professore, perché ho piuttosto l’abi-
   tudine di essere una donna.

    Ancora, a Gunther Gauss che la invita a tornare sulla questione dell’e-
mancipazione, chiedendole se questo problema ha avuto importanza per lei,
risponde:
   Sì, naturalmente questo problema in quanto tale si pone sempre. Il fatto è,
   semplicemente, che io sono all’antica. Ho sempre pensato che esistano delle
   attività determinate che non si addicono alle donne, che non vanno bene per
   loro, se posso esprimermi così. Che una donna dia degli ordini non mi sem-
   bra una cosa opportuna. Le donne devono evitare di trovarsi in tale posizione,
   se vogliono mantenere le loro qualità femminili. Che io abbia ragione o torto,
   non lo so. Comunque sia, io mi sono sempre comportata così più o meno
   inconsapevolmente – o meglio, più o meno consapevolmente. Il problema in
   quanto tale non ha giocato nel mio caso alcun ruolo. Vede, io ho fatto unica-
   mente quello che desideravo fare.

   Ma alla domanda seguente, una domanda sul suo lavoro e sugli effetti
della sua attività, Arendt usa un tono differente:
   Gauss: Con la sua attività lei intende esercitare un influsso anche in un am-
   bito più vasto, oppure questo effetto sul pubblico le è indifferente?
   Arendt: Se devo parlare in tutta sincerità, devo dire che quando lavoro non
   sono affatto interessata all’effetto. Vede, per me si tratta essenzialmente di
   questo: io devo comprendere. Ciò che mi importa è il processo stesso del
   pensiero. Quando io lo esercito sono molto contenta. Lei mi domanda se mi
   interessa l’effetto. Se mi consente di esprimermi in modo ironico, questa è

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            My thinking is my fighting:
la concezione arendtiana della politica

   una domanda maschile. Gli uomini vogliono sempre ottenere un’influenza;
   ma io vedo tutto ciò dall’esterno. Ottenere io un’influenza? No, io voglio
   comprendere. E quando altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho
   compreso – allora provo una sensazione comparabile a quella che si prova
   quando ci si sente a casa propria.

    Che senso attribuire a queste affermazioni? Si tratta di un gesto elusivo,
di strategia difensiva? Credo che l’argomento arendtiano sia più complesso.
Arendt ha sempre “agito” come singola, e singolarmente, la sua identità. A
Gauss risponde di aver fatto unicamente quello che le andava di fare, al tema
dell’effetto, percepito da Arendt in termini strumentali, contrappone il tema
della gratuità del comprendere, del “sentirsi a casa propria nel mondo” cui
solo la comprensione può portare. La casa di Arendt si costruisce, in que-
sto caso, sulla condivisione epistemica del comprendere, e non degli effetti
della comprensione sul mondo. Arendt non cerca appartenenze, anzi, quasi
sempre ne diffida, e quando viene con esse confrontata, mette in atto una
sorta di riflesso teorico per cui con un solo gesto si svincola dall’adesione a
qualsiasi forma di assoluto. Rifiuta l’argomento che vede la solidarietà di un
gruppo attestarsi su un’identità condivisa, concepita cioè nei termini di una
inerente somiglianza (che si tratti di una essenza condivisa, di una esperienza
di oppressione condivisa, o altro). Per Arendt, la somiglianza non può essere
la base per alcuna azione politica. In Vita Activa Arendt stabilisce una di-
scontinuità tra il che cosa che ci qualifica (le caratteristiche ascritte, quelle che
possediamo sin dalla nascita, i nostri dati naturali), e il chi che scegliamo di
essere e di diventare (Arendt 2017). Tutti abbiamo un what, ma la differenza
la fa chi decidiamo di diventare, attraverso l’agire, il performare nello spazio
pubblico. Il che cosa, per Arendt, non condiziona il who, né si deve dedurre il
chi dal che cosa. Non è possibile dedurre l’interesse per il mondo dall’interesse
che abbiamo per noi. La tesi è forte: per essere cittadino, io devo agire cogni-
tivamente, e non affettivamente.
    In sostanza l’identità femminile, in Arendt, funziona in maniera molto
simile alle altre sue identità: l’atteggiamento non è mai mimetico, ma sempre
attento a mantenere un, seppur minimo, scostamento dalla regola (la «petite
différence» cui farà riferimento nel suo saggio su Rosa Luxemburg)(Arendt
1985b). L’identità non è trovata nell’adesione a una posizione, ma nella di-
sponibilità a rivedere in ogni momento le proprie posizioni. Arendt insiste
sul fatto che i concetti centrali della vita activa – il lavoro, l’opera, l’azione

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– non corrispondono ad alcun particolare set di categorie di genere storica-
mente o sociologicamente determinate. Ma il rifiuto della membership non
si accompagna, in Arendt, a una indiscriminata celebrazione della differenza,
poiché per Arendt l’elemento fondamentale della condizione umana non è la
differenza, ma la pluralità (Arendt 2017):
   La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione,
   ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non
   fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i
   propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei
   loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distin-
   to da ogni altro che è, fu, o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso
   né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti se-
   gni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici.

    La pluralità, dunque, contiene in sé la tensione tra comunanza e divisione,
tra uguaglianza e differenza, e scegliere di leggere Arendt attraverso sia le lenti
delle categorie identitarie, sia attraverso quelle della critica decostruzionisti-
ca dell’identità, ossia il punto di vista della differenza, significherebbe perdere
irrimediabilmente tale tensione, che rende lo sguardo arendtiano così inte-
ressante. Rifiutare di essere preda, di essere trascinati, di essere portati: il peso
del corpo, il peso del sentimento, il peso dell’emotività. Il gesto di liberarsi
di questi pesi, in uno spazio pubblico, è il gesto aredtiano più tipico: saper
prescindere dal conforto di una appartenenza, non collocarsi negli schiera-
menti disponibili, rifiutare sia le sorellanze che le fratellanze. In una parola:
pensare da sé.
    Pensare da sé vuol dire allora rigettare quella sensazione di confortante so-
miglianza che deriva dall’appartenenza a un gruppo o dalla condivisione di
un’essenza, e uscire dallo stato di infanzia permanente e di docilità che abitua
gli individui a non cercare individualità, se non quelle già contemplate. È il
«pensare da sé» di Lessing (Arendt 2019), il suo Selbstdenken che, in questo
senso, significa muoversi liberamente nel mondo (fino al punto di preferire
sempre la libertà alle costrizioni di una certa verità), avendo sempre il coraggio
di cambiare posto. Lessing, dunque, la cui attitudine nei confronti del mondo
«non era né positiva né negativa, ma radicalmente critica… un’attitudine che
restava debitrice del mondo, senza mai lasciare il suo solido terreno, o fuggire
volando verso le stravaganze dell’utopia», diviene agli occhi di Arendt la figura
esemplare di intellettuale mondano, che entra nel mondo senza doverne assi-

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milare i criteri: mettersi nella posizione di Lessing, o nella posizione di Arendt,
di Socrate, significa aver compreso che a un problema politico bisogna cercare
risposte politiche, dal momento che, come scriverà in una lettera a Jaspers, «in
nessun luogo esiste qualcosa come una garanzia non politica contro la politi-
ca» (Arendt e Jaspers 1989). Il Lessing arendtiano diventa così, in sostanza, il
modello di una humanitas che si trova ad agire in moderni tempi oscuri: è il
paria consapevole che, di fronte alla maggioranza, rivendica la sua appartenenza
identitaria, ma, all’interno della propria tribù, reclama a gran voce l’indipen-
denza del suo pensare da sé, consapevole, nella sua disclosure al mondo, che
«essere umani è un compito altamente innaturale».
    Lessing come Arendt, dunque: colui e colei che si tiene nel mondo, ma
non ne sottoscrive necessariamente i contenuti, né ne diventa complice, né
si sente forzato a essere in pace con esso. Come scrive Arendt a Scholem, per
chiudere la controversia che li divide:
   Ciò che ti confonde è che le mie argomentazioni e il mio metodo sono di-
   versi da quelli cui tu sei abituato; in altre parole, il guaio è che io sono in-
   dipendente. Con questo intendo dire, da un lato, che non appartengo ad
   alcuna organizzazione e parlo sempre e solo per me stessa; dall’altro, che credo
   profondamente nel Selbstdenken (autonomia di pensiero) di Lessing, che né
   l’ideologia, né l’opinione pubblica, né le “convinzioni” potranno mai sostituire.
   Qualunque cosa tu possa obiettare a queste conclusioni, non le capirai se non
   ti renderai conto che sono davvero mie e di nessun altro.

2. Umanità e barbarism . Una concezione normativa della politica

Il tema della distanza, del senso del limite, della libertà intesa innanzitut-
to come libertà di movimento, fa da sfondo alla riflessione arendtiana sul
concetto di barbarism (Arendt 2017): si può essere davvero umani, secondo
Arendt, quando la possibilità di convivere con gli altri non è costretta, eli-
minata, o soffocata. Il barbarism, nella concezione normativa della politica
di Arendt, assume una doppia valenza: barbarico è tutto ciò che giustifica o
favorisce una cancellazione, un indebolimento o una rimozione dei confini
difensivi che identificano lo spazio pubblico (il totalitarismo, in questo sen-
so, è la forma di barbarism più estrema, anche se non l’unica); ma barbarico,
come in seguito argomenterò, è anche l’atteggiamento di coloro che si tengo-
no fuori dal mondo comune, restando, così, prigionieri di sé.

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   Il richiamo alla vigilanza sul barbarism viene riconosciuto e sviluppato da
Arendt lungo due linee, la linea esplicita seguita ne Le origini del totalitarismo
e quella, meno nota ma non meno feconda, seguita in Vita Activa.

2.1 Rimozione di confini: il totalitarismo
Il totalitarismo rappresenta, nell’analisi di Arendt, la forma più moderna e
perfezionata di barbarism. Esso nasce con uno scopo, tanto semplice quanto
mortifero se perseguito ragionevolmente: la conquista del mondo, la lotta
per il dominio totale sull’intera popolazione della terra, a partire dalla con-
vinzione che tutto sia possibile, che tutto si possa fare e che tutto possa essere
distrutto. Un tale obiettivo è, per definizione, così sconfinato e sradicato dalle
logiche del senso comune, da essere naturalmente noncurante di qualsivoglia
condizione, limite, interesse, conseguenza, memoria. Ma il carattere davvero
inedito del totalitarismo è la totale rimozione dello spazio pubblico e politico
e della sua possibilità: nessun regime ha mai operato prima una così drastica
cancellazione di “spazi vitali”. Il totalitarismo non è nemmeno un modo per
fare della politica, esso costituisce, semmai, il modo migliore per rimuovere
la possibilità di fare politica, poiché un regime che opera per rimozione di
barriere e cancellazione di spazio è un regime antipolitico, il regime antipoli-
tico per eccellenza, dal momento che è in esso smarrita la possibilità di fare le
differenze tra persone e tra opinioni. Lo scopo del totalitarismo è trasformare
uomini e donne in puri esseri di una specie: privare della pluralità significa
costringere all’uniformità, naturalizzare, e l’uniformità è caratteristica della
specie, mentre ciò che distingue dalla bestialità risiede nella differenza tra
agire e reagire, tra scelta e automatismo. Il primo confine che il totalitarismo
distrugge è pertanto quello tra zoe, la “nuda vita”, la vita biologica, naturale,
riproduttiva, e bios, la vita politicamente qualificata: esso ha fatto della de-
cisione sulla nuda vita il suo criterio supremo1: se fosse possibile ridurre le
persone alle loro capacità reattive, esse sarebbero private della loro capacità di
agire plurale, e l’aggettivo “umano” andrebbe cancellato. Il fine del totalitari-
smo è, precisamente, ridurre le persone a un fascio di reazioni: il suo soggetto

 1
   Cfr. Agamben 2018: «Ciò che i campi avevano insegnato a chi li abitava era appunto
che la messa in questione della qualità di uomo provoca una rivendicazione quasi biolo-
gica dell’appartenenza alla specie umana». Per nuda vita, l’autore intende quella zona di
indifferenza e di transito continuo tra l’uomo e la belva, la natura e la cultura.

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ideale è il cane di Pavlov, ovvero l’automatismo, la reazione obbligata di sog-
getti condizionati, ridotti a meri esseri replicanti. Nemico del totalitarismo
è tutto il resto, gli agenti pensanti o, nei termini di Arendt, tutti coloro che
sono «portatori di tendenze», non dissimili, per il regime, dal portatore di
una malattia: «questa coerente arbitrarietà nega la libertà umana più effica-
cemente di qualsiasi tirannide. Una volta, con la tirannide, bisognava perlo-
meno essere un avversario per essere punito… qui l’innocente e il colpevole
erano egualmente desiderabili» (Arendt 2015a).
   L’ordine totalitario mette la vita biologica al centro di ogni calcolo: nell’o-
pinione di Agamben, come noto, l’ebreo è il referente negativo privilegiato
della nuova sovranità biopolitica del totalitarismo e, come tale, un caso fla-
grante di homo sacer, nel senso di vita insacrificabile e, tuttavia, uccidibile da
chiunque2. La violenza totalitaria apre una zona di indistinzione tra legge e
natura, esterno e interno, violenza e diritto: il totalitarismo è l’unico sistema
che mantiene (per sé) la possibilità di decidere i confini nella misura stessa in
cui li confonde. Esso si pone in una zona in cui non è più possibile distin-
guere tra l’eccezione e la regola. Esiste, inoltre, un nesso costitutivo tra stato
di eccezione e campo di concentramento: il campo è quello spazio, non più
definibile né pubblico né privato, che si apre quando lo stato di eccezione
comincia a divenire regola. Lo stato di eccezione non è, in questo caso, quello

 2
   La figura dell’homo sacer ha origini lontane, e tuttavia è illuminante per spiegare la logica
totalitaria: è una figura, piuttosto oscura ed enigmatica, del diritto romano arcaico, la cui
specificità (e apparente contraddizione) consiste nell’impunità della sua uccisione e nel di-
vieto di sacrificio: mentre, cioè, viene sancita la sacertà di una persona, se ne autorizza, se ne
rende impunibile l’uccisione. L’homo sacer costituisce allora una doppia eccezione, una sor-
ta di figura di mezzo tra lo ius divinum e lo ius humanum, espressione di una duplice esclu-
sione (oltre che di una particolare violenza), poiché egli non appartiene agli dèi, dato che è
insacrificabile, ma non è più nemmeno incluso nella comunità degli uomini, in quanto da
essi uccidibile. L’homo sacer, proprio perché privo di tutti quei diritti e quelle aspettative che
siamo soliti attribuire all’esistenza umana, e tuttavia, ancora vivo, si viene a situare in una
zona-limite tra la vita e la morte, l’interno e l’esterno, in cui non è che nuda vita, cioè vita
spogliata di ogni diritto, che chiunque potrà uccidere senza commettere omicidio. La nuda
vita è la vita impolitica, una “soglia” in cui il diritto trapassa ogni volta nel fatto e il fatto
in diritto, e in cui i due piani tendono a diventare indiscernibili. Il totalitarismo è il potere
“sovrano” di decidere su questa nuda vita: « l’uccisione di un ebreo non costituisce, cioè, né
un’esecuzione capitale né un sacrificio, ma solo l’attuazione di una mera “uccidibilità” che
inerisce alla condizione di ebreo come tale».

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stato di caos che prefigura l’ordine, ma precisamente la situazione che risulta
dalla sua sospensione: è uno spazio giuridicamente vuoto, in cui fatti e diritti
sono indistinguibili. Lo stato di eccezione del totalitarismo è dunque uno
stato voluto, e la vita in questo stato (molto simile alla vita sotto una legge che
«vige senza significare» di Kant)(Kant 2014) diventa la vita in cui l’atto più
innocente può avere le conseguenze più estreme, dal momento che il Führer
non decide il lecito e l’illecito, ma decide la stessa implicazione originaria del
soggetto nella sfera del diritto, muovendosi all’interno di una zona in cui la
distinzione tra vita e politica, tra questione di fatto e questione di diritto non
ha più letteralmente alcun senso.
    Il totalitarismo, dunque, rimuove tutti i confini: rimuove, in primo luogo,
il confine tra uomini e cittadini, e lo rimuove non ponendo né mantenendo il
diritto, ma deponendolo. Non è un caso che gli ebrei potessero essere inviati
nei campi di sterminio solo dopo essere stati compiutamente denazionaliz-
zati (anche di quella cittadinanza residua che spettava loro dopo le leggi di
Norimberga): il fine del sistema era la depersonalizzazione dell’altro: via la
cittadinanza, via gli abiti, via i nomi. Ciascuno deve essere trasformato in
ingranaggio di una immensa macchina, in modo che non disponga più della
propria volontà di pensare né di agire. I detenuti dei campi non furono i soli a
subire il processo di depersonalizzazione: i guardiani tendevano al medesimo
stato, benché attraverso altre strade. La confusione dei confini tra vittime e
persecutori è un aspetto dei metodi totalitari, confusione che trova la sua sede
privilegiata nei campi, una sorta di laboratori per esperimenti del dominio
totale, l’istituzione principale del potere totalitario: zone escluse dal diritto,
che si configurano come un “inglobamento” dello stato di natura nel mondo.
I campi possono essere considerati allora, in ultima analisi, come le strutture
in cui lo stato d’eccezione è stato realizzato “normalmente”, in cui ogni con-
fine è diventato indiscernibile, e la tirannia del che cosa3 ha avuto la meglio su

 3
    Si è già osservato come che cosa indichi, nel pensiero di Arendt, l’ascrittività degli indi-
vidui, ovvero le caratteristiche che essi possiedono sin dalla nascita, i loro “dati” naturali.
In altri termini, tutti hanno un che cosa: quello che fa la differenza è il chi noi decidiamo
di diventare, attraverso in nostro agire nello spazio pubblico, la nostra capacità perfor-
mativa: «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità
della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre
le loro identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del
corpo e nel suono della voce», cfr. Arendt 2017, 130-133. L’identità pubblica deve essere

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tutto il resto, compresi l’esercizio della volontà e il rispetto di sé. Nella visione
arendtiana, è proprio questa percezione fisica della mancanza di spazio tra le
persone a fare del totalitarismo una forma di barbarism.

2.2 Confusione di confini: il sociale
Quella totalitaria è la forma più estrema di barbarism, non l’unica. Lo spa-
zio pubblico e politico, da un punto di vista arendtiano, è sottoposto a una
doppia tentazione: può essere alienato nella dominazione totale, ma anche,
secondo una logica più impercettibile ma non meno pervasiva, dissolversi
nello spazio del sociale (cfr. infra). Per difendersi dal barbarism Arendt, in
Vita Activa, elabora una definizione di spazio pubblico che in prima istanza
si presenta come performativa: lo spazio pubblico costituisce l’esito di una
presa di distanza, da parte degli individui, da tutto quello cui essi natural-
mente, spontaneamente e automaticamente attribuiscono valore, vale a dire i
loro bisogni e i loro sentimenti. Tali bisogni e sentimenti rientrano, secondo
Arendt, nella sfera antipolitica dell’animal laborans, il luogo della necessità,
della ciclicità naturale, di ciò che è necessario. Si tratta, in altri termini, di
fenomeni o modalità prepolitiche, proprie dell’organizzazione domestica e
privata (dell’oikos, entro il quale risiedono tutte le attività legate alla soddisfa-
zione dell’idion, del bisogno legato alla “naturalità” dell’uomo, al suo che cosa)
della società: tali modalità, declinate in attitudini e questioni, sono portatrici
di uniformità, poiché tendono a cancellare la distanza tra le persone, e sono
quindi inadatte ad essere portate nello spazio pubblico: per Arendt ciò che
distingue l’essere umano dalla bestialità è, invece, ancora una volta la sua at-
titudine alla distanza, la capacità di agire oltre a quella di reagire, di scegliere
invece di comportarsi automaticamente: lo spazio pubblico è, in una parola,
per definizione lo spazio dell’azione4.

del tutto “imprevista” rispetto all’identità privata: esiste discontinuità tra che cosa noi
siamo, ciò che ci qualifica in quanto tali, e chi scegliamo di essere, il ruolo che decidiamo
di assumere o, in termini arendtiani, la maschera che scegliamo di indossare. Per Arendt,
il che cosa non condiziona il chi, né è lecito dedurre il chi dal che cosa:. In altre parole, non
è possibile dedurre l’interesse per il mondo dall’interesse che abbiamo per noi.
  4
    In Vita Activa, Arendt costruisce una tassonomia della condizione umana, identifican-
do tre diverse modalità della vita non contemplativa, a ciascuna delle quali corrisponde
una particolare attitudine e una sorta di “luogo” di movimento: la prima modalità è il la-
voro, la figura che le corrisponde è l’animal laborans. Lo spazio dell’animal laborans è uno

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    Lo spazio pubblico non è uno spazio predeterminato, non si può definire
come una proprietà: esso non si produce automaticamente laddove un cer-
to numero di individui vive insieme, o laddove esistono questioni comuni.
Perché vi sia spazio pubblico devono esistere punti di vista plurali, e, soprat-
tutto, gli esiti di tali punti di vista devono essere discorsivamente comunicati
e comunicabili. Ma la modernità, secondo Arendt, non ha adeguatamente
difeso il confine tra pubblico e privato, cioè tra ciò che è politico e ciò che
non lo è: ha permesso che il privato “colonizzasse” il pubblico, e le attitudini
e questioni di cui sopra lo hanno così contaminato, inglobato e dominato.
In seguito a questa inadeguata difesa del confine tra i due spazi, si è creata
una zona ibrida, intermedia, che Arendt chiama sociale: il sociale è, dunque,
quello spazio che si forma per dissoluzione del confine tra privato e pubblico,
per “contaminazione” tra natura ed artificio, tra oikos e koinon, tra necessità e
libertà. La nascita del sociale spiegherebbe, secondo Arendt, il declino dello
spazio pubblico nella modernità, dal momento che esso confonde le pretese
legate alla necessità con le pretese legate alla libertà, l’assimilazione sociale
con l’uguaglianza politica dei diritti.
    Se la realtà del mondo può apparire certa e sicura solo là dove le cose pos-
sono essere viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la
loro identità, così che quelli che sono radunati intorno a esse sanno di vedere

spazio privato, dedicato al consumo e al sostentamento, dal momento che il lavoro serve
a soddisfare i bisogni biologici della specie e inoltre non necessita della presenza degli
altri per esplicarsi. La seconda modalità dell’azione umana è l’opera, e la figura che le cor-
risponde è l’homo faber: per opera, si intende qui la creazione artistica di oggetti durevoli.
L’homo faber, colui che produce artefatti, pur non avendo bisogno della presenza degli
altri, resta in una posizione ibrida: abita infatti uno spazio che, pur restando privato, è
in parte pubblico, dal momento che gli oggetti creati sono, e resteranno un patrimonio
condivisibile con gli altri (gli oggetti durano e fanno perciò parte del mondo comune).
L’azione è la modalità dello spazio pubblico, l’unica modalità pienamente umana che
richiede la presenza degli altri per avere un senso. Per essere attori nello spazio pubblico
non bisogna essere dominati da alcuna forma di necessità: azione e necessità sono, per-
tanto, incompatibili. L’azione si distingue dal comportamento: essa presuppone scelta,
individualità, esibizionismo, performatività, pluralità; il comportamento è imitazione,
abitudine, adeguamento, uniformità. Le attitudini dell’animal laborans e dell’homo faber
non sono adatte a partecipare a uno spazio pubblico, perché sono attitudini privatistiche,
strumentalistiche nei confronti delle relazioni pubbliche. Per Arendt sono, dunque, de-
terminate attitudini, e non le persone, a essere escluse dallo spazio pubblico.

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