Le interviste di Alice Geymonat

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Le interviste di Alice Geymonat
Le interviste di Alice Geymonat

                             Intervista a Elvio Fassone,
                             autore di Verso la fine del Parlamento?
                             Dieci anni a Palazzo Madama (Torino, Claudiana, 2009)
                             Elvio Fassone, magistrato e senatore della Repubblica italiana.
                             Leggendo Verso la Fine del Parlamento? Dieci anni a Palazzo Madama, l’impressione
                             è che l’autore sia rimasto un outsider della politica pur avendo fatto parte di questo
                             mondo per dieci anni.
                             Perché, per Fassone, la politica è ancora bellezza, equità, senso delle istituzioni,
                             duro lavoro, etica professionale. Lo è ancora pur avendo vissuto sulla propria pelle
                             il divario tra l’incorruttibilità del Tempio e la mediocrità dei suoi profeti.
                             Ciò che più mi colpisce, forse perché va a toccare un nervo scoperto, è la riflessione
Nostro tempo, 103;           sulla sterilità dell’antipolitica. Un atteggiamento che io stessa ho assunto negli
pp. 184;  12,50; cod. 776
                             ultimi anni, perché stanca di questo mondo in cui tutti, ma proprio tutti, sembrano
                             uguali.
                             Quando incontro il Senatore nella sua casa di Pinerolo, parliamo proprio di questo.
                             Della necessità di essere attori attivi, perché comunque, nel bene e nel male, la politica
                             si occuperà di noi. Del fatto che un partito non va votato perché piace, ma affinché
                             possa corrispondere a quelli che sono i nostri intenti e valori nel prossimo futuro.
                             Parliamo di cautela, perché talvolta, generalizzando e considerando tutti parte dello
                             stesso calderone, facciamo del male a noi stessi. Della necessità di dare fiducia
                             per lasciarci qualche chance.
                             Una volta concluse le domande sul libro, Elvio Fassone si racconta con discrezione
                             piemontese.
                             La passione per il proprio lavoro di magistrato, la sua grande famiglia.
                             Alle sue spalle intravedo le foto dei cinque nipotini.
                             Quando lo lascio, mi sento molto più fiduciosa. Non è vero che in politica sono
                             proprio tutti uguali. Qualcuno di diverso c’è. E allora forse vale la pena di crederci
                             ancora.

                             Alice Geymonat: Perché questo libro? E, in particolare, perché tre anni dopo la
                             conclusione della sua esperienza al Senato della Repubblica?
                             Provo a spiegarmi meglio. Nell’introduzione, lei scrive di «non aver preso appunti,
                             non aver predisposto qualche cosa che “dopo” potesse servire a stendere delle
                             memorie» durante la sua vita di senatore.
                             In queste parole c’è forse l’esigenza di guardare con distacco il suo essere stato
                             parte della politica per dieci anni?

                             Elvio Fassone: È vero che il libro esce a oltre tre anni dalla conclusione della mia
                             esperienza, ma in realtà avevo incominciato scriverlo pochi mesi dopo. Nelle
                             intenzioni, doveva trattarsi solamente di qualche ricordo, a uso domestico, per
                             familiari ed eventuali amici. In fondo – come ho scritto – dieci anni a Palazzo
                             Madama sono un’esperienza preziosa e rara, e lasciarne una minima traccia mi
                             pareva giustificato.
Le interviste di Alice Geymonat
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Poi, strada facendo, mi venne naturale constatare che quei piccoli aneddoti, e
quella patina di amarezza che li accompagnava, giustificavano qualche riflessione
generale. In fondo erano tutti problemi e insoddisfazioni che non investivano
solamente me: la questione della scelta delle candidature, il rapporto dell’eletto con
gli apparati di partito, le modalità del lavoro parlamentare, la dialettica governo-
Parlamento, certi risvolti non edificanti della politica, e via enumerando.
Di qui la scelta, un po’ insolita a dire il vero, di uno scritto a corsie parallele: in
una, gli aneddoti, possibilmente leggeri, quasi lo schizzo del pittore sul tovagliolo
(ma qualcuno ha anche risvolti amari e tragici); nell’altra, le considerazioni che gli
schizzi suggerivano, per lo più guidati da una domanda: è possibile far andare le
cose diversamente? E se è possibile, perché non accade? Non ho l’ambizione di
aver trovato delle risposte, giusto qualche pensiero un po’ più sedimentato delle
molte improvvisazioni che si ascoltano.

A.G.: Fin dalle prime pagine del libro emergono evidenti gli scarti.
Tra quello che pensano gli altri («quelli che fanno parte del mondo per citare
Pessoa»), che la vedono ormai parte della politica (dunque uguale a tutti «quelli che
il mondo lo amministrano») e la personale convinzione di «essere non nella politica
ma in un’istituzione», dove le proprie competenze potrebbero rivelarsi utili.
Tra la politica in teoria – «bellezza, equità, capacità di scegliere ciò che è meglio per
la collettività» – e la politica in realtà – «regole del gioco ben precise, rappresentanti,
il più delle volte, mediocri interessi personali».
Tra ciò che i partiti dovrebbero essere – selezione della classe politica e ferrea
scuola per imparare uno dei mestieri più rigorosi che esistano – e ciò che invece
producono oggi – un branco i cui tratti salienti sono pressappochismo, mediocrità,
dilettantismo.
Tra gli ideali di partenza, quelli che si crede faranno la differenza al momento del
voto – la pace, il riscaldamento globale, le pensioni tanto per citarne alcuni – e
le strane, inspiegabili motivazioni che il voto lo muovono per davvero. Penso in
particolare a una delle tante istantanee della campagna elettorale, il dialogo che
si svolge tra il suo accompagnatore e un potenziale elettore a Piossasco: «Non mi
piacciono i magistrati...». «Ma questo è diverso, va sempre in bicicletta». «Allora lo
voto: se va in bici, lo voto».
La causa di questi scarti può essere individuata nell’assenza di una cultura politica
in Italia (assenza ancora più evidente in coloro che purtroppo oggi sono parte del
mondo politico)?
Se così fosse, come si può creare, alimentare e diffondere una cultura di questo
tipo?

E.F.: Già assai prima di vivere l’esperienza parlamentare mi aveva colpito questa
serie di “scarti”. La politica è una cosa nobile e difficile, il politico è stato descritto
addirittura come il cavaliere del xx secolo, quello che deve assolvere a una delle
funzioni più difficili, coniugare i valori più alti con il massimo consenso, il quale,
come è noto, si orienta più facilmente verso il basso che verso l’alto.
Ma mentre la politica gode in astratto di questa considerazione, il pensiero comune
è ben diverso: non esiste, forse, un campo nel quale sia così ampia la distanza fra la
dignità teorica dell’oggetto e l’estimazione della quale esso gode.
Anche i medici, i magistrati, gli insegnanti, i sacerdoti hanno una funzione sociale
elevatissima e hanno le loro miserie umane: eppure non patiscono di una disistima
così diffusa come i politici. Ci sono, purtroppo, dei professori ignoranti, dei magistrati
arroganti e pigri, dei medici superficiali, dei preti indegni. Ma non esiste un’anti-
medicina, un’anti-conoscenza, un’anti-giustizia radicale come esiste, soprattutto
oggi, un’anti-politica quasi universale.
Perché? La risposta più immediata è quella che, bene o male, la maggioranza degli
insegnanti, dei medici, dei giudici ecc. è preparata, competente, sufficientemente
onesta e dedita al suo lavoro, mentre per i politici questo non accade, anzi il pensare
comune ritiene esattamente l’opposto, che la grande maggioranza non possegga
quelle virtù.
Ma sarebbe una risposta parziale. La tara di fondo – almeno questa è la convinzione
che mi sono formato a poco a poco, guardando chi mi stava intorno – è che la politica
è forse l’unica professione per la quale non si ritiene necessaria una preparazione
specifica. Per diventare medico, magistrato, professore o prete bisogna studiare, e
molto. Superare esami, imparare il mestiere prima sui libri, poi nel tirocinio, poi sul
campo. Macerarsi e soffrire. Essere sottoposti a verifiche di professionalità.
Per la politica ciò non è richiesto. O almeno oggi non è più richiesto. Non è stato
sempre così, sino a pochi lustri or sono c’erano le scuole di partito, la «Camilluccia»
e le «Frattocchie», la più parte del ceto politico passava attraverso un cursus
amministrativo, oppure era una personalità il cui successo professionale era di per
sé garanzia di competenza. Oggi questo si è perso. Arriviamo a leggere che si può
entrare in politica oppure nel mondo dello spettacolo alla stessa stregua, non fa
differenza, deciderà «papi». È logico che poi ci siano dei ministri in lite con la sintassi
e l’educazione, e certi parlamentari che si ingozzano di mortadella in aula. Il tutto,
per di più, sotto gli occhi dell’opinione pubblica, che vede e generalizza.
Quando la media degli eletti è scelta dalle segreterie per la fedeltà alle direttive politiche,
per una qualche notorietà comunque guadagnata, o per una generica capacità di
attirare un consenso di grana grossa, è logico che la qualità scade, e che costoro
travolgano, nella valutazione comune, anche le persone per bene, che pur ci sono.

A.G.: La causa di questi scarti può essere individuata nell’assenza di una cultura
politica in Italia?

E.F.: Penso proprio di sì. È difficile dire che cosa sia la cultura politica, ma su alcuni
fondamentali possiamo intenderci.
Innanzi tutto, vedo come necessaria la comprensione intima della complessità di
ogni problema sociale. Non esistono soluzioni perfette, altrimenti saremmo imbecilli
a non averle ancora applicate. Esistono formule che producono il minore scontento
sociale possibile. Queste vanno perseguite e accattate anche a costo del sacrificio
di una parte delle nostre convinzioni: beninteso, sempre che il sacrificio non investa
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principi etici irrinunciabili, ma ciò avviene di rado. Basta questa premessa per
comprendere come, in un universo individualista e competitivo come quello della
politica, lo spazio per un’autentica cultura politica sia ridotto.
A ciò si aggiunge che c’è una precisa convenienza politica nel sollecitare la
naturale propensione all’anti-politica. Il cinico luogo comune del «sono solo capaci
di mangiare» spiana la strada a chi si presenta come quello che vuole «mandare
a casa quei mangiapane a ufo». A rovescio di Talete cretese, il quale diceva il vero
asserendo che tutti i cretesi sono bugiardi (eccetto se medesimo nel profferirlo),
il dissacratore della politica costruisce il suo successo proprio sullo spartito
dell’antipolitica. L’anti-politica è l’humus naturale sul quale fiorisce il populismo. Il
quale, a sua volta, scaturisce dall’ideologia del risentimento. Un enorme numero di
cittadini ha bisogno di trovare una causa del suo malessere e la trova affermando
che i suoi guai vengano «di lì». Ne è prova la constatazione che tutti si indignano
per gli stipendi dei parlamentari (e li si può capire), ma pochi si sdegnano per
gli emolumenti di certi manager, che pure sono multipli e spesso non sono più
giustificati di quelli.
Su questo risentimento, poi, si innesta la delega a uno affinché risolva da solo i
problemi che «quelli» non sanno risolvere tutti insieme. Autentica superstizione,
o magia, applicata al sociale. Ma tant’è. Dopo aver faticato per secoli al fine di
acquisire i diritti di partecipazione, moltissimi sono felici di restituirli, convinti di
sbarazzarsi di un peso piuttosto che di un diritto.
Però anche questa considerazione non spiega tutto. Se ci guardiamo alle spalle,
vediamo che la nostra cultura politica è poverissima anche perché abbiamo avuto
una nazione precoce e uno Stato tardivo, inteso lo Stato come insieme delle istituzioni
che tutelano i diritti e disciplinano gli interessi di una collettività definita.
Lo Stato italiano è stato vissuto più come annessione che come conquista. I nove
decimi dell’Italia lo hanno respinto all’origine, e contrastato in seguito. La cultura
popolare è stata largamente influenzata dal miscelarsi con la religione ufficiale,
che ha vissuto lo Stato liberale come usurpatore, e ha iniettato questo giudizio
nelle arterie popolari. Lo scadentissimo senso delle istituzioni si è intrecciato con
un’esperienza mutila della democrazia, prima soggiacente alla monarchia, poi
negata dalla dittatura, poi anchilosata dalla conventio ad excludendum, e infine di
nuovo mortificata da una seconda edizione dell’uomo della provvidenza.
Credo che queste vicende influiscano molto sul collocarsi di ciascuno nei confronti
della politica: apatia nella maggior parte dei casi, mentalità profittatrice e predatoria
in chi vi si dedica, faziosità in chi vi partecipa sia pur solo come spettatore.

A.G.: Come si può alimentare e diffondere una cultura politica?

E.F.: I processi culturali, specie quelli in direzione positiva, sono lunghi e difficili.
Ogni proposta sconta il limite di essere parziale. Con questa consapevolezza nel
libro affaccio qualche idea.
La prima esigenza è quella che gli attori della politica siano credibili. Sarebbe
augurabile che ogni forza politica, o almeno i partiti di centro-sinistra ai quali guardo
con più affinità, si dotassero di un codice etico rigoroso, nel quale si impegnino a
farsi garanti che i candidati da essi proposti rispondono ai requisiti elencati da detto
codice. I requisiti dovrebbero emergere a seguito di un ampio dibattito, ma penso
che almeno su tre si dovrebbe essere d’accordo: assoluta probità morale, provata
competenza in un settore utilizzabile dalla politica, coerenza di credo (nel senso di
non accettare, se non dopo congrua prova, le provenienze da altre formazioni).
Le candidature potrebbero avere qualsiasi genesi, quindi essere proposte da gruppi,
da singoli o dalle articolazioni del partito, e dovrebbero venire sottoposte agli iscritti
e al pubblico con adeguata informazione. Quelle che rispondessero ai requisiti
richiesti, e raggiungessero una certa soglia di consensi, potrebbero – almeno nelle
elezioni di un dato rango e di tipo uninominale – essere sottoposte a «primarie»
controllate, cioè aperte agli iscritti, che fossero tali da un certo tempo minimo.
Tutto questo – così come qualsiasi altro accorgimento procedurale – non impedirà
che una certa quantità di voti continui a essere accordata o rifiutata per banalità
accidentali, come il fatto di andare in bici o di essere noti o attraenti.
L’essenziale è che il partito sia, quando occorre, protagonista di una autentica
formazione politica, e quindi garante delle scelte proposte. Potrà forse perdere
qualche cosa in termini di soggetti «popolari», ma guadagnerà moltissimo in
termini di fiducia.

A.G.: Da cosa sarebbero maggiormente infastiditi Cavour oppure Bismarck se
mettessero piede oggi in Parlamento? Dal fenomeno dei pianisti oppure dalla liturgia
della fiducia? O ancora dagli espedienti messi in atto per fare ostruzionismo? Oppure
il fastidio sarebbe spazzato via dallo stupore di vedere il ruolo del Parlamento
fortemente ridimensionato a favore di quello del governo?

E.F.: Non so che cosa proverebbero gli uomini del passato, posso dire che cosa ha
messo a disagio me: il fatto che il Parlamento non è più (ammesso che lo sia mai
stato) il luogo nel quale si forma una volontà collettiva funzionale al bene comune,
ma è il luogo nel quale si dichiara una volontà di parte, formata altrove, e quasi
sempre impermeabile ai contributi della parte avversa.
Da questo scaturisce la marea dei comportamenti che allontanano il cittadino
dalle istituzioni: la vuota retorica, l’ostruzionismo, la faziosità estrema, addirittura
la volgarità dei comportamenti, e questa politica urlata e isterica, che conosce
l’insulto e ignora l’argomento.
È curioso che i parlamentari, in larga parte, non colgano che in tal modo affossano
l’istituzione stessa della quale fanno parte. Un Parlamento rissoso e scomposto
ha poca autorevolezza per sottrarsi alle ricorrenti pretese dei governi di farne un
semplice organo di ratifica. Basti dire che c’è voluta la Corte costituzionale, e non
il Parlamento stesso, per dichiarare illegittima, nel 1996, la prassi dei governi di
reiterare all’infinito i decreti legge, mentre una forte coscienza del proprio ruolo
avrebbe dovuto far nascere dal Parlamento stesso la protesta contro questa
emarginazione. E lo stesso è a dirsi per la pioggia attuale dei decreti legge, privi di
ogni giustificazione di necessità e urgenza, e spesso fulminati dalla Corte.
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È in atto una profonda trasformazione del rapporto tra i poteri, non più separati
secondo la formula di Montesquieu, ma compattati e ostili secondo un dualismo
nuovo. Da una parte i poteri politici, governo e maggioranza parlamentare, unificati
in simbiosi stretta, che pretendono una legittimazione assoluta in nome del voto
della maggioranza degli elettori. Dall’altra i poteri di garanzia, che fanno da argine in
nome della Costituzione, e che, non essendo elettivi, scontano una delegittimazione
assurda e quotidiana.
Sì, forse è proprio questa trasformazione del Parlamento, da organo di controllo
a organo di sostegno dell’esecutivo, quella che farebbe insorgere i grandi del
passato.

A.G.: L’elezione di Barack Obama ha aperto una breccia profonda nel fenomeno
dell’antipolitica negli Usa oppure la disaffezione verso la politica e chi la rappresenta
ricomincerà ben presto a dilagare anche oltreoceano? Esiste oggi in Italia qualcuno
capace di smuovere i nostri cittadini dal loro scetticismo verso la politica, anche
solo per un breve momento?

E.F.: Obama è un fenomeno ammirevole, del quale non possiamo ancora conoscere
la parabola. È alle prese con problemi giganteschi, è possibile che commetta qualche
errore o timidezza, non si può nemmeno escludere che il suo grande carisma non
sia sufficiente a fronte della coalizione degli egoismi e dei poteri antagonisti.
Ma ha dimostrato che la struttura interiore di una persona, la sua solidità morale,
il fascino delle convinzioni profonde hanno pur sempre una capacità di attrazione
immensa. Rispondono almeno un poco al bisogno di tutti di riconoscersi in qualche
cosa di grande, di essere un poco grandi anche noi, se non altro perché siamo
solidali con chi grande lo è davvero.
In Italia? Non vedo un Obama nel mondo della politica. I nostri politici, anche i
migliori, sono logori, o almeno sono visti come tali. Ci ha provato Veltroni a «farci
sognare», ma forse era troppo sogno. Ci ha provato Prodi a mettere insieme idealità
e competenza tecnica, ma si è detto che non aveva carisma. Chi può imporsi, oggi,
come suscitatore di entusiasmi profondi e diffusi? Qualche nome ce l’ho in mente,
nel senso che avrebbe la dignità per reggere la parte, ma temo che non avrebbe
i consensi necessari, o che comunque finirebbe presto come Celestino V. Il potere
stritola, la politica sgretola le idealità con le mediazioni necessarie, chi vola alto
cade e lascia il posto a chi vola radente.

A.G.: La politica povera. Non di intenti e contenuti, bensì di costi. Internet può essere
uno strumento in grado di semplificare, diminuire le spese e garantire maggiore
trasparenza nel corso della campagna elettorale?

E.F.: La politica è diventata spettacolo, e spettacolo costoso. Ormai il suo palcoscenico
è la televisione, e sappiamo bene qual è da noi la mappa dell’informazione. Internet
può essere il veicolo alternativo, e ha dimostrato di funzionare assai bene. Il limite
attuale è che con internet hanno familiarità soprattutto le giovani generazioni, che
sono le più lontane dalla politica. È possibile, e augurabile, che diventando adulte
e portandosi dietro la frequentazione con questi strumenti, la democrazia ritrovi un
equilibrio che oggi non c’è.
Dico di più. Se non si trova un correttivo allo strapotere esercitato dai media in
termini di influenza e di inquinamento dei consensi, va in crisi la nozione stessa di
democrazia, e questo rende più difficile il difenderla dagli attacchi di chi le è ostile.
Per questo si deve lavorare, nelle varie agenzie educative che ancora possono avere
qualche incidenza (famiglia, scuola, chiese, associazionismo, sindacato, cultura e
altre) affinché i giovani acquistino consapevolezza che il loro futuro, gravemente
compromesso dalla generazione che li precede, dipende dalla loro presenza anche
nelle sedi e nei momenti della politica.

A.G.: È soddisfatto del suo libro? Cosa ha pensato la prima volta che ha riletto la
stesura definitiva? C’è un capitolo che taglierebbe oppure aggiungerebbe se ne
avesse l’opportunità?

E.F.: Sono soddisfatto unicamente dell’aver contrastato la tentazione di non scrivere
nulla. Poi è inevitabile che il proprio lavoro ci appaia sempre imperfetto e criticabile.
Ma il non farlo era ancora di meno. Quando alla fine l’ho riletto, la sensazione
è stata quella che ho scritto in coda alla breve presentazione: «Frivolo per gli
addetti ai lavori, pesante per i non addetti». Poi mi sono sforzato di capovolgerla,
confidando nella benevolenza di chi, magari, apprezzerà lo sforzo di non essere
troppo tedioso con le sole riflessioni, e non troppo vacuo con il solo racconto di
vicende personali.
Se dovessi togliere o aggiungere qualche cosa, interverrei principalmente sul
capitolo relativo alla giustizia. Avevo l’animo troppo pieno di disagi, di risentimenti,
di sofferenze, per essere sereno e disteso. Perciò sono stato succinto e insufficiente.
Ma c’è già tanto di scritto sul difficile rapporto tra la magistratura e la politica
(specialmente questa politica), che ogni lettore potrà trovare altrove quello che ho
evitato di ripetere, e accontentarsi di quei pochi cenni aneddotici, che la dicono
lunga sulla nostra cecità.

A.G.: Se glielo chiedessero di nuovo oggi, lo rifarebbe? Tornerebbe in Senato?

E.F.: Con gli anni di oggi, certamente no. Parafrasando Qoelet, «c’è un tempo per
entrare e un tempo per uscire» e bisogna riconoscerli entrambi. Con gli anni di
allora, cioè se fossi ricollocato nella posizione del 1996, certamente sì. È stata
un’esperienza unica e preziosa. Molto positiva per quanto riguarda il rapporto con
il territorio che mi ha dato fiducia, e dal quale mi è parso di ricevere (se non è
presunzione il pensarlo) un affetto che ancora oggi mi commuove. Prevalentemente
negativa per il rapporto con il mondo della politica in senso stretto, ma anche
questo fa parte di quel conoscere la vita che ci rende più completi.
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