Le sedi dei poteri pubblici nelle città del regno di Napoli (secoli XIV-XV)

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                                                   Pierluigi Terenzi *

                     7. Le sedi dei poteri pubblici
            nelle città del regno di Napoli (secoli XIV-XV)

1. Introduzione

Le città dell’Italia meridionale non sono certo note per i palazzi pubblici, una manifestazione
materiale e simbolica del potere che si associa piuttosto all’Italia centro-settentrionale 1. Nel
Mezzogiorno, fino al Duecento inoltrato, lo scenario urbano era marcato piuttosto da edifici
o altre opere che esprimevano il potere monarchico, signorile o ecclesiastico 2. Ma in seguito
alla crescita delle responsabilità politiche e amministrative delle comunità, a partire dalla fine
del secolo XIII, sorsero anche sedi per i poteri pubblici esercitati dai cittadini. Come altrove,
esse rappresentavano la struttura politico-istituzionale urbana, le sue relazioni con l’articola-
zione sociale e la distribuzione del potere all’interno della comunità. È allora possibile tracciare
una storia delle sedi del potere secondo gli schemi interpretativi adottati per l’Italia centro-
settentrionale? Certamente no, perché lo sviluppo delle istituzioni cittadine nel Mezzogiorno
fu diverso. L’ampliamento della partecipazione politica ebbe luogo più tardi e seguì percorsi
differenti nel regno, dove non vi fu distacco dal potere superiore né nacquero istituzioni popo-
lari che, per marcare la differenza con i precedenti regimi, creassero proprie sedi del potere 3.
Bisogna allora sforzarsi di cogliere le ragioni proprie della diffusione delle sedi nelle città del
regno di Napoli. Per farlo, non ci si può limitare ad analizzare quelle dei consigli cittadini perché
si perderebbe aderenza con l’articolazione dei poteri pubblici attivi in una città italiana meri-
dionale dei secoli XIV-XV. Oltre a parlamento, consigli e collegi di governo vanno considerati i
gruppi sociali organizzati che svolgevano funzioni politiche o amministrative, ma anche gli uf-
ficiali regi, in particolare nelle città direttamente dipendenti dalla monarchia sulle quali si foca-
lizza questo contributo. Il capitano regio era il responsabile dell’ordine pubblico, della giustizia
penale e civile di secondo grado e di altri aspetti. Considerare questo ufficiale è necessario per
due ragioni: in quasi tutte le città il parlamento (e più raramente i consigli) si riunivano nella
residenza del capitano, quando non utilizzavano piazze, chiese o case; l’ufficio capitaneale non
era un’entità separata dal corpo collettivo cittadino, nonostante l’ufficiale provenisse dall’ester-
no e la sua nomina fosse formalmente in capo al re 4. Senza considerare il fatto che, banalmente,
c’era la necessità di una sede per un ufficiale forestiero e la sua familia, fosse una domus o un
palazzo.
Il capitano, comunque, impersonava il potere regio. La presenza monarchica è stata ritenuta
ingombrante da una lunga tradizione storiografica, che ha inteso i rapporti città-monarchia

* Università di Firenze.
1. Lo squilibrio si riflette in un repertorio come Tabarelli 1977, che dedica appena due pagine (163-164) all’intera Italia me-
ridionale. Per altri riferimenti rinvio a Diacciati, Tanzini 2014.
2. Cfr. Martin 2004.
3. Richiamo qui le ragioni della diffusione dei palazzi cittadini nell’Italia centro-settentrionale addotte da Maire Vigueur 2008,
p. 212.
4. Cfr. Terenzi 2015, pp. 469-484, Senatore 2018, pp. 147-169, e loro riferimenti bibliografici.
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come contrapposizione fra un presunto desiderio innato di libertà delle città e una altrettanto
presunta tendenza innata all’oppressione della monarchia 5. La storiografia più recente ha su-
perato questa impostazione, mettendo in evidenza la natura non necessariamente conflittuale
di quei rapporti, la vitalità politica delle città e l’esistenza di percorsi di sviluppo alternativi alla
‘via della libertà’ tipicamente attribuita ai centri comunali 6. L’analisi delle sedi dei poteri pubblici
costituisce un banco di prova delle revisioni storiografiche e permette di fare luce su alcuni
aspetti sinora trattati sporadicamente, come le forme e i modi di appartenenza delle comunità
al regno e le culture politiche che stavano alla base delle scelte riguardanti le strutture istituzio-
nali. Anche nel Mezzogiorno, i gruppi dirigenti furono in grado di «rimodellare lo spazio urbano
in funzione dei propri interessi […] ma anche della loro cultura, dell’idea che si facevano delle
proprie responsabilità, della propria maniera di concepire le regole della vita sociale» 7. E lo fe-
cero senza mai mettere in dubbio la soggezione alla monarchia e agendo sul quadro politico-
istituzionale interno. Assumendo questa prospettiva, il saggio affronta il tema dei significati
politici delle sedi dei poteri pubblici nelle città demaniali del regno di Napoli attraverso alcune
questioni: quali sedi vennero adottate o predisposte per quali poteri; come le sedi riflettevano
i rapporti fra città e monarchia; quali erano i modelli politici e architettonici 8.

2. Le logge

L’assemblea generale dei cittadini deteneva il potere decisionale dell’universitas 9. Come altrove,
le riunioni si tenevano in luoghi già esistenti e abbastanza ampi da contenere i partecipanti,
come piazze e chiese, soprattutto cattedrali o degli ordini mendicanti. In concomitanza con
l’acquisizione di maggiori competenze amministrative e deliberative, con la conseguente crea-
zione di consigli ristretti e con il processo di definizione dell’ufficio capitaneale, a partire da fine
Duecento e con maggiore intensità nel secondo Trecento sono attestate in diverse città le sedi
destinate a ospitare gli interpreti dei diversi poteri politici 10.
La tipologia architettonica più diffusa per queste sedi era la loggia (fig. 1). Si trattava di un edi-
ficio a pianta quadrangolare, a un piano o due, aperto su uno o due lati da ampie arcate, deli-
mitate da cancellate di ferro o da balaustre. Diversamente dai primi esempi di palazzi pubblici
dell’Italia settentrionale, le cui logge inferiori permettevano una ‘compenetrazione’ fra la sede
del potere (e dunque il potere stesso) e la comunità 11, nel Mezzogiorno tale apertura era me-
diata dagli ostacoli frapposti al libero accesso. Ciò si spiega innanzitutto con ragioni pratiche.
In questi luoghi si tenevano riunioni di diverso tipo, a seconda della ‘titolarità’ della loggia – lo
vedremo fra poco –; esse si svolgevano al pianterreno e pertanto era necessario separare il luo-
go dell’assemblea dall’esterno. Separare, ma non chiudere: se cancellate e balaustre limitavano
l’accesso ai soli ammessi all’assemblea, questa poteva essere seguita dall’esterno. Nella loggia si

5. Su questi temi, fra gli altri, Corrao 1995.
6. Vitolo 2007.
7. Traduco con qualche adattamento Maire Vigueur 2008, p. 208.
8. Benevento sarà esclusa dal discorso in quanto enclave pontificia, una condizione che ebbe un peso decisivo nell’organiz-
zazione istituzionale e nella configurazione delle sedi dei poteri pubblici. Sulla rocca dei rettori, Bove, Lepore 2014, pp. 41-55.
9. Sulla quale, Senatore 2009, pp. 447-456.
10. Per una sintesi sugli sviluppi politico-amministrativi delle città in età angioina, Vitolo 1986, pp. 29-33.
11. Maire Vigueur 2008, p. 212; Diacciati, Tanzini 2014, p. 60.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )         129

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                                                                                                                  ce (Strafforello 1899).

trovavano poi gli scranni per i partecipanti e talora una stanza dove si conservavano le scritture
pubbliche 12.
Potevano esistere sia logge dell’universitas cittadina, sia logge di gruppi sociali (nobili e popo-
lari), sia logge ‘territoriali’, sedi di circoscrizioni urbane che potevano accogliere tutti i cittadini
di quella ripartizione oppure soltanto i nobili. Indipendentemente dalla ‘titolarità’ della loggia,
il fatto che vi si tenessero riunioni con i partecipanti seduti sugli scranni fece sì che queste
sedi fossero chiamate anche seggi o sedili. Inoltre, a riprova del forte radicamento nel sistema
cittadino e della funzione identitaria del seggio per i gruppi sociali o territoriali, sta il fatto che i
termini seggio o sedile – ma anche altre varianti, come tocco, teatro, piazza – si estesero dall’in-
dicazione dell’edificio a quella del gruppo o della circoscrizione. Nelle fonti troviamo ad esem-
pio il seggio nobile di Capuana, a Napoli, come soggetto o oggetto di un’azione giuridica o po-
litica. Ciò era possibile, fra l’altro, per il fatto che nobili e popolari costituivano delle universitates
a tutti gli effetti, ed erano pertanto gruppi con personalità giuridica che si sovrapponevano
all’universitas cittadina, senza che quest’ultima fosse una ‘somma’ delle universitates sociali 13.
Della rappresentazione materiale di questa varietà di seggi non è rimasto molto, ma le testimo-
nianze scritte ci aiutano a farci un’idea sulla loro consistenza e tipologia. Le logge attestate con
certezza prima della fine del Quattrocento sono un’ottantina, la maggioranza delle quali era

12. Per altri dettagli e numerose illustrazioni, Lenzo 2014.
13. Cfr. Mineo 2017.
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di pertinenza dell’universitas cittadina (35). Quelle nobiliari sono 29, ma distribuite in 16 centri,
poiché in alcuni di essi c’erano più seggi nobili; le logge dei popolari sono soltanto 6, tutte
collocate in città dove ce n’era almeno una dei nobili 14.
Di fronte a tale complessità di soluzioni, è opportuno fare chiarezza sulla natura politica e pub-
blica dei seggi. Le logge, quando erano sede di un gruppo sociale o di una circoscrizione cit-
tadina, ospitavano le riunioni dei rispettivi membri, nelle quali si discuteva e si prendevano
decisioni riguardanti il gruppo o la circoscrizione. Ma poiché le universitates dei nobili e dei po-
polari, i diversi gruppi nobiliari e le circoscrizioni potevano svolgere anche funzioni amministra-
tive, come la ripartizione del carico fiscale, le scelte compiute in quelle sedi avevano ricadute
sull’intera comunità. A Napoli, fra metà Trecento e fine Quattrocento sembra che l’amministra-
zione si reggesse sui cinque seggi nobiliari-territoriali di Nido, Capuana, Montagna, Portanuova
e Porto. Essi non solo esprimevano i membri del governo, ma gestivano ciascuno alcuni settori
amministrativi 15. Il caso napoletano, su cui si è concentrata la riflessione storiografica sin dalla
prima età moderna 16, è molto particolare per quanto riguarda la gestione amministrativa della
città, ma anche rappresentativo per ciò che concerne l’importanza politica e sociale di questo
tipo di seggi. Le logge nobiliari napoletane, infatti, erano anche punti di riferimento per un
insieme di pratiche sociali e politiche ritualizzate e funzionali. I bandi emanati dai sovrani erano
resi pubblici in queste sedi, che erano anche tappe per le cavalcate con cui si davano notizie di
interesse pubblico, come gli sviluppi di una guerra. Esse erano anche tappe per i condannati
a morte, che peraltro in alcuni casi erano stati giudicati in tribunali adiacenti alle stesse logge.
Dal punto di vista sociale, inoltre, i seggi nobiliari erano utilizzati per mostrare lo status dei suoi
appartenenti – significativamente, di nuovo, visibili ma separati dal resto della cittadinanza
attraverso la cancellata 17.
I seggi nobiliari erano dunque sedi di potere sociale e politico, e come tali erano riconosciute
dai cittadini e dalla monarchia. L’esistenza di seggi nobiliari con funzioni pubbliche e di un
seggio dell’intera universitas non erano in contraddizione, tanto che a Bitonto ce n’erano tre:
nobiliare, popolare, dell’universitas. Ciascuno aveva la sua funzione, come luogo di aggregazio-
ne di tutto o di parte del corpo politico, che però si potevano intersecare: gli appartenenti a
un seggio sociale partecipavano alle assemblee dell’universitas che si tenevano nelle logge di
valenza – per così dire – ‘interamente collettiva’. Queste logge ospitavano le riunioni dei consi-
gli deliberativi e di governo e lo spazio antistante veniva talora usato per i parlamenti cittadini,
stabilendo un nesso fisico fra consigli e universitas, ma anche una gerarchia.
Dal punto di vista dei rapporti fra sedi e poteri, va messo in evidenza che spesso la loggia
dell’universitas era anche la residenza del capitano regio. Nelle logge a due piani, egli dimorava
in quello superiore, mentre il suo tribunale teneva i processi criminali in quello inferiore, dove
agiva talvolta anche lo iudex cittadino, che si occupava di giustizia civile 18. Le logge dell’universi-
tas rappresentano dunque l’intersezione fra poteri della città e poteri della monarchia: la prima
vi teneva i propri consigli e vi amministrava la parte di giustizia che le competeva, la seconda
vi esercitava il potere giurisdizionale attraverso il suo ufficiale. Ma su questo punto è utile ana-
lizzare alcuni casi più complessi, dove questa intersezione si fa più articolata e ci permette di

14.   Rielaboro così le informazioni offerte da Lenzo 2014, pp. 70-79.
15.   Per una sintesi recente, Vitolo 2017, pp. 259-261.
16.   Santangelo 2013, in particolare pp. 278-284.
17.   Lenzo 2014, pp. 56-64. Per approfondimenti, Santangelo 2014.
18.   Terenzi 2015, pp. 376-391; più in generale, Sakellariou 2011.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   131

cogliere al meglio la struttura politica del regno dal punto di vista del rapporto città-monarchia,
chiaramente espresso dalle sedi dei poteri pubblici.

3. I palazzi pubblici

Nel panorama urbano del regno di Napoli, l’Abruzzo spicca per certe peculiarità che avvicinano
alcune sue città a quelle della confinante Italia di tradizione comunale. Queste due aree erano
a stretto contatto sul piano commerciale, ma anche culturale e politico, tanto che alcuni ele-
menti caratteristici dell’esperienza politico-istituzionale comunale si possono riscontrare nel
Nord del regno, dove pure si conservò integra la soggezione alla monarchia 19. In alcune città
abruzzesi, infatti, non si costruirono logge ma veri e propri palazzi pubblici dell’universitas, del
capitano regio o del governo cittadino.
In altre aree del regno, le testimonianze sui palazzi sono incerte e lasciano pensare a un utilizzo
lasco del termine palatium (come altrove), poiché si riscontra un’alternanza con domus e hospi-
tium 20. Che si trattasse di palazzi o case, va rimarcato che in alcuni centri si predispose una sede
dell’universitas che non era una loggia. Ad esempio, a Bitonto da metà Quattrocento è attestata
una «domus universitatis» in cui risiedeva il capitano e si tenevano le riunioni del consiglio.
L’edificio presentava un’articolazione interna, seppur minima e non molto diversa da quella di
una loggia, essendo attestata solo una «sala magna» per le riunioni. Va rilevato però che negli
stessi anni esisteva un «sedium civitatis», che non è chiaro se fosse lo stesso edificio 21. A Lecce,
sempre da metà Quattrocento, è attestato un «hospicium universitatis» con le stesse funzioni
della domus bitontina 22. Questo fenomeno può essere interpretato come semplice adozione
di un modello architettonico, poiché il palazzo svolgeva le stesse funzioni della loggia. Dal
punto di vista del rapporto fra sedi e strutture politiche, infatti, non si possono rilevare diffe-
renze significative rispetto alle ‘città di loggia’. Tuttavia tale scelta architettonica comportava
una trasformazione del rapporto con l’esterno, essendo le domus o i palazzi più ‘chiusi’ rispetto
alle logge: potrebbe essere un segno di una tendenza oligarchica che si sarebbe manifestata
pienamente nel Cinquecento? Difficile da dire, specialmente se si considera la fluidità socio-
politica dei decenni centrali del Quattrocento e il fatto che, laddove si usò una domus o un
palazzo, continuarono a esistere le logge nobiliari 23. L’adozione di simili edifici sembra piuttosto
voler dare concretezza alla migliore definizione dello spazio di potere dell’universitas cittadina,
corrispondente al consistente aumento di responsabilità riscontrabile in tutto il mondo urbano
nel corso del Quattrocento.
Ma questo fenomeno si era già verificato in parte nelle città abruzzesi, che si distinguono dalle
altre per l’adozione esclusiva del palatium o della domus come sede del vertice politico-ammi-
nistrativo locale e per la contemporanea esistenza di un palazzo o di una casa per il capitano
regio. Questo è vero perlomeno per le cinque città su cui siamo meglio informati e che saranno

19. Sui rapporti commerciali, Hoshino 1988; su alcuni elementi di cultura politica, Terenzi 2017.
20. A Napoli, ad esempio, si parla di «Neapolitanum palatium», «palatium universitatis» e «domus universitatis», detta anche
«curia Sancti Pauli»: Schipa 1906, p. 83. Vitolo 2014, p. 73, elenca anche Pozzuoli e Sarno fra i centri dotati di un palazzo prima
del Cinquecento.
21. Massaro 2016, p. 182 e p. 183.
22. Ibid., pp. 181-182.
23. Così a Bitonto, Lecce, Monopoli, Napoli, Pozzuoli, Salerno, Trani: si confrontino le schede in appendice a Lenzo 2014. Sulla
società cittadina cfr. Senatore, Terenzi 2018.
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                                                                           città abruzzesi (elaborazione grafica
                                                                           dell’autore).

al centro dell’analisi: Teramo, L’Aquila, Atri, Penne, Sulmona. Solo quest’ultima si discosta leg-
germente dal ‘modello abruzzese’, costituendo un ibrido con lo schema più diffuso nelle altre
città del regno. Non a caso, Sulmona è posta nella zona meridionale della regione, a più stretto
contatto con il resto del regno.
In queste cinque città, comunque, erano presenti uno o più palatia che – come sappiamo
dalle risultanze documentarie e iconografiche e dal solo edificio superstite, a Teramo – erano
strutturati a due piani e avevano una importante articolazione degli ambienti. Tale complessità
architettonica, ben maggiore rispetto alle logge, rifletteva la complessità politico-istituzionale
di queste città, in cui si adottarono forme di governo diverse, fra loro e rispetto agli altri centri
del regno. Inoltre, l’intersezione fra città e monarchia fu realizzata diversamente, secondo sche-
mi che riproducono l’accentuato particolarismo negli sviluppi politici di queste città. Prima di
approfondire, scopriamo quali erano le sedi dei poteri pubblici nelle cinque città abruzzesi, in
ciascuna delle quali gli elementi si combinano diversamente (fig. 2).

3.1 Teramo: domus del capitano e palazzo del governo cittadino
Il capitano dimorava e teneva i suoi processi per reati afferenti alla giustizia criminale in una do-
mus, detta palatium criminalium negli statuti cittadini del 1440. La stessa funzione per il diritto
civile era svolta dallo iudex civilium questionum che, a differenza delle altre città del regno, era
forestiero ed era anche il capo del governo. Per questo motivo, egli risiedeva e agiva nella sede
del governo e dei consigli, attestata come domus a fine Duecento e come palatium dal 1327. La
sede fu dotata di una loggia nella seconda metà del Trecento, davanti alla quale si tenevano i
parlamenti cittadini 24.

24. Savini 1889, pp. 22-25; Savini 1895, pp. 217-219.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   133

3.2 L’Aquila: palazzo del capitano e palazzo del governo cittadino

Il palazzo del capitano, attestato dal 1304, ospitava l’ufficiale e la sua familia, era la sede dei pro-
cessi tenuti dal suo tribunale, ma anche il luogo di riunione dei parlamenti cittadini. Il palazzo
del governo fu forse costruito negli ultimi decenni del Trecento. Nel secolo seguente è atte-
stato come luogo di residenza dei membri del governo, che vi si riuniva anche con i consigli
deliberativi, mai con il parlamento 25.

3.3 Atri: palazzo del capitano, domus del massaro, loggia dei giudici
Il massaro, capo dell’amministrazione forestiero, risiedeva in una domus attestata dal 1362. Allo
stesso anno risale la testimonianza sul palazzo del capitano, dove l’ufficiale regio risiedeva e
teneva i processi. Il governo cittadino si riuniva nella domus del massaro, mentre il parlamento
si teneva nel palazzo capitaneale fino al 1362, quando si decise la costruzione di una loggia dei
giudici per le cause civili che in seguito ospitò l’assemblea; la sua esistenza è però attestata
soltanto dal 1443. In questa loggia, naturalmente, i giudici cittadini svolgevano anche la loro
attività giudiziaria 26.

3.4 Penne: palazzo del capitano/giustiziere, palazzo del giudice
Nel 1309 è menzionato il palazzo in cui il «capitaneus comoratur» con la sua corte per l’ammini-
strazione della giustizia, dove probabilmente risiedeva anche il giustiziere provinciale d’Abruz-
zo 27. Gli statuti della seconda metà del Quattrocento menzionano anche un palatium civilium,
dove teneva banco il giudice delle cause civili, che insieme al camerario era a capo dell’ammi-
nistrazione. Possiamo quindi considerarlo un palazzo di governo, anche se non vi sono atte-
state riunioni di consigli ristretti. È certo invece che vi si tenevano i parlamenti 28.

3.5 Sulmona: palazzo del capitano e loggia dei nobili

Il palazzo di residenza e attività giudiziaria del capitano è attestato nei primi anni settanta del
Quattrocento, quando si decise di tenervi i consigli e il parlamento. La loggia nobiliare ospitava
le riunioni del gruppo sociale e, in un periodo che non è possibile precisare, anche quelle del
governo cittadino. L’incertezza proviene dal fatto che l’unica fonte della notizia è una pubblica-
zione del 1804 che non fornisce un riferimento cronologico. Potrebbe trattarsi sia del periodo
antecedente il 1472, quando si decretò l’abolizione del consiglio ristretto di governo in favore di
uno più ampio, sia di un fenomeno di età moderna 29.

In questa estrema diversità, che si spiega con la forte differenziazione nella storia di queste città,
è possibile individuare alcuni elementi comuni, osservando il rapporto fra i poteri e le loro sedi.
A L’Aquila, Sulmona e Atri (fino al 1362) il parlamento cittadino si teneva nel palazzo del capitano

25. Lopez 1984. Si ha notizia della costruzione di un altro palazzo nel 1322, da un registro della cancelleria angioina ora di-
strutto: «un palazzo la Università di Aquila ordinava edificarsi in quella città per re Roberto» (Minieri Riccio 1882, p. 484). Forse
si tratta della riedificazione del palazzo attestato nel 1304, ma certamente non si parla della sede del governo.
26. Sorricchio 1893, pp. 192-194.
27. Mottola 2013, p. 11, nota 23 e p. 38; Il codice 1935, pp. 167-169, nota 1 (1338).
28. Ibid., cap. XXXIV, p. 167; cap. LXVI, pp. 88-89.
29. Codice diplomatico 1888, doc. CCLXXX, cap. 5, p. 367. L’opera menzionata è Di Pietro 1804, p. 289.
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regio, mentre a Teramo, Penne e Atri (dopo il 1362) l’assemblea si svolgeva nelle sedi del governo
o di altri poteri cittadini. Queste ultime ospitavano anche i consigli deliberativi a L’Aquila, Teramo,
Atri e forse a Penne, mentre a Sulmona la sede separata sarebbe stata la loggia dei nobili. Queste
linee comuni evidenziano, da un lato, l’esistenza di due soluzioni per il parlamento: l’una che
faceva convergere in una sede l’ufficiale regio e il massimo organismo collettivo dell’universitas,
l’altra univa parlamento e governo. Dall’altro lato, va rimarcata la volontà di distinguere consigli
deliberativi e di governo dal capitano e, in alcuni casi, anche dal parlamento cittadino.

4. La distribuzione dei poteri nelle sedi

La convergenza fra capitano e universitas è un dato comune a quasi tutte le città del regno,
considerando che l’ufficiale e il parlamento condividevano la stessa loggia o lo stesso palazzo,
fatte salve le assemblee in piazza o in chiesa, alle quali comunque il capitano partecipava. Tale
condivisione riguardava in molti casi anche i consigli ristretti, sebbene ciò non configurasse
la concentrazione dei poteri in un’unica sede laddove esistevano anche logge nobiliari. Tutto
ciò conforta un’interpretazione dei rapporti fra città e capitano regio che si discosta da quella
improntata a una necessaria contrapposizione fra i due, dove il primo sarebbe stato l’agente
della presunta oppressione monarchica a cui si è accennato in apertura. È vero che l’ufficiale
regio convocava e presiedeva il parlamento, ma il fatto che i due poteri agissero nella stessa
sede restituisce un’immagine per così dire ‘integrata’ dei poteri in ambito urbano.
La condivisione di questi spazi, seppure per l’esercizio di poteri diversi – giurisdizionale l’uno,
decisionale l’altro – rifletteva l’appartenenza dell’universitas al regno, intesa non solo come fe-
deltà e sottomissione in cambio di pace e giustizia, ma anche come partecipazione alla co-
struzione della stabilità politica. Bisogna infatti sottolineare che questa condivisione non era
imposta dalla monarchia, ma voluta dalle stesse città. Lo dimostra, ad esempio, uno dei capitoli
presentati da Sulmona a re Ferrante nel 1472 per la revisione delle istituzioni locali. In quel capi-
tolo si vietava di tenere qualsiasi consiglio in cattedrale o in altro luogo sacro, senza specificare
la sede dove tenerli. Essa ci è rivelata dal fatto che nel 1473 si tenne un parlamento nel palazzo
del capitano e dalla conferma del 1521 dello stesso capitolo, che venne così riassunto: «il fare del
conseglio, in lo palazzo della università et non in Chiese» 30.
Stando così le cose, non stupisce che in documenti prodotti dalla città e dalla monarchia questi
edifici venissero chiamati palatium universitatis o palatium civitatis, ma anche regium palatium
o palatium capitanei. Oltre al caso sulmonese appena citato, il fenomeno si riscontra a L’Aquila:
Carlo II concesse nel 1304 di tenere mercato «ante palatium civitatis» e questa espressione fu
usata anche negli statuti (redatti nel corso del Trecento) come alternativa a «palatium regium»
o «palatium capitanei» 31. A Penne, la residenza del capitano/giustiziere era detta anche «pa-
latium commune civitatis», espressione che ha indotto a ritenere questo edificio un palazzo
‘comunale’, cioè dei consigli. In realtà era un palatium universitatis che, come gli altri, ospitava
gli ufficiali regi, ma non le assemblee di cittadini 32.

30. Codice diplomatico 1888, rispettivamente doc. CCLXXX, cap. 5, p. 367 (1472); p. 395, in nota (1473); p. 369, in nota, cap.
3 (1521).
31. Lopez 1984, pp. 56-61, per i riferimenti e altre attestazioni, ma non per l’interpretazione generale.
32. Mottola 2013, p. 29, nota 66: «Palatium commune dictae civitatis, in quo ab antiquo solitum est permanere regios offi-
ciales ad ius reddendum et administrandum».
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   135

L’identità della comunità era rappresentata materialmente da questi palazzi ‘misti’, che da un
lato costituivano il luogo di concretizzazione delle facoltà decisionali dell’universitas attraverso
il parlamento, dall’altro riflettevano il legame con il sovrano attraverso la residenza e lo svolgi-
mento delle funzioni da parte del capitano (che erano quelle riservate alla monarchia). Le sedi
delle universitates non erano dunque un simbolo di autonomia o di tendenze autonomistiche
contro il potere regio, ma rappresentavano al contrario l’unione fra la collettività di cittadini
fedeli e la funzione protettrice e dispensatrice di giustizia che il sovrano assolveva attraverso
il suo ufficiale. Lo si vede bene proprio a Penne dove, sebbene il parlamento non si riunisse in
quella sede, nel 1473 i cittadini protestarono contro la vendita del palatium commune, fatta dal
consiglio ristretto senza l’autorizzazione dell’assemblea generale 33.
Il discorso cambia parzialmente osservando l’adozione di sedi riservate all’attività del governo
e dei consigli. Questo fenomeno si verificò nelle città abruzzesi prima e con più decisione ri-
spetto ad altre aree, dove si può rilevare soltanto qualche timido tentativo. Le disposizioni pre-
sentate a re Ferrante da Barletta nel 1466 mostrano l’intenzione dei cittadini di realizzare questa
differenziazione, ma anche una certa prudenza nel modificare il quadro. I capitoli confezionati
dalla comunità riguardano il sistema amministrativo cittadino (consigli e uffici), comprese le
modalità, i tempi e i luoghi di riunione. In uno di essi si rende lecito all’universitas e ai consi-
glieri «conducere domum unam privatam» in cui il governo e il consiglio deliberativo possano
riunirsi «pro negociis universitatis peragendis», e il solo consiglio risiedere e conservare «res ac
munitiones». Nel capitolo successivo si stabilisce che il governo (non il consiglio) si deve riunire
due volte a settimana (più tutte le altre volte che sarà necessario) nel palazzo del capitano regio
«ad expediendum et tractandum negotia universitatis» 34.
Non sappiamo se queste soluzioni siano state effettivamente adottate, ma ciò che importa è la
volontà di dotare di una propria sede il governo e i consigli, che prendevano gran parte delle
decisioni. Questo, però, non attraverso la costruzione o l’acquisto di un palazzo o di una casa,
bensì affittando una domus privata: esattamente ciò che accadde in Italia centro-settentrionale
fra XI e XII secolo. Il fatto che i consiglieri vi dovessero risiedere conferma l’importanza ormai
consolidata dei consigli nella struttura istituzionale della città. Ma d’altro canto la scelta operati-
va dimostra che non era ancora maturata l’esigenza di dotare la comunità di una sede comune
di cui era titolare l’universitas, che rappresentasse la capacità politica della città attraverso i
suoi organismi decisionali. Ciò è confermato dall’obbligo fatto al governo di utilizzare anche il
palazzo del capitano per riunirsi, un obbligo – si badi – stabilito dalla stessa comunità. In altri
termini, a Barletta non c’era alcuna intenzione di marcare un confine netto fra i poteri cittadini
e quello dell’ufficiale regio, sul piano materiale e politico.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente nel caso di Capua, città fra le più popolose e
importanti del regno, che si segnala per gli stretti rapporti con la corte aragonese. Nel Quattro-
cento, il consiglio cittadino non aveva una propria sede ma si riuniva in una chiesa, in luoghi
aperti oppure nella residenza del capitano regio. Quest’ultima era una casa presa in affitto, a
due piani e con una certa articolazione degli ambienti, in modo da poter accogliere le diverse
attività che vi si svolgevano, segnatamente quella giudiziaria e quella politica. A Capua potere
giudiziario e potere deliberativo «si presentano dunque come il medesimo spazio pubblico
che, anche in assenza di una collocazione fissa, era assolutamente fondamentale nella vita della

33. Ibid., p. 29.
34. Loffredo 1893, vol. II, doc. XXXVII, capp. 9-10, pp. 367-368.
136                                           P. T e r e n z i

città» 35. Inoltre in questa città, una delle ‘chiavi del regno’, la compenetrazione fra dimensione
regia e dimensione cittadina era tale da coinvolgere non solo l’universitas e il consiglio, ma an-
che il governo. Il collegio degli Eletti non si dotò di una sede riservata, ma si riuniva anch’esso
in diversi luoghi, come chiese, addirittura botteghe e – appunto – la residenza del capitano 36.
Il caso capuano dimostra che non si può stabilire un nesso causale fra la crescita politica delle
città e l’adozione di sedi separate per governo e consigli. Bisogna allora individuare altre ragioni
per le quali nelle città d’Abruzzo si procedette in questo senso, peraltro in alcuni casi già nel
Trecento. A L’Aquila i consigli deliberativi e di governo marcarono nettamente il confine con il
parlamento e il capitano, che usavano la stessa sede. Così fece Sulmona fintantoché il governo
si riuniva nella loggia nobiliare, posto che ciò avvenisse davvero prima della revisione del 1472.
Quest’ultima collocò la città più vicino agli altri centri del regno, stabilendo che il nuovo consi-
glio – che sostituiva il precedente governo – si dovesse riunire nel palazzo capitaneale. Invece
a Teramo e ad Atri (dal 1362) le sedi del governo ospitavano anche i parlamenti, come accadeva
a Penne con la sede del giudice civile, uno dei capi dell’amministrazione.
La costruzione di palazzi del governo e dei consigli può spiegarsi con diversi motivi. In primo
luogo si intendeva rimarcare la forza e l’efficacia politica di questi organismi rispetto alla collet-
tività rappresentata dal parlamento, operando anche più facilmente e chiaramente l’esclusione
dalla sede di chi non era autorizzato a partecipare. Così era anche nelle logge di ogni tipo, dove
però i titolari della sede, come sappiamo, non erano governi e consigli deliberativi. In secondo
luogo, non si può non vedere in queste scelte il desiderio di sottrarre al condizionamento del
capitano regio l’attività deliberativa svolta dai consigli. Tuttavia ciò non va interpretato come
intenzione di rendersi autonomi dal potere monarchico, ma come esercizio di un potere ri-
conosciuto proprio dalla monarchia. È vero che quest’ultima, perlomeno durante il regno di
Ferrante (1458-1494), si impegnò a introdurre in molte città l’obbligatorietà della presenza del
capitano nei consigli deliberativi (essendo già presente ai parlamenti). Ma lo fece nel contesto
di una serie di revisioni istituzionali che prevedevano l’adozione di procedure elettorali e di
voto più trasparenti, per le quali si riteneva necessario un garante ‘esterno’ contro i conflitti e i
brogli. Tale garante non poteva essere che l’ufficiale già in servizio regolarmente nelle città, il
capitano. Bisogna però rimarcare che queste revisioni furono proposte, concordate o accettate
dalle città – non semplicemente imposte dalla monarchia – e che in alcune di esse l’obbligo
della presenza del capitano riguardò soltanto il parlamento 37.
Non si trattava dunque di affermare tramite il palazzo di governo l’autonomia o la forza della
città nei confronti della monarchia, ma di restituire la strutturazione politica interna, afferman-
do la centralità degli organismi di governo e dei consigli ristretti, che nelle città abruzzesi era
particolarmente marcata. Senza dubbio in queste scelte ebbe un’influenza la cultura politi-
ca del mondo urbano di tradizione comunale, che molti cittadini dell’Abruzzo settentrionale
dovevano conoscere direttamente o indirettamente, per i legami commerciali e politici con
alcune città dell’Italia centrale. Diversi abruzzesi dovevano aver visto i palazzi pubblici di quelle
città, mentre molti altri potrebbero aver ascoltato le descrizioni di quei toscani, umbri e mar-
chigiani che frequentavano o abitavano le città della regione. Non bisogna però instaurare
un nesso meccanico fra l’influenza della cultura comunale e la costruzione dei palazzi. Nel

35. Senatore 2018, p. 201.
36. Ibid., pp. 202 e 208.
37. Su queste revisioni, Terenzi 2018.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   137

secondo Trecento, Atri era intrisa di quegli elementi culturali forse più di Teramo e L’Aquila,
ma non decise di costruirne uno, limitandosi a una domus per il massaro e a una loggia per i
giudici. Non si adottò insomma una soluzione mutuata da altre esperienze. Ma anche laddove
lo si fece, la scelta di creare una sede per i consigli si declinò in modi diversi a seconda delle
strutture politiche locali 38.
Ad Atri e Teramo l’esistenza di un capo del governo forestiero richiedeva di per sé una sede
dove il magistrato potesse risiedere ed era ovvio usarla anche come sede del consiglio che diri-
geva, in linea con una prassi attestata ovunque (basti pensare ai podestà e ai capitani del popo-
lo e ai rispettivi consigli). Tuttavia le riunioni del parlamento, come si è detto, non si tenevano
nella sede del capitano, ma presso la loggia dei giudici (ad Atri dopo il 1362) o davanti a quella
del governo (a Teramo e a Penne). Si tratta degli unici casi del regno, a quanto mi consta, in cui
si separarono la sede del capitano e quella del parlamento, quando quest’ultimo non si riuniva
in chiesa o in piazza. Tuttavia, ad Atri e Teramo il parlamento non corrispondeva all’assemblea
generale dei cittadini ma a un organismo più ristretto, composto da 200 membri delle famiglie
più importanti, il cui ricambio avveniva per ereditarietà o per cooptazione 39. Esso è pertanto
accostabile ai consigli deliberativi delle altre città e ciò contribuisce a spiegare la separazione
dalla sede del capitano, evidentemente originata dall’esigenza delle élites locali di marcare e
distinguere il loro potere. Questo, ancora una volta, non serviva a rimarcare l’autonomia nei
confronti dell’ufficiale regio, che veniva coinvolto nell’attività dei consigli. Tale coinvolgimento
è attestato proprio a Teramo nel Trecento, quando l’ufficiale aveva la facoltà di convocare le
assemblee insieme al giudice cittadino 40.
Per quanto riguarda Penne, il parlamento non era un’assemblea chiusa. Il suo riunirsi nel pala-
tium civilium potrebbe segnalare una distanza dalla sede del capitano regio per il fatto che vi
risiedeva anche il giustiziere provinciale. In quanto titolare della giurisdizione di appello della
provincia, egli svolgeva nel suo palazzo un’attività non esclusivamente riguardante l’ambito
locale, come faceva invece il capitano. La ragione della separazione potrebbe essere stata la
demarcazione fra il locale e l’esterno.
Negli altri due centri di nostro interesse, le cose presero un’altra direzione. Sulmona, nel 1472,
indirizzò sia il parlamento che l’unico consiglio legittimo nella sede del capitano. L’Aquila rap-
presenta invece un chiaro modello di convergenza fra capitano e parlamento e di distinzione
da loro di governo e consigli. La vicenda del palazzo del governo (la Camera) seguì quella del
magistrato che ne diventò il capo. Il camerarius, responsabile delle finanze cittadine, aveva la
propria sede 41. Quando nel 1354 divenne il capo del nuovo governo, l’organismo cominciò a
riunirsi «in Camera», come attestato dal 1371 42. Poiché è difficile pensare che un singolo uffi-
ciale cittadino, per quanto importante, avesse un vero e proprio palazzo nella prima metà del
Trecento, possiamo ipotizzare che ne sia stato costruito uno nella seconda metà del secolo.
La collocazione cronologica è provata dal fatto che negli statuti cittadini, raccolti agli inizi del
Quattrocento, si parla del palatium Camere 43. Anche in questo caso, considerando il tipo di
sviluppo della Camera (da organismo amministrativo a politico) e il fatto che la sua nascita

38. Quanto sto per esporre può integrarsi con le schede pubblicate nel database online HistAntArtSI, http://histantartsi.eu/
archive.php, sezione Città.
39. Sorricchio 1893, pp. 171-179; Savini 1895, pp. 304-312.
40. Ibid., pp. 224-225.
41. Berardi 2006.
42. Statuta 1977, cap. 649, p. 353.
43. Ibid., ad indicem, s.v. Aquila – palazzi.
138                                                       P. T e r e n z i

fosse concordata con la regina Giovanna I, non possiamo ritenere la costruzione della sede l’e-
spressione di un intento autonomistico. Va però rimarcato che gli aquilani erano molto attenti a
evitare che il capitano regio avesse un qualsiasi ruolo nelle assemblee del governo e dei consi-
gli. Ciò riflette la maturità politica raggiunta dalla comunità a fine Trecento, quando il capitano
aveva ormai perso il ruolo di coordinatore della vita politica locale che aveva svolto nei decenni
successivi alla fondazione della città, avvenuta a metà Duecento. Allora era stato necessario
creare un amalgama sociale e politico fra i nuovi concittadini, inurbatisi da una settantina di
castelli e villaggi del territorio circostante. Più di un secolo dopo, il corpo sociale e politico della
comunità era definito e strutturato, ma soprattutto in grado di autogestirsi: da qui, la gelosa
difesa degli spazi decisionali conquistati nel corso dei decenni precedenti – come accadde in
tutto il mondo urbano meridionale – ma senza alcuna prospettiva antimonarchica. Tant’è che
la monarchia riconobbe sempre questa architettura istituzionale, salvo introdurre un meccani-
smo più stringente di controllo delle elezioni di consigli e uffici durante il regno di Ferrante. Ma
quelle elezioni, coerentemente con quanto detto sinora, si tenevano nel parlamento cittadino,
quindi nel palazzo dell’universitas e del capitano 44.

5. Struttura, ubicazione e aspetto dei palazzi pubblici

Una riflessione sugli aspetti materiali, funzionali e stilistici dei palazzi pubblici abruzzesi per-
mette di integrare l’interpretazione qui proposta con aspetti riguardanti la dimensione politica
interna. L’analisi della struttura, della posizione nello scenario urbano e dell’aspetto dei palazzi
pubblici offre infatti ulteriori elementi per comprendere le relazioni fra sedi dei poteri e archi-
tettura politico-istituzionale delle città 45.
La struttura del palazzo capitaneale aquilano si può dedurre da alcuni documenti e dalla descri-
zione dei danni che subì con il terremoto del 1461-1462 46. Il palazzo era a due piani. Nel piano su-
periore c’erano le stanze da letto del capitano e dei suoi milites, la saletta dei birri e un balcone
con archi (detto «varrone», cioè verone), da dove si proclamavano le sentenze, verso la piazza
antistante. Al piano inferiore, al di sotto del verone c’era la prigione dei condannati a morte (gli
altri rei erano custoditi in altra sede). Sullo stesso piano c’erano la sala magna per i parlamenti,
la stanza del giudice capitaneale con una camera attigua e un’altra camera che ospitava il ma-
strodatti. Inoltre c’era un supportico – nel quale nel 1326 è attestata l’azione del giudice per le
cause civili (anche se nel 1301 sembra che avesse una propria casa) – che immetteva in un chio-
stro. In più, da un angolo del palazzo svettava la torre civica – alta nel Trecento una settantina
di metri e oggi ancora visibile nella forma assunta in seguito – con le campane per le riunioni
dei consigli e del parlamento, quella per le emergenze e quella detta ‘della sentenza’, usata per
le esecuzioni. La struttura del palazzo rifletteva la pluralità di usi: residenza del capitano e della
sua corte, sede del suo tribunale e dei suoi birri, prigione, luogo di proclamazione delle senten-
ze, luogo di riunione dei parlamenti.

44. Terenzi 2015, pp. 23-27.
45. Per le città non abruzzesi rinvio a Lenzo 2014.
46. La cronaca che offre più dettagli dell’evento è andata perduta, ma i suoi contenuti furono utilizzati dall’erudito settecen-
tesco Anton Ludovico Antinori negli Annali degli Abruzzi (Antinori 1971-1973). Questa e altre fonti, presentate in Lopez 1984,
pp. 67-71, sono alla base della descrizione che segue.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   139

Così era per il palazzo della Camera, per il quale sono disponibili meno informazioni 47. Anch’es-
so era a due piani, con una scala esterna che conduceva al piano superiore, dove c’erano alme-
no le camere dei sei membri del governo, tenuti a risiedere nel palazzo durante il bimestre di
mandato. Al piano terra c’erano la sala maggiore per le riunioni dei consigli intermedi e quella
minore per la Camera. Ma si apriva anche una loggia, dove talora si tenevano riunioni dei con-
sigli intermedi e dove il giudice delle cause civili teneva banco, alternativamente al palazzo
capitaneale. Sono inoltre attestati, agli inizi del Cinquecento, una fontana, una cappella interna
e un orto esterno.
Il confronto fra le due strutture pone in evidenza una opposta proiezione verso l’esterno. Il
palazzo della Camera, pur ospitando i consigli dalla natura politica più ristretta rispetto al par-
lamento, era fisicamente più aperto, grazie alla loggia (come i primi palazzi dell’Italia setten-
trionale). Il palazzo capitaneale, pur non essendo una fortezza, era invece più chiuso, aprendosi
soltanto al piano superiore. Queste caratteristiche non vanno però sopravvalutate, perché ri-
spondevano a esigenze funzionali. La loggia della Camera veniva usata per attività pubbliche
come i giudizi civili, la redazione di scritture di rilevanza collettiva (come la trascrizione dei
privilegi cittadini) e le assemblee dei consigli intermedi, probabilmente soltanto quando erano
particolarmente affollati e trattavano questioni non delicate, per le quali era accettabile una
discussione in luogo aperto 48. Ciò non poteva avvenire mai per le riunioni della Camera, tenute
sempre all’interno del palazzo. Ma nel valutare la dislocazione di queste attività, bisogna anche
tener conto della stagione. L’inverno aquilano, particolarmente rigido, doveva sconsigliare as-
semblee e altre attività pubbliche all’esterno.
Anche nel palazzo del capitano si verificava questa dialettica fra apertura e chiusura, ma in un
ambiente chiuso. Questo permetteva il controllo degli accessi, la sicurezza dei suoi residenti
(anche se un luogotenente regio vi morì defenestrato dalla folla in rivolta nel 1485) e la custodia
dei condannati. Le attività pubbliche svolte all’interno del palazzo erano i parlamenti e i proces-
si criminali. Il numero relativamente alto dei partecipanti all’assemblea e la natura dell’attività
giudiziaria richiedevano spazi controllabili, per evitare che la ‘folla parlamentare’ degenerasse
in conflitto generalizzato o rivolta e che un processo – specie se con risvolti politici – generasse
rumores. Ma questo non può essere considerato un modello universale di palazzo capitaneale:
il disegno di quello di Penne, che però data al 1703, ci mostra un edificio simile al palazzo del
governo aquilano, cioè a due piani con un loggiato inferiore (fig. 3).
A questo modello rispondeva anche il palazzo di Teramo, l’unico che si possa ancora vedere,
sebbene abbia subito importanti modifiche durante l’età moderna (fig. 4). Nella sala del piano
superiore si riunivano il governo cittadino e il consiglio, mentre in quella al pianterreno il giudi-
ce civile teneva il suo banco. Questo magistrato – capo dell’amministrazione, come si è detto
– risiedeva probabilmente al piano superiore. Questa presenza caratterizzante spiega perché
l’edificio venisse chiamato palatium civilium, sottintendendo causarum. Nella loggia inferiore e
davanti al palazzo si svolgevano invece i parlamenti e altre azioni pubbliche 49.
I modelli architettonici non riflettevano necessariamente la differenza fra i poteri che si eser-
citavano in quelle sedi. Si può piuttosto ravvisare l’adozione di certi stili che, da un lato, si
legavano alla funzionalità dell’edificio (come dimostra la concezione degli ambienti), dall’altro

47. Ibid., pp. 72-75.
48. Fino a tutto il 1476, il consiglio intermedio era di numero variabile, costituito di volta in volta per chiamata del governo:
Terenzi 2015, pp. 43-47.
49. Savini 1889, pp. 191-195.
140   P. T e r e n z i

                         fig. 3. Il palazzo del capitano di Penne
                         intorno al 1703 (G) (da Pacichelli 1703, p.
                         54, dettaglio della veduta).

                         fig. 4. Il palazzo del governo di Teramo
                         (da HistAntArtSI, sezione Edificio, sche-
                         da Teramo, palazzo comunale).
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   141

furono probabilmente mutuati dalle città dell’Italia centrale 50. Ciò – è bene ripeterlo – non in-
dica alcuna volontà autonomistica, ma soltanto un influsso culturale. La mutuazione di modelli
architettonici fu operata infatti anche per i palazzi capitaneali, non solo per quelli di governo e
consiglio. Erano sempre e comunque i cittadini a far realizzare questi palazzi, che rispondevano
alla cultura urbana del luogo, costituita anche di elementi allogeni. Fra questi, non sappiamo se
si possono annoverare quelli di stampo monarchico, perché non possiamo conoscere l’aspetto
dei palazzi regi attestati nelle nostre città. Sappiamo che a L’Aquila nel 1300 Carlo II donò il pa-
lazzo regio ai domenicani e che a Sulmona nel 1489 la regina Giovanna d’Aragona, signora della
città, ordinò di soprassedere «in la fabrica dela casa o palatio dela corte perche quesso non e
de tanto bisogno et de poi se porra fornire» 51. In entrambi i casi, siamo certi che questi palazzi
non erano quelli che ospitavano il capitano, ma probabilmente avrebbero dovuto ospitare il
sovrano o membri della sua famiglia di passaggio in città.
A proposito dell’ubicazione dei palazzi pubblici, possiamo individuare anche in questo caso
due soluzioni, rispetto alla configurazione dei poli di potere nello scenario urbano. A L’Aquila il
palazzo della Camera e quello del capitano insistevano su un’unica area, che era il cuore politi-
co della città (fig. 5) 52. Infatti nello stesso spazio la famiglia Camponeschi, leader della comunità,
fece costruire il proprio ultimo palazzo, dal quale gestiva i rapporti clientelari e socio-politici e
influenzava la vita politica cittadina. Questo polo si differenziava da quello religioso e commer-
ciale, poiché il duomo e l’antistante piazza del mercato si trovano altrove.
Il caso teramano è opposto. Il palazzo del governo era (ed è) di fronte al palazzo vescovile e
accanto al duomo, davanti al quale si teneva il mercato (fig. 6). Esisteva pertanto un unico polo
del potere cittadino, laico ed ecclesiastico, che non sappiamo se comprendesse o meno anche
la sede del capitano regio.
La chiave per valutare questi modelli urbanistici è ancora una volta l’analisi delle vicende e del-
le caratteristiche delle singole città. Teramo e L’Aquila hanno in comune il fatto di essere città
‘di rifondazione’. La prima fu distrutta da un incendio nel secolo XII e rifondata in una nuova
area; la seconda sorse una prima volta a metà Duecento ma, distrutta da Manfredi di Svevia,
fu ricostruita sotto Carlo d’Angiò. In entrambi i casi, dunque, bisogna considerare almeno una
minima progettualità nell’organizzazione urbanistica, ma non immediata per tutti gli edifici
pubblici. I palazzi del governo, infatti, sorsero più di un secolo dopo queste rifondazioni, nelle
quali invece si programmarono gli spazi dei poteri allora prevalenti in ciascuna città: il vescovo
a Teramo, il capitano regio a L’Aquila. Sono proprio questi aspetti della storia politica dei due
centri che spiegano i loro modelli.
Teramo fu governata da un vescovo fino al 1207, quando il prelato ‘concesse’ l’autogoverno
mantenendo diversi poteri in ambito laico. Il rapporto con i cittadini e i nuovi organismi politici
si configurò come collaborazione, ma anche come controllo episcopale 53. Su questa radicata
tradizione si potrebbe fondare la scelta di erigere il palazzo cittadino accanto ai due edifici
simbolo del potere vescovile, il duomo e l’episcopio.

50. Diacciati, Tanzini 2014, pp. 62-64 e 71-72.
51. Lopez 1984, pp. 50-53; Codice diplomatico 1888, doc. CCXCVII, pp. 394-395.
52. Si tratta dell’attuale piazza Palazzo, su cui affaccia il municipio e svetta la torre già del palazzo capitaneale. L’ubicazione
degli edifici prima del Cinquecento è stata ricostruita incrociando le fonti documentarie e letterarie con lo studio di Cento-
fanti, Brusaporci 2011, cui rinvio per altri riferimenti bibliografici.
53. La città ebbe il diritto di avere un podestà, scelto però da un medianus indicato dal vescovo; l’eletto doveva essere
approvato dal prelato e dal parlamento. Cfr. Savini 1895, passim.
142                                                         P. T e r e n z i

                                                                               fig. 5. I poli del potere a L’Aquila (elabo-
                                                                               razione grafica dell’autore).

                                                                               fig. 6. Il polo del potere a Teramo (elabo-
                                                                               razione grafica dell’autore).

A L’Aquila, invece, i vescovi furono esclusi da qualsiasi funzione politica, proprio a rimarcare
la volontà di pieno controllo da parte dei soggetti che avevano partecipato alla rifondazione,
e cioè alcuni milites e popolari del luogo e la corte angioina. Il vescovo aquilano fu piuttosto
attivo nelle fasi di ricostruzione materiale e civile della civitas nova e si volle evitare che esten-
desse troppo il suo potere 54. Se la creazione di due poli separati per il potere vescovile e quello
capitaneale potrebbe essere imputata alla monarchia, forse in collaborazione con i ‘rifondatori’
locali, è probabile che la collocazione della sede del governo a due passi da quella del capita-
no sia stata una scelta operata da gruppi dirigenti cittadini ormai maturi. Oltre a rimarcare la
distanza dal capitano e dal parlamento, essi vollero stabilirla anche nei confronti del vescovo,
contribuendo a creare il polo del potere politico laico.

54. Sui primi decenni di vita della città, Clementi, Piroddi 1986, pp. 3-49.
7. L e s e d i d e i p o t e r i p u b b l i c i n e l l e c i t t à d e l r e g n o d i N a p o l i ( s e c o l i X I V - X V )   143

Per concludere, occupiamoci dei pochi aspetti conoscibili dell’aspetto dei palazzi pubblici.
Come altrove, non c’era alcuna monumentalità in questi edifici prima del Cinquecento 55. Tutta-
via, perlomeno a L’Aquila, emerse a fine Quattrocento la tendenza tutta rinascimentale a dare
maggiore evidenza e dignità alle sedi del potere. Nel 1492, il capitano regio chiese e ottenne
dal governo e dal consiglio di poter abbellire la facciata della propria sede con delle colonne 56.
Ma più interessante è la querelle sorta nello stesso periodo fra il governo aquilano e uno dei
capitani più autorevoli e apprezzati, Giovanni del Tufo, sull’appropriazione del palazzo Cam-
poneschi. Morto l’ultimo esponente di spicco della famiglia nel 1490, i signori della Camera si
insediarono nel suo palazzo, che affacciava sulla stessa piazza di quello della Camera e di quello
del capitano. Nel 1491 Giovanni del Tufo li cacciò per installarvisi con la sua familia, e gli aquilani
fecero ricorso alla corte regia. Le argomentazioni addotte erano due: il palazzo della Camera era
disonorevole e scomodo e non si aveva il denaro necessario per sistemarlo; quello dei Campo-
neschi era invece più funzionale, più sicuro e più degno per accogliere i messi del sovrano, gli
uditori e altri uomini del re, che sarebbero stati anche più comodi. Gli aquilani sottolinearono
la necessità di dare una sede degna al governo ma, consapevoli che ciò poteva non bastare,
rimarcarono che della stessa dignità avrebbero goduto i rappresentanti del sovrano. Fallito il
tentativo, gli aquilani ci riprovarono nel 1495, ma facendo leva sui diritti molto concreti derivanti
da un debito contratto tempo addietro da un Camponeschi 57.
Non conosciamo l’aspetto di questo palazzo, che è stato modificato in seguito. Ma possiamo
immaginare che, se non proprio monumentale, dovette essere perlomeno di grande effetto
estetico e di gusto rinascimentale, all’opposto di ciò che gli altri due palazzi – del capitano e
della Camera – offrivano agli occhi di tutti. Essi erano sorti più di un secolo prima, secondo
canoni completamente diversi e, seppure talora risistemati o modificati (come si può imma-
ginare), non erano all’altezza di un grande palazzo signorile. Senza contare che fra terremoti e
abbondanti nevicate i due palazzi subirono danni importanti, ai quali non sempre si poté far
fronte nel modo adeguato. Cambiati i gusti e valutata la situazione dei palazzi esistenti, non era
improbabile che sorgesse una disputa sul palazzo Camponeschi.

6. Conclusioni

L’analisi qui condotta porta a una serie di conclusioni, la prima e più importante delle quali è
che va abbandonata una distinzione netta fra sedi del potere regio e sedi del potere cittadino
nello spazio politico urbano del regno di Napoli. Nella maggior parte dei casi il capitano, il
parlamento e i consigli utilizzavano lo stesso edificio, cioè la loggia dell’universitas. In Abruzzo
e in pochi altri casi, che complicano il quadro senza stravolgerlo, si può osservare invece una
distinzione, che tuttavia riguarda solo in parte l’associazione fra l’ufficiale regio e l’universitas
realizzata attraverso la condivisione della sede, poiché furono i consigli ristretti e di governo a
separarsi dal capitano e dal parlamento. L’esistenza di un palazzo capitaneale va dunque intesa
come espressione non del potere regio, ma di un publicum condiviso fra città e monarchia, vi-
sto che era anche il palazzo dell’universitas. Esso rappresentava l’appartenenza della collettività

55. Per un confronto, Diacciati, Tanzini 2014, pp. 61-62.
56. Se ne discusse il 19 agosto 1492, quando si stabilì che le spese sarebbero state a carico del capitano (Archivio di Stato
de L’Aquila, Archivio civico aquilano, T 5, cc. 110v-114v).
57. Per la vicenda e i suoi sviluppi, Lopez 1984, pp. 79-85.
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