LE QUATTRO ETÀ DELL'UOMO NEL PALAZZO ORSINI DI BOMARZO - Sigfrido E. F. Höbel

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LE QUATTRO ETÀ DELL'UOMO NEL PALAZZO ORSINI DI BOMARZO - Sigfrido E. F. Höbel
Sigfrido E. F. Höbel

  LE QUATTRO ETÀ
     DELL’UOMO
NEL PALAZZO ORSINI DI
      BOMARZO
LE QUATTRO ETÀ DELL'UOMO NEL PALAZZO ORSINI DI BOMARZO - Sigfrido E. F. Höbel
Il Palazzo Orsini di Bomarzo, fatto erigere, fra il 1519 e il 1583 da Giovanni Corrado Orsini, e da
suo figlio Pier Francesco, più noto come Vicino Orsini, fu acquisito nel 1645 da Ippolito Lante della
Rovere1, che nel 1646 ottenne anche il titolo di Duca di Bomarzo, titolo e proprietà che gli furono
concessi da Papa Urbano VIII, insieme alla villa di Bagnaia 2, in cambio di una parte del giardino
della Villa Lante di Roma, espropriata nel 1643 per costruire le nuove mura gianicolensi.

Dopo aver preso possesso del palazzo, il Duca Ippolito intraprese diversi lavori di ristrutturazione
che al piano terra sono testimoniati dall’iscrizione HIPP-LANT-DERUERE-D-POL incisa sull’architrave
di una porta dell’atrio sormontata dal suo stemma con la corona ducale, oltre che da un camino del
salone che reca parimenti il suo stemma; fece inoltre sistemare lo scalone che porta ai piani
superiori e sul pianerottolo de piano nobile si possono vedere scolpiti il suo emblema araldico, una
Quercia, e quello della famiglia della moglie Cristina d’Altemps, un Capro saliente 3. L’intervento
più significativo riguarda però il salone del piano nobile: qui vediamo un camino sormontato dallo

1
 Don Ippolito Lante Montefeltro della Rovere (1618-1688), figlio di Marcantonio Lante e di Lucrezia della Rovere, 1°
Duca di Bomarzo dal 1646, sposa a Roma l’11-2-1646 Donna Cristina d’Altemps, figlia di Don Pietro 2° Duca di
Gallese, Marchese di Soriano, Nobile Romano e Patrizio Napoletano, e di Angela de’ Medici.
22
  La costruzione della Villa Lante di Bagnaia e del suo giardino era iniziata, verso il 1566 su commissione del
Cardinale Gianfrancesco Gambara e il progetto era stato completato dopo la sua morte, nel 1587, dal Cardinale
Alessandro Peretti di Montalto.
3
 Lo stemma dei Della Rovere è descritto “d'azzurro, alla Rovere d'oro con i rami passati in decusse”, mentre quello
della famiglia Altemps è definito “d’Azzurro, al Capro d’Oro saliente”.
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stemma di famiglia e la cappellina di San
Moderato e qui Don Ippolito fece realizzare,
intorno al 1660, il grande affresco della volta.

L’affresco del salone, comunemente ritenuto una
Allegoria della Guerra e della Pace, è stato
attribuito ad un artista della scuola di Pietro
Berrettini da Cortona4: secondo Italo Faldi si
tratterebbe del pittore viterbese Antonio Angelo
Bonfanti5, ma in base alla documentazione
raccolta da Francesca Maria d’Agnelli, l’autore
dell’affresco risulta essere, senza alcun dubbio,
Lorenzo Berrettini6, pittore non particolarmente
dotato, ma nipote, allievo e collaboratore del ben
più famoso Pietro da Cortona.

Per quanto riguarda il soggetto rappresentato
nell’affresco di Bomarzo, suscita meraviglia il
fatto che gli studiosi che se ne sono occupati, si

4
  Pietro Berrettini, detto Pietro da Cortona (1596-1669) giunse a Roma nel 1612, entrando in contatto con l'ambiente di
inclinazione classicista, degli artisti e degli antiquari. Nel 1630 gli fu affidata la decorazione della volta del Salone del
Palazzo Barberini alle Quattro Fontane in cui realizzò uno dei suoi maggiori capolavori, Il Trionfo della divina
Provvidenza; nel 1632 venne eletto Principe dell'Accademia di S. Luca e intraprese la ricostruzione della chiesa dei SS.
Luca e Martina, sede dell'Accademia; nel 1637, recatosi a Firenze, intraprese, su richiesta del granduca Ferdinando II, la
decorazione della Sala della Stufa a Palazzo Pitti, con Le Quattro Età dell’Umanità rappresentate in quattro affreschi
che costituiscono una delle sue opere più felici. Nel 1640, tornato a Firenze fu incaricato di decorare sette Stanze dei
Pianeti (poi ridotte a cinque) al primo piano di Palazzo Pitti e vi lavorò fino al 1647; nel 1651 Innocenzo X gli
commissionò la decorazione della Galleria costruita dal Borromini nel Palazzo Pamphili a piazza Navona in cui eseguì,
dal 1651 al 1654, gli affreschi con le Storie di Enea, l'opera più importante della sua maturità. Divenuto, insieme col
Bernini, l’arbitro della situazione artistica romana, si dedicò con particolare assiduità all'attività architettonica, mentre
per i cicli decorativi che gli venivano commissionati, si avvalse spesso dell’opera di collaboratori che lavoravano in
base ai suoi cartoni.
5
  Cfr. I. Faldi, L’arte nel viterbese, Viterbo 1965, pp.46-47; allo stesso studioso si deve anche l’affermazione che
l’affresco raffigurerebbe “Il Trionfo della Pace sulla Guerra” (I. Faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Viterbo 1970,
p.62). L’attribuzione dell’affresco di Bomarzo al Bonfanti è stata seguita da diversi autori ed è anche ribadita nel
Catalogo della Fondazione Zeri.
6
   F. M. D’Agnelli, Palazzo Orsini-Lante a Bomarzo: Interventi seicenteschi nell’architettura e nella decorazione, Tesi
di Laurea discussa all’Università degli Studi di Viterbo, Facoltà di Conservazione dei Bani Culturali, Anno Accademico
1995-1996, pp.76 e 90-91 e Documento n.2 (da cui risultano i pagamenti, effettuati nel 1661, a Lorenzo Berrettini); vedi
anche F. M. D’Agnelli, Contributi al catalogo di Lorenzo Berrettini. L'affresco del Palazzo Orsini-Lante a Bomarzo in
Bollettino d'arte / Ministero della pubblica istruzione, n.98, 1996, pp.81-88. Per quanto riguarda Lorenzo Berrettini
(1620-1672), figlio di Filippo Berrettini (cugino di Pietro), ricordiamo che ha lavorato a Cortona, l’Aquila e Ascoli
Piceno ed è stato accademico di San Luca; la sua produzione, di cui restano poche testimonianze certe e per la quale
rimandiamo ai testi della D’Agnelli, consiste soprattutto in opere di soggetto sacro, ma gli sono stati attribuiti anche gli
affreschi con le Storie del ratto del vello d'oro, realizzati in una sala del Palazzo Alfieri all’Aquila.
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siano limitati ad una sua generica identificazione
come allegoria della Guerra e della Pace e che,
pur attribuendo l’opera ad un artista della scuola
cortonesca, non abbiano operato un confronto fra
l’iconografia dell’affresco bomarzese e quella
delle opere del maestro al quale un suo seguace
si sarebbe potuto ispirare. Se invece si osservano
le opere di Pietro da Cortona e, in particolare, gli
affreschi della Sala della Stufa eseguiti in
Palazzo Pitti, appaiono evidenti (come avremo
modo di verificare) le analogie fra i le immagini
realizzate       a    Firenze      dal     maestro      per
rappresentare le Quattro Età dell’Uomo e i temi
iconografici presenti nell’affresco bomarzese, dal che si può legittimamente dedurre che Lorenzo
Berrettini, ispirandosi all’opera di Pietro, abbia voluto realizzare a Bomarzo un’opera dedicata allo
stesso soggetto, ovvero all’avvicendarsi di quattro (o cinque) mitiche stirpi di uomini, dalla felice
Età dell’Oro alla crudele Età del Ferro.

Nel 1637 Pietro da Cortona, giunto a Firenze, aveva avuto dal granduca Ferdinando II l’incarico di
decorare la Sala della Stufa a Palazzo Pitti e vi aveva dipinto quattro affreschi con la raffigurazione
delle Quattro Età dell’Uomo, una delle sue opere più significative, realizzata in base ad un tema
proposto da Michelangelo Buonarroti il Giovane7 ispirandosi ad Ovidio che aveva rielaborato il
mito esiodeo delle Cinque Stirpi dell’Umanità8. Durante questo primo soggiorno fiorentino Pietro
da Cortona realizzò l’affresco dell’Età dell'Oro, che doveva alludere al felice regno di Ferdinando
II e della sua consorte Vittoria della Rovere, e l'Età dell'Argento, mentre l’Età del Bronzo e quella
del Ferro furono eseguite verso il 1641, durante un secondo soggiorno fiorentino dell’artista. In
questo periodo Pietro da Cortona ebbe anche l’incarico di decorare le Stanze dei Pianeti, sette
stanze (poi ridotte a cinque) al primo piano di Palazzo Pitti, con le allegorie dei Pianeti astrologici
composte in base alle indicazioni fornite da un altro erudito, Francesco Rondinelli9; l’artista, che

7
 Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1646), pronipote del fratello minore di Michelangelo, studiò a Pisa dove
conobbe Galilei e strinse amicizia con Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII; fu un erudito, autore di composizioni
poetiche, commedie e satire, e fu membro dell’Accademia Fiorentina e di quella della Crusca.
8
    Vedi Esiodo, Le Opere e i Giorni, 109-201; Ovidio, Metamorfosi, I, 88-155
9
  Francesco Rondinelli (1589-1665) studiò a Firenze presso i Gesuiti e nel 1635 fu nominato bibliotecario del Granduca
Ferdinando II; fece parte dell’Accademia Fiorentina e di quella della Crusca e dettò istruzioni per la realizzazione di
alcune sculture allegoriche della Grotta di Mosé nei Giardini di Boboli e al pittore Francesco Furini (cfr. F. Baldinucci,
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durante questo secondo soggiorno fiorentino, fra il 1640 e il 1647, era stato ospitato nella casa del
Buonarroti, portò a termine le tre Stanze di Venere, Giove e Marte, e iniziò la Sala di Apollo, che
venne completata sui suoi cartoni da un suo allievo, il romano Ciro Ferri, il quale poi eseguì,
autonomamente, la Sala di Saturno.

Abbiamo citato le Stanze dei Pianeti perché nella loro decorazione Pietro da Cortona, ispirandosi a
temi mitologici, ha creato delle immagini alle quali si può essere ispirato il suo allievo Lorenzo
Berrettini, che certamente ben conosceva anche le Storie di Enea eseguite dal maestro nella Galleria
del Palazzo Pamphili a Roma. Va anche evidenziato il fatto che nell’esecuzione degli affreschi di
Palazzo Pitti, Pietro da Cortona si è avvalso dei suggerimenti di due eruditi, Michelangelo
Buonarroti il Giovane e Francesco Rondinelli, i quali, secondo la consuetudine dell’epoca, gli
fornirono le indicazioni necessarie a tradurre in immagini i temi mitologici scelti, avendo cura di
rispettarne lo spirito e, in buona parte, la lettera.

Passiamo ora ad esaminare l’affresco del Palazzo di Bomarzo. Al centro della composizione e
all’interno di un irraggiamento luminoso, vediamo Giove, assiso sulle nuvole, con l’Aquila ai suoi
piedi e che impugna il Fulmine con la sinistra, mentre con la destra fa il gesto di allontanare da sé e

Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua., Firenze, 1681-1728, ed. Milano 1812, vol.XII delle Opere di
Filippo. Baldinucci, p.253).
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spingere verso il basso la figura di Saturno. La scena si riferisce al racconto mitologico della
sconfitta di Saturno-Crono, «vinto dalla forza e dall’astuzia del figlio suo», in seguito alla quale fu
relegato nel Tartaro, un misterioso luogo sotterraneo e tenebroso, oppure andò in esilio sulla terra10.

Giove è circondato da alcune figure allegoriche che alludono alla sua funzione di sovrano
dell’universo e garante dell’ordine del cosmo: alla sua sinistra, sulla stessa nuvola, si trovano delle
figure femminili, una delle quali presenta l’Ouroboros, il mitico serpente che divora la sua coda,
simbolo del perpetuo fluire del tempo e del ciclico divenire, un’immagine che risale all’antico
Egitto11 e che fu utilizzata dagli alchimisti per indicare il ciclico susseguirsi delle operazioni e la
conseguente rigenerazione della Materia12.

10
  Esiodo, Teogonia, vv. 492-500; nelle Opere e Giorni (vv. 170 ss.); Esiodo afferma poi che Crono, liberato dal Tartaro
dopo essere stato perdonato da Zeus, diventò il re dell’Isola dei Beati, mentre Apollodoro (Biblioteca, I, 17 e 21)
racconta che Zeus mosse guerra a suo padre Crono e ai Titani e che, dopo averli sconfitti, li rinchiuse nel Tartaro.
Virgilio, nell’Eneide (VIII, vv. 319 ss.) dice che Saturno, il mitico re del Lazio dell’Età dell’Oro, altri non è che Crono
fuggito dopo la sua detronizzazione.
11
  Vedi la figura di Horus-Arpocrate, il dio del Silenzio iniziatico, all’interno del cerchio formato dall’Ouroboros nel
Papiro di Dama-Heroub (XXI Dinastia, X sec. A.C.)
12
   In un testo alchemico redatto ad Alessandria verso il IV secolo d.C., noto come Chrysopoeia di Cleopatra,
l’Ouroboros appare per metà bianco e per metà rosso e reca al suo interno la scritta EN TO PAN, l’Uno (è) il Tutto. Dom
A.-J. Pernety (Dictionnaire Mytho-Hermétique, Parigi 1787, p.461) spiega che il Serpente che si morde la coda veniva
rappresentato impugnato da Saturno come simbolo dell’Opera, la cui fine rende testimonianza del suo inizio.
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Un’altra figura femminile regge una bilancia, simbolo della giustizia e dell’equilibrio che regola
l’ordine e i ritmi del cosmo e che, secondo quanto spiega Guénon, prima di indicare la costellazione
zodiacale, era il simbolo del Polo celeste13.

Sotto la nuvola di Giove si vedono due figure femminili in volo che offrono al signore dell’Olimpo
un ramoscello di ulivo, simbolo di vittoria e pacificazione, mentre oltre la sua testa, un’altra figura
in volo, personificazione allegorica dell’Abbondanza, reca una cornucopia da cui sparge sulla terra
ogni genere di tesori, che rappresentano i doni del cielo e i suoi influssi benefici.

13
   Cfr. R. Guénon, Simboli della Scienza Sacra, ed. Adelphi, Milano 1975, p.90 (La Terra del Sole): «La Bilancia
celeste non fu sempre zodiacale, ma fu dapprima polare, essendo stato questo nome applicato originariamente sia
all’Orsa Maggiore, sia all’insieme dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore». Guénon (Il Re del Mondo, ed. Adelphi,
Milano 1977, cap. X) riferendo che, secondo una tradizione cinese, la Bilancia celeste era in origine l’Orsa Maggiore, la
collega alla mitica Tule iperborea della tradizione indiana, detta anche “Isola Bianca” o “Isola dei Beati”
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La figura di Giove, canonicamente descritta con i suoi attributi, il Fulmine e l’Aquila, può essere
collegata all’immagine di Giove precedentemente dipinta da Pietro da Cortona nell’affresco
centrale della galleria del Palazzo Pamphili: vi ritroviamo infatti la stessa maestosa figura del
signore dell’Olimpo seduto su una nuvola e circondato da un analogo irraggiamento luminoso e vi
ritroviamo anche una figura allegorica (la Giustizia) che regge le bilancia; così come qualche
affinità si può anche riscontrare con il Giove raffigurato nella Sala a lui dedicata nel Palazzo Pitti.

Mentre la parte alta e centrale dell’affresco di Bomarzo è dedicata a Giove ed alla rappresentazione
del suo ruolo di supremo regolatore del cosmo, nella parte inferiore è sviluppato, lungo i quattro
bordi della volta, il tema delle Quattro Età dell’Uomo, che inizia con la raffigurazione dell’Età
dell’Oro, dipinta sul lato settentrionale.
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La scena dell’Età dell’Oro è
dominata dalla figura di Saturno,
in piedi su una nuvola, a breve
distanza dalla terra: il dio è
rappresentato alato e armato della
falce, mentre rivolge lo sguardo
verso Giove, facendo un gesto
che sembra volersi opporre alla
sua ira; la falce, strumento del
lavoro agricolo e simbolo della
morte, è attribuita a Saturno-
Crono sia in quanto “Dio del
Tempo”, sia perché collegato
all’idea della fertilità della terra e, quindi, alla sua coltivazione; il dio è inoltre rappresentato alato e
su una nuvola, per evidenziare la sua origine celeste.

Sulla nuvola di Saturno vediamo tre animali, un cane, un leone e un lupo, che alludono alle tre Età
dell’Uomo, giovinezza, maturità e vecchiaia, considerate in riferimento al passato, al presente e al
futuro, come aveva spiegato Macrobio nei Saturnalia14: «La testa di leone indica il presente, la cui
condizione, fra il passato e il futuro, è forte e fervida di azione; il passato è indicato dalla testa di
lupo, poiché la memoria delle cose che appartengono al passato è divorata e cancellata; e
l’immagine del cane che blandisce indica gli eventi futuri, la cui speranza, benché incerta, ci appare
sempre attraente». Macrobio aveva anche detto che le tre teste appartenevano ad un animale
tricefalo, la cui immagine, circondata dalle spire di un serpente, era posta accanto alla statua di
Serapide e già precedentemente Plutarco15 aveva identificato tale mostro con Cerbero, il cane a tre
teste che accompagna Ade, il dio greco degli Inferi. L’immagine, già nota attraverso l’opera di
Macrobio, aveva riscosso particolare interesse nel Rinascimento soprattutto dopo la riscoperta del
testo di Orapollo sui Geroglifici16, ed era stata riprodotta in diverse pubblicazioni come

14
   Macrobio, Saturnalia, I, 20, 13 ss. Cfr. E. Panofski, Il significato nelle arti visive, ed. Einaudi, Torino 1962, pp. 149
ss., che analizza il triplice ritratto di Tiziano (National Gallery, Londra) in cui si vedono tre volti (giovane, maturo e
vecchio) che sovrastano le teste di tre animali (cane, leone e lupo) interpretandolo come un’allegoria della Prudenza,
virtù che si basa sull’agire nel presente avendo memoria del passato e prevedendo il futuro.
15
  Plutarco, De Iside et Osiride, 78. Ricordiamo che Serapide rappresentava la versione alessandrina della divinità
suprema, unendo i caratteri dell’egiziano Osiride-Apis a quelli degli dei greci Zeus, Apollo e Ade.
16
    Il testo di Orapollo, redatto nel V secolo d.C., fu riscoperto e giunse in Italia nel 1422, riscuotendo grande interesse;
il testo degli Hieroglyphica ebbe la sua prima pubblicazione a stampa a Venezia nel 1505 a cura di Aldo Manuzio.
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l’Hypnerotomachia Poliphili17 il testo sui Geroglifici di Pierio Valeriano18 e quello sulle immagini
degli antichi Dei di Vincenzo Cartari19.

Sotto la nuvola di Saturno si sviluppa la scena dell’Età dell’Oro, in cui era vissuta la prima delle
stirpi descritte da Esiodo: «Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che
dimorano nell’Olimpo. Furono creati ai tempi in cui Crono regnava nel cielo e vivevano come dei,
senza affanni nel cuore e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma
gioivano nelle feste, sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, lontani da ogni malanno;
morivano come vinti dal sonno, e godevano di ogni sorta di beni, la fertile terra dava il suo frutto,
ricco e abbondante, senza lavoro, e loro, contenti e sereni, si godevano i beni in mezzo a molte fonti
di gioia»20. L’idilliaco scenario di questa primordiale età viene riproposto da Ovidio: «Per prima
fiorì l’Età dell’Oro, che senza giustizieri o leggi, spontaneamente onorava la lealtà e la rettitudine
… senza bisogno di eserciti, la gente viveva tranquilla nell’ozio»; in questa felice età, la terra
produceva da sé ogni cosa senza bisogno di essere lavorata e gli uomini si nutrivano dei frutti che
nascevano spontaneamente in un’eterna primavera»21.

Virgilio racconta inoltre che Saturno, fuggendo dall’Olimpo per sottrarsi all’ira di Giove, era giunto
in Italia e si era nascosto nella regione che aveva voluto chiamare Lazio; aveva quindi raccolto e
17
   Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia 1499, p. 229: il testo, stampato da di Aldo Manuzio e
riccamente illustrato, costituisce un fondamentale punto di riferimento del linguaggio simbolico rinascimentale.
18
   Partendo dall’opera di Orapollo, l’umanista Pierio Valeriano compose un’ampia trattazione sull’interpretazione
simbolica delle immagini intitolata Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum aliarumque gentium litteris
commentariorum libri LVIII (Basilea 1556): l’immagine dell’essere tricefalo è riprodotta a p. 229.
19
   V. Cartari, Imagini delli Dei de gl'antichi, Venezia 1556: la prima edizione illustrata dell’opera del Cartari, tampata a
Venezia nel 1571, presenta a p. 82 l’immagine dell’essere tricefalo avvolto nelle spire del serpente e posto accanto a
Serapide, mentre nell’edizione stampata a Padova nel 1615 troviamo la figura di un uomo tricefalo collegata a Saturno a
p. 30 e quella di Serapide con il mostro tricefalo avvolto dal serpente a p. 70.
20
  Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 109-119. Si può notare una contraddizione quando Esiodo afferma che la Stirpe
Aurea fu creata dagli Dei dell’Olimpo, dal momento che tali Dei ebbero il potere solo dopo la vittoria di Zeus su Crono.
21
     Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 89-112
dato leggi alla popolazione locale, «stirpe indocile e dispersa per gli alti monti», composta anche da
Fauni e Ninfe, e sotto il suo regno, definito “Secolo d’Oro”, aveva retto questi popoli in uno stato di
«placida pace»22. Appare pertanto significativa la vicinanza di Saturno alla scena che descrive l’Età
dell’Oro e tale vicinanza è evidenziata dal fatto che la nuvola del dio sembra partire da un carro
dorato che si trova all’estremità di sinistra della scena.

La scena è ambientata in un paesaggio
agreste e mostra, per primo un puttino che
pone una corona di foglie di vite sulla testa
di un giovane satiro che mangia dell’uva; al
centro si vede un fanciullo che apre, senza
sforzo, le fauci di un leone e sulla destra è
posto un gruppo di tre donne, una delle
quali sembra intenta a intrecciare i capelli
                                                                  di un’altra, mentre la terza porge una corona
                                                                  di fiori ad un altro fanciullo. Un’immagine di
                                                                  gioiosa serenità in cui perfino il feroce leone
                                                                  si mostra mansueto

                                                                  Osserviamo ora lo stesso tema dell’Età
                                                                  dell’Oro dipinto da Pietro da Cortona a
                                                                  Palazzo Pitti: un paesaggio idilliaco ed
                                                                  incontaminato, si vede a sinistra una quercia
                                                                  su cui si è arrampicato un giovane che getta a
                                                                  terra le sue fronde ricche di ghiande, che
                                                                  vengono raccolte da un fanciullo, fra le cui
                                                                  gambe fa capolino una lepre; sotto la quercia
                                                                  siede un giovane che suona la siringa insieme
                                                                  ad una fanciulla che gli pone sul capo una
                                                                  corona di alloro ed ai piedi della coppia si
                                                                  trova un cane; a destra si vede una giovane
                                                                  donna con i capelli ornati con fili di perle che
                                                                  porge una ghirlanda di rose ad un bambino
adagiato sulle sue ginocchia; dietro la donna, un giovinetto raccoglie delle fronde di quercia e più

22
  Virgilio, Eneide, Libro VIII, vv. 313-327. Si può notare un certo contrasto fra lo stato edenico e privo di leggi
dell’Età dell’Oro descritta da Esiodo e Ovidio e il ruolo di civilizzatore attribuito da Virgilio a Saturno nel Secolo d’Oro
dietro un giovane e due fanciulle, tenendosi per mano, intrecciano una danza; al centro della scena
si vede un fanciullo a cavallo di un leone, la cui tranquillità non è scossa nemmeno dall’apparire
della lepre.

Se confrontiamo le due scene, quella dipinta a
Palazzo Pitti e quella di Bomarzo, appare
evidente che entrambe rappresentano lo stesso
soggetto, il gioioso e sereno ambiente dell’Età
dell’Oro. Il leone mansueto, elemento comune
ad entrambe le raffigurazioni, non deriva però
dai testi di Esiodo e di Ovidio, ma dalla IV
Egloga delle Bucoliche di Virgilio, in cui il
Poeta profetizza un nuovo inizio del grande «Ordine dei Secoli» con il ritorno dei Regni di Saturno
e dell’Età dell’Oro, affermando che in quest’epoca felice, libera da guerre e timori, in cui la terra
tornerà a donare spontaneamente i suoi frutti, «le mandrie non temeranno i vigorosi leoni», per cui
il leone mansueto diventa il simbolo della nuova era di pace che tornerà dopo la fine dell’Età del
Ferro. Del resto, il tema del puttino a cavalcioni di un leone compare anche in alcune raffigurazioni
rinascimentali del Corteo di Bacco e Arianna, a indicare la particolare condizione di armonia con le
forze selvagge della natura connesso allo stato di ebbrezza dell’orgia bacchica23.

Sul lato occidentale dell’affresco di Bomarzo, al di sotto della figura dell’Abbondanza, troviamo la
raffigurazione della successiva Età dell’Argento: questa parte dell’affresco è divisa in due scene, la
prima delle quali, a sinistra, allude all’Età dell’Argento, mentre la seconda, a destra, può essere

23
  Si vedano, fra l’altro, un cartone di Annibale Carracci per il Trionfo di Bacco e Arianna (Vienna, Gall. Albertina) o
un disegno sullo stesso soggetto del pittore manierista Pierin del Vaga (Vienna, Gall. Albertina)
riferita allo sbarco di Enea in Italia.

Nella prima scena vediamo una
rudimentale tettoia in legno sotto la
quale è seduta una giovane donna
con accanto pecore e bovini, alla cui
destra si trova un bambino che regge
un secchio di latte, il che rappresenta
una felice sintesi delle parole di
Ovidio24:     «Quando      Saturno        fu
cacciato nelle tenebre del Tartaro e il
mondo cadde sotto il dominio di Giove, e subentrò l’Età d’Argento, peggiore dell'aurea, ma più
preziosa di quella fulva del bronzo. Giove ridusse l'antica durata della primavera e divise l’anno in
quattro stagioni: l'inverno, l'estate, un autunno
variabile e una breve primavera. Allora per la
prima volta l’aria si fece di fuoco per l'arsura
o si rapprese in ghiaccio per i morsi del vento;
per la prima volta servirono case, e furono
grotte, arbusti fitti, rami legati insieme da
fibre; allora in lunghi solchi si seminarono i
cereali e i giovenchi gemettero sotto il peso
del giogo».

L’immagine dipinta da Pietro da Cortona a
Palazzo Pitti presenta diversi elementi in
comune con quella di Bomarzo soprattutto in
rapporto    alla   costruzione    di      ripari   ed
all’allevamento del bestiame, ma è molto più
ricca e particolareggiata: la rozza tettoia
lignea è qui sostituita da una specie di
tendone che si vede a destra, appeso al ramo
di un albero, e sotto di esso trovano riparo
non una, ma tre donne, una delle quali reca un fascio di spighe di grano, mentre l’altra regge un
flauto; davanti alle donne si vedono degli attrezzi agricoli ed un puttino che gioca con un cane,

24
  Ovidio, Metamorfosi I, 113-124; sul passaggio dal Regno di Saturno a quello Giove si veda anche Virgilio,
Georgiche I, vv. 121-154.
mentre sulla sinistra si trovano un giovane incoronato di edera ed un fanciullo intenti a
vendemmiare e davanti a loro una bella donna è distesa per terra accanto a dei frutti; alle spalle dei
vendemmiatori si vedono due uomini, uno che spinge un bue e l’altro che porta un animale ucciso,
mentre sullo sfondo si trovano altri uomini che tosano delle pecore.

Se la prima scena nell’affresco di
Bomarzo         è    chiaramente      riferita
all’Età dell’Argento, meno evidente
è invece il senso della seconda, che è
separata dalla prima da una nave,
elemento che compare più volte,
tanto negli affreschi delle Storie di
Enea, quanto in quelli delle Sale dei
Pianeti; al centro della scena si vede
una donna che regge una sfera
armillare, affiancata da due personaggi inginocchiati, un giovanetto e un uomo che sembra portare
sulle spalle un vecchio: quest’ultima figura fa pensare ad Enea che reca sulle spalle il padre
Anchise, e in tal caso il giovanetto sarebbe il figlio Ascanio; per quanto riguarda la donna, la sua
sfera armillare è una evidente allusione al volgere del tempo ed al compimento del destino:
potrebbe pertanto trattarsi di Creusa, la moglie di Enea, perduta durante la fuga da Troia, ma che gli
era apparsa per istruirlo sugli eventi futuri, oppure si tratta della Sibilla Cumana che parimenti
aveva profetizzato all’Eroe il suo destino. In tal caso la scena, riferibile allo sbarco di Enea in Italia,
potrebbe anche alludere alla fine dell’Età degli Eroi, che Esiodo pone dopo la Guerra di Troia25: va
però notato che Esiodo colloca la stirpe semidivina degli Eroi dopo quella del Bronzo e prima di
quella del Ferro, per cui la posizione di questa scena fra le raffigurazioni dell’Età dell’Argento e di
quella dell’Oro non rispetterebbe la lezione esiodea.

25
     Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 156-169
Dopo l’Età dell’Argento,
la      descrizione         delle
Quattro      Età         prosegue
l’Età del Bronzo, che a
Bomarzo è dipinta sul
lato               meridionale
dell’affresco,       di    fronte
all’Età      dell’Oro.        Al
centro della scena, un
imperatore, incoronato di
alloro e assiso su un alto
podio, porge due corone
ai suoi guerrieri più fedeli: quello alla sua sinistra è un signifero rivestito da una pelle ferina che
regge l’insegna della legione, mentre nel condottiero che si trova alla destra dell’imperatore e verso
il quale questi rivolge il suo benevolo sguardo, si può riconoscere lo stesso Ippolito Lante della
Rovere, come dimostra lo stemma del suo scudo.

                                                  Alle spalle del Duca di Bomarzo, mestamente seduti su
                                                  un mucchio di armi ed armature, si vedono un barbaro
                                                  sconfitto e in catene e la sua compagna; dall’altro lato
                                                  dell’imperatore si vede invece un tempio circolare
                                                  davanti al quale è seduto un vecchio saggio che espone
                                                  le Tavole della Legge a un gruppo di ascoltatori, mentre
                                                  un puttino vola verso di lui recando una corona d’alloro.

Lorenzo Berrettini, nel dipingere a
Bomarzo la scena dell’Età del Bronzo si
è      ispirato     in     modo     chiaro   ed
inequivocabile all’affresco realizzato da
Pietro da Cortona nella Sala della Stufa
e ne ha riproposto fedelmente gli
elementi          compositivi,      anche    se
diversamente disposti: nell’opera di
Pietro da Cortona la coppia dei barbari sconfitti è infatti posta in primo piano, l’imperatore seduto
sul podio e circondato dai suoi soldati è in secondo piano, sulla destra, mentre la scena del vecchio
saggio e il tempio circolare sono posti in fondo a sinistra.

                                                                    La rappresentazione dell’Età del Bronzo
                                                                    realizzata da Pietro da Cortona in base ai
                                                                    suggerimenti di Michelangelo Buonarroti il
                                                                    Giovane e riproposta nell’affresco di
                                                                    Bomarzo, corrisponde solo parzialmente
                                                                    alla descrizione di tale Età fornita da
                                                                    Esiodo e da Ovidio. Esiodo parla infatti di
                                                                    una terza stirpe di gente mortale, nata dai
                                                                    frassini, e la definisce «potente e terribile»,
                                                                    dedita alla guerra e alla violenza26, mentre
                                                                    Ovidio si limita ad una breve frase: «Terza
                                                                    dopo quelle (le Età precedenti), venne la
                                                                    Stirpe Bronzea, dal carattere più crudele e
                                                                    più proclive all’orrore delle armi, tuttavia
                                                                    non scellerata»27. Esiodo afferma inoltre
                                                                    che gli uomini della Stirpe Bronzea si
                                                                    distrussero da sé ed inserisce la Stirpe degli
                                                                    Eroi fra quella del Bronzo e quella del
Ferro; Ovidio, invece, non fa menzione della Stirpe degli Eroi, ma si limita a dire che la Stirpe
Bronzea, per quanto dedita alla guerra, non fu scellerata, il che potrebbe indurre a pensare che la
Stirpe degli Eroi rappresenti una specie di prosecuzione di quella Bronzea. Un’ulteriore versione
viene fornita da Apollodoro, secondo il quale la Stirpe Bronzea fu distrutta da Giove con il Diluvio,
catastrofe dalla quale si salvarono Deucalione e Pirra, che ripopolarono la terra, dando inizio all’Età
degli Eroi28.

Il dipinto di Pietro da Cortona non rappresenta la natura selvaggia e violenta dell’Età del Bronzo
esiodea, ma sembra piuttosto esprimere l’idea del prevalere dell’ordine e della legge sugli aspetti
più barbarici e selvaggi della stirpe bronzea, che sarebbe in tal senso rappresentata della coppia di

26
     Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 143-155
27
     Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 125-127
28
  Apollodoro, Biblioteca, Libro I, cap. VII. Ovidio (Metamorfosi, I, vv. 242 ss.) inserisce invece il racconto del Diluvio
dopo aver parlato della guerra degli Dei contro i Giganti e dell’esecrando comportamento dell’Arcade Licaone.
barbari sconfitti e incatenati: l’imperatore circondato dai suoi soldati evoca senz’altro l’immagine
della guerra, ma si tratta di una guerra condotta da un esercito gerarchicamente organizzato e
disciplinato, guidato alla vittoria da un condottiero descritto come un imperatore romano; l’avvento
di una civiltà basata sulla Legge è ribadita dalla presenza del vecchio saggio con la sua Tavola,
mentre il tempio circolare dello sfondo fa comprendere che in questa società si pratica il culto ed
esiste il senso del sacro. Gli aspetti riferibili all’Età degli Eroi hanno dunque preso il sopravvento
sul carattere ferino della Stirpe Bronzea e l’intera composizione sembra voler comunicare l’idea che
le potenti energie di una stirpe dedita alla guerra possono essere incanalate e disciplinate, dando vita
ad una forma di civiltà evoluta, quale potrebbe essere stata, in una visione idealizzata, quella
dell’Impero Romano.

L’ultima Età esiodea, quella del Ferro, è
rappresentata     sul    lato      orientale
dell’affresco di Bomarzo e presenta
parimenti numerose analogie col dipinto
eseguito ad Pietro da Cortona sullo
stesso soggetto. Quest’ultimo mostra
una città dalle monumentali architetture
classiche   invasa      da   una     feroce
soldataglia che si abbandona, senza
alcun freno, ad omicidi, violenze e
rapine: in primo piano si vede un
guerriero che si accinge a pugnalare un
vecchio accasciato ai suoi piedi; a
destra, una donna inginocchiata e
accompagnata da un bambino sembra
implorare pietà all’uomo che sta per
colpirla, a sinistra si vede un soldato che
fugge con un ricco bottino, mentre alle
sue spalle un altro assalitore sta per
uccidere un vecchio sacerdote e altre
scene di violenza si intravedono sullo
sfondo.
Nell’affresco di Bomarzo ritroviamo gli stessi elementi
                                                figurativi: al centro della composizione vediamo il soldato
                                                che fugge col bottino; la donna col bambino che sta per
                                                essere uccisa si trova a sinistra, mentre a destra è collocata la
                                                scena del guerriero che si accinge a colpire, non col pugnale,
                                                ma con una mazza ferrata, un uomo disteso ai suoi piedi.
                                                Sullo sfondo si vede un’architettura classica sul cui
                                                architrave si legge HIPPOLITUS LANTE D. ROVERE DUX
                                                POLIMARTI,   mentre sul timpano troviamo il simbolo di Roma
                                                (tre monti sormontati dalla Croce), il che può far pensare che
                                                la scena evochi il Sacco di Roma del 1527. Al di sopra di
                                                questa cruenta scena la Furia vendicatrice si precipita sulla
città in fiamme brandendo due torce.

In entrambe le versioni, la composizione ben riflette il carattere violento e spietato dell’Età del
Ferro, l’Età dell’attuale umanità della quale Esiodo dice, fra l’altro: «Il diritto starà nella forza e
l’uno all’altro saccheggerà le città. Nessun giuramento sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto o
dabbene; rispetteranno piuttosto l’autore di mali e l’uomo violento; la giustizia sarà nella forza e
non vi sarà coscienza; il cattivo porterà offese all'uomo buono dicendo parole d’inganno e sarà
spergiuro»29. E similmente si esprime Ovidio: «L’ultima (Età) fu quella ingrata del Ferro. E subito,
in quest’epoca di natura peggiore, irruppe ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, e al

29
     Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 180-201
posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere … Così fu
estratto il ferro nocivo e più nocivo ancora l’oro: e comparve la guerra, che si combatte da entrambe
le parti con armi di distruzione e mani insanguinate. Si vive di rapina: l’ospite è alla mercé di chi lo
ospita, il suocero del genero, e rara è la concordia tra fratelli. L’uomo trama la morte della moglie e
lei quella del coniuge; terribili matrigne mestano lividi veleni; il figlio scruta anzitempo gli anni del
padre. Giace vinta la pietà, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la terra madida di sangue»30.

Con questa sconsolante immagine di una società devastata dalla guerra e dalla malvagità, si chiude
il ciclo delle Quattro Età dell’Uomo e resta solo la speranza, già espressa da Virgilio, che con il
volgere dei tempi, possano ritornare il Regno di Saturno e l’Età dell’Oro, dando inizio a un nuovo
ciclo della storia dell’umanità.

30
     Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 127-150
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