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Le mani di Sean Connery
Giuseppe Previtali
31 Ottobre 2020

La notizia della morte di Sean Connery ha suscitato nella mia memoria di
spettatore una serie di flash improvvisi, che si sono precisati a volte con una
discreta dose di fatica. Memorie di film molto amati e di altri visti quasi per
sbaglio sono andate disponendosi in una costellazione di gesti, immagini, frasi.
Forse non è il modo più ortodosso di rendere omaggio ad una carriera così lunga
e rilevante dal punto di vista dell’immaginario culturale, ma vorrei proporre una
serie di passeggiate in almeno alcune di queste memorie visive, che hanno finito
per accompagnare la mia formazione. Sono certo che questi film non siano tutti
fra i migliori cui Connery abbia mai preso parte, ma d’altronde le passeggiate
sono fatte anche di incontri imprevisti, incroci marginali che possono però avere
un valore imprevisto per qualcuno di noi.

Ricordo il fascino della sequenza iniziale di Agente 007 – Licenza di uccidere
(1962), la partita a carte nel casinò e la prima apparizione di James Bond. Rivista
oggi, questa scena non finisce di colpire per il modo programmatico in cui
Terence Young presenta allo spettatore il corpo, reso già mitico da questa stessa
introduzione, dell’agente segreto. Inquadrato prima di spalle, quasi come fosse
parte dell’arredamento, Bond compare sulla scena a pezzi, scrutato dallo sguardo
della sua avversaria. C’è qualcosa, già nella disinvolta eleganza con cui Bond
volta le carte, che ne annuncia il fascino irresistibile: tutta la prima parte di
questa scena è una sorta di balletto di mani carico di erotismo, che avvince lo
spettatore insieme alla prima (involontaria) “Bond girl”. Mani che sembrano
artificiali, baciate dalla fortuna e che poi, nel giro di un campo/controcampo, si
scoprono appartenere ad un uomo destinato alla leggenda.

Non c’è forse nessun altro attore di cui ricordo così distintamente le movenze
delle mani ed è probabilmente proprio per questo che l’immagine di 007 in
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Licenza di uccidere mi pare legata a doppio filo con quella di Guglielmo da
Baskerville ne Il nome della rosa (1986). Così come le mani di Bond accarezzano,
svestono, seducono, così quelle di frate Guglielmo sono chiuse in pose rituali o
nascoste nel saio. Connery da corpo qui ad un personaggio che è puro sguardo, in
un film che è costruito proprio attorno alla capacità di vedere o al desiderio di
occultare alla vista. Eppure, anche nel mondo di puro spirito immaginato da
Umberto Eco nel Medioevo italiano, sono le ragioni della carne e del desiderio ad
emergere ed è proprio lo sguardo di Connery/Guglielmo a coglierne le
manifestazioni, individuando sotto le spoglie dell’ideologia i segni del rapporto
amoroso fra Adelmo e Berengario.

Le mani, gli occhi; frammenti di un corpo attoriale che ha saputo reiventarsi pur
rimanendo sempre fedele a sé stesso e ad una sorta di elegante medietà. Penso
ad esempio alle assurde situazioni di Zardoz (1974), all’improbabile ma iconica
tenuta di Zed. Pistola in pugno, stivaloni neri e mutande rosse: una combinazione
che già sintetizza la genialità kitsch del film, nel quale Connery esibisce un corpo
straordinariamente ordinario. Se nell’attorialità contemporanea uno degli
elementi ricorrenti è proprio la capacità di riplasmare il proprio corpo in base al
ruolo (penso ovviamente a Christian Bale e al lavoro fatto per L’uomo senza
sonno e i film della trilogia del Cavaliere Oscuro), Connery – pur riuscendo a
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interpretare ruoli anche molto diversi – non ha mai stravolto la propria immagine,
riuscendo a trasformare anche l’invecchiamento in un ingrediente del proprio
divismo.

Fra le ultime apparizioni cinematografiche di Connery c’è – appena prima del
divertente polpettone postmoderno La leggenda degli uomini straordinari (2003) –
uno dei lavori meno interessanti di Gus Van Sant. Scoprendo Forrester (2000) è
infatti un film assolutamente ordinario, che insieme a qualche altro mi è sempre
parso fuori posto nella filmografia di un regista estremamente creativo e di
talento. Ad un certo punto di questa storia di formazione, però, ecco fare di nuovo
la loro ricomparsa le mani di Sean Connery. Il suo alter-ego William Forrester sta
guidando un giovane afroamericano alla scoperta del suo talento letterario e lo
invita a scrivere a macchina di getto, senza pensare. “Il concetto chiave dello
scrivere è scrivere. Non è pensare”; mentre dice queste parole le sue dita si
avvicendano rapidamente sulla macchina, in una pura estasi gestuale. Non
vedremo mai cosa Forrester ha scritto sulla pagina (per quanto ne sappiamo
potrebbe aver fatto qualcosa di simile al Jack Torrance di Shining), ma ancora una
volta eccoci lì, a guardare quelle mani. Invecchiate, ma sempre affascinanti.
In questo percorso, guidato più dalle libere associazioni suggerite dalla memoria
cinefila che dal valore dei singoli film, sono senza dubbio rimaste escluse
memorie eccellenti: penso al modo in cui il bianco e nero de La collina del
disonore (1965) ha saputo creare un’immagine di Connery unica nel suo genere;
alle atmosfere grigie e allo sguardo scavato di Riflessi in uno specchio scuro
(1972); al personaggio di Jimmy Malone ne Gli intoccabili (1987) e – perché no –
anche a quello di Henry Jones senior in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989).
C’è però almeno un’ultima immagine che pare imporsi proprio in virtù della sua
straordinarietà.
Lo Sean Connery di Marnie (1964), pur mantenendosi fedele alla propria
immagine divistica (fatta soprattutto di gesti e sguardi) cede il centro della scena
a Tippi Hedren, di cui accompagna il processo di scavo psicoanalitico: terrorizzata
dagli uomini e dai lampi, Marnie è (letteralmente) figlia del trauma. In questa
veste “d’appoggio” il volto e le mani di Connery si fanno più morbide ed il gesto
che gli vediamo fare più spesso è quello di cingere le spalle di Marnie o di
scostare i capelli dal suo viso, quasi sempre cosparso di lacrime. Il tocco
intraprendente di 007 si tramuta nella carezza di Mark Rutland, marchio di pietà e
non di seduzione; il gesto d’affetto di cui la madre si dimostra comunque
incapace è riservato esclusivamente a Connery.

La sensualità delle mani di Bond e lo sguardo amorevole con cui Rutland guarda
Marnie alla fine del film di Hitchcock sono i due poli di una parabola divistica forse
fra le più coerenti mai viste. Poco importa quale dettaglio ciascuno di noi si
porterà dietro, che sia una frase o un movimento. L’intera carriera di Sean
Connery è ricca di frammenti che ciascuno di noi potrà comporre in una
divagazione sentimentale, un montaggio di istanti che hanno saputo imporsi alla
memoria per la loro icasticità e il loro valore cultu(r)ale.

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