Le "Grandi dimissioni" - una mappa per iniziare (Position paper) - Cgil Toscana

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Le "Grandi dimissioni" - una mappa per iniziare (Position paper) - Cgil Toscana
Le “Grandi dimissioni”
      una mappa per iniziare
                 (Position paper)

Osservatorio
Contrattazione
Sociale e
Territoriale

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Le "Grandi dimissioni" - una mappa per iniziare (Position paper) - Cgil Toscana
Le “GRANDI DIMISSIONI”
Una mappa per iniziare

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                 BO

a cura di Sandra Burchi

Elaborazioni statistiche: Marco Batazzi

Coordinamento Scienti co: Gianfranco Francese

Editing: Nicola Barbini

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Le "Grandi dimissioni" - una mappa per iniziare (Position paper) - Cgil Toscana
INDICE:

Una discussione polarizzata ..........................................................................................................................4

Grandi dimissioni, dif cile reperibilità, smart working.............................................................................12

In Italia: una fotogra a .................................................................................................................................14

Le ricerche .....................................................................................................................................................14

I giovani: i numeri, le ricerche, la stampa internazionale .........................................................................16

Una mappa ....................................................................................................................................................20

La precarietà. .................................................................................................................................................23

Non solo turn over ........................................................................................................................................24

Dimissioni, quando non è una scelta ma una rinuncia ............................................................................26

In Toscana ......................................................................................................................................................28

Mercato del lavoro e dimissioni in Toscana ...............................................................................................28

Articoli e riferimenti bibliogra ci ................................................................................................................36

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puoi usare sempre
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                                                                          tutti i titoli? carattere,
                                                                              grassetto etc?
                    Una discussione polarizzata                            e lasciare sempre lo
                                                                           stesso spazio prima
                                                                               dell’inizio del
                                                                                 paragrafo?
                    La chiamano “The Great Resignation”, perché evoca “The Great Depression”, la
                    grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso. In italiano si può tradurre
                    con “le grandi dimissioni” il fenomeno che descrive un grande movimento di
                    persone che sta lasciando un lavoro per farne un altro o perché "non ne poteva
                    più".       Era maggio 2021 quando il professore di management della University
                    College London (UCL) Anthony Klotz coniò questo termine per descrivere un
                    imminente cambiamento nel mercato del lavoro.
                    Durante l’estate negli Stati Uniti si era cominciato a registrare un numero di
                    dimissioni mai visto prima, soprattutto tra i lavoratori tra i 30 e i 45 anni. Secondo
                    lo US Bureau of labor statistics, infatti, negli Stati Uniti venti milioni di persone
                    hanno dato le dimissioni a partire dalla primavera del 2021.
                    In un articolo su Essenziale, Francesca Coin, la studiosa che in questo momento sta
                    seguendo il fenomeno più da vicino, si sofferma sui dati delle Note trimestrali del
                    Ministero del lavoro. Nella nota uscita nel Settembre 2021 si legge:

mettere carattere più piccolo
una interlinea più stretta?     Nel secondo trimestre del 2021 si registrano 2 milioni 587 mila
    è una citazione.
                                cessazioni di contratti di lavoro, con un signi cativo incremento, pari al
                                43,7% (+786 mila unità), rispetto allo stesso trimestre del 2020. Al
                                numero di cessazioni osservate nel trimestre si associano 1 milione 915
                                mila lavoratori, con incremento di 418 mila unità (pari a +27,9%).
                                La crescita tendenziale delle cessazioni (+43,7, %) risulta inferiore
                                rispetto a quella osservata per le attivazioni (+64,5%), così come
                                l’aumento tendenziale dei lavoratori cessati (+27,9%) è più basso di
                                quello dei lavoratori attivati (+48,8%).

                    In una nota più recente , sempre del Ministero del lavoro, uscita nel Settembre
                    2022, si legge:           qui puoi mettere quella frase che ti
                                                          segnalo?
                                Nel secondo trimestre del 2022 si registrano 3 milioni 142 mila
            eliminare rientro   cessazioni di contratti di lavoro, con un incremento del 21,4%, pari a
                                554 mila rapporti cessati in più rispetto allo stesso trimestre del 2021.
                                Al numero di cessazioni osservate nel trimestre si associano 2 milioni
                                237 mila lavoratori, con un incremento di 322 mila individui (pari a
                                +16,8%). La crescita tendenziale dei rapporti cessati risulta superiore
                                rispetto a quella osservata per i rapporti attivati (+17,2%), così come

                                                                                                       IRES TOSCANA • 4
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l’aumento tendenziale dei lavoratori interessati da almeno una
                              cessazione è maggiore di quello dei lavoratori attivati (+12,7%)”.

                  La crescita delle dimissioni è segnalata come un dato costante.                       sposta in alto

                  Il dato       è signi cativo soprattutto guardando all’Italia, un paese il cui tasso di
                  disoccupazione è molto elevato, intorno al 7,9%, molto più alto rispetto agli Stati
                  Uniti in cui è intorno al 3,7% .
                  Quella delle dimissioni è una vicenda complicata da analizzare.
                  In Italia, se stiamo al dibattito che ha generato nei media ma anche alle conclusioni
                  cui arrivano le prime ricerche, la discussione si è polarizzata in modo n troppo
                  netta, fra chi sottostima il problema - interpretandolo come un turn over tutto
                  interno ai meccanismi di un sistema economico molto condizionato dalle vicende
                  della pandemia - e chi rintraccia gli elementi di una crisi di sistema.

                  L’obiettivo di questo paper è ricostruire i termini del dibattito in corso e proporre
                  una rassegna di quello che è già stato elaborato e rappresentato dalla ricerche
                  realizzate.
                         puoi spostare questa frase nella pagina successiva, dopo “percentuali”?

                  Af dandosi a un’altra fonte, quella dei dati raccolti ed elaborati dall’Osservatorio
                  del precariato Inps, le cessazioni dei rapporti di lavoro per dimissioni seguono la
                  stessa tendenza segnalata dalle note del Ministero del lavoro.
                  I dati di luglio 2022 parlano di una ripresa delle attivazioni, rispetto alla condizione
                  pre-pandemica, segnalando che nei primi sette mesi del 2022 l’insieme delle
                  variazioni contrattuali a tempo indeterminato (da rapporti a termine e da
                  apprendistato) ha raggiunto il livello massimo degli ultimi dieci anni.
                              Le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati no a luglio 2022 sono
qui non c’è il rientro        state 5.029.402, con un aumento del 21% rispetto allo stesso periodo del
                              2021 e una crescita che
                              ha riguardato tutte le tipologie contrattuali.
                              I contratti a tempo indeterminato hanno registrato la crescita più accentuata
                              (+33%), la maggiore dal 2015. Signi cativo anche l’aumento delle diverse
                              tipologie di contratti a termine: intermittenti (+32%), apprendistato (+21%),
                              tempo determinato (+20%), stagionali (+14%) e somministrati (+14%).
                              Le trasformazioni da tempo determinato nei primi sette mesi del 2022 sono
                              risultate 443.541, in fortissimo incremento rispetto allo stesso periodo del
                              2021 (+68%). Le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla
                              conclusione del periodo formativo sono aumentate del 9% rispetto all’anno

                                                                                                        IRES TOSCANA • 5
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precedente. Nei primi sette mesi del 2022 l’insieme delle variazioni
                      contrattuali a tempo indeterminato (da rapporti a termine e da
                      apprendistato) ha raggiunto il livello massimo degli ultimi dieci anni.

                      Le cessazioni sono state 3.949.491, in aumento rispetto allo stesso periodo
                      dell’anno precedente (+31%) per tutte le tipologie contrattuali: intermittenti
                      (+53%), stagionali (+48%), apprendistato, a tempo determinato (+30%), a
                      tempo indeterminato e in somministrazione (+26%). Per le cessazioni a
                      tempo indeterminato si tratta, con riferimento ai primi sette mesi dell’anno,
                      del valore più elevato dell’ultimo decennio.

               I dati sulle dimissioni risultano in crescita anche secondo questa fonte secondo
               una percentuale del 31% per tutte le tipologie contrattuali, comprese quelle a
               tempo indeterminato.
               Per leggere questi dati sono necessarie delle analisi di dettaglio, capaci di tenere
               conto dei diversi comparti lavorativi e delle differenze al loro interno. Servono,
               inoltre, delle analisi qualitative per arrivare alla conoscenza delle motivazioni
               individuali per arrivare alle storie dietro ai numeri e alle percentuali.

               In Italia si è aperto un dibattito interessante da leggere. Alcune ricerche tendono a
               dimostrare che i dati sulle dimissioni siano da leggere in relazione a un turn over
               apertosi nella fase di ripresa post-pandemica. Francesco Armillei, assistente di
               ricerca presso la London School of Economics è stato fra i primi a discutere del
               problema. In uno dei suoi primi articoli, uscito su La Voce nell’ottobre del 2021
               chiedendosi se anche in Italia si fosse aperta la stagione delle grandi dimissioni,
               invitava alla cautela, aprendosi a varie prospettive:
   qui c’è
   rientro
puoi mettere
un carattere
               Quali ri essioni possiamo trarre da questi dati per quanto riguarda il nostro
più piccolo?   paese? La prima è un invito alla cautela: è ancora presto per trarre conclusioni, dal
    è una
  citazione    momento che non sappiamo se l’aumento delle dimissioni risulterà un fenomeno
               temporaneo, circoscritto al secondo trimestre del 2021, oppure durerà più a
               lungo. Se l’aumento si dimostrasse soltanto temporaneo potrebbe essere
               interpretato come il frutto di un mercato del lavoro “congelato” per molti mesi, sia
               per motivi di andamento del ciclo economico sia per le politiche pubbliche
               adottate per fronteggiare la crisi (come la cassa integrazione Covid), e che affronta
               una fase di riassestamento nel momento in cui comincia lo “scongelamento”.
               Potrebbe trattarsi di dimissioni programmate, ma rimandate durante la pandemia.
               Potrebbe trattarsi di dimissioni forzate dai datori di lavoro di fronte a una

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contrazione dell’attività economica e di politiche quali il blocco dei licenziamenti.
     Oppure potrebbero essere le dimissioni di chi ha avuto una sorta di “epifania”
     durante la crisi riguardo la propria carriera e ora si dimette per cercare un lavoro
     più adatto, più rispondente alle nuove esigenze. Se invece il tasso di dimissioni
     dovesse rimanere su livelli alti per un tempo prolungato, ci troveremmo di fronte a
     un altro interessante fenomeno, una riallocazione della forza lavoro e allora
     occorrerebbe chiedersi: chi sono i lavoratori che si dimettono? Lavoratori
     impiegati in professioni manuali o in professioni intellettuali? E dopo le dimissioni,
     cosa accade loro? Trovano subito impiego, magari in un altro settore? La crisi da
     Covid-19 potrebbe infatti aver accelerato un fenomeno di ricollocamento della
     forza lavoro, creando le condizioni af nché i lavoratori scelgano di (o siano
     costretti a) migrare da settori in dif coltà (pensiamo per esempio alla ristorazione
     e al turismo) a settori in crescita (come quelli relativi alla salute e alle nuove
     tecnologie).

     L’insieme delle ipotesi tratteggiate da Armillei, riprese in altri articoli sul tema, non
     escono dal quadro di una mobilità interna al mondo del lavoro, una mobilità che
     in vari modi è stata generata dalla eccezionalità della crisi Covid-19. In un certo
     senso la sua prospettiva è ottimista, le grandi dimissioni vanno lette come il segno
     di un mercato del lavoro in salute o almeno in via di guarigione.

     La sua lettura dei dati restituisce l’immagine di un Paese in cui si scelgono le
     dimissioni volontarie con modalità e motivazioni non paragonabili a quelle dei
     lavoratori USA, cosa che rende inappropriato il riferimento alle grandi dimissioni ,
     del resto - fa notare in un altro intervento, anche negli Stati Uniti ci si è cominciati a
     chiedere se non sia il caso di parlare di parlare piuttosto che di great resignation di
     great reshuf e, ovvero “un grande rimescolamento”, con spostamenti di lavoratori
     alla ricerca di nuove e diverse posizioni dopo le dimissioni.

     Il giovane studioso ammette che non è semplice fornire una lettura d’insieme dei
     dati, ma a suo avviso le statistiche suggeriscono cautela nello sposare
     interpretazioni relative a un cambio radicale di aspettative nei confronti del lavoro
     da parte del corpo attivo della società. Le sue analisi tendono a sottostimare
     l’aspetto sociale del fenomeno per rileggerlo in una cornice tutta legata al quadro
     economico.

     C’è invece chi è più attento a leggere          la pandemia e tutto quello che ha
     comportato come la miccia di una sorta di silenziosa ribellione nei confronti di un
     uso del tempo e delle vite che è stato normalizzato dal sistema economico in cui

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siamo immersi e portato a regime dalle varie riforme di de-regolamentazione del
                  mondo del lavoro.

                  Francesca Coin, ad esempio, propone di attivare uno sguardo globale.

                  Le sue ri essioni cercano le        connessioni tra fenomeni simili in paesi differenti,
                  compresi quelli che negli ultimi anni hanno mostrato indici costanti di crescita. In
                  un paese come la Cina, ad esempio, ci sono movimenti di nuovo ri uto del lavoro
                  trainati da giovani con pro li quali cati che vedono disattese le loro aspettative
                  incontrando, in risposta a un grande investimento nell’idea del merito o della
                  carriera, un mercato del lavoro che rende loro disoccupazione, precarietà, o posti
                  di lavoro di lavoro estremamente stressanti, dal punto di vista del rendimento e
                  del rischio.

                  “In Cina il fenomeno non si presenta esattamente come in America, con numero
                  elevatissimi di dimissioni, ma è in atto una rivolta alla cultura del lavoro. La fase di
ssa cosa, citazione recessione   che sta conoscendo il paese rende dif cile per i giovani high tech
                  cresciuti con la cultura del merito avere un accesso sicuro e in quel caso quegli
                  stessi giovani cambiano atteggiamento, mollano oppure danno vita a dei veri e
                  propri movimenti. In Cina nell’ultimo anno ci sono almeno due movimenti
                  importanti su questi temi, in cui il soggetto principale è proprio il giovane high
                  tech iperformato e iperquali cato. Il primo movimento “tangping” e il secondo
                  “letting it rot'”.

                  Del tamping parla anche Ivan Franceschini, ricercatore dell’Australian National
                  University, esperto dei diritti dei lavoratori in Cina,

                  ““Non è un movimento”, precisa, “non ha niente di organizzato, è più una reazione
 citazione
                  spontanea. Una protesta contro il modello socio-economico imperniato sulla
                  spasmodica ricerca del successo e ritmi lavorativi impossibili, cui non corrisponde
                  una reale soddisfazione economica né personale. La soluzione è drastica: ri utare
                  la logica del successo, lavorare meno, o non farlo proprio, dedicarsi a sé stessi,
                  consumare solo lo stretto necessario”.

                  La stampa internazionale, e anche quella italiana, ha riportato anche quello che è
                  successo con la campagna, dal titolo in cinese e in inglese, “Worker Lives Matter”:
                  le vite dei lavoratori contano. Un sondaggio, realizzato tramite un foglio di calcolo
                  condiviso online, a cui hanno risposto migliaia di impiegati di varie aziende.

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Diventando in breve tempo una sorta di nuovo manifesto contro lo sfruttamento e
          gli orari di lavoro.

          Si è parlato meno del letting it rot una proposta contro il sovraccarico di lavoro che
          in italiano possiamo tradurre con “lasciamoli marcire”. In questi anni le forme di
          protesta - molto dif cili in un paese come la Cina - contro il sistema orario e le
          forme di lavoro praticate soprattutto dai grandi colossi della tecnologia sono
          cadute nel nulla e hanno portato i giovani e impegnati in questo settore a far
          nascere varie pratiche di sottrazione.

          Anche a partire da questi esempi, Coin guarda alle Grandi Dimissioni come un
          fenomeno molto signi cativo, che rende possibile parlare di “un nuovo ri uto del
          lavoro”. La studiosa individua in quello che sta accadendo, seppur in modi diversi,
          un punto di rottura del      modello che sottende il funzionamento del sistema
          economico globale. Lo s larsi individuale (attraverso le dimissioni ma non solo)
          segnala il punto limite di un modello che ha progressivamente preteso di più dai
          singoli individui attraverso un’ideologia che sottostima le condizioni concrete del
          lavoratori incoraggiandoli a    riferirsi   a valori (di cui oggi è chiaro il portato
          ideologico) che motivano a dare di più, a impegnarsi, a reggere il gioco. Parole
          che sono entrate a far parte del nostro linguaggio relativamente alla costruzione
          del pro lo di lavoratore tipico, capace di investimento, spesa di sé, responsabilità,
          obbligato a muoversi in un regime di visibilità, di valorizzazione delle competenze,
          di curriculum. Tutti questi valori hanno alimentato Un’economia della promessa da
          tempo messa fuoco dagli studi critici nei confronti del sistema neoliberista che ha
          portato - all’interno di un mercato del lavoro sempre frammentato - ad accettare
          come inevitabili condizioni di lavoro sempre meno sostenibili, in termini di
          sicurezza e benessere complessivo. (Bascetta 2015)

          L’idea che Coin esprime con le sue ricerche,            confrontando dati diversi e
          diversi cati (per capire di cosa stiamo parlando dovremmo entrare nei singoli
          comparti, nei singoli contesti, analizzare nella loro speci cità le condizioni di
          lavoro che si generano nei luoghi di lavoro), è quella di una crisi del modello
          produttivo all’interno della quale le dimissioni segnalano un punto di rottura:
          siamo di fronte a un punto limite.

          Coin non è la sola a guardare con attenzione il meccanismo di destrutturazione e
          ristrutturazione del mondo del lavoro. Quello che si è realizzato negli ultimi anni è
          avvenuto smontando pezzo dopo pezzo            le infrastrutture che organizzavano il
          lavoro in senso tecnico, sociale e anche simbolico. Questa erosione ha lasciato ai

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singoli individui come unica opzione quella di pensarsi come soggetti produttivi,
     responsabili della buona collocazione nel mercato delle proprie competenze e del
     proprio saper fare. La spinta verso il soggetto auto-imprenditore è stata al centro
     di una serie di studi che hanno seguito la fragilizzazione e le trasformazioni del
     lavoro negli ultimi 20 anni.     Una spinta molto supportata dall’idea di scelta, di
     merito, di competizione portando a un punto estremo i caratteri con cui è nato il
     capitalismo nella secondo modernità. Tutto questo si è retto su un processo di
     accelerazione progressiva che sembrava avere una direzione unica e inarrestabile.
     La crisi pandemica manifestandosi come uno stop improvviso è stata vissuta, nel
     proliferare di teorie, discorsi, slogan, come capace di far emergere il rimosso del
     nostro sistema sociale: il limite, la malattia, la morte, la vulnerabilità. Il corpo
     sociale si è riconosciuto nella sua sicità e ha potuto vedere meglio gli effetti in
     un modello di sviluppo che devasta il pianeta e           consuma insensatamente le
     risorse. La questione ecologica non è mai stata così concreta e tale da essere
     vissuta da tutti nella normalizzata scarsità di risorse personali, prima di tutte quella
     di tempo e poi di legame sociale.

     In questo senso oggi è possibile parlare di un nuovo ri uto del lavoro (Coin 2022).
     All’interno di questo quadro i singoli individui, nella dif coltà di riferirsi a possibili
     riforme del sistema o anche semplici miglioramenti della propria situazione, hanno
     cominciato a sottrarsi. Sottrarsi non vuol dire necessariamente compiere
     rivoluzioni, rotture, individuare nuove strategie, vuol dire esattamente questo:
     “sottrarsi”, s larsi, mettersi in salvo, decelerare, prendere tempo.

     In questo senso non è molto diverso se si cambia perché si intravede un altro
     lavoro o si cambia perché ci si considera esausti. Il passo segnato dalle dimissioni
     è quello di praticare un ri uto. Questa idea rende il tema delle grandi dimissioni
     un tema largo, che comprende i prepensionamenti, le riconversioni professionali,
     e tutte le forme di ri uto         della pressione produttiva , sia quelle           agite
     positivamente che quelle subite, forme seguite dal dibattito mediatico come il
     quiet quitting o i burn out.

     Non solo, negli ultimi anni gli studi hanno messo a fuoco che le condizioni
     psicologiche di lavoratori e lavoratrici rivelano una crescente vulnerabilità,
     esacerbata dal lungo periodo pandemico, ma preesistente ad esso.

     Francesca Coin è attenta a mettere in relazione le dimissioni volontarie registrate
     negli ultimi mesi con il deterioramento progressivo delle condizioni di lavoro e
     con gli effetti della pandemia in termini di ri-orientamento delle scelte individuali.

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esta tabella non va qui, puoi spostarla a p.28?

                     Cessazioni e dimissioni volontarie in Italia e in Toscana al primo semestre; valori cumula

                                                                  2019            2020          2021               2022      Var% 2019/22
                     Cessazioni Italia                      3.094.018 2.482.519 2.443.846                 3.322.373                     7,4
                     Dimissioni Italia                        813.562   614.405   820.062                 1.080.253                    32,8
                     Quota % dimissioni Italia                   26,3      24,7      33,6                      32,5                       -
                     Cessazioni Toscana                       200.095   154.841   145.735                   207.980                     3,9
                     Dimissioni Toscana                        56.801    41.248    54.282                    75.305                    32,6
                     Quota dimissioni Toscana                    28,4      26,6      37,2                      36,2                       -
                     Fonte: elaborazioni su da INPS osservatorio sul precariato

                    Citando Christina Maslach, autrice di “Burnout: the cost of caring” (Malor Books
                    2011), scrive che le cause di affaticamento estremo sono riassumibili in sei punti:

                      1. un eccessivo carico di lavoro                     puoi ridurre l’interlinea per questo elenco?

                      2. una cultura tossica del lavoro dovuta alla minaccia costante di tagliare
                              l’organico;

                      3. l’impossibilità di lavorare in autonomia da parte dei dipendenti;

                      4. lo scarso riconoscimento economico;

                      5. un clima vessatorio e in ne la mancanza di equità.

                      6. la mancanza di equità.

                    Il burn out , secondo gli studi su questo tema, non è da intendersi come una
                    malattia soggettiva, ma una malattia istituzionale. Quando si parla di burn out nei
                    luoghi di lavoro bisogna andare a vedere cosa ha fatto l’istituzione per s nire i suoi
                    dipendenti, anche solo un dipendente. A quel punto diventa facile darsi un
                    metodo, se guardiamo il mondo del lavoro a partire da quello che succede al suo
                    interno, è possibile capire come si strutturano le relazioni di lavoro secondo un
                    modello lavorativo speci co. Il taglio all’osso degli organici per esempio, è una
                    strategia organizzativa tipica del modello lavorativo dominante, insieme alla
                    precarizzazione. Questi due strategie sono quelle alla base di una richiesta di
                    sforzo che è rivolta ai lavoratori e alle lavoratrici, una richiesta di presa in carico, di
                    assunzione di responsabilità che non è però bilanciata da riconoscimenti adeguati
                    o da sistemi di riparazione ai rischi che queste richieste producono. Il burn out è
                    l’esito di questo modello organizzativo e non l’espressione di debolezza di un
                    singolo.

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Le dimissioni lette a partire da questi punti di sofferenze estrema, si rivelano come
              un “sintomo”, un sintomo del sistema di emergenza che attraverso il presente. Si
              tratta di un movimento da leggere per i messaggi non detti ma letteralmente agiti.
              Tutte queste persone che se ne vanno stanno dicendo che bisogna riportare il
              tema delle condizioni di lavoro al centro dell’attenzione, che sono arrivata a un
              punto di non ritorno.

          lascerei sempre questo spazio fra un paragrafo e l’altro

              Grandi dimissioni, dif cile reperibilità, smart working.

              Per quanto riguarda l’Italia un dato interessante da leggere in continuità con le
              cosiddette “grandi dimissioni” è quello della dif cile reperibilità di lavoratori e
              delle lavoratrici, lamentata da molte categorie, tipicamente le associazioni del
              turismo e della ristorazione, e riportato dai vari organi di stampa.

              In un articolo riportato dall’Ansa nel settembre 2022, l’Unioncamere lamenta la
              dif coltà delle imprese a reperire lavoratori e fa una stima intorno alle 524mila
              unità mancanti. Fra questi sono 269mila i contratti a tempo determinato (51,4% del
              totale), 96 mila quelli a tempo indeterminato, 58 mila di somministrazione, 48 mila
              quelli non non alle dipendenze, 26 mila di apprendistato, 18 mila gli altri alle
              dipendenze, 9mila di collaborazione. Si tratta dunque di un dato da leggersi in
              maniera approfondita e dettagliata e oltre le polemiche mediatiche il cui scopo
              (neanche troppo sotterraneo) è in molti casi quello di individuare nel reddito di
              cittadinanza il nemico del lavoro. E’ evidente, se ci si inoltra nel concetto di
              “dif cile reperimento”, che i problemi sono molto più complessi. Sempre dalle
              dichiarazioni di Unioncamere emerge che tra i bisogni inevasi di lavoratori, molte
              dif coltà riguardano anche i candidati con high skill (i tecnici nei campi
              dell'informatica, ingegneristica e della produzione), oltre a gure di cui molto si è
              parlato sulla stampa (addetti ai servizi, cuochi, camerieri e stagionali nel
              turismo). Anche il commercio è in dif coltà nel reperire              commessi e altro
              personale quali cato in negozi ed esercizi all'ingrosso.

              La questione dunque è da leggersi anche in relazione a fattori come la dif coltà di
              incontro domanda-offerta o l’inadeguatezza dei contratti offerti ai candidati
              mancanti.

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Il tempo determinato si conferma come           la forma contrattuale maggiormente
     proposta con 269mila unità, pari al 51,4% del totale. Seguono i contratti a tempo
     indeterminato (96mila), i contratti di somministrazione (58mila), gli altri contratti
     non alle dipendenze (48mila), i contratti di apprendistato (26mila), gli altri contratti
     alle dipendenze (18mila) e i contratti di collaborazione (9mila).

     Un altro tema di contesto, da leggere in continuità con le dimissioni volontarie e il
     clima che si è creato con la crisi pandemica, è quello relativo al “desiderio di
     smart working”. Dopo due anni di sperimentazione di lavoro da remoto (nelle
     forme affrettate e sempli cate che abbiamo sperimentato durante il prolungarsi
     dello stato d’emergenza) siamo di fronte a una contraddizione che è utile mettere
     in evidenza. Le ricerche sulle condizioni generate dalla delocalizzazione del lavoro
     verso gli ambienti domestici (perché sono questi i luoghi socialmente individuati
     per il lavoro agile nell'ultimo anno e mezzo) mostrano molti disagi, soprattutto da
     parte delle donne, ma lasciano vivo il desiderio di misurarsi con questo modello. I
     disagi di un trasferimento di massa, le complicazioni di una conciliazione lavoro/
     famiglia sperimentata nella condizione estreme del lockdown o del susseguirsi di
     quarantene, non ha ridotto l’interesse per la possibilità di arrivare a forme più
      essibili e individualizzate dell’ orario lavorativo. La possibilità di adottare un
     modello di lavoro agile, modulare e articolato e che prevede forme di
     autogestione sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici
     dipendenti. E’ un interesse da leggere fra le righe. Dopo due anni di pandemia da
     più parti si leggono i segnali di una resistenza a riprendere il ritmo come niente
     fosse, a tornare a lavorare alle condizioni di sempre, nel quadro di un’economia
     della crisi a cui, anche in Italia, si è risposto con la richiesta di una disponibilità
     crescente da parte di chi ha un lavoro o di chi lo cerca: livelli retributivi incongrui e
     inadeguati e precarietà diffusa. I luoghi di lavoro sono stati abitati da logiche che
     mentre inneggiano il benessere organizzativo naturalizzano la competitività o,
     quando va meglio, la produttività intensiva e il ritmo accelerato. Forse il desiderio
     di alternare lavoro a distanza e lavoro in presenza va letto semplicemente così,
     come il desiderio di allentare la presa, di scegliersi il modo di lavorare, di
     complicarsi la vita con un’organizzazione da inventare lontana dai luoghi di lavoro
     o a casa (con il rischio che diventi più solitaria e oppressiva) ma che trovi un ritmo
     diverso. L’aspirazione è quella di decelerare e anche “ri utare” meccanismi
     presenti nei luoghi di lavoro vissuti come morti canti.

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In Italia: una fotogra a         puoi togliere “una fotografia”?
                                                  metterei In Italia: prime ricerche

                 Le ricerche

                 Sull’Italia Coin traccia un quadro molto netto:

                 “L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni sono
                 diminuiti invece che aumentare, dicono i dati dell’Organizzazione per la
                 cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse); in cui la pressione                               scale è
     citazione
                 mediamente più alta rispetto agli altri paesi europei, nonostante salari e tutele
                 sociali siano più bassi, come dice il rapporto su Salari e occupazione in Italia della
                 Fondazione Di Vittorio; in cui il mercato occupazionale è caratterizzato dalla
                 crescita dei contratti a termine e del lavoro dequali cato: solo il 10 per cento dei
                 posti disponibili richiede una laurea, dicono i dati di Unioncamere e Anpal. L’Italia,
                 in ne, è il paese con il tasso di occupazione più basso d’Europa dopo la Grecia
                 (62,6 per cento)”. (Coin 2022)

                 I temi dunque sono quelli di un mercato del lavoro molto diverso da quello
                 americano, meno mobile, e meno caratterizzato, da salari stagnanti e da contratti a
                 termine. Oltre a un tasso di occupazione basso, il mondo del lavoro italiano è
                 caratterizzato dal progressivo indebolimento delle                     gure richieste e dalla
                 svalutazione dei titoli di studio superiore.
                 In Italia non c’è un settore unico interessato al tema delle dimissioni. Abbiamo tanti
                 settori e tante situazioni diverse, anche in relazione alla geogra a economica del
                 Paese. In Italia c’è un buco qualitativo e interpretativo e bisogna andare a parlare
                 con le persone per capire cosa sta succedendo ma quello che sappiamo è che
                 spesso non c’è un piano B e si molla senza chiare indicazioni sul futuro.
                 Ci sono contesti in cui le dimissioni sono più chiare, a livello di motivazioni, la
                 sanità è uno di questi. Durante la Pandemia le condizioni di lavoro in questo
                 settore sono state molto dure e si parla di 20mila dimissioni in sanità, personale
                 che si è dimesso per cercare lavoro o nel privato o verso l’estero. Si tratta di un
                 settore sotto- nanziato che ha affrontato un periodo in condizioni molto dif cili e
                 che hanno mostrato tutti gli effetti delle politiche di riduzione degli ultimi anni.
                 Nelle regioni più colpite dal virus, come la Lombardia, questa cosa è ancora più
                 evidente, si assiste a una sorta di svuotamento attraverso il sistema delle
                 esternalizzazioni. Il settore della sanità andrebbe analizzato in maniera speci ca,
                 secondo le dinamiche che variano da regione a regione, da territorio a territorio.
                 Questo lavoro più speci co e di dettaglio andrebbe fatto per ogni settore. Per ora

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gli studi esistenti e i dati esistenti danno alcune indicazioni che ci permettono di
leggere il fenomeno senza entrare nel sistema delle motivazioni.

Se la posizione di Coin insiste sugli elementi di sofferenza e insostenibilità
soggettiva come punto centrale per capire il fenomeno delle grandi dimissioni, la
ricerca condotta da Adapt - Associazione per gli studi internazionali e comparati
sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali _ dal titolo “Grande dimissione:
fuga dal lavoro o narrazione emotiva” va in direzione opposta.
Firmata dall’ex Ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e da
Michele Tiraboschi, Coordinatore Scienti co della Scuola di alta formazione in
relazioni industriali e di lavoro di Adapt, trattano la questione del ri uto come una
visione romantica. La ricerca sostiene che al di là dello stress post-pandemico, la
maggioranza delle dimissioni avviene per quella che gli esperti chiamano
“transizione job to job” totalmente comprensibile in un quadro di ripresa
dell’economia.
In sintesi, si abbandona un posto di lavoro per occupare un altro, migliore,
soprattutto in relazione a un dato: quello del salario. Secondo questa ricerca,
dunque, quello della Great Resignation sarebbe un mito completamente smontato
dalla lettura dei tassi di rioccupazione che secondo la ricerca sarebbero altissimi e
addirittura in crescita dal 2019, no al 60%.
Di diverso tono è lo studio condotto dalla Fondazione consulenti del lavoro che
ricostruendo la mappa delle dimissioni volontarie             fa fortemente riferimento al
deterioramento dei processi lavorativi e delle condizioni di vita portati da
questioni come la precarietà e i bassi salari. L’indagine “Le dimissioni in Italia tra
crisi, ripresa e nuovo lavoro”, basata sui dati delle Comunicazioni Obbligatorie
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, analizza il fenomeno della
cessazione volontaria del rapporto di lavoro, che appare trasversale sotto diversi
punti di vista. Il confronto tra i primi tre trimestri del 2019 e del 2021 evidenzia,
infatti, che i dimissionari non sono solo giovani, con un basso livello di istruzione e
residenti al Nord, ma che c'è un incremento tra i segmenti tradizionalmente meno
interessati, in particolare adulti, laureati e tutti i lavori quali cati.
Le indicazioni più interessanti si rintracciano nelle caratteristiche anagra che e
professionali dei dimissionari: in maggior parte giovani (43,2% sul totale), a bassa
scolarizzazione (54,4%) e residenti al Nord (56,4%).
Ma nel confronto tra i primi tre trimestri del 2019 con quelli del 2021 colpisce la
crescita dei numeri relativi alle dimissioni tra gli adulti, i laureati e tra chi svolge
una professione quali cata.

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Quello che è certo è che chi ha deciso di lasciare il lavoro nel secondo trimestre
          del 2021 ha agito in un quadro molto complesso caratterizzato da una consistente
          disoccupazione giovanile e un sistema di incentivi e di welfare che non consente
          lunghi tempi morti o periodi di ricerca del lavoro.
          Una ricerca del Politecnico di Milano, “L’evoluzione del fenomeno della Great
          Resignation e le competenze e professionalità più ricercate dalle
          organizzazioni”, fornisce evidenze che consentono di vedere quanto il fenomeno
          sia rilevante: soltanto il 10% dei lavoratori italiani dichiara di “stare bene” in termini
          di benessere sico, sociale e psicologico. Se poi si prendono in considerazione i
          soli dipendenti pubblici, questa già piccola percentuale cala ed arriva solo al 4%!
          L’aspetto più critico è quello psicologico, dove ben l’89% dei lavoratori pubblici
          denuncia di trovarsi in uno stato di “malessere psicologico”.
          A partire da questo quadro le dimissioni rappresentano una possibile via di uscita.
          Resta da capire se questa via di uscita è praticata per quello che Coin nomina
          come “un nuovo ri uto del lavoro”, come un ragionato “ri uto delle condizioni di
          stress e sfruttamento” o se sia un turn over generato dalle condizioni di contesto.
          In entrambi i casi siamo comunque di fronte a qualcosa che dimostra la ne di un
          sistema di           delizzazione da parte delle imprese o della stabilità dei luoghi di
          lavoro (se pensiamo che il fenomeno riguarda anche il pubblico). Già negli anni
          Novanta si diceva che da parte delle Aziende                  l’idea di    delizzazione, con la
               essibilizzazione dei contratti , non era più un valore, né doveva esserlo. Quello
          che sta succedendo oggi è che questo tipo di investimento è ri utato anche da
          parte dei lavoratori. Dimettendosi i lavoratori e le lavoratrici reagiscono al
          deterioramento del sistema di relazioni che almeno da trent’anni sono state
          prodotte da parte aziendale e pubblica.

                        sistemare spazio

          I giovani: i numeri, le ricerche, la stampa internazionale

          Secondo la ricerca Adapt il 27% dei lavoratori che hanno presentato le dimissioni
          sono giovani, hanno meno di 35 anni. Ma in altri studi la percentuale tende
          addirittura a salire, come nello studio della Fondazione Consulenti del lavoro in cui
          sale al 42%. Si tratta comunque di una percentuale consistente. Guardando la cosa
          dal punto di vista demogra co il dato si fa ancor più interessante: dal 2002 al 2022
          i giovani tra i 15 e i 34 anni residenti in Italia sono diminuiti di 3.051.000 unità,
          poco più del 20% del dato di inizio millennio [dati ISTAT]. Capire cosa c’è dietro le

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dimissioni dei giovani         potrebbe rivelarsi interessante per spezzare la
            polarizzazione su cui si è organizzata la comprensione del fenomeno a livello di
            pubblica opinione.
            I giovani che si dimettono da cosa sono spinti? Si tratta di ri uto del lavoro o ri uto
            delle condizioni di lavoro a cui sono obbligati? Quali sono le strategie che
            adottano? Come si muovono verso nuove opportunità? Restano all’interno dello
            stesso settore lavorativo o, come si legge in alcuni contesti, gli effetti della
            pandemia hanno prodotto l’esigenza di una ricerca di senso che spinge ad
            affrontare nuovi nessi tra lavoro e dimensione esistenziale?
            In un articolo scritto per il bollettino di Adapt, Emmanuele Massagli, scrive che è
            in atto un cambiamento di mentalità per cui i giovani sono alla ricerca di un lavoro
            che li corrisponda, in termini di preparazione e di orientamento valoriale. Massagli
            fa riferimento alle indagini realizzate dopo la pandemia, proprio in relazione a
            questo segmento della popolazione senza troppo speci care.
            In uno dei primi articoli sul tema “grandi dimissioni”, uscito in Italia sul Sole 24 ore,
            si dice che a scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35
            anni (il 70% del campione analizzato) e perlopiù impiegati in aziende del Nord
            Italia. Ad alimentare la cosiddetta “great resignation” concorrerebbero in modo
            particolare la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di
            trovare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro. L’accenno alle “condizioni
            economiche più soddisfacenti” non menziona le reali (spesso pessime) condizioni
            economiche che caratterizzano molti posti di lavoro. L’articolo fa piuttosto
            riferimento a questioni che ricorrono in un certo mainstream              sui problemi del
            mondo del lavoro in Italia: con itto generazionale fra i giovani e i baby boomers
            (questi ultimi troppo stabili alla dirigenza del paese, anche nel sistema delle
            aziende), il bisogno di nuove politiche aziendali, più essibili, innovative, ibride
            etc. Il problema è impostato dal punto di vista delle aziende: come trattenere i
            giovani? quali sistema adottare per una generazione di lavoratori desiderosi di un
            migliore equilibrio fra vita e lavoro e capaci di lavorare in condizioni non
            standard?
            Il mondo delle aziende, negli ultimi mesi, ha preso parola sulla stampa.
            L’amministratrice delegata di Ranstad Italia, intervistata sul tema, si esprime così:

            “La necessità di attrarre e trattenere i talenti richiama tutte le aziende alla necessità
citazione   di realizzare adeguati piani di retention, partendo da un’approfondita analisi della
            situazione organizzativa. Purtroppo, troppo poche realtà misurano la soddisfazione
            dei dipendenti per individuare le ragioni profonde che spingono le persone a
            restare o abbandonare il proprio lavoro, molto più articolate della semplice offerta

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economica, per poi mettere in discussione processi consolidati. La forte
            competizione in atto impone nuove strategie a 360 gradi, con due obiettivi
            proprietari per ogni business: attrarre e trattenere le proprie risorse”.

            Colpisce, in un paese in cui i salari sono fra i più bassi d’Europa, l’attenzione che da
            parte datoriale viene data alla “non priorità” delle ragioni economiche e lo
            spostamento delle motivazioni che stanno alla base delle dimissioni verso una
            lettura che comprende un mix di ragioni che identi cano una nuova                  gura di
            lavoratore: più esigente dal punto di vista della realizzazione personale e in
            condizione di mettersi alla ricerca di opportunità più coerenti rispetto alla proprie
            aspettative. Non mancano, in queste osservazioni, riferimenti costanti al
            “benessere dei dipendenti” come chiave per impostare nuove politiche di
            retention.
            Questa narrazione fa da eco a un’immagine consolidata nel dibattito mediatico
            statunitense, che conosce però un mercato del lavoro molto diverso.
            Nell’aprile 2021 il New York Times ha dedicato un ampio approfondimento alla
            Yolo economy (« You Only Live Once »), un cambiamento di mentalità che
            caratterizzerebbe gli esausti lavoratori millennial d’America:

            "Dopo un anno trascorso curvo sui loro MacBook, sopportando Zoom (…), stanno
            capovolgendo le scacchiere accuratamente organizzate delle loro vite e
citazione
            decidendo di rischiare tutto…Alcuni stanno abbandonando lavori comodi e stabili
            per avviare una nuova attività, trasformare un lavoro secondario in un lavoro a
            tempo pieno . Altri si fanno beffe delle richieste di fare ritorno in uf cio dei loro
            capi e minacciano di dimettersi, a meno che non gli sia permesso di lavorare dove
            e quando vogliono".

            Secondo il New York Times a incoraggiare gli statunitensi a cambiare vita ha
            contribuito un mercato del lavoro in ripresa e i maggiori risparmi accantonati nei
            conti correnti dopo un anno di spese ridotte. Per il giornale newyorkese
            "non tutti possono permettersi di gettare al vento la cautela. Ma per un numero
            crescente di persone con mezzi        nanziari e competenze richieste, il terrore e
            l’ansia dell'ultimo anno stanno lasciando il posto a un nuovo tipo di coraggio
            professionale".

            Se lasciamo la stampa americana per quella europea e ci spostiamo in Francia, la
            tendenza alle grandi dimissioni e l’emergere di una “mentalità Yolo” sono prese
            molto sul serio. Non si tratterebbe per i commentatori francesi di scelte di vita

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radicali compiute da travailleurs épicuriens piuttosto di una presa di coscienza per
                  cui il susseguirsi delle crisi (pandemica, ambientale, di guerra) avrebbe spinto
                  molto giovani ad abbandonare lavori stressanti, che chiedono una disponibilità
                  completa di tempo e di energia, per cercare di comporre uno stile di vita più
                  libero ma anche più responsabile nei confronti della società. Questa versione
                  segue in parte quella citata di Coin di “nuovo ri uto del lavoro”. In un articolo
                  apparso su Le Figaro la responsabile della risorse umane di una grande azienda si
                  esprime dicendo che le Risorse Umane del futuro dovranno immaginare nuove
                  forme di lavoro, integrando freelanging, lavoro in somministrazione, lavoratori a
                  progetto o slaheur (un neologismo per indicare lavoratori pluriattivi o che si
                  dividono fra mille lavori). La s da delle imprese sarà quella di integrare questi
                  lavoratori, con una mentalità libera e mobile, impegnata in più di una direzione, al
                  collettivo dell’azienda. Il tema del ri uto è quindi fatto virare verso un nuovo
                  sistema di esigenze che vedrebbe i giovani alla ricerca di modelli più aperti e
                  componibili. La questione reddito e salari non è menzionata da queste
                  dichiarazioni di responsabili aziendali.
                  Quello che sembra di vedere da parte delle aziende, dalle due parti dell’Atlantico,
                  nel ricevere e prendere sul serio la questione delle grandi dimissioni, è la
                  questione di una trasformazione dei desideri dei lavoratori e delle lavoratrici, cui
                  rispondere con la formulazione di forme di lavoro diversi cate. La questione dei
                  giovani come soggetti particolarmente desiderosi di cambiare stile di lavoro e di
                  vita non è letta nei    termini di stanchezza, s ducia, sottrazione alle condizioni
                  dif cili di lavoro (in una parola sfruttamento), ma come una scelta autonoma e di
                  libertà cui rispondere con l’invenzione di forme di organizzazione sempre più agili.
                  Queste prese di posizioni rendono evidente che il sistema delle aziende è in
                  allarme, che fra i temi in agenda c’è quello della dif coltà nella ricerca del
                  personale.

                  Tornando in Italia, sfogliando giornali e ricerche si vede subito che i dati non sono
     la ricerca   così certi: se la ricerca Adapt parla del 27% per indicare i soggetti under 35 che si
      (togliere
         una      sono dimessi , una recente ricerca della Fondazione Consulenti del lavoro parla
      recente)
                  del 42,3 %, ma capita di leggere percentuali che arrivano al 70%.
                  Al momento le analisi sembrano risentire molto fortemente dell’impostazione che
                  orienta la lettura. La citata ricerca Adapt, che si sofferma come abbiamo visto
                  contro l’ eccesso romantico che porterebbe con sé la de nizioni di grandi
                  dimissioni per un siologico turn over attivo nel mercato del lavoro, afferma che

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l’occupazione giovanile - a dispetto delle criticità del sistema lavoro italiano - è
                   quella che ha risentito più favorevolmente della ripresa:

                   “Ulteriore elemento di interesse riguarda l’andamento dell’occupazione suddiviso
                   per fasce d’età. Da questi dati emerge come la fascia 25-34 anni, quella spesso
     citazione     dipinta come più critica rispetto alle logiche del mercato del lavoro
                   contemporaneo e più in linea con un fenomeno di ri uto di un certo tipo di lavoro,
                   sia in realtà quella nella quale il tasso di occupazione è cresciuto maggiormente
                   negli ultimi mesi. Siamo infatti passati dal 62,8 per cento del dicembre 2019 al
                   66,1 per cento del dicembre 2021, numeri ancora ridotti rispetto a quelli pre-crisi
                   del 2008, ma che evidenziano come la ripresa in corso si stia concentrando
                   principalmente sui giovani che cercano e in buona parte trovano lavoro”.

e “Secondo questa ipotesi, se qualcosa…
                   Se qualcosa sta mutando nell’occupazione giovanile quindi è in meglio.
                   I problemi vengono, semmai,        dalle questioni demogra che, dalle migrazioni
                   giovanili dall’italia, e dal disallineamento tra mondo della formazione e mondo del
                   lavoro.
                   In questa direzione Tiraboschi-Brunetta prendono sul serio quelli che parlano di
                   Great Mismatch piuttosto che di Great Resignation, un tema pi               ampio e
                   complesso nel quale il caso della crescita delle dimissioni si inserirebbe, anche
                   solo come fenomeno una tantum.

                   Lo studio della Fondazione consulenti del lavoro tenta un altro identikit. Secondo
                   lo studio, infatti, i lavoratori dimessi sono soprattutto giovani, a bassa
                   scolarizzazione e residenti al Nord quelli che hanno scelto di interrompere il
                   rapporto di lavoro.
                   Secondo quanto emerge dall’elaborazione dei microdati sulle Comunicazioni
                   Obbligatorie elaborati dalla Fondazione nei primi tre trimestri del 2021, fra i
                   lavoratori interessati da almeno una cessazione volontaria del rapporto di lavoro
                   almeno il 43,2% dei casi riguarda giovani con meno di 35 anni e nel 13,1% di
                   giovanissimi, con meno di 24 anni.           Tale dato è riconducibile alla maggiore
                   attrattività e propensione alla mobilità che i giovani lavoratori hanno sul mercato
                   rispetto ai più adulti.
                   sistemare spazio

                   Una mappa

                   Ma non si tratta solo di giovani. Colpisce rinvenire - nella ricostruzione fatta dalla
                   Fondazione Consulenti del lavoro - anche quota importante di dimissionari nelle

                                                                                          IRES TOSCANA • 20
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fasce più adulte, nelle quali la condizione occupazionale tende ad essere più
stabile: il 18,1% ha tra i 45 e 54 anni mentre il 16,4% più di 55 anni. Gli uomini
sono la maggioranza (58,7% contro il 41,3% delle donne), un dato che rispecchia
la proporzione tra i due generi nel mercato del lavoro.
Colpisce l’incidenza tra i lavoratori con titoli di istruzione bassa: ben il 54,4% dei
lavoratori che hanno presentato le dimissioni nei primi nove mesi del 2021 ha un
titolo di studio inferiore al diploma superiore; solo il 14,5% ha una laurea mentre il
31,1% un diploma di istruzione superiore.

A livello geogra co, il fenomeno delle dimissioni volontarie ri ette la distribuzione
dei lavoratori, con il 56,4% delle dimissioni avvenute al Nord, il 23,7% al Sud e il
19,9% al Centro.

Il 54,4% dei lavoratori che hanno presentato le dimissioni nei primi nove mesi del
2021 ha un titolo di studio inferiore al diploma superiore; solo il 14,5% ha una
laurea mentre il 31,1% un diploma di istruzione superiore.

La lettura dei dati offre uno spaccato molto articolato da cui è dif cile far emergere
una chiara chiave di lettura, tante sono le variabili che vi concorrono.
Di certo, vi è una crescita della mobilità interna del mercato favorita dal traino di
alcuni settori, edilizia in primis e dalla ristrutturazione di altri (la manifattura), che
favorisce i processi di ricollocazione professionale di molti lavoratori. Un’analisi più
di dettaglio evidenzia:
• le professioni ai vertici della piramide professionale, tecniche e ad elevata
       specializzazione: tra 2019 e 2021, il numero dei “dimessi” è cresciuto
       rispettivamente del 22,4% tra le prime e del 19,4% tra le seconde. La
       maggioranza lo ha fatto per cambiare lavoro: a ne del terzo trimestre aveva
       un’altra occupazione il 65,8% dei tecnici e il 64,6% delle professioni ad elevata
       specializzazione. Complessivamente questi hanno contribuito al 17,9% delle
       dimissioni avvenute nei primi nove mesi dell’anno;
       I laureati, tra cui si è registrato l’incremento più elevato di dimissioni (17,7%
       contro il 12,9% di chi ha un diploma di istruzione secondaria superiore e il
       13,3% un titolo inferiore); anche in questo caso la scelta è attribuibile alla
       transizione verso un’altra occupazione (69,2%);
• il settore delle costruzioni, dove è avvenuto il 9,7% delle dimissioni, che ha
       registrato, tra 2019 e 2021, una crescita del 47,1% del fenomeno. L’ottima fase
       di ripresa che vive il comparto si accompagna infatti non solo all’aumento delle
       dimensioni delle imprese, ma anche alla dif coltà di recupero di manodopera,

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innescando meccanismi di concorrenza di cui si stanno avvantaggiando i
                     lavoratori;
                • le attività professionali, scienti che e tecniche e il comparto sanità e assistenza
                     sociale, dove si registra un incremento signi cativo del fenomeno
                     (rispettivamente del 20,2% e del 33%), accompagnato da un elevato tasso di
                     ricollocazione dei lavoratori;
                • • le professioni operaie ed artigiane, specializzate e non (operai e conduttori
                     impianti), dove non solo si concentra una quota signi cativa di lavoratori che
                     hanno lasciato l’occupazione(complessivamente il 25,2% del totale), ma si
                     registra un incremento di molto superiore alla media, rispettivamente del
                     21,5% tra gli operai specializzati e 17,5% tra i non specializzati.
                     Anche in questo caso, l’elevata quota di dimessi che risulta occupata a ne del
                     terzo trimestre (57,6% e 62,9%) può essere ricondotta alla spinta del comparto
                     costruzioni ma anche alla positiva fase di ripresa del manifatturiero.
                     Lo studio riconosce che l’accresciuta mobilità è determinata per alcuni “più che
                     al cambiamento di condizione lavorativa, ad un allontanamento volontario dal
                     lavoro per disaffezione, ri uto delle condizioni o progetti di vita incompatibili
                     con l’occupazione lasciata”.
                     Dif cile individuare quali siano i fattori che concorrono maggiormente a tale
                     decisione, ma la lettura dei dati indica tra le categorie più interessate:
   puoi mettere         • le professioni non quali cate dove le dimissioni avvengono in molti casi
  in linea con il
primo paragrafo?
                            in assenza di un altro lavoro: solo il 49,2% risulta avere un’altra
                            occupazione dopo tre mesi;
                        • il settore del commercio e ricettivo–ristorativo, dove lavorava
                            rispettivamente il 13,4% e il 12,6% dei lavoratori dimessisi nei primi nove
                            mesi del 2021. In tali comparti, non solo il fenomeno risulta stabile (è il
                            caso del commercio) o in riduzione (nelle attività di albergo e
                            ristorazione il numero dei lavoratori dimessisi si è ridotto), ma chi lascia
                            volontariamente l’occupazione, risulta più raramente ricollocato dopo
                            qualche mese.

                La    crisi, e il conseguente deterioramento delle condizioni di lavoro, ha spinto
                presumibilmente molti a dimettersi, pur in assenza di alternative. Al tempo stesso
                va ricordato che si tratta di settori ad elevato ricambio occupazionale, spesso di
                “transizione” per molti giovani alle prime esperienze lavorative.
                • i lavoratori over 55, dove il numero dei dimessi è cresciuto del 21,5% tra 2019 e
                     2021, contribuendo al 16,4% del totale. In questa fascia d’età (che rappresenta

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il 16,4% del totale delle dimissioni), “solo” il 33,7% dopo tre mesi aveva
             un’occupazione;
          • le donne, categoria in cui le dimissioni si accompagnano, molto più
             frequentemente che tra gli uomini, ad un allontanamento dalla vita attiva: tra i
             dimessi nei primi due trimestri del 2021,risulta titolare di un contratto attivo a
              ne terzo trimestre il 49,1% delle donne contro il 59,4% degli uomini.
             Dal punto di vista di genere le cose vanno raccontate in due tempi.
             Da una parte abbiamo visto che la maggior parte di quelli che hanno
             presentato dimissioni sono uomini, dall’altra è bene dire che le cose cambiano
             se guardiamo alle dimissioni di persone con gli no a 3 anni. In questo caso
             nel 2020 le dimissioni hanno interessato per il 77,2% le donne. Un dato                in
             crescita rispetto al 2019 quando la percentuale era del 73%.
                    sistermare spazio

          La precarietà.

          Se la ricerca Adapt sorvola sulle condizione di lavoro a monte del fenomeno delle
          dimissioni, l’ipotesi della ricostruzione fatta dalla Fondazione consulenti del lavoro
          è che il fenomeno delle dimissioni volontarie riguardi principalmente i lavori a
          bassa quali cazione. Nello studio si legge che la maggioranza dei dimessi (52,9%)
          abbandona infatti un lavoro temporaneo, per lo pi con un contratto a termine
          (37,4%) mentre meno della met (47,1%) delle dimissioni interessa lavoratori con
          un’occupazione a tempo indeterminato. Con riferimento al carattere
          dell’occupazione, se nel 58,7% dei casi il lavoro lasciato    a tempo pieno, colpisce
          l’elevata quota di part-time, pari al 37,9% . E’ quello che si legge nella tab. 3 del
          report, che riportiamo di seguito. Come si vede coerentemente con un pro lo
          giovane, interessato in misura rilevante da contratti a termine e collaborazioni,
          anche l’anzianità lavorativa risulta abbastanza bassa. Chi si dimette, lascia nel
          38,8% dei casi un lavoro che svolgeva da meno di un anno, mentre la
          maggioranza (39,3%) vantava un’anzianità lavorativa, compresa tra 1 e 5 anni, al
          momento delle dimissioni. Solo il 12,8% lavorava da più di 10 anni.

          A livello settoriale, il grosso delle dimissioni si concentra nei servizi (69,4%), in una
          proporzione coerente alla distribuzione degli occupati, e in particolare nel
          commercio (13,4%) e nelle attività di alloggio e ristorazione (12,6%): da sempre
          questi settori assorbono un numero elevato di dimissioni, riconducibili non solo
          alle condizioni lavorative (spesso si tratta di lavori temporanei, part-time e bassa
          retribuzione), ma anche alle aspettative dell’offerta di lavoro, in molti casi
          giovanile, che guarda all’occupazione in tali ambiti in chiave temporanea e di

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