LE ALPI TRA REPUBBLICA E IMPERO (TRENTACINQUE ANNI DOPO ITALIAN MANPOWER)

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LE ALPI TRA REPUBBLICA E IMPERO
            (TRENTACINQUE ANNI DOPO ITALIAN MANPOWER)

                                         Elvira Migliario

       Le brevi osservazioni che oggi sottopongo all’attenzione dei colleghi presenti
– e del caro Amico a cui tutti qui vogliamo manifestare il nostro affetto e la nostra
gratitudine – mi sono state suggerite da un recente incontro a cui ho avuto
l’opportunità di partecipare, vale a dire il Colloquium in ricordo di Peter Brunt
tenutosi a Londra nello scorso settembre1, a meno di un anno dalla scomparsa del
notissimo studioso2 che ha legato il suo nome alla Camden Professorship oxoniense
(tenuta dal 1970 al 1982, a compimento di una carriera accademica svoltasi quasi
interamente a Oxford), e che ha esercitato una notevole influenza su più di una
generazione di antichisti anglosassoni. Della sua vasta e importante produzione
scientifica ho preso in considerazione una sezione di Italian Manpower, l’opera
giustamente più famosa (pubblicata nel 1971 e ristampata nel 1987 con poche
correzioni e brevi aggiunte), e precisamente, nel lungo capitolo dedicato alla Gallia
Cisalpina3, la sezione riservata alle aree alpine.
       Il lavoro di Peter Brunt, che notoriamente costituisce l’indagine più
approfondita, dettagliata ed esaustiva tuttora disponibile sulle dinamiche del
popolamento nelle regioni italiane fra media e tarda repubblica, si pone nella scia
della celebre opera di Julius Beloch sulla demografia del mondo grecoromano4, di
cui ridiscute le stime conclusive proponendo una lettura “ribassista” delle cifre
desumibili dalle fonti5. Seguendo dunque una linea interpretativa tendente in
generale a ridimensionare i dati disponibili (la cui parzialità e scarsità complessiva6,

1
   Colloquium in memory of P. A. Brunt, Stevenson Lecture Theatre, British Museum, London,
15.09.2006 (a cura di Michael H. Crawford).
2
  Peter A. Brunt (1917-2005): allievo di Hugh Last, dopo alcuni anni di insegnamento a Saint Andrews
ritornò all’Oriel College di Oxford, a cui legò la sua intera esistenza e la sua carriera (dopo la breve
parentesi dei due anni trascorsi a Cambridge, 1968-1970), culminata con la Camden Professorship, che
rivestì dal 1970 all’anno del suo pensionamento (1982). Fra i suoi lavori maggiori, accanto a Italian
Manpower (1971) si annoverano: la coedizione delle Res Gestae Divi Augusti (1967, con J. M. Moore);
Social Conflicts in the Roman Republic (1971); Roman Imperial Themes (1990).
3
  Italian Manpower (225 B.C. – A.D. 14), Oxford: Clarendon Press, 19872 (19711: d’ora in avanti,
BRUNT 19711), cap. XIII, pp. 166-203.
4
  BELOCH 1886, a cui fecero seguito gli studi raccolti in tre volumi, a cura rispettivamente di G. De
Sanctis (BELOCH 1937-1939) e di L. Pareti e W. Hagemann (BELOCH 1961).
5
  In contrasto con la lettura “rialzista” proposta da FRANK 1924.
6
  Riducendosi essenzialmente a: POLYB. 2,24; LIV. per. 89; PHLEG. FGrHist 257 F 12; RGDA 8; si veda
LO CASCIO 2001.
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veramente disperanti, rendono di fatto ardua qualsiasi valutazione univoca), Peter
Brunt considerava la situazione del popolamento della Cisalpina del tutto coerente
con il quadro generale del panorama demografico italiano, caratterizzato a suo
avviso da una costante tendenza alla depressione.
       Infatti, secondo quella che è la tesi di fondo di Italian Manpower, la
popolazione dell’intera penisola italiana non avrebbe conosciuto alcun incremento
sensibile né duraturo per tutto l’arco di tempo di circa duecentoquarant’anni
intercorso fra la guerra gallica del 225 a.C. (su cui disponiamo della celebre lista
degli effettivi fornita da Polibio 2,24), e l’ultimo censimento indetto da Augusto (14
d.C.), quando si sarebbe attestata fra i sei e i sette milioni di individui, di cui cinque
milioni circa in possesso della cittadinanza romana.
       Per più di due secoli, dunque, il panorama italiano sarebbe stato caratterizzato
da una sostanziale stasi demografica a cui non si sarebbero sottratte nemmeno le
regioni transpadane: infatti, la complessiva scarsa estensione dei suoli produttivi
settentrionali, percentualmente assai limitati rispetto alle aree montuose, non solo
non avrebbe consentito alcun significativo incremento della popolazione indigena,
ma neppure avrebbe potuto attrarre grandi masse di immigrati dalle regioni
centromeridionali della penisola. Ovviamente, ancora più pessimistica è la visione
che Brunt aveva delle zone alpine, impervie e sterili, desertiche o al più scarsamente
popolate da piccole comunità costrette all’isolamento, i cui membri perciò “non
avevano interesse alla promozione politica (had no interest in political
advancement)”7.
       Dopo più di un ventennio di sostanziale accettazione delle conclusioni
raggiunte da Brunt, il dibattito sulla dinamica del popolamento in età
tardorepubblicana e altoimperiale è ripreso vivacemente, a partire dagli anni ’90 del
secolo scorso8, soprattutto a seguito di alcuni importanti studi “revisionisti” di Elio
Lo Cascio9. Non è mia intenzione intervenire nella discussione di problemi assai
complessi, che non conosco approfonditamente, perciò mi limiterò a ricordare
brevemente che Lo Cascio, riprendendo e valorizzando le stime già di Tenney
Frank10, ipotizza che nel 28 a.C. (anno del primo censimento augusteo) in tutto
l’impero si contassero all’incirca 13.500.000 cives Romani, 12.250.000 dei quali
nella sola Italia11. Si tratta di un’ipotesi che ha trovato consensi significativi12 come
pure forti perplessità e contestazioni, in quanto viene considerata da alcuni troppo
“rialzista”13, ma che ha a mio parere almeno due meriti importanti: quello di avere
reinterpretato i pochi e dibattutissimi dati numerici forniti dalle fonti storiografico-
letterarie alla luce sia dei modelli proposti dagli specialisti di demografia antica e

7
  BRUNT 19711, p. 170.
8
   Una prima proposta “rialzista”, fondata sostanzialmente sull’alto numero dei militari transpadani
attestati epigraficamente entro la prima metà del I secolo (un dato coerente con l’euandria attribuita
dalle fonti alla Cisalpina), si deve a FORABOSCHI 1992, pp. 25-28.
9
  LO CASCIO 1994a; LO CASCIO 1994b; LO CASCIO 1999; LO CASCIO 2001.
10
   Vedi sopra, alla nt. 5.
11
   LO CASCIO 1994a, p. 111.
12
   BANDELLI 1999.
13
   Così ultimamente SCHEIDEL 2004 e 2005; la tesi di Lo Cascio è invece sostanzialmente accolta da
MORLEY 2001.
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moderna14, sia delle evidenze archeologiche ed epigrafiche (le sole che, come già
ammetteva lo stesso Brunt15, avrebbero potuto mutare il quadro del popolamento da
lui delineato); e, soprattutto, di avere sottolineato l’impossibilità di qualunque stima
generalizzabile all’intera penisola che non tenga conto né delle specificità delle varie
aree regionali italiane, né di conseguenza delle molte variabili – geoambientali, ma
anche politico-economiche - in grado di influire a livello locale sul popolamento16.
       È appunto la difficoltà di applicare modelli teorici generali (tendenti per
definizione a smussare la poliedricità della realtà e a uniformarne le variabili) che a
mio avviso impone di correggere buona parte del quadro del popolamento potenziale
ed effettivo (la carrying capacity) della Cisalpina delineato da P. Brunt; ma una
revisione complessiva è resa inevitabile soprattutto dalla quantità delle nuove
evidenze disponibili e dal conseguente incremento degli studi su pressoché tutta la
regione transpadana, ivi comprese le zone alpine17.
       Esemplare in tal senso è sicuramente il recente volume dedicato alla storia del
Trentino in età romana, di cui Ezio Buchi è curatore, oltre che autore del denso
articolo centrale (a mio parere, uno dei suoi lavori più importanti)18. Da questo
contributo, come pure da altri raccolti nel volume, emerge che la fondazione della
città di Tridentum, risalente probabilmente a età cesariana, come pure la sua
monumentalizzazione, avvenuta solo nei decenni successivi secondo uno schema
riconoscibile anche in altre fondazioni di età augustea di area alpina19, si inseriscono
pienamente in quel più vasto processo di urbanizzazione delle comunità norditaliane
di cui sono state autorevolmente dimostrate l’origine essenzialmente politica e le
finalità precipuamente amministrative20.
       La relativa scarsità dei resti intramurani sicuramente riconducibili a edilizia
residenziale, a fronte di quelli relativamente più numerosi di edifici pubblici o
destinati ad attività produttive21, induce a delineare per Tridentum l’immagine di una
“città” creata ex nihilo per dotare il territorio circostante di un centro politico e
amministrativo, ma che, sorgendo in un punto focale della maggiore viabilità di
collegamento fra la Val d’Adige e i valichi alpini22, divenne da subito sia un centro
di commercio23 destinato a servire tanto il suo comprensorio quanto le più
importanti rotte mercantili transalpine, sia la base logistica della campagna retico-
germanica del 15 a.C.
       Quanto agli abitanti della città, si può ritenere che solo pochi membri della
comunità municipale tridentina risiedessero stabilmente nel capoluogo24, e che la
14
   Fra cui T. G. Parkin, E. Boserup, A. J. Coale e P. Demeny: LO CASCIO 1994a, pp. 101-102; 110-111;
104-105.
15
   BRUNT 19711, p. 178: «I am also told that there have been many more finds since Nissen wrote. An
archaeological judgement on his opinion is required».
16
   LO CASCIO 1994a, pp. 112-114.
17
   Per una panoramica generale e aggiornatissima dello stato dell’arte, rimando a BARONI 2005.
18
   BUCHI 2000.
19
   CIURLETTI 2000 (vi si confronta l’impianto urbano tridentino con quelli di Augusta Praetoria e
Augusta Taurinorum); da ultimo, BASSI 2005.
20
   GABBA 1994a; GABBA 1994b.
21
   CIURLETTI 2000, pp. 311-316.
22
   PESAVENTO MATTIOLI 2000.
23
   BUONOPANE 2000, pp. 167-168.
24
   GABBA 1994c, pp. 52-53.
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maggioranza si concentrasse negli insediamenti minori, anche minimi, distribuiti nei
fondovalle e fino ai 750 metri di altitudine, in aree che complessivamente
corrispondono comunque a una percentuale ridotta di un territorio il cui 40% è
situato oltre i 1500 metri25. La tesi di fondo di Peter Brunt sembrerebbe dunque
trovare conferma nelle condizioni geoambientali proprie dell’agro municipale di
Tridentum, tali da presupporre una bassa densità abitativa originaria, e da
scoraggiare fenomeni di immigrazione.
       Non a caso, infatti, vi mancano tracce di centuriazione tardorepubblicana,
presenti invece in aree limitrofe come quella dell’Alto Garda26 (oggi compresa nella
Provincia di Trento ma nell’antichità appartenente a Brixia), e ciò porta a escludere
che la romanizzazione del territorio tridentino vi avesse attirato flussi migratori,
regolamentati o spontanei, quali quelli che già dal II secolo a. C. avevano invece
interessato altre aree della Cisalpina27, determinandovi alla lunga la necessità di
ridefinire e riaccatastare i suoli agricoli quando, dopo il 49 a.C., tutte le comunità
civiche transpadane erano divenute municipia28.
       Tuttavia, a correggere almeno in parte il quadro delineato in Italian
Manpower, può essere fatta valere l’istituzione stessa del municipium di Tridentum,
determinata verosimilmente dall’esigenza di inquadrare una popolazione comunque
relativamente troppo numerosa, e insediata in un territorio troppo esteso, per essere
distribuita fra i municipia viciniori di Brixia, Verona e Feltria.
       La costituzione di un municipium implicava la presenza di una classe di
possidenti locali provvisti del censo minimo per diventare decurioni, i quali
evidentemente in zona non mancavano, anche se ciò poteva implicare il
reclutamento di individui il cui status giuridico era quantomeno ambiguo: se ne
coglie l’eco nella Tabula Clesiana, in cui la gravis iniuria che minacciava lo
splendidum municipium tridentino, qualora ne fossero stati estromessi gli Anauni,
oramai completamente integrati (genus…permixtum) nel corpo civico29, allude molto
probabilmente al rischio gravante innanzitutto sulla classe dirigente municipale, che
si sarebbe trovata in gravi difficoltà se decurtata dei suoi membri di etnia anaunense,
adtributi e non30. Questi valligiani insomma, contrariamente a quanto pensava Peter
Brunt, potevano godere di condizioni socioeconomiche rilevanti che li legittimavano
ad aspirare alla promozione politica e sociale, cosa che infatti facevano, e non
soltanto a livello locale31.
       Mi accingo a concludere ricordando brevemente quanto in Italian Manpower
viene detto a proposito della distribuzione geografica delle epigrafi rinvenute in area
alpina, limitata pressoché esclusivamente ai fondovalle e ai versanti collinari32, la

25
   CAVADA 2000, p. 363.
26
   CAVADA 2000, pp. 370-371.
27
   GABBA 1994d.
28
   GABBA 1994a, pp. 77-78.
29
   ILS, 206 = FIRA² 71, ll. 25; 27-29.
30
   Contra, BRUNT 19711, p. 171, secondo cui i rapporti degli Anauni con i Tridentini si erano limitati a
questioni di “intermarriage and inheritance”. GABBA 1994c, p. 54, sottolinea invece la necessità di un
ripensamento dell’adtributio alla luce della storia socioeconomica delle comunità interessate.
31
   Anche a Roma: ILS, 206 = FIRA² 71, ll. 32-33.
32
   BRUNT 19711, p. 178.
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quale attesterebbe un sostanziale disinteresse per le zone d’altura, inadatte sia
all’insediamento sia allo sfruttamento economico.
       Ora, le iscrizioni confinarie - ristudiate in anni recenti proprio da E. Buchi e
A. Buonopane33 - del monte Pérgol in Val di Fiemme34, e dei monti Civetta e Coldài
nel Bellunese35, attestano invece una minuziosa suddivisione delle aree montuose
attraversate dai confini dei rispettivi municipi (Tridentum e Feltria; Bellunum e
Iulium Carnicum), per la cui economia anche i boschi e i pascoli più elevati e
periferici rivestivano evidentemente un’importanza non trascurabile. Ne risulta che
qualunque valutazione complessiva della carrying capacity dei territori dei municipi
di montagna non può prescindere dalle zone di alta quota: benché infatti le comunità
alpine fossero stanziate in aree geografiche caratterizzate da forme di economia che
vengono a ragione considerate sottosviluppate già rispetto al sistema imperiale
romano coevo36, l’ecosistema nel suo complesso presentava comunque potenzialità
economiche, e consentiva tipologie di antropizzazione, di cui è indispensabile tenere
conto per la ricostruzione delle dinamiche locali del popolamento.

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33
   Elenco dei rispettivi studi in MIGLIARIO 2002, a cui qui rimando.
34
   BUONOPANE 1990, pp. 143-144, n. 1.
35
   LAZZARO 1998, pp. 317-319, nn. 1a, b, c.
36
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416                            ELVIRA MIGLIARIO

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