La vita non essenziale - BIN Italia

Pagina creata da Chiara Donati
 
CONTINUA A LEGGERE
La vita non essenziale
BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

La vita non essenziale
“Le attività non essenziali”: passerà alla storia questa dizione legata alla pandemia Covid 19 a definire
tutto ciò che non attiene alla sfera delle attività ufficialmente immesse nel processo di produzione
capitalistico e non formalmente retribuite. Per essere più chiari essa prova a definire quegli atti che non
sono “condizioni oggettive del lavoro” della “forza-lavoro viva”, quindi, marxianamente, non fanno parte
“dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione”[1]. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto
ciò che non può dirsi “occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi
esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione”[2].

Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il
relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro
mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro
produttivo certificato come tale. L’affermazione del governatore Toti di tenere a casa i non indispensabili
non fa che ribadire ulteriormente il principio ispiratore degli apparati decisionali di fronte all’emergenza
sanitaria. Un piano tutto ordinato intorno al ruolo essenziale del profitto che va accettato in una sorta di
sottomissione collettiva ritualizzata. A fare resistenza rispetto alla narrazione dominante, governata
attraverso lo strumento velenoso della paura mediatica, sono state soprattutto le donne

Affermo una volta per tutte, per l’ennesima volta, che il problema dell’emergenza sanitaria è grave e
reale, soprattutto perché il sistema si è dimostrato incapace di reggerne l’urto. Le disposizione
governative che abbiamo visto succedersi fino ad ora hanno messo in luce un modello atto soprattutto a
preservare le attività esplicitamente economiche (pubblico-produttive) e a limitare tutte quelle correlate
alle relazioni umane (privato-improduttive). È evidente che si tratta di una dicotomia solo funzionale alla
costruzione soffocante del discorso del potere, poiché non c’è un momento della vita dal quale non si
riescano ad estrarre forze a favore del capitale, con diversificazione e ramificazione delle sfere
produttive.

Il tempo non ibernato dal lavoro implicato nel processo produttivo salariato e perciò riconosciuto, in base
alle disposizioni connesse all’epidemia viene spazzato via. Si limita il più possibile il tempo dell’umanità
per allargare a dismisura quello della attenzione e dell’affetto che convogliamo nelle info-macchine. Il
tempo che prima ci restava, quel residuo che noi chiamavamo “tempo libero”, viene traslato all’interno di
contesti produttivi con un aumento della massa della produzione. Marx dice: “la produzione per la
produzione”, intendendo “la produzione come fine in sé” che consente la “sottomissione formale del
lavoro al capitale” il cui scopo immediato è la “produzione generale” e l’ottenimento della “grandezza
maggiore possibile del plusvalore”. Attenzione: questa “produzione per la produzione” è una produzione
non vincolata da limitazione dei bisogni. Il carattere antagonista dei bisogni dell’umano crea limiti alla
produzione che vengono qui superati di slancio. L’ingresso della riproduzione nella produzione ha in
questa assenza di limiti (un salario fissato per un tempo fissato) il suo carattere peculiare e spettacolare e

                                                                                                         1/6
La vita non essenziale
BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

il suo carattere distintivo rispetto ai “modi di produzione precedenti”. Abbiamo così “produzione in
contrapposizione ai produttori e senza riguardo per essi; il vero produttore come semplice mezzo per
produrre; la ricchezza materiale come fine in sé; infine, e di conseguenza, lo sviluppo della ricchezza in
antitesi e a spese dell’essere umano”. Il fine di questo percorso “è che ogni prodotto contenga il più
possibile lavoro non pagato, cosa che si può ottenere solo con la produzione per la produzione”[3].

Si tratta di un tempo residuo poiché tale tipo di processo e allenamento era già in corso e il leisure time è
stato già in gran parte sottratto, rubato. Ma chiediamoci meglio: che cosa abbiamo già fatto durante il
lockdown o durante i “coprifuochi”? Che cosa faremo durante le prossime “chiusure mirate” per distrarci
un poco da quegli impieghi essenziali per il mercato che resteranno aperti e dove rischieremo, ancora e
ancora, di ammalarci prima di tornare a richiuderci in casa? Quali azioni compiremo, dopo essere stati al
lavoro domiciliare, connessi a un computer, a un telefono, in svariati webinar fino (e oltre) le ore 18,
mentre calano le saracinesche sulla realtà che sta oltre le nostre finestre? Staremo di nuovo al computer o
useremo uno smartphone, staremo su facebook, oppure su altri social, scaricheremo un nuovo gioco,
acquisteremo un vestito, presi da bisogno compulsivo dopo l’ennesima volta che lo vediamo. Seguiremo
una nuova, ennesima, serie in televisione, decideremo di fare un nuovo abbonamento a qualche servizio
digitale o di iscriverci a un corso online. Dunque, in sostanza lavoreremo ancora e ancora, del tutto
gratuitamente, contribuendo con ciò a nuove forme di espansione del capitale.

Che cosa è infatti il lavoro contemporaneo? Da qui è necessario partire per capire le trasposizioni e la
esplicitazione di campi già aperti (il lavoro domestico e di cura come antesignano di tutte le praterie del
lavoro gratuito per l’accumulazione), ma oggi sempre più larghi e sempre più trasparenti. La persona è
infatti una sostanza relazionale, “ossia la sua natura è intenzionalmente e originariamente relazionale. La
cifra della persona è, quindi, una relazione che è sostanza e una sostanza che è relazione”[4]. Cosicché
mentre il mondo si allontana dai nostri corpi e dalle nostre parole, per il nostro bene, noi abbiamo
comunque bisogno del mondo. Vogliamo stare nel mondo e utilizzeremo mezzi virtuali per restare in
contatto, per avere rapporti, per cercare di ricostruire una parvenza della nostra vita non essenziale.
Questa è l’era dell’economia dell’interiorità[5].

Si esercita un dichiarato controllo su tutti i mille recessi sociali della quotidianità nel tempo libero, i quali
vengono dichiarati inessenziali, pericolosamente inutili, amputabili, rimandabili. Foucault ha reso
definitivamente palese questa forma di governamentalità fondata sul controllo diretto o indiretto
dell’esistenza e sulla indiscrezione: le istituzioni si occupano di ciò che non le riguarda per forgiare le
abitudini e disciplinare ciò che accade fuori dall’orario di lavoro.

Oggi che ci confrontiamo con una epidemia che attacca esplicitamente l’Occidente con proporzioni
estremamente rilevanti, dietro decisioni che interpellano direttamente la vita privata, la responsabilità
individuale e le forme di vita almeno in apparenza non investite dalla produzione, si intravvede
apertamente una strategia di “medicalizzazione del sociale e dell’individuale”[6].

Si realizza un processo di deresponsabilizzazione dello stato, data una decomposizione progressiva degli
istituti di welfare e di assicurazione del lavoro salariato, nella precarizzazione generalizzata, cui
corrisponde una progressiva “responsabilizzazione etica degli individui nella gestione del loro patrimonio
biologico e della loro salute”[7].

Per fare qualche esempio, non abbiamo visto un impegno delle istituzioni sul piano del diritto alla salute e

                                                                                                            2/6
La vita non essenziale
BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

della tutela della salute attraverso investimenti seri e programmazioni oculate (ripristino di presidi medici
territoriali; acquisto di macchinari adeguati; adeguamento delle strutture scolastiche; politiche di
occupazione in settori strategici come la sanità e l’istruzione per fare fronte all’emergenza;
potenziamento dei trasporti pubblici), ma abbiamo visto come il problema della salute pubblica sia stato
addossato interamente ai cittadini e alla loro “condotte”.

Mai come in questo periodo ci siamo accorti di come gli stati non offrano più da tempo tutele e sicurezza,
ma si limitino a generare, “con una quantità di arcaismi pronti a strisciare fuori dalla cripta”
(nazionalismi, populismi, religioni), “forme preconfezionate di affiliazione esistenziale”[8].

La precarietà ha avuto un preciso ruolo di selezione e di controllo della forza lavoro sulla base di criteri di
accesso diseguali e si è rivelata, come notava perfettamente David Graeber[9], soprattutto efficace per
depoliticizzare la forza lavoro e sovradeterminarne il futuro. Mi riferisco sopra ogni cosa alla tendenza
all’individualizzazione e, appunto, alla responsabilizzazione dell’individuo.

Abbiamo assistito, in modo possibilmente ancor più evidente del passato prossimo, alla traslazione della
riproduzione e degli aspetti relativi alla cura in un preciso contesto economico: il welfare è,
oggettivamente, un modo della produzione che valuta costi, valorizzazioni, prodotti lordi e netti. Questo
non significa essersi liberate di antiche schiavitù, anzi. L’emergenza ha fatto affiorare quanto, nel
modello del welfare famigliare italiano, continui a esistere e a pesare l’obbligo, etico e sociale, per le
singole donne, individualmente, a doversi prendere cura. La cura delle donne integra in modo
determinante ciò che i servizi non offrono nel badare ai bambini, ai partner, ai parenti anziani.

La pandemia Covid-19 ha messo in luce la persistenza della divisione dei compiti di cura in base al
genere. Uomini e donne hanno affrontato in modo differente le conseguenze di una nuova organizzazione
della cura e dell'orario di lavoro imposti dalle misure di controllo sociale. La divisione dell'assistenza
basata sul genere era sbilanciata già prima di questa esperienza. Essa finisce, oggi come ieri, per fare
ricadere i carichi di cura su ogni singola donna, sganciata dal contesto collettivo[10]. Siamo davvero
lontani dalla capacità di riconoscerci, reciprocamente, bisognosi di cura e dall’essere in grado di curarci
gli uni degli altri all’interno di un ecosistema desideroso di risignificare il rapporto con il vivente,
disegnando una società differente[11]. La società della cura e la politica del desiderio alle quali io stessa
ho fatto riferimento, in più occasioni in questi anni, si ritrovano, al momento, ridotte al tradizionale
sfruttamento di un unico corpo-mente, quello della donna, e alle classiche tensioni tra amore-imposizione,
abnegazione-sottomissione connesse. La donna è il soggetto, a un tempo immaginario e concreto, che
unisce in un unico corpo il piano produttivo e riproduttivo sui quali il capitale istruisce il proprio governo.

Questi elementi erano già presenti nella nostra esperienza reale, dunque non si tratta di nuovi ordini,
sconosciuti al capitalismo biocognitivo e all’economia dell’interiorità che si nutre in modo più preciso
della sostanza dell’esistenza e delle differenze soggettive. Sono stati potenziati e liberati dalle
sperimentazioni di questi mesi terribili, mente ci attende un lunghissimo inverno.

Concretamente, tra scuole a part time o chiuse, quarantene da organizzare, ambulatori svaniti, medici di
base sopraffatti e introvabili, spazi di aggregazione proibiti è veramente tornato a essere di spaventosa
attualità il tema della responsabilità dei carichi di cura connessi alla possibilità di rimanere in vita. La
sicurezza collettiva, che ha funzionato come scenario nel fordismo, è al collasso, facciamo appello alla
responsabilità individuale. Dunque viene ancora una volta responsabilizzato la singola, impresa

                                                                                                          3/6
La vita non essenziale
BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

unipersonale a tutti gli effetti, già da sempre obbligata alla ricerca del miglior livello di rendimento, del
miglior rapporto qualità-prezzo che punta a ridurre al massimo gli oneri sociali.

Questo elemento diventa il perno della cura, in questa fase particolare: mentre si perde per strada ogni
idea di diritto universale alla salute, tutto è lasciato all’iniziativa individuale. Del resto, tua la colpa, tuo
l’impegno, tua la cura.

Come ha scritto Judith Butler con potenza, facendo riferimento a una situazione che è norma negli Stati
Uniti, indipendentemente del virus: “Chi ha un reddito insufficiente, o un lavoro precario, non merita di
essere coperto dall’assistenza sanitaria […] e nessuno di noi è responsabile per queste persone. Ciò
implica, chiaramente che quanti non sono in grado di trovarsi un’occupazione capace di garantire
un’assicurazione sanitaria, appartengono a una popolazione che merita di morire e che della propria
morte è il principiare responsabile”[12].

Questo quadro è sufficientemente preoccupante da far capire come una battaglia per il reddito
incondizionato di autodeterminazione e per servizi di Welfare adeguati sia snodo centrale. Mai come
oggi, letteralmente, vitale. La responsabilizzazione individuale e il furto del tempo generano il collasso
delle forme di solidarietà. Il cuore collettivo va riavviato. Questo deve essere ben chiaro a quella parte
dove il cuore sta, cioè a “sinistra”. Altrimenti avremo la vittoria del realismo capitalista: “rassegnazione,
disfattismo, depressione”[13]. Per contrastare l’affondo del capitale ci vogliono alleanze e unità di
intenti, corpi che stanno insieme per opporsi alla decimazione dei servizi pubblici, “forme di azione che
chiedono le condizioni per agire e per vivere”[14].

È certo necessario politicizzare il tema della cura, delle relazioni, degli affetti, delle reti di prossimità,
della città, degli spazi urbani, la richiesta di un ambiente a misura di esseri umani, che sottolinei la
responsabilità collettiva. Va rifiutato un effetto di “genderizzazione delle politiche” con uno sforzo di
immaginazione e di innovazione in termini di qualità della vita per tutte le componenti sociali coinvolte.
Tuttavia rivendicare un reddito di cura rischia di generare un equivoco e di trasmettere l’idea che la
richiesta possa essere facilmente tradotta e risolta, dai referenti istituzionali, nel riconoscimento (piccolo)
per una attività (immensa) che non viene assunta dalla società ma accollata al singolo (meglio, alla
singola). Faccia ciò che è necessario alla società e taccia per sempre la “mammina” che vuole la scuola
aperta.

Bisogna perciò parlare di autodeterminazione per contrastare le determinazioni dello stato e
dell’economia che sovrastano la soggettività, indicando con imperio compiti e ruoli, separazioni tra lavori
“socialmente utili” e attività “non essenziali”. Come può un reddito dirsi incondizionato e
contemporaneamente essere limitato a una mansione? Con questa operazione si smonta, ancora una volta,
una idea fondante che è quella dell’incondizionalità del reddito, non si osa il salto culturale necessario: il
reddito resta ancorato a un’idea di assistenza, di sostegno temporaneo al servizio del lavoro, si dà ai
poveri ed è sempre soggetto a mille prove e condizioni. Ancora una volta, ci troviamo ricondotti a
condotte.

Nel momento in cui il ruolo della mediazione salariale è, come abbiamo visto, in buona parte saltato e la
produzione per la produzione occupa il nostro tempo incurante dei nostri bisogni, la vera e unica
differenza, il potenziale liberatorio e conflittuale del reddito di base, sta soprattutto nella possibilità di
scelta, non nominando definizioni e limiti. Le esistenze sono tante e diverse e possono, evidentemente,

                                                                                                              4/6
La vita non essenziale
BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

comprendere il desiderio (o magari, per una fase, la necessità) di compiere un lavoro di cura. Ma non si
può rischiare di offrire l’occasione di collegare gli elementi a nostro svantaggio.

Abbiamo di fronte una ennesima crisi, questa volta davvero terribile e significativa dei mostruosi
concatenamenti che il capitalismo ha prodotto nel tempo per approfondire l’alienazione e
l’appropriazione del vivente. Bisogna ritrovare una memoria, ricostruire le genealogie, riapproprarsi delle
parole e del loro significato, rivendicare gli intrecci, ma anche osservare le trasformazioni e mantenersi
all’altezza delle nuove sfide proposte dalla fervida e perversa immaginazione dell’ideologia
neoliberista. Hic Rodhus, hic salta.

[1] Karl Marx, Il Capitale: Libro I. Capitolo VI inedito, La nuova Italia, Firenze 1969, pag. 50

[2] Voce “Lavoro”, Dizionario Treccani online

[3] K. Marx, op. cit., pag. 71-72

[4] Sara Brotto, Etica della cura, Orthotes Editrice, Palermo 2013, pag. 8

[5] Cristina Morini, “Economia dell’interiorità e capitale antropomorfo. Produzione sociale, lavoro
emozionale e reddito di base, in Alisa del Re, Cristina Morini, Bruna Mura, Lorenza Perini, Lo sciopero
delle donne. Lavoro, trasformazioni del capitale, lotte, Manifestolibri, Roma 2019

[6] Pierangelo Di Vittorio, “Salute pubblica” in AA.VV. Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma
2006, pag. 11

[7] Ibidem, pag. 13

[8] Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, Edizioni minimum fax, Roma 2020,
pag. 342

[9] David Graeber , “Of Flying Cars ans Declining Rate of Profit”, Baffler, n. 19, marzo 2012, citato in
M. Fisher, op. cit., pag. 328

[10] Lidia Katia C Manzo, Alessandra Minello, Mothers, childcare duties, and remote working under
COVID-19

lockdown in Italy, Sage Journal, June 2020

[11] Maria Puig de la Bellacasa, Matters of Care. Speculative Ethics in More Than Human Worlds,
University of Minesota Press, Minneapolis 2017

[12] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Edizioni Nottetempo, Milano 2017, pag. 24

                                                                                                      5/6
La vita non essenziale
                                   BIN Italia - https://www.bin-italia.org/la-vita-non-essenziale/

                                   [13] M. Fisher, op.cit., pag. 177

                                   [14] J. Butler, op.cit, pag. 30

                                   Tratto da Machina

                                                                                                     6/6

Powered by TCPDF (www.tcpdf.org)
Puoi anche leggere