La sindrome cervicale post-distorsiva cronica
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Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica Capitolo 8 La sindrome cervicale post- distorsiva cronica Marco Monticone, Stefano Negrini Il dolore cervicale post-distorsivo cronico è oggi interpretabile in un quadro di sindrome bio-psico-sociale, e questo non può che portare inevitabilmente a re-interpretare anche il nostro approccio terapeutico-riabilitativo. In questo Capitolo rivediamo brevemente la letteratura sull’argomento, con alcuni studi di grande interesse circa la possibile origine psicologica della cronicizzazione del do- lore conseguente ad un colpo di frusta. Una volta considerati quin- di con attenzione i meccanismi psicologici che concorrono con quelli fisici alla determinazione del quadro clinico del paziente, ve- dremo come procedere con un corretto approccio multidisciplinare integrato di tipo cognitivo-comportamentale ma a forte impronta fisica, che consenta di ottenere i migliori risultati in questi pazienti ad alta disabilità. La maggior parte dei pazienti con colpo di frusta va incontro ad un rapido recupero funzionale. Per alcuni di loro, però, i problemi non svaniscono, anzi tendono a persistere nel tempo divenendo cro- nici e disabilitanti. Si stima che in circa il 20-40% dei casi i sintomi tendano a persistere ben oltre i normali tempi di guarigione, con cronicizzazione nel 3-14% dei casi e disabilità nel 5-7% dei casi. Tale percentuale, apparentemente esigua, non merita di essere tra- scurata perché in grado di incidere pesantemente su costi sanitari e sociali. Una notevole varietà di fattori è in grado di influenzare gli esiti a distanza del paziente con colpo di frusta. Sebbene molti dei fattori descritti abbiano inequivocabili radici fisiche, altri non presentano dirette basi biologiche post-traumatiche. La crescente importanza del corretto ruolo ed inquadramento di questi ultimi fattori merita una trattazione a sé stante, poiché direttamente coinvolti nella pre- 137
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica sentazione clinica e nelle possibilità di recupero funzionale della sindrome cervicale post-distorsiva cronica. È lecito, dunque, chiedersi che cosa renda i pazienti cronici di- versi da tutti gli altri. Vi è relazione con la severità del danno? Sono soggetti primariamente predisposti a sviluppare dolore cronico? È un problema legato alla salute generale del paziente? O ci sono, for- se, altri fattori coinvolti? Cosa c’è oltre ai fattori biologici? Da più parti si sostiene che uno tra i principali fattori che ha contribuito all’aumento della disabilità conseguente a colpo di frusta sia riferibile al risarcimento del danno. Un recente studio canadese, condotto in Saskatchewan, ha permesso di evidenziare che l’eliminazione (o la forte riduzione) dell’indennizzo sia correlato con una migliore prognosi a lungo termine. Ancor più sorprendente risulta un altro studio, condotto in Lituania, in cui alcune centinaia di soggetti con colpo di frusta non presentavano un’incidenza di segni e sintomi, sia a breve che e lungo termine, superiore al gruppo di controllo della stessa area geografica presa a riferimento. Gli Autori concludono che in un Paese in cui non si abbiano aspettative di indennizzi né soprattutto consapevolezza della possibilità di dolore cronico dopo colpo di frusta, i sintomi presentano carattere auto-limitante, di breve durata e non evolvono nella sindrome cervicale post-distorsiva cronica. In altri termini, la consapevolezza di disabilità e di aspettative di risarcimento possono divenire determinanti nello sviluppo della cronicità. Molti altri studi hanno presentato risultati sovrapponibili, tanto da aver indotto Awerbuch sul Medical Journal of Australia a suggerire che il colpo di frusta potrebbe essere visto come un disturbo di per sé benigno, ma a potenziale cronico a causa di sanzioni sociali, legali ed assicurative. Altri Autori hanno descritto le cosiddette “sindromi somatiche funzionali”, definendo alcune condizioni (incluso il colpo di frusta cronico) caratterizzate maggiormente dai sintomi, dalla sofferenza indotta e dalla disabilità in assenza di inequivocabili anormalità anatomiche e di funzione. 138
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica A questa visione del problema tende a contrapporsene un’altra, secondo la quale è il dolore a causare la disabilità: trattando adeguatamente il dolore anche la disabilità dovrà scomparire. Se guardiamo ai disordini correlati a colpo di frusta secondo questo modello teorico, riconosceremo schemi predefiniti di malattia, applicheremo terapie specifiche per la patologia evidenziata ed, infine, ci aspetteremo che la malattia migliori. In altri termini, il dolore dovrà dipendere dal danno tissutale, il danno tissutale porterà a menomazione e la menomazione a disabilità: curando il dolore anche la disabilità migliorerà. Questo modello ha, purtroppo, un limite: non contempla la risposta umana al dolore cronico ed alla disabilità. Se guardiamo più in là della pura “dimensione dolore” ed applichiamo un modello più complesso, ma più vicino alla realtà, ci accorgeremo che sono molti di più i fattori che interagiscono tra loro. Il modello è quello biopsicosociale di Waddell e prevede i seguenti livelli di analisi: 1. Disfunzione fisica: le richieste di prestazione fisica (capacità) possono essere non adeguate alle capacità del nostro corpo (rendimento). 2. Convinzioni e Coping: il pensiero e la previsione del dolore condizionano enormemente la percezione del dolore stesso. Inoltre, il modo in cui un individuo affronta i problemi (coping) è altrettanto importante. L’adozione di strategie sbagliate è fortemente correlato alla presenza e persistenza di dolore cronico. 3. Distress: la presenza di un’aumentata percezione del dolore, di intensi e ripetuti stimoli emotivi (rabbia, stress, depressione, ansia…), e il senso di indecisione sono fortemente correlati con la persistenza di dolore cronico. 4. Illness Behaviour (comportamento da malato): è il comportamento associato a malattia ed è fortemente condizionato dai pregiudizi nei confronti dell’evolutività delle proprie sensazioni dolorose, dalle strategie mediche e psicologiche per gestirle, nonché dal disagio psicologico concomitante. Infine, l’ambiente culturale ed etnico del paziente, l’ambiente familiare e lavorativo ed il contesto sociale devono essere tenuti in alta considerazione per inquadrare il paziente (e non solo la sua colonna cervicale) all’interno della complessità dell’approccio terapeutico. 139
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica Hadler afferma che raramente l’intensità di un dolore cronico è sufficiente da sola a condurre il paziente a consultazione medica: vi è la necessità di altri fattori. Il dolore è reso meno tollerabile quando rende difficoltosa la nostra vita. Il “mi fa male il collo” dovrebbe essere re-interpretato in “mi fa male il collo, ma il motivo per cui sono qui è perché così non riesco più ad andare avanti”. Il vero obiettivo non è, dunque, non avere più mal di collo, ma capire quali strategie adottare per migliorare la propria qualità di vita. Dalla fase acuta a quella cronica Dolore acuto e cronico non sono poi così tanto diversi in termini di caratteristiche, ma differiscono enormemente in termini di effetti. Il dolore cronico è disabilitante e differisce soprattutto per l’impatto che ha sulla vita quotidiana a causa della sua natura intrattabile. Il passaggio dalla fase acuta a quella cronica si gioca dopo le prime 3-4 settimane dall’evento traumatico ed entro i 6 mesi, ed è compito del clinico intravedere con fermezza quali siano i fattori a potenziale rischio, individuarli e trattarli. Essi sono: la severità iniziale del dolore (sommatoria delle lesioni biologiche pre-esistenti e del danno post-traumatico), la presenza di contenziosi ed indennizzi, il contesto sociale (attenzione al ruolo dei clinici, della famiglia e delle loro interazioni con i vissuti personali), il ritorno al lavoro (tanto meglio quanto più precoce, tenendo presente che chi non ha lavoro o lo ha perso è maggiormente sfavorito). Fattori psicologici coinvolti nella cronicizzazione Se per i ricercatori è arduo rispondere, non lo è per molti dei pazienti. La risposta è, infatti, semplice: “prima del trauma distorsivo non avvertivo dolore né altri problemi e, quindi, la causa dei miei sintomi non può essere psicologica”. Inoltre, per la maggior parte dei pazienti il termine “psicologico” si riferisce ad “immaginario”. Per questo non sorprende che i pazienti non gradiscano che il loro dolore venga ad essere ricondotto a cause di natura psicologica. Già nel 1953 Gay e Abbott parlavano di reazioni nevrotiche nei pazienti con colpo di frusta. Hodge, andando subito oltre, postulava la possibile presenza di tali disturbi già prima del trauma: 140
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica l’incidente distorsivo offriva solo la possibilità ai problemi di slatentizzarsi. Più recentemente si è studiata la possibile influenza dei fattori psicologici sul decorso dei sintomi correlati a colpo di frusta. Radanov, considerando svariati pazienti in fase acuta postdistorsiva, ne ha valutato le caratteristiche neuropsicologiche e comportamentali. La conclusione fu che né alterazioni psicopatologiche né della personalità potevano influenzare la risposta cronica. Si postulò, però, che altri fattori psicologici potessero influenzare il decorso verso la fase cronica, come i processi di condizionamento e i pensieri di salute del paziente. Per capire questi fattori psicologici è utile riferirci ai lavori di Fordyce che per primo, negli anni settanta, sviluppò il concetto di comportamento operativo (teoria comportamentale). Sono stati descritti tre sistemi di risposta comportamentale: somatizzazione, condizionamento operativo, credenze sulla salute. Questi fattori devono essere conosciuti, valutati attentamente e riscontrati nel paziente in fase cronica. Possono esistere in assenza di altri disturbi psicologici. Somatizzazione I pazienti descrivono di avvertire sofferenza in assenza di comprovata menomazione. Questo fenomeno può spiegarsi attraverso il concetto della somatizzazione. Dopo colpo di frusta è normale rilevare contrattura del trapezio, ma la persistenza della stessa non è funzionale e risulta in dolore, determinando a lungo andare un circolo vizioso in cui il primum movens si perde, lasciando solo più la sensazione dolorosa. Pazienti con difficoltose strategie di coping ricadono frequentemente in questo circolo vizioso. Condizionamento operativo Il concetto di comportamento da malato è stato molto approfondito nei pazienti con dolore cronico, poiché rappresenta tutte le azioni (ed i pensieri) che caratterizzano i pazienti con dolore cronico. Tale comportamento può aumentare se ad esso consegue una ricompensa (rinforzo positivo) o se ad esso consegue l’evitamento di qualcosa di negativo (rinforzo negativo): il paziente 141
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica capisce che certe azioni sono dolorose e le evita a tutti i costi. Nel caso del colpo di frusta, ci sono pazienti terrorizzati di usare il proprio collo, alimentando il circolo vizioso dello status cronico. Credenze sulla salute Molti tipi di comportamenti, compreso il comportamento da malato, sono il risultato di idee che le persone hanno o che sono indotte a credere. Un paziente con dolore cronico cervicale che è convinto che il suo dolore sia dovuto a patologia discale con grave rischio di paralisi si comporterà molto diversamente da un paziente che sa che il proprio dolore cronico è legato ad un collo che funziona male: il primo paziente sarà terrorizzato dal movimento, peggiorando lo stato di disabilità. È molto pericoloso quando i pazienti a potenziale rischio di cronicizzazione pensano in termini di lesione biologica poiché ciò conduce verso il comportamento da malato. Fattori fisici di cronicizzazione Tutta questa trattazione non deve peraltro portare alla convinzione che il problema sia solo psicologico: non sarebbe corretto in sé, né lo sarebbe nei confronti dei nostri pazienti. La rigidità articolare, la perdita di controllo neuromuscolare e di capacità stabilizzante (cruciale questa per il collo) se non adeguatamente trattate sono co-fattori essenziali della permanenza o della recidiva del disturbo, che poi costituiscono il fertile terreno su cui si innestano gli altri fattori, principalmente psicologici, ma anche di tipo sociale come dimostrato dallo studio in Lituania, che condurranno alla cronicità. Queste indicazioni sono già state ampiamente proposte nei capitoli precedenti e quindi non ci dilunghiamo ulteriormente: rimangono comunque cruciali, ma devono essere integrate nel modello bio-psico-sociale per consentire la miglior risposta terapeutica al paziente cronico. Approccio riabilitativo ad impronta cognitivo- comportamentale Il programma terapeutico cognitivo-comportamentale si fonda sulle sopradescritte teorie cognitive di condizionamento operativo. L’obiettivo prefissato risiede nel modificare le convinzioni sbagliate 142
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica del problema, modificandone a livello comportamentale la percezione stessa. A partire dagli anni settanta si sono affacciati il cosiddetto modello comportamentale (Weisenberg, 1977) e cognitivo- comportamentale (Meichenbaumm, 1977). I teorici di questi modelli sostengono l’importanza della modificazione indotta da uno stimolo cognitivo, in grado di cambiare il rapporto del paziente con il proprio dolore cronico. Secondo la visione comportamentale, si offre la possibilità di reagire al problema “dolore cronico”, visto come sensazione dolorosa disabilitante, attraverso la capacità di presa di coscienza del problema. La terapia cognitivo-comportamentale deve, dunque, essere vissuta dal paziente come un processo di riapprendimento corretto. Fordyce, già a partire dal 1973, descrive la necessità terapeutica del passaggio dall’illness (da malato) al well (da sano) behaviour (comportamento). Come fare? Obiettivo valutativo primario è il riscontro della disfunzione fisica, del comportamento “da malato”, “disabilitante” e delle sue patologiche deviazioni in ambito di interazioni sociali attraverso una approfondita valutazione clinica e psicologica del paziente con dolore cronico. Obiettivo terapeutico primario è prevedere l’effetto positivo delle conseguenze terapeutiche (possibilità di reintegrazione bio- psico-sociale), agendo sugli eventi esterni. Avvicinandosi a questo approccio, si deve aiutare il paziente ad allontanarsi dal semplicistico modello di controllo del dolore, come avviene per la fase acuta. Comunicare La condizione essenziale per lo sviluppo del trattamento è l’impostazione di una comunicazione efficace, bi-direzionale, indispensabile per guadagnare la fiducia del paziente: ascoltare attentamente quello che dice, osservare il suo comportamento, far percepire chiaramente al paziente che si è preso in considerazione il suo dolore (e le sue conseguenze in ambito fisico ed emotivo), rassicurare rispetto ai pensieri catastrofici. Se non si riesce a mettere a proprio agio il paziente e a guadagnarsi la sua fiducia il 143
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica paziente avrà un atteggiamento sospettoso, penserà di aver fatto un altro buco nell’acqua, non rivelerà molte delle informazioni utili per il successo del modello terapeutico comportamentalista. Questo aspetto, peraltro essenziale per consentire di proporre adeguatamente tutte quelle modificazioni di comportamenti fisici e psicologici errati, è la base indispensabile di acquisizione di fiducia per innestare i cambiamenti necessari. Modificazione del comportamento L’obiettivo è apprendere per cambiare, ma anche sperimentare il cambiamento. Il paziente deve essere aiutato a liberarsi da convinzioni errate, deve abbandonare comportamenti di evitamento (rinforzo negativo), iniziando a ricercare una migliore forma fisica. Il programma educativo diverrà, poi, veramente efficace se sarà in grado di offrire al paziente cronico tutti i chiarimenti utili alla comprensione del suo problema. Questo perché divenga consapevole dell’effettiva entità e non lo sovrastimi, spesso sull’onda di informazioni mal interpretate. Sarà molto utile insegnare nozioni di base sull’anatomia e sulla fisiologia della colonna, sul meccanismo del trauma distorsivo, per poi passare ad informazioni più specifiche come la corretta comprensione del concetto di dolore cronico e della sua differenza con il dolore acuto. Sarà anche fondamentale far luce sull’importanza di un uso corretto degli esami diagnostici e sull’interpretazione della terminologia specialistica, spesso usata in maniera ridondante e fuorviante dagli operatori sanitari. Sarà stimolata la riflessione sul modo di “subire” o “gestire” il dolore, sottolineando come il differente approccio influenza in maniera decisiva la percezione del dolore e lo stato di disabilità che può indurre. Ai pazienti è insegnato che il dolore cronico non è un campanello d’allarme e non obbliga al riposo immediato. Il dolore non danneggia il corpo, non espone il paziente a rischio o pericolo, anche se continuo e persistente. Il paziente è gradualmente liberato anche dalla dipendenza dei presunti pain-killers (farmaci, collare) che illudono solo transitoriamente. L’approccio cognitivo-comportamentale sarà particolarmente efficace se verranno stabilite prima del trattamento delle mete realistiche e se ci si avvarrà di tecniche di auto-monitoraggio per liberare il paziente da pregiudizi (le interazioni sociali!), facendogli 144
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica raggiungere la consapevolezza dei suoi comportamenti inadeguati, documentandone i progressi. Verrà posta l’enfasi sull’autotrattamento e sulla presa in carico individuale allo scopo di ottenere un coinvolgimento responsabile del paziente che deve divenire l’attore principale del processo di recupero. L’approccio cognitivo-comportamentale enfatizza, infatti, il miglioramento della gestione della funzione piuttosto che la riduzione del dolore residuo, superando la semplicistica concezione di terapia del movimento come terapia del dolore. Un passaggio essenziale che consente l’acquisizione operativa di tutti questi elementi è poi la sperimentazione di quanto appreso teoricamente nella vita quotidiana ed il successivo confronto con il rieducatore per avere i corretti rinforzi e le adeguate variazioni, ove necessario. Tutto ciò consente di verificare personalmente e solo sperimentando si può sperare di ottenere il definitivo cambiamento. Oltre a sperimentare comportamenti, sarà necessario sperimentare il proprio fisico: così come l’anziano dopo la frattura di femore deve essere ripreso per mano e portato a camminare, e quindi a fare le scale con assistenza per sperare che sia in seguito in grado di muoversi da solo, ugualmente gli esercizi saranno parte integrante di questa sperimentazione del proprio collo e delle sue potenzialità, spesso ben più ampie di quelle autonomamente concesse dal paziente. L’esercizio potrà quindi diventare comportamento quotidiano. La sperimentazione richiede tempo, perché solo così sarà possibile fare le proprie autonome verifiche e riflessioni che potranno essere guidate dal rieducatore nella direzione corretta. Sarà quindi fondamentale gestire il trattamento in tempi medio- lunghi, sia pure con poche sedute complessive. Operativamente… Il programma riabilitativo ad impronta cognitivo- comportamentale consta di tre fasi: 1.preparatoria (definizione del problema): rappresenta la valutazione iniziale. È valutativa ed informativa sullo svolgimento del programma con individuazione degli obiettivi. Il tempo richiesto è quello necessario per il completamento della valutazione medica, cognitiva e comportamentale. 145
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica 2.terapeutica: l’obiettivo principale è modificare il sistema di pensiero del paziente in relazione ai sintomi, ma questo avviene contemporaneamente con la modificazione fisica dipendente dagli esercizi. Si utilizzano quindi in un tutt’uno integrato tecniche di modificazione comportamentale e di recupero funzionale. Il supporto familiare (e le modificazioni con esso e in esso) può assumere particolare importanza. In questa fase il paziente è visto a distanza di 15-20 giorni, consecutivamente per circa 4-6 mesi. Il piano di lavoro volto al contemporaneo recupero funzionale è normalmente svolto a domicilio. 3. follow-up: il paziente è seguito a maggiore distanza temporale, controllandone i progressi funzionali e la reintegrazione lavorativa. L’idea del continuum terapeutico è, comunque, sempre molto importante. In questa fase il paziente è rivisto circa ogni 30 giorni, consecutivamente per altri 6 mesi. Il piano di lavoro di recupero funzionale è sistematicamente modificato in funzione dell’evoluzione clinica e continuerà ad essere svolto a domicilio. In questa fase è fondamentale il corretto ri-adattamento lavorativo. Chi lo può fare? Questo programma complesso non può essere svolto in maniera adeguata da un singolo operatore sanitario, sia esso medico o psicologo o fisioterapista. Tutto il programma riabilitativo ad impronta cognitivo-comportamentale può essere svolto solo da un team multidisciplinare, che deve comprendere le seguenti competenze (nelle singole realtà, una sola figura professionale può essere dotata anche di più competenze): fisiatra, medico esperto di patologie vertebrali, psicologo esperto di gestione del dolore cronico, fisioterapista esperto di patologie vertebrali, terapista occupazionale, laureato in scienze motorie. Il trattamento deve in ogni caso comprendere un approccio fisico predominante, che viene però inserito in un quadro di approccio generale di tipo cognitivo- comportamentale. Il risultato finale si basa sulla comunicazione interdisciplinare attiva e continuativa nel tempo: per il suo successo è infatti determinante l’integrazione culturale tra i componenti del team e soprattutto l’unitarietà di messaggio, per pazienti complessi che hanno bisogno ormai di soluzioni e certezze, e non più delle 146
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica ennesime teorie. Peraltro queste certezze non possono che essere scientificamente serie: solo il modello bio-psico-sociale oggi offre per questi disturbi cronici una risposta unitaria adeguata, comprensibile e su basi scientifiche. Vi è sufficiente evidenza scientifica che l’approccio cognitivo- comportamentale debba combinarsi con un trattamento rieducativo finalizzato al controllo ed al miglioramento del decondizionamento fisico coesistente. La revisione dell’ampia letteratura sull’argomento testimonia l’utilità di questo approccio per il paziente con sindrome cervicale post-distorsiva cronica, con diminuzione del dolore, della sofferenza emotiva, della disabilità e del comportamento legato al dolore, come pure una migliore capacità di affrontare il problema “disabilità”. I risultati appaiono duraturi nel tempo con outcome tanto migliori quanto più accurata è stata la selezione dei pazienti. Conclusione La sindrome cervicale post-distorsiva cronica ha primitivamente un substrato biologico. Stabilire se e come i fattori psico-sociali possano influenzare il dolore cronico indipendentemente è, al contrario, arduo, sebbene teorizzabile. È certo, però, che in fase cronica sia fuorviante ricercare a tutti i costi il problema biologico poiché quasi sempre non lo si può più ritrovare in una singola situazione patologica causa diretta del dolore. Il vero problema diagnostico è capire quali sono le interazioni tra fattori fisici e psico-sociali, e come possano auto- elicitarsi vicendevolmente. La disabilità è al contempo disfunzione fisica e comportamento da malato. Se è prevedibile che un dolore cronico e l’inattività ad esso correlata conducano a preoccupazione circa i sintomi fisici, meno intuibile è che anche il distress provocato e le anomale strategie di coping evocate rischiano di aggravare ancor di più il dolore in un pericoloso circolo vizioso che esita nel decondizionamento fisico. Di fronte al dolore cronico un approccio meramente legato al controllo dello stesso, dunque, non solo non dà i frutti sperati, ma non fornisce neppure gli strumenti per una gestione consapevole del problema. 147
Capitolo 8 La sindrome cervicale post-distorsiva cronica Vi è l’onesta necessità di approdare su lidi terapeutici con obiettivi diversi e più vicini alla disabilità indotta, come l’approccio cognitivo-comportamentale. Le parole dette ai pazienti Una riflessione finale. Il clinico deve tenere in alta considerazione l’iter diagnostico e terapeutico che vorrà prescegliere, facendo attenzione al ruolo che assume nei confronti dei propri pazienti in funzione degli enormi risvolti terapeutici che le sue parole possono determinare. Un’entità clinica tanto poco conosciuta quanto poco discussa è l’effetto nocebo, contrario al più noto effetto placebo, che consiste nella incauta previsione “apocalittica” del clinico di risultati negativi in assenza di un loro giustificato riscontro oggettivo. Questo effetto è, a sua volta, in grado di creare aspettative negative circa i sintomi avvertiti, ostacolando negativamente la possibilità di recupero spontaneo post-lesionale. Un effetto nocebo deriva da un commento eccessivamente negativo, da diagnosi e prognosi erroneamente profferte (e trasmesse) “senza speranza”. Comunicare al paziente che dovrà convivere con il proprio dolore per tutta la vita o che le immagini radiografiche del proprio collo sono disastrose corre il grave rischio di assumere un carattere profetico devastante. La comunicazione di una prognosi eccessivamente severa e non giustificata in funzione dei riscontri clinici è un grave danno per il paziente, oltre che un imperdonabile errore deontologico. Non guardiamo al paziente solo come dolore, ma cerchiamo di dare risposte terapeutiche intravedendole nella dimensione della sua disabilità… Bibliografia Al-Obaidi SM, Nelson RM, Al-Awadhi S, Al-Shuwaie N. The role of antici- pation and fear of pain in the persistence of avoidance behaviour in patients with chronic low back pain. Spine 2000;25(9):1126-31 Awerbuch MS. Whiplash in Australia: illness or Injury? Med J Aust 1992;157(3):193-196 Barsky AJ, Borus JF. Functional Somatic Syndromes. Ann Intern Med 1999;130:910-921 Bellissimo A, Tunks E. Chronic Pain. 1984 Praeger Publishers, New York 148
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