La sindrome cervicale post-distorsiva cronica

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Capitolo 8

               La sindrome cervicale post-distorsiva cronica

                       Capitolo 8
 La sindrome cervicale post-
      distorsiva cronica
           Marco Monticone, Stefano Negrini
    Il dolore cervicale post-distorsivo cronico è oggi interpretabile
in un quadro di sindrome bio-psico-sociale, e questo non può che
portare inevitabilmente a re-interpretare anche il nostro approccio
terapeutico-riabilitativo. In questo Capitolo rivediamo brevemente
la letteratura sull’argomento, con alcuni studi di grande interesse
circa la possibile origine psicologica della cronicizzazione del do-
lore conseguente ad un colpo di frusta. Una volta considerati quin-
di con attenzione i meccanismi psicologici che concorrono con
quelli fisici alla determinazione del quadro clinico del paziente, ve-
dremo come procedere con un corretto approccio multidisciplinare
integrato di tipo cognitivo-comportamentale ma a forte impronta
fisica, che consenta di ottenere i migliori risultati in questi pazienti
ad alta disabilità.

   La maggior parte dei pazienti con colpo di frusta va incontro ad
un rapido recupero funzionale. Per alcuni di loro, però, i problemi
non svaniscono, anzi tendono a persistere nel tempo divenendo cro-
nici e disabilitanti. Si stima che in circa il 20-40% dei casi i sintomi
tendano a persistere ben oltre i normali tempi di guarigione, con
cronicizzazione nel 3-14% dei casi e disabilità nel 5-7% dei casi.
Tale percentuale, apparentemente esigua, non merita di essere tra-
scurata perché in grado di incidere pesantemente su costi sanitari e
sociali.
   Una notevole varietà di fattori è in grado di influenzare gli esiti a
distanza del paziente con colpo di frusta. Sebbene molti dei fattori
descritti abbiano inequivocabili radici fisiche, altri non presentano
dirette basi biologiche post-traumatiche. La crescente importanza
del corretto ruolo ed inquadramento di questi ultimi fattori merita
una trattazione a sé stante, poiché direttamente coinvolti nella pre-
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sentazione clinica e nelle possibilità di recupero funzionale della
sindrome cervicale post-distorsiva cronica.
   È lecito, dunque, chiedersi che cosa renda i pazienti cronici di-
versi da tutti gli altri. Vi è relazione con la severità del danno? Sono
soggetti primariamente predisposti a sviluppare dolore cronico? È
un problema legato alla salute generale del paziente? O ci sono, for-
se, altri fattori coinvolti?

Cosa c’è oltre ai fattori biologici?
    Da più parti si sostiene che uno tra i principali fattori che ha
contribuito all’aumento della disabilità conseguente a colpo di
frusta sia riferibile al risarcimento del danno. Un recente studio
canadese, condotto in Saskatchewan, ha permesso di evidenziare
che l’eliminazione (o la forte riduzione) dell’indennizzo sia
correlato con una migliore prognosi a lungo termine.
    Ancor più sorprendente risulta un altro studio, condotto in
Lituania, in cui alcune centinaia di soggetti con colpo di frusta non
presentavano un’incidenza di segni e sintomi, sia a breve che e
lungo termine, superiore al gruppo di controllo della stessa area
geografica presa a riferimento. Gli Autori concludono che in un
Paese in cui non si abbiano aspettative di indennizzi né soprattutto
consapevolezza della possibilità di dolore cronico dopo colpo di
frusta, i sintomi presentano carattere auto-limitante, di breve durata
e non evolvono nella sindrome cervicale post-distorsiva cronica. In
altri termini, la consapevolezza di disabilità e di aspettative di
risarcimento possono divenire determinanti nello sviluppo della
cronicità.
    Molti altri studi hanno presentato risultati sovrapponibili, tanto
da aver indotto Awerbuch sul Medical Journal of Australia a
suggerire che il colpo di frusta potrebbe essere visto come un
disturbo di per sé benigno, ma a potenziale cronico a causa di
sanzioni sociali, legali ed assicurative.
    Altri Autori hanno descritto le cosiddette “sindromi somatiche
funzionali”, definendo alcune condizioni (incluso il colpo di frusta
cronico) caratterizzate maggiormente dai sintomi, dalla sofferenza
indotta e dalla disabilità in assenza di inequivocabili anormalità
anatomiche e di funzione.

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    A questa visione del problema tende a contrapporsene un’altra,
secondo la quale è il dolore a causare la disabilità: trattando
adeguatamente il dolore anche la disabilità dovrà scomparire. Se
guardiamo ai disordini correlati a colpo di frusta secondo questo
modello teorico, riconosceremo schemi predefiniti di malattia,
applicheremo terapie specifiche per la patologia evidenziata ed,
infine, ci aspetteremo che la malattia migliori. In altri termini, il
dolore dovrà dipendere dal danno tissutale, il danno tissutale porterà
a menomazione e la menomazione a disabilità: curando il dolore
anche la disabilità migliorerà. Questo modello ha, purtroppo, un
limite: non contempla la risposta umana al dolore cronico ed alla
disabilità.
    Se guardiamo più in là della pura “dimensione dolore” ed
applichiamo un modello più complesso, ma più vicino alla realtà, ci
accorgeremo che sono molti di più i fattori che interagiscono tra
loro. Il modello è quello biopsicosociale di Waddell e prevede i
seguenti livelli di analisi:
    1. Disfunzione fisica: le richieste di prestazione fisica (capacità)
possono essere non adeguate alle capacità del nostro corpo
(rendimento).
    2. Convinzioni e Coping: il pensiero e la previsione del dolore
condizionano enormemente la percezione del dolore stesso. Inoltre,
il modo in cui un individuo affronta i problemi (coping) è altrettanto
importante. L’adozione di strategie sbagliate è fortemente correlato
alla presenza e persistenza di dolore cronico.
    3. Distress: la presenza di un’aumentata percezione del dolore,
di intensi e ripetuti stimoli emotivi (rabbia, stress, depressione,
ansia…), e il senso di indecisione sono fortemente correlati con la
persistenza di dolore cronico.
    4. Illness Behaviour (comportamento da malato): è il
comportamento associato a malattia ed è fortemente condizionato
dai pregiudizi nei confronti dell’evolutività delle proprie sensazioni
dolorose, dalle strategie mediche e psicologiche per gestirle, nonché
dal disagio psicologico concomitante.
    Infine, l’ambiente culturale ed etnico del paziente, l’ambiente
familiare e lavorativo ed il contesto sociale devono essere tenuti in
alta considerazione per inquadrare il paziente (e non solo la sua
colonna cervicale) all’interno della complessità dell’approccio
terapeutico.

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    Hadler afferma che raramente l’intensità di un dolore cronico è
sufficiente da sola a condurre il paziente a consultazione medica: vi
è la necessità di altri fattori. Il dolore è reso meno tollerabile quando
rende difficoltosa la nostra vita. Il “mi fa male il collo” dovrebbe
essere re-interpretato in “mi fa male il collo, ma il motivo per cui
sono qui è perché così non riesco più ad andare avanti”. Il vero
obiettivo non è, dunque, non avere più mal di collo, ma capire quali
strategie adottare per migliorare la propria qualità di vita.

Dalla fase acuta a quella cronica
    Dolore acuto e cronico non sono poi così tanto diversi in termini
di caratteristiche, ma differiscono enormemente in termini di effetti.
Il dolore cronico è disabilitante e differisce soprattutto per l’impatto
che ha sulla vita quotidiana a causa della sua natura intrattabile.
    Il passaggio dalla fase acuta a quella cronica si gioca dopo le
prime 3-4 settimane dall’evento traumatico ed entro i 6 mesi, ed è
compito del clinico intravedere con fermezza quali siano i fattori a
potenziale rischio, individuarli e trattarli. Essi sono: la severità
iniziale del dolore (sommatoria delle lesioni biologiche pre-esistenti
e del danno post-traumatico), la presenza di contenziosi ed
indennizzi, il contesto sociale (attenzione al ruolo dei clinici, della
famiglia e delle loro interazioni con i vissuti personali), il ritorno al
lavoro (tanto meglio quanto più precoce, tenendo presente che chi
non ha lavoro o lo ha perso è maggiormente sfavorito).

Fattori psicologici coinvolti nella cronicizzazione
   Se per i ricercatori è arduo rispondere, non lo è per molti dei
pazienti. La risposta è, infatti, semplice: “prima del trauma
distorsivo non avvertivo dolore né altri problemi e, quindi, la causa
dei miei sintomi non può essere psicologica”.
   Inoltre, per la maggior parte dei pazienti il termine “psicologico”
si riferisce ad “immaginario”. Per questo non sorprende che i
pazienti non gradiscano che il loro dolore venga ad essere
ricondotto a cause di natura psicologica.
   Già nel 1953 Gay e Abbott parlavano di reazioni nevrotiche nei
pazienti con colpo di frusta. Hodge, andando subito oltre, postulava
la possibile presenza di tali disturbi già prima del trauma:

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l’incidente distorsivo offriva solo la possibilità ai problemi di
slatentizzarsi.
    Più recentemente si è studiata la possibile influenza dei fattori
psicologici sul decorso dei sintomi correlati a colpo di frusta.
Radanov, considerando svariati pazienti in fase acuta postdistorsiva,
ne ha valutato le caratteristiche neuropsicologiche e
comportamentali. La conclusione fu che né alterazioni
psicopatologiche né della personalità potevano influenzare la
risposta cronica.
    Si postulò, però, che altri fattori psicologici potessero
influenzare il decorso verso la fase cronica, come i processi di
condizionamento e i pensieri di salute del paziente.
    Per capire questi fattori psicologici è utile riferirci ai lavori di
Fordyce che per primo, negli anni settanta, sviluppò il concetto di
comportamento operativo (teoria comportamentale). Sono stati
descritti tre sistemi di risposta comportamentale: somatizzazione,
condizionamento operativo, credenze sulla salute. Questi fattori
devono essere conosciuti, valutati attentamente e riscontrati nel
paziente in fase cronica. Possono esistere in assenza di altri disturbi
psicologici.

Somatizzazione
    I pazienti descrivono di avvertire sofferenza in assenza di
comprovata menomazione. Questo fenomeno può spiegarsi
attraverso il concetto della somatizzazione. Dopo colpo di frusta è
normale rilevare contrattura del trapezio, ma la persistenza della
stessa non è funzionale e risulta in dolore, determinando a lungo
andare un circolo vizioso in cui il primum movens si perde,
lasciando solo più la sensazione dolorosa. Pazienti con difficoltose
strategie di coping ricadono frequentemente in questo circolo
vizioso.

Condizionamento operativo
    Il concetto di comportamento da malato è stato molto
approfondito nei pazienti con dolore cronico, poiché rappresenta
tutte le azioni (ed i pensieri) che caratterizzano i pazienti con dolore
cronico. Tale comportamento può aumentare se ad esso consegue
una ricompensa (rinforzo positivo) o se ad esso consegue
l’evitamento di qualcosa di negativo (rinforzo negativo): il paziente
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capisce che certe azioni sono dolorose e le evita a tutti i costi. Nel
caso del colpo di frusta, ci sono pazienti terrorizzati di usare il
proprio collo, alimentando il circolo vizioso dello status cronico.

Credenze sulla salute
   Molti tipi di comportamenti, compreso il comportamento da
malato, sono il risultato di idee che le persone hanno o che sono
indotte a credere. Un paziente con dolore cronico cervicale che è
convinto che il suo dolore sia dovuto a patologia discale con grave
rischio di paralisi si comporterà molto diversamente da un paziente
che sa che il proprio dolore cronico è legato ad un collo che
funziona male: il primo paziente sarà terrorizzato dal movimento,
peggiorando lo stato di disabilità. È molto pericoloso quando i
pazienti a potenziale rischio di cronicizzazione pensano in termini
di lesione biologica poiché ciò conduce verso il comportamento da
malato.

Fattori fisici di cronicizzazione
   Tutta questa trattazione non deve peraltro portare alla
convinzione che il problema sia solo psicologico: non sarebbe
corretto in sé, né lo sarebbe nei confronti dei nostri pazienti. La
rigidità articolare, la perdita di controllo neuromuscolare e di
capacità stabilizzante (cruciale questa per il collo) se non
adeguatamente trattate sono co-fattori essenziali della permanenza o
della recidiva del disturbo, che poi costituiscono il fertile terreno su
cui si innestano gli altri fattori, principalmente psicologici, ma
anche di tipo sociale come dimostrato dallo studio in Lituania, che
condurranno alla cronicità. Queste indicazioni sono già state
ampiamente proposte nei capitoli precedenti e quindi non ci
dilunghiamo ulteriormente: rimangono comunque cruciali, ma
devono essere integrate nel modello bio-psico-sociale per consentire
la miglior risposta terapeutica al paziente cronico.

Approccio riabilitativo ad impronta cognitivo-
comportamentale
   Il programma terapeutico cognitivo-comportamentale si fonda
sulle sopradescritte teorie cognitive di condizionamento operativo.
L’obiettivo prefissato risiede nel modificare le convinzioni sbagliate

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del problema, modificandone a livello comportamentale la
percezione stessa.
    A partire dagli anni settanta si sono affacciati il cosiddetto
modello comportamentale (Weisenberg, 1977) e cognitivo-
comportamentale (Meichenbaumm, 1977). I teorici di questi
modelli sostengono l’importanza della modificazione indotta da uno
stimolo cognitivo, in grado di cambiare il rapporto del paziente con
il proprio dolore cronico. Secondo la visione comportamentale, si
offre la possibilità di reagire al problema “dolore cronico”, visto
come sensazione dolorosa disabilitante, attraverso la capacità di
presa di coscienza del problema.
    La terapia cognitivo-comportamentale deve, dunque, essere
vissuta dal paziente come un processo di riapprendimento corretto.
Fordyce, già a partire dal 1973, descrive la necessità terapeutica del
passaggio dall’illness (da malato) al well (da sano) behaviour
(comportamento).

Come fare?
    Obiettivo valutativo primario è il riscontro della disfunzione
fisica, del comportamento “da malato”, “disabilitante” e delle sue
patologiche deviazioni in ambito di interazioni sociali attraverso
una approfondita valutazione clinica e psicologica del paziente con
dolore cronico.
    Obiettivo terapeutico primario è prevedere l’effetto positivo
delle conseguenze terapeutiche (possibilità di reintegrazione bio-
psico-sociale), agendo sugli eventi esterni.
    Avvicinandosi a questo approccio, si deve aiutare il paziente ad
allontanarsi dal semplicistico modello di controllo del dolore, come
avviene per la fase acuta.

Comunicare
   La condizione essenziale per lo sviluppo del trattamento è
l’impostazione di una comunicazione efficace, bi-direzionale,
indispensabile per guadagnare la fiducia del paziente: ascoltare
attentamente quello che dice, osservare il suo comportamento, far
percepire chiaramente al paziente che si è preso in considerazione il
suo dolore (e le sue conseguenze in ambito fisico ed emotivo),
rassicurare rispetto ai pensieri catastrofici. Se non si riesce a
mettere a proprio agio il paziente e a guadagnarsi la sua fiducia il
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paziente avrà un atteggiamento sospettoso, penserà di aver fatto un
altro buco nell’acqua, non rivelerà molte delle informazioni utili per
il successo del modello terapeutico comportamentalista. Questo
aspetto, peraltro essenziale per consentire di proporre
adeguatamente tutte quelle modificazioni di comportamenti fisici e
psicologici errati, è la base indispensabile di acquisizione di fiducia
per innestare i cambiamenti necessari.

Modificazione del comportamento
    L’obiettivo è apprendere per cambiare, ma anche sperimentare
il cambiamento. Il paziente deve essere aiutato a liberarsi da
convinzioni errate, deve abbandonare comportamenti di evitamento
(rinforzo negativo), iniziando a ricercare una migliore forma fisica.
    Il programma educativo diverrà, poi, veramente efficace se sarà
in grado di offrire al paziente cronico tutti i chiarimenti utili alla
comprensione del suo problema. Questo perché divenga
consapevole dell’effettiva entità e non lo sovrastimi, spesso
sull’onda di informazioni mal interpretate. Sarà molto utile
insegnare nozioni di base sull’anatomia e sulla fisiologia della
colonna, sul meccanismo del trauma distorsivo, per poi passare ad
informazioni più specifiche come la corretta comprensione del
concetto di dolore cronico e della sua differenza con il dolore acuto.
Sarà anche fondamentale far luce sull’importanza di un uso corretto
degli esami diagnostici e sull’interpretazione della terminologia
specialistica, spesso usata in maniera ridondante e fuorviante dagli
operatori sanitari. Sarà stimolata la riflessione sul modo di “subire”
o “gestire” il dolore, sottolineando come il differente approccio
influenza in maniera decisiva la percezione del dolore e lo stato di
disabilità che può indurre.
    Ai pazienti è insegnato che il dolore cronico non è un
campanello d’allarme e non obbliga al riposo immediato. Il dolore
non danneggia il corpo, non espone il paziente a rischio o pericolo,
anche se continuo e persistente. Il paziente è gradualmente liberato
anche dalla dipendenza dei presunti pain-killers (farmaci, collare)
che illudono solo transitoriamente.
    L’approccio cognitivo-comportamentale sarà particolarmente
efficace se verranno stabilite prima del trattamento delle mete
realistiche e se ci si avvarrà di tecniche di auto-monitoraggio per
liberare il paziente da pregiudizi (le interazioni sociali!), facendogli
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raggiungere la consapevolezza dei suoi comportamenti inadeguati,
documentandone i progressi.
    Verrà posta l’enfasi sull’autotrattamento e sulla presa in carico
individuale allo scopo di ottenere un coinvolgimento responsabile
del paziente che deve divenire l’attore principale del processo di
recupero.
    L’approccio cognitivo-comportamentale enfatizza, infatti, il
miglioramento della gestione della funzione piuttosto che la
riduzione del dolore residuo, superando la semplicistica concezione
di terapia del movimento come terapia del dolore.
    Un passaggio essenziale che consente l’acquisizione operativa di
tutti questi elementi è poi la sperimentazione di quanto appreso
teoricamente nella vita quotidiana ed il successivo confronto con il
rieducatore per avere i corretti rinforzi e le adeguate variazioni, ove
necessario. Tutto ciò consente di verificare personalmente e solo
sperimentando si può sperare di ottenere il definitivo cambiamento.
    Oltre a sperimentare comportamenti, sarà necessario
sperimentare il proprio fisico: così come l’anziano dopo la frattura
di femore deve essere ripreso per mano e portato a camminare, e
quindi a fare le scale con assistenza per sperare che sia in seguito in
grado di muoversi da solo, ugualmente gli esercizi saranno parte
integrante di questa sperimentazione del proprio collo e delle sue
potenzialità, spesso ben più ampie di quelle autonomamente
concesse dal paziente. L’esercizio potrà quindi diventare
comportamento quotidiano.
    La sperimentazione richiede tempo, perché solo così sarà
possibile fare le proprie autonome verifiche e riflessioni che
potranno essere guidate dal rieducatore nella direzione corretta.
Sarà quindi fondamentale gestire il trattamento in tempi medio-
lunghi, sia pure con poche sedute complessive.

Operativamente…
   Il    programma      riabilitativo   ad    impronta    cognitivo-
comportamentale consta di tre fasi:
   1.preparatoria (definizione del problema): rappresenta la
valutazione iniziale. È valutativa ed informativa sullo svolgimento
del programma con individuazione degli obiettivi.
   Il tempo richiesto è quello necessario per il completamento della
valutazione medica, cognitiva e comportamentale.
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   2.terapeutica: l’obiettivo principale è modificare il sistema di
pensiero del paziente in relazione ai sintomi, ma questo avviene
contemporaneamente con la modificazione fisica dipendente dagli
esercizi. Si utilizzano quindi in un tutt’uno integrato tecniche di
modificazione comportamentale e di recupero funzionale. Il
supporto familiare (e le modificazioni con esso e in esso) può
assumere particolare importanza.
   In questa fase il paziente è visto a distanza di 15-20 giorni,
consecutivamente per circa 4-6 mesi. Il piano di lavoro volto al
contemporaneo recupero funzionale è normalmente svolto a
domicilio.
   3. follow-up: il paziente è seguito a maggiore distanza temporale,
controllandone i progressi funzionali e la reintegrazione lavorativa.
L’idea del continuum terapeutico è, comunque, sempre molto
importante.
   In questa fase il paziente è rivisto circa ogni 30 giorni,
consecutivamente per altri 6 mesi. Il piano di lavoro di recupero
funzionale è sistematicamente modificato in funzione
dell’evoluzione clinica e continuerà ad essere svolto a domicilio. In
questa fase è fondamentale il corretto ri-adattamento lavorativo.

Chi lo può fare?
   Questo programma complesso non può essere svolto in maniera
adeguata da un singolo operatore sanitario, sia esso medico o
psicologo o fisioterapista. Tutto il programma riabilitativo ad
impronta cognitivo-comportamentale può essere svolto solo da un
team multidisciplinare, che deve comprendere le seguenti
competenze (nelle singole realtà, una sola figura professionale può
essere dotata anche di più competenze): fisiatra, medico esperto di
patologie vertebrali, psicologo esperto di gestione del dolore
cronico, fisioterapista esperto di patologie vertebrali, terapista
occupazionale, laureato in scienze motorie. Il trattamento deve in
ogni caso comprendere un approccio fisico predominante, che viene
però inserito in un quadro di approccio generale di tipo cognitivo-
comportamentale. Il risultato finale si basa sulla comunicazione
interdisciplinare attiva e continuativa nel tempo: per il suo successo
è infatti determinante l’integrazione culturale tra i componenti del
team e soprattutto l’unitarietà di messaggio, per pazienti complessi
che hanno bisogno ormai di soluzioni e certezze, e non più delle
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ennesime teorie. Peraltro queste certezze non possono che essere
scientificamente serie: solo il modello bio-psico-sociale oggi offre
per questi disturbi cronici una risposta unitaria adeguata,
comprensibile e su basi scientifiche.
    Vi è sufficiente evidenza scientifica che l’approccio cognitivo-
comportamentale debba combinarsi con un trattamento rieducativo
finalizzato al controllo ed al miglioramento del decondizionamento
fisico coesistente.
    La revisione dell’ampia letteratura sull’argomento testimonia
l’utilità di questo approccio per il paziente con sindrome cervicale
post-distorsiva cronica, con diminuzione del dolore, della
sofferenza emotiva, della disabilità e del comportamento legato al
dolore, come pure una migliore capacità di affrontare il problema
“disabilità”. I risultati appaiono duraturi nel tempo con outcome
tanto migliori quanto più accurata è stata la selezione dei pazienti.

Conclusione
    La sindrome cervicale post-distorsiva cronica ha primitivamente
un substrato biologico. Stabilire se e come i fattori psico-sociali
possano influenzare il dolore cronico indipendentemente è, al
contrario, arduo, sebbene teorizzabile.
    È certo, però, che in fase cronica sia fuorviante ricercare a tutti i
costi il problema biologico poiché quasi sempre non lo si può più
ritrovare in una singola situazione patologica causa diretta del
dolore. Il vero problema diagnostico è capire quali sono le
interazioni tra fattori fisici e psico-sociali, e come possano auto-
elicitarsi vicendevolmente. La disabilità è al contempo disfunzione
fisica e comportamento da malato. Se è prevedibile che un dolore
cronico e l’inattività ad esso correlata conducano a preoccupazione
circa i sintomi fisici, meno intuibile è che anche il distress
provocato e le anomale strategie di coping evocate rischiano di
aggravare ancor di più il dolore in un pericoloso circolo vizioso che
esita nel decondizionamento fisico.
    Di fronte al dolore cronico un approccio meramente legato al
controllo dello stesso, dunque, non solo non dà i frutti sperati, ma
non fornisce neppure gli strumenti per una gestione consapevole del
problema.

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   Vi è l’onesta necessità di approdare su lidi terapeutici con
obiettivi diversi e più vicini alla disabilità indotta, come l’approccio
cognitivo-comportamentale.

Le parole dette ai pazienti
    Una riflessione finale. Il clinico deve tenere in alta
considerazione l’iter diagnostico e terapeutico che vorrà
prescegliere, facendo attenzione al ruolo che assume nei confronti
dei propri pazienti in funzione degli enormi risvolti terapeutici che
le sue parole possono determinare.
    Un’entità clinica tanto poco conosciuta quanto poco discussa è
l’effetto nocebo, contrario al più noto effetto placebo, che consiste
nella incauta previsione “apocalittica” del clinico di risultati
negativi in assenza di un loro giustificato riscontro oggettivo.
Questo effetto è, a sua volta, in grado di creare aspettative negative
circa i sintomi avvertiti, ostacolando negativamente la possibilità di
recupero spontaneo post-lesionale. Un effetto nocebo deriva da un
commento eccessivamente negativo, da diagnosi e prognosi
erroneamente profferte (e trasmesse) “senza speranza”. Comunicare
al paziente che dovrà convivere con il proprio dolore per tutta la
vita o che le immagini radiografiche del proprio collo sono
disastrose corre il grave rischio di assumere un carattere profetico
devastante. La comunicazione di una prognosi eccessivamente
severa e non giustificata in funzione dei riscontri clinici è un grave
danno per il paziente, oltre che un imperdonabile errore
deontologico.

   Non guardiamo al paziente solo come dolore, ma cerchiamo di
dare risposte terapeutiche intravedendole nella dimensione della
sua disabilità…

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Capitolo 8

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