La nuova Sanità: management, Sistema Toyota e assistenza territoriale
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INNOVAZIONE La nuova Sanità: management, Sistema Toyota e assistenza territoriale Dal facility manager alle applicazioni del TPS nelle reti ospedaliera e territoriale. L’esperienza del progetto “Nardino” in Puglia Vito Divittorio Lo scenario della complessità Fin dagli anni ’90 si è delineata la necessità di un diverso equilibrio di risorse tra i livelli di assistenza ospedaliera e territoriale, culminata nella scelta di potenziare i servizi sanitari di base ed identificare in essi un forte livello di programmazione, pur nel rispetto delle autonomie regionali. Una transizione che ha assunto, nelle diverse regioni, destini assai dissimili che testimoniano profonde eterogeneità sia di contesto territoriale, sia nelle caratteristiche organizzative, sia nel ruolo giocato dal distretto nella programmazione e nell’integrazione dei servizi. Nuove dinamiche, dunque, e nuove esigenze di governo della salute in una dialettica bisogno- domanda-offerta di estrema complessità, cui si aggiunge l’annosa zavorra della finitezza (intesa come “non infinitezza”, ma anche come “reale esaurimento”) delle risorse finanziarie. Il rischio più grande, tuttavia, risiede nel trascurare la “visione di insieme”, l’effetto finale della somma di interventi o, peggio, la disattenzione alla necessità di moltiplicare, dividere o elevare al quadrato le strategie puntiformi, per non rischiare - come la scienza della complessità impone - di “guardare l’albero senza vedere il bosco…” e creare una sanità a due o più velocità di sviluppo nella stessa nazione. Verso nuove prospettive Il salto di paradigma non si può affrontare se non partendo da un presupposto: i nuovi cluster di bisogno -sanitario ed economico- meritano non più (non tanto e non solo) la figura o le figure dei professionisti e dei tecnici di settore, ma di un care management innovativo che, a differenza di quanto avvenuto in risposta alle tradizionali emergenze, necessita ancora di svilupparsi. L’estrema flessibilità delle risposte territoriali più ancora che la “costosità” dei setting ospedalieri è il nodo di governo più meritevole di attenzione. E per governare realmente il sistema, per spingere verso un reale sviluppo della medicina “di iniziativa” e non “di attesa”, va valorizzata la sinergia tra i nodi del sistema e stretta un’alleanza - culturale prima ancora che operativa - tra le comunità professionali impegnate nei servizi al cittadino, in un’ottica di valorizzazione delle professionalità, perché un professionista valorizzato traina il Sistema verso l’eccellenza e la funzionalità. Quello che oggi si richiede al management non è lo sviluppo verticale di competenze sempre più specialistiche quanto il coordinamento tra i diversi livelli e l’integrazione degli indirizzi intersettoriali ai fini di orientare positivamente e in maniera sinergica l’offerta sanitaria. Ruolo del manager in sanità: il Facility Manager Il ruolo del Facility Manager è particolarmente complicato, poiché deve garantire l’assolvimento di una duplice missione: • da un lato, deve assicurare all’azienda il supporto necessario e adeguato per lo svolgimento dell’attività principale; in questa veste sussidiaria il Facility Manager si comporta da fornitore per clienti interni, ascoltandone le esigenze e progettando i servizi che le soddisfino;
• dall’altro lato, deve conoscere anche le ragioni di esistenza dell’azienda ed essere partecipe delle sue politiche e strategie aziendali, allo scopo di essere comprimario delle modalità attuative del cambiamento organizzativo. Se il primo tipo di missione si accontenta che il Facility Manager esegua una corretta e soddisfacente fornitura, la seconda invece lo rende partecipe e corresponsabile dei risultati strategici dell’organizzazione. È per questo motivo che tra gli obiettivi del Facility Manager si possono trovare il miglioramento dell’organizzazione e delle procedure di lavoro, la soddisfazione del cliente interno, il miglioramento della qualità del servizio, il contenimento e la riduzione dei costi dei servizi, la riprogettazione di servizio sulla scorta di nuove esigenze aziendali, la pianificazione di lungo termine delle facilities aziendali. Un equivoco da cui rifuggire è quello per cui il Facility Manager di fatto sia un gestore dei servizi di supporto. Nulla di più fuorviante. Egli è in realtà il centro di snodo informativo, decisionale e organizzativo tra attività primaria e attività di supporto; egli fa in modo che l’articolato mondo dei servizi di supporto si connetta sui processi di produzione primaria al momento, nel modo, nel luogo ed al costo adeguati. La routine operativa tipica di un Facility Manager è un ciclo continuo di: • Analisi delle esigenze aziendali: capacità comunicative e capacità analitica sono indispensabili per individuare i bisogni del cliente, più che gli specifci servizi che il cliente gradirebbe ricevere; ad esempio, il direttore del SERT può richiedere l’attivazione del servizio di vigilanza armata per i propri locali, quando magari un sistema di telecontrollo e controllo degli accessi può essere più che sufficiente per risolvere un bisogno di maggior sicurezza da parte del richiedente. Il direttore amministrativo che chiede l’acquisto di un sistema di gestione documentale ha finito gli spazi di archivio fisico, ha solo la necessità del protocollo informatico o vuole semplicemente ridurre i costi della carta da stampa? • Progettazione del servizio: è certamente la componente più creativa e complessa del ruolo del Facility Manager perché richiede la definizione più fedele possibile dei tempi, dei costi, del livello di qualità del servizio; per ben adempiere a questa funzione si richiedono competenze manageriali, economiche, finanziarie, ingegneristiche, tecnologiche e organizzative. Il Facility Manager d’ospedale, ad esempio, conosce le dinamiche operative del servizio di igiene ambientale, è aggiornato sui costi di mercato per mq pulito, è consapevole dei livelli qualitativi richiedibili all’assuntore del servizio, tiene conto delle prescrizioni/precauzioni legislative in tema di rischio chimico da detergenti e soprattutto sa a quali profili del servizio è sensibile il cliente. • Committenza e gestione operativa del servizio: quali che siano le funzioni gestionali del Facility Manager (gestore del servizio o gestore del contratto di servizio), egli agisce sempre da committente, nei confronti di propri subalterni o nei confronti di fornitori esterni, “portando a destinazione” il servizio progettato sui bisogni del cliente. Il Facility Manager concorda con gli esecutori i livelli di qualità del servizio pasti ai degenti e sempre con gli esecutori condivide la pianificazione dei tempi, dei luoghi e dei modi di fruizione del pasto. L’esternalizzazione o meno del servizio chiama in causa solo un diverso strumento di regolazione dei rapporti tra committente ed esecutori: contratto di fornitura nel primo caso e contratto di lavoro subordinato nel secondo. • Controllo dei risultati: dovrebbe essere chiaro a questo punto che il Facility Manager – propriamente – non eroga servizi prodotti internamente né inoltra quelli prodotti esternamente; egli è incaricato di soddisfare bisogni aziendali secondari e complessi, per cui la sua focalizzazione manageriale è sui risultati piuttosto che sulle prestazioni specifiche. Dei risultati cura la traduzione
quantitativa sotto forma di indicatori chiave di performance preventivi e consuntivi, monitorando, attraverso di essi, la soddisfazione del cliente. Il Facility Manager ospedaliero, ad esempio, definirà a priori il costo medio atteso del servizio di pulizia per giornata di degenza, verificherà il costo medio effettivo e intraprenderà le necessarie azioni correttive o ulteriormente migliorative dell’indicatore. Intensità di cure e complessità dell’assistenza: la nuova organizzazione ospedaliera e territoriale attraverso il Sistema Toyota Il modello gestionale dell’intensità di cure mette a fuoco una serie di concetti chiave che vengono definiti dal management sanitario. Modello originario da cui risulta più opportuno a prendere le mosse è necessariamente il Toyota Production System (TPS), ovvero il sistema, progettato dall’ingegner Taiichi Onho, che ha permesso alla Toyota di costituirsi come azienda leader nella produzione di automobili e di abbracciare il modello “Lean Thinking”. Principale punto di partenza del TPS consiste nell’idea di creare valore eliminando gli sprechi. Le modalità di attuazione di questo concetto costituiscono il sistema Toyota, il quale applicato in sanità ha dato vita al modello per Intensità di cure. Nella realtà, tuttavia, il modello originario ha dovuto adattarsi alle realtà locali e appare dunque modificato rispetto alle basi dal quale ha preso le mosse. In Italia le esperienze concrete di ospedali gestiti per intensità di cura sono limitate e pur tuttavia è dallo studio di queste, e delle reali pratiche attuate, che otteniamo forse le spiegazioni più chiare sul modello. Confrontandosi con l’applicazione data al modello ci si rende conto di come, per la definizione della stessa, sia necessario operare una prima distinzione tra severità clinica ed il concetto di complessità assistenziale. Ad indicare la configurazione dell’organizzazione ospedaliera è innanzitutto la componente clinica, che una volta stabilita attraverso scale visionate, orienterà il paziente ad un preciso livello nel quale esso riceverà le cure prescritte secondo uno specifico grado di intensità. Tuttavia, dato il grado di intensità richiesto, a costituirsi come variabile del processo è la parte assistenziale, la quale deve essere intesa come entità flessibile in grado di adattarsi alle specificità delle istanze. Fare della codificazione dell’intensità clinica una componente stabile dell’organizzazione significa implementare uno schema di ammissione del paziente profondamente diverso da quanto è oggi in uso negli ospedali. TPS nella rete ospedaliera Normalmente il primo accesso alla struttura sanitaria da parte del paziente, eccettuati i ricoveri programmati, è il pronto soccorso ed è da qui che si deve partire per stabilirne l’invio. Ma, una volta effettuata questa operazione, una volta cioè precisato il grado di intensità clinica al quale esso verrà destinato, si dovrà fare i conti con il grado di complessità assistenziale richiesto dal caso. A determinare il livello di cura del paziente saranno dunque le alterazioni che lo stesso fa registrare in merito ai suoi parametri fisiologici che, una volta stabiliti necessiteranno di una particolare tecnologia, di competenze particolari e di un certo grado di quantità e qualità di personale assegnato. Nei differenti ospedali lombardi ove l’intensità di cura sta cominciando ad essere implementata, sono stati assegnati tre gradi di intensità distinguibili proprio sulla base di caratteristiche tecnologiche, quantità e qualità, e dunque competenze, del personale presente. È solitamente vigente un livello di alta intensità (high level) comprendente la terapia intensiva e sub intensiva, un livello per la media intensità, articolato almeno per area funzionale e comprendente il ricovero ordinario e il ricovero a ciclo breve, il quale a sua volta presuppone la permanenza di almeno una notte in ospedale (week surgery, oneday surgery), ed infine un livello per la bassa intensità dedicato invece alla cura delle post-acuzie o low care. Come anticipato il modello, che prevede l’invio del paziente ad uno di questi tre gradi d’intensità, poggia sul nodo specifico costituito sul Pronto Soccorso, vero e proprio filtro di tutto il sistema. Proprio per questo le
metodiche e le indicazioni dell’invio nell’area di degenza appropriata devono essere oggetto di discussione e portare alla stesura di protocolli condivisi. TPS nella rete territoriale Il modello dell’intensità di cura prevede un ospedale che si configuri come il luogo di ricovero per le acuzie, richiedendo così un aumento qualitativo e quantitativo dell’offerta territoriale, così come delle prestazioni del Medico di Medicina Generale, affinché la presa in carico del paziente risponda contemporaneamente alle esigenze di appropriatezza delle prestazioni ed efficacia ed efficienza nell’uso delle risorse. Il ruolo di quest’ultimo deve essere anche quello di fungere da integrazione territorio-ospedale, evitando così gli accessi impropri da una parte e il collegamento con il territorio per le dimissioni protette dall’altro. Il lavoro del medico deve essere coadiuvato da quello dell’infermiere, che si fa carico di quelli che i sono i bisogni del paziente, e si prospetta quindi la figura dell’infermiere di famiglia. L’importanza per un infermiere che opera nel territorio è duplice, poiché oltre a rispondere a quelli che sono i bisogni primari assistenziali del paziente, dovrà iniziare allo stesso tempo un percorso educativo per il paziente, o per chi si ne prenderà cura, in modo da poter rendere il paziente più informato e nel tempo il più autosufficiente possibile. L’evoluzione del case management sul territorio Normalmente, parlando di intensità di cura se ne pone in risalto l’aspetto legato al suo sviluppo implementato dal basso e non dall’alto, caratteristica questa che, insieme alla centralità data alla figura del paziente, rende la sua implementazione solitamente ben accetta da parte dei soggetti coinvolti. I nuovi ruoli professionali da realizzarsi, legati ad una presa in carico “globale” del paziente, portano a dover concettualizzare il principio del “case management”. Centrale diventano le figure dell’infermiere e del medico tutor. Quest’ultimo è colui che prende in carico il paziente, entro le prime 24 ore, che ne stende il piano clinico e che si fa carico dell’intero suo percorso. Si interfaccia sia con il Medico di Medicina Generale, di cui è il principale interlocutore per il vissuto del paziente nell’ospedale, che con la sua famiglia. Da qui discendono anche competenze specifiche che il Medico Tutor deve possedere. Deve avere adeguata esperienza e competenza rispetto alla comunicazione con i pazienti, essere in grado di gestire i percorsi degli stessi, da valutare e mantenere nel tempo, e sapersi supportare attraverso percorsi formativi adeguati. Parallelamente a questo, in un territorio gestito secondo il modello dell’intensità di cura è molto importante saper coordinare, con i criteri clinici, anche quelli propri dell’assistenza infermieristica. Anche qui, come sul piano clinico, l’introduzione di un responsabile per la pianificazione dell’intero percorso del paziente permette al contempo il realizzarsi della metodologia del take care. Altra figura di rilevanza all’interno del modello è rappresentata proprio dal tutor infermieristico che garantisce l’assistenza personalizzata al paziente affidatogli e diviene così responsabile del risultato del progetto assistenziale. Anche l’infermiere tutor deve possedere adeguata esperienza e competenza assistenziale associate ad elevate capacità di programmazione sulla base delle quali avverrà l’assegnazione dei casi. Accanto a lui dovrà agire un team di infermieri a suo supporto, veri e propri “associati”, tale da garantire la continuità assistenziale anche senza la necessità di una sua presenza costante. L’importanza di queste figure, per essere correttamente valorizzata, ha bisogno dell’incremento e della rivalutazione degli operatori socio sanitari a cui trasferire attività alberghiere. Solo in questo modo l’infermiere tutor potrà concentrarsi nelle funzioni e di coordinamento e di programmazione assistenziale. Il concetto da porre innanzi, per ciò che concerne l’attività infermieristica, dovrà essere quello di complemento, di sinergia, rispetto all’analisi clinica. Gli strumenti a disposizione nel tempo si sono evoluti dal processo assistenziale
alla pianificazione dell’assistenza fino alla valutazione della complessità assistenziale, strumenti in grado di concorrere, attraverso un approccio multidimensionale e multiprofessionale, al bene salute secondo un modello emergente di governo clinico-assistenziale. È importante prevedere, nel processo di organizzazione infermieristico basato sulla complessità assistenziale, l’adozione di un modello organizzativo professionale diverso rispetto all’attuale in uso nella quasi totalità delle Unità Operative di degenza (modello funzionale per compiti). Sanità snella in Puglia: Progetto Nardino Un esempio concreto che risponde alle nuove esigenze sanitarie territoriali, nella regione Puglia è individuabile nel Progetto Nardino, coordinato del dirigente delle professioni sanitarie dell’Asl BAT, il Dott. Antonelli Domenico, il quale progetto ha come obiettivo quello di garantire una reale presa in carico complessiva dei pazienti cronici, al di fuori dell’ospedale (rappresentano il 27 % della popolazione, ma incidono sulla spesa sanitaria per il 70 %) attraverso la formazione e la crescita di un soggetto che sia in grado di sostenere il confronto con l’ospedale. L’area di sviluppo del progetto comprende i comuni di Minervino e Spinazzola, facenti parte dell’ Asl BAT, rispettivamente popolati da 10.000 e 7.000 abitanti. Considerando che la Direzione Sanitaria Asl BAT ha individuato 4 infermieri dipendenti Asl e 2 infermieri assunti con contratto a tempo determinato per 24 mesi, si avrà un presa in carico con un media di 3.000/3.500 abitanti per infermiere. Aspetti significativi del Progetto Nardino sono i seguenti elementi: Costituzione di ambulatori infermieristici; Figura Care – Manager; Percorsi formativi per pazienti e Caregiver. Gli attori del progetto sono: MMG; Care – Manager; Medici Specialisti (Cardiologo, Pneumologo, Endocrinologo); Paziente. L’utenza di cui si occupa il progetto viene diviso in 4 macro aree, a secondo delle patologie: Diabete; BPCO; Ipertensione arteriosa; Scompenso Cardiaco. La presa in carico del paziente viene registrata su una scheda di valutazione del paziente per il Care – Manager della cronicità, diventando patrimonio per tutti gli attori del Piano delle cure. Tale scheda sarà informatizzata e risiederà sul sistema Informatico Regionale, interfacciandosi con i software dei medici di famiglia. Le finalità di questo sistema organizzativo sanitario sono molteplici: Migliorare la qualità della vita; Valorizzare le risorse del paziente;
Incrementare il controllo delle condizioni cliniche; Aumentare l’adesione al trattamento; Ridurre il numero delle ospedalizzazioni; Ridurre il consumo dei farmaci; Sviluppare un modello incentrato sul paziente; Promuovere un utilizzo più razionale dei servizi; Ottimare i tempi di gestione dell’assistenza; Migliorare la qualità del servizio; Favorire relazioni tra i curanti; Produrre un effetto terapeutico aggiuntivo. Concludendo è importante ricordare che per un management sanitario reale, non occorrono solamente le 5 “E” convenzionali Efficienza, Efficacia, Etica, Equità, Economicità. Si può aggiungere a questi l’Emozione come sentimento indispensabile per un manager, un leader, un gruppo di lavoro, un sanitario che voglia erogare salute in termini di appropriatezza integrata. Per concludere…le nuove aspettative E’ stata fatta una fotografia sulla crisi generale che ha investito la sanità, in particolar modo in Puglia, ed una mappatura su quelli che sono o potrebbero essere le indicazioni, le figure e gli strumenti per un nuova realtà sanitaria territoriale come reale ed immediata soluzione alla crisi. Si è tentato di farlo attraverso aggiornamenti, percorsi di studi e nozioni ricevute in un corso di alta formazione di management in assistenza territoriale. Tuttavia, con la massima modestia che un giovane infermiere possa avere, coglierei l’occasione per dar voce a quelle che credo siano le idee e le aspettative di una classe infermieristica che inizia ad affacciarsi nel mondo del lavoro, in un momento storico critico, dove le opportunità di lavoro scarseggiano e molto spesso, quando ci sono, rischiano di deludere le aspettative di anni di studio. Se da un lato tutto ciò ci pone in una situazione di difficoltà, dall’altro siamo chiamati ad un doveroso compito: quello di proporre idee nuove in una sanità che oggi più che mai ha bisogno di una vera e propria ondata di “freschezza” lavorativa, strutturale, gestionale e soprattutto territoriale. La mia personale proposta è quella di sfruttare le risorse territoriali poco o mal utilizzate dal servizio sanitario, ma che comunque richiedono delle spesi ingenti. Poiché la crisi ha portato alla riorganizzazione e conseguente chiusura di diversi reparti o in alcuni casi interi ospedali, a favore di grandi centri ospedalieri, si potrebbe pensare alla ristrutturazione di distretti locali in veri e propri PTA, cioè Punto Territoriale d’Assistenza, gestita da un equipe di medici di medicina generale, medici specialisti, fisioterapisti ed infermieri. In tal modo si garantirebbe: un’assistenza immediata per il cittadino, di facile reperibilità; un continuo monitoraggio del paziente; una riduzione dei tempi di attesa per una visita specialistica; una miglior gestione assistenziale dei pazienti cronici; una riduzione di ricoveri/accessi ospedalieri; abbattimento dei costi per il SSN …ma soprattutto nuove prospettive di lavoro!
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