La comunità bengalese nell'area di Monfalcone - Integrazione Migranti

Pagina creata da Samuele Testa
 
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REGIONE AUTONOMA
       FRIULI VENEZIA GIULIA
Direzione centrale lavoro, formazione, istruzione, pari
       opportunità, politiche giovanili e ricerca
       Area Agenzia Regionale per il Lavoro

  La comunità bengalese
  nell’area di Monfalcone
                 rapporto di ricerca

Gennaio 2017                            Paolo Attanasio
Introduzione

Il presente studio costituisce parte integrante dell’azione di
riqualificazione del sistema dei servizi prevista dall’Accordo per la
programmazione e lo sviluppo di un sistema di interventi finalizzati
a favorire l’integrazione sociale e l’inserimento lavorativo dei
migranti regolarmente presenti in Italia, stipulato fra il Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali e la Regione autonoma Friuli
Venezia Giulia. In quanto parte del Piano regionale integrato degli
interventi in materia di inserimento lavorativo e di integrazione
sociale dei migranti, l’Accordo (art. 3) prevede una serie di
interventi1 specificamente vòlti ad agevolare l’accesso dell’utenza
immigrata al mercato del lavoro, pietra angolare e vera ragion
d’essere di ogni progetto migratorio. In questo senso, l’attività
qualificante dell’iniziativa consiste nel rafforzamento del ruolo dei
Centri per l’impiego, ora in capo alla Regione FVG2, come collettori
dell’offerta di lavoro proveniente dai cittadini stranieri. Da ultimo, è
anche intervenuta la nuova legge regionale sull’immigrazione (LR 9
dicembre 2015, n. 31, “Norme per l’integrazione sociale delle
persone straniere immigrate”) che, nell’ambito della disciplina
sull’inserimento lavorativo, prevede espressamente che la Regione
e gli Enti locali individuino “i centri per l’impiego presso i quali
istituire servizi di mediazione socio-culturale per i destinatari della
presente legge” (art. 22, co. 2, lett c). Per venire dunque incontro
alle esigenze di questi ultimi in maniera concreta ed efficace, la
legge valorizza il ruolo dei CPI di facilitatori dell’interazione con il
mondo del lavoro non soltanto a livello meramente linguistico, ma
anche (e forse soprattutto) per facilitare l’interazione culturale fra le
diverse componenti della società a livello territoriale. Il lavoratore
straniero ha infatti bisogno, in misura maggiore rispetto

1
  Fra i quali “aumentare la partecipazione della popolazione immigrata regolarmente
presente in Italia alle politiche attive del lavoro “ (art. 3, co. 1) e “promuovere programmi di
inserimento socio-lavorativo rivolti a target vulnerabili della popolazione immigrata” (art. 3,
co. 3).
2
  In proposito, v. LR 29 maggio 2015, n. 13 “Istituzione dell’area Agenzia regionale per il
lavoro e modifiche della legge regionale 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per
l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro), nonché di altre leggi regionali in materia di
lavoro”
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all’autoctono, di un accompagnamento alle procedure e alle
modalità di accesso al mercato del lavoro, che lo aiutino a colmare
quel complesso gap fatto di insufficienza di competenze
linguistiche, ma anche di scarsità di capitale sociale e relazionale,
come pure di mancata valorizzazione di titoli di studio pregressi e lo
mettano finalmente in condizioni di essere adeguatamente
attrezzato per affrontare la sfida del mercato del lavoro3.
A livello sperimentale, il Servizio di mediazione interculturale verrà
inizialmente proposto nel territorio provinciale di Pordenone e
nell’area di Monfalcone. Si tratta di due territori fortemente connotati
dall’attività industriale e dalla presenza preponderante (fra i non
comunitari) di due comunità nazionali, provenienti rispettivamente
dal Ghana e dal Bangladesh che, come si vedrà meglio più avanti,
costituiscono una percentuale rilevante della presenza straniera
complessiva in ciascuno dei due territori. Il presente studio ha
dunque una funzione idealmente propedeutica rispetto alle attività
suesposte, in quanto si propone di gettare nuova luce sul processo
di integrazione delle due comunità, evidenziandone gli eventuali
punti deboli nonché la potenzialità delle misure progettate di porvi
rimedio.

Obiettivi, metodologia e articolazione dello studio
Come accennato sopra, lo studio che segue ha come obiettivo
principale quello di fornire una fotografia il più possibile accurata
delle principali caratteristiche delle due comunità immigrate, capace
di fornire un contributo alla messa in atto di politiche mirate
all’inserimento (o al reinserimento) nel mercato del lavoro locale.
Considerando però che il lavoro costituisce soltanto una parte del
processo di integrazione, lo studio cercherà (per quanto possibile)
di spaziare nei diversi ambiti dell’inclusione socio-economico-
3
  Per un ulteriore approfondimento, si veda anche Regione autonoma Friuli Venezia
Giulia, Programmazione pluriennale in tema di politiche del lavoro e dell’integrazione
2014-2020 (attualmente in fase di rimodulazione), in
http://www.integrazionemigranti.gov.it/leregioni/friuli-venezia-giulia/Pagine/Piano-integrato-
di-intervento-regionale.aspx

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culturale dei cittadini delle comunità oggetto dell’indagine;
un’integrazione riuscita, e un sistema di relazioni positive con il
contesto territoriale costituiscono infatti il necessario corollario
perché l’inserimento nella nuova società sia il più possibile
armonico e portatore di benefici reciproci. Per quanto riguarda
l’approccio metodologico, il lavoro si basa essenzialmente sul
reperimento e la sistematizzazione di dati esistenti, riguardanti la
storia migratoria, la consistenza numerica, la composizione
familiare, l’integrazione sociale, culturale, scolastica e lavorativa
delle comunità oggetto dell’incarico. Nella misura del possibile, si
cercherà inoltre di verificare le evidenze risultanti dai dati raccolti e
le ipotesi in base ad essi formulate con una serie di riscontri
qualitativi, costituiti essenzialmente da colloqui con testimoni
privilegiati (istituzioni di governo del territorio, datori di lavoro,
scuole, individualità particolarmente rappresentative di ciascuna
delle due comunità) e da interviste semi-strutturate con alcuni
membri delle rispettive comunità, selezionati in base al loro progetto
migratorio. Si tratta quindi di uno studio di impostazione quali-
quantitativa, con un “occhio di riguardo”, però, alle aggregazioni
associative espresse dalle due comunità, dato che dal documento
di progetto si evince che “l’intervento consoliderà la
rappresentatività delle associazioni dei migranti e delle associazioni
per l’integrazione dei migranti (...) invitandoli, di volta in volta, quali
interlocutori privilegiati della P.A. allo scopo di rilevare/rispondere a
bisogni di target mirati”. In ottemperanza a questa linea di indirizzo,
la parte qualitativa del lavoro cerca di scavare più in profondità nelle
modalità di aggregazione delle due comunità, per poter mettere a
disposizione della successiva azione progettuale canali di
comunicazione che consentano un contatto non mediato con la
realtà socio/culturale dei due gruppi, e, come conseguenza, di
portare l’offerta del nuovo servizio direttamente all’attenzione degli
interessati.
Dato che l’oggetto dello studio è costituito da due gruppi nazionali,
si è ritenuto opportuno iniziare con una breve panoramica sulle
principali caratteristiche del paese di provenienza, per mettere in
luce fattori storico-economici che possono influenzare in maniera

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rilevante le dinamiche migratorie dei suoi cittadini4. Si prosegue poi,
sempre seguendo un’ottica che va dal generale al particolare, con
le caratteristiche della migrazione di ciascuna delle due comunità,
concentrandosi, dopo brevi cenni di carattere globale, sulla
situazione nazionale e regionale, fino a considerare più nel dettaglio
l’area di intervento specifico. Una volta inquadrato il fenomeno
locale a livello di presenze attuali e di trend storici, si passerà ad
esaminare, sulla base dei dati forniti dall’Agenzia regionale per il
lavoro, le dinamiche occupazionali delle due comunità nei rispettivi
territori, con particolare riguardo alle modalità contrattuali di lavoro,
nell’intento di mettere in luce le tendenze conseguenti alla crisi
occupazionale ed economica che ha colpito i due territori e in
particolare le comunità oggetto dello studio. Il focus sulla situazione
lavorativa proseguirà poi con i dati (anch’essi di fonte regionale)
riguardanti l’utilizzo (attuale e degli ultimi sette-otto anni) dei servizi
dei Centri per l’Impiego da parte dei lavoratori stranieri: ciò servirà
come base (in sede di valutazione dell’attività) per verificare il livello
di gradimento della mediazione interculturale che verrà
successivamente sperimentata nel corso del progetto. Le parti
successive (di impostazione maggiormente qualitativa) si
concentreranno rispettivamente sulla dimensione familiare,
alloggiativa e scolastica della migrazione e del processo di
integrazione, sulla base (oltre che di alcuni dati sulle presenze
forniti dalle scuole e dalle amministrazioni comunali) di colloqui con
personale scolastico, mediatrici interculturali e appartenenti alle due
comunità. Seguirà poi una ricognizione dell’associazionismo delle
due comunità, sulla base delle interviste effettuate con presidenti di
associazioni nazionali e rappresentanti delle maggiori comunità
religiose.

4
  Dati i limiti spazio-temporali del presente studio, non sarà ovviamente possibile dargli
quello spazio di analisi transnazionale raccomandato dalle più recenti tendenze della
ricerca, che tende a non limitare lo studio di ogni comunità soltanto al paese di
insediamento, ma lo estende anche a quello di origine. V. in proposito A. Priori, Romer
Probashira, Reti sociali e itinerari transnazionali bangladesi a Roma, Meti edizioni 2012, p.
15 e ss.
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Inquadramento storico-politico-economico del Paese
I movimenti migratori dal Bangladesh sono strettamente
interconnessi con la storia recente del Paese, colonia britannica per
oltre 200 anni. Dopo essere stata suddivisa fra diversi regni
nell’antichità, la regione del Bengala ha subito la conquista islamica
a partire dagli inizi del XIII secolo, portata da missionari, sufi e
mercanti medio-orientali. Seguendo una modalità della conquista
coloniale ampiamente sperimentata in                diversi contesti,
l’assoggettamento alla corona inglese (1858) è stato preceduto da
oltre un secolo di dominazione della Compagnia inglese delle Indie
Orientali (cfr. Quattrocchi, 2003, pp. 19-20; Priori, 2012, p. 31 e
ss.). L’odierno Bangladesh è il risultato della partition britannica,
che nel 1947 diede vita a due stati indipendenti e separati, India e
Pakistan. La regione del Bengala venne suddivisa secondo confini
religiosi: la parte occidentale diventò lo stato indiano del West
Bengal, mentre quella orientale, a predominanza musulmana, prese
il nome di Pakistan orientale. Le crescenti frizioni interne al
Pakistan (che era comunque diviso da oltre 1.600 km di territorio
indiano) sfociarono in una brevissima e sanguinosa guerra di
indipendenza, dalla quale sorse nel 1971 il Bangladesh nei suoi
confini attuali.
Oggi, la repubblica popolare del Bangladesh (People’s Republic of
Bangladesh) è uno dei paesi più popolosi al mondo, con una
superficie (147.570 kmq) inferiore alla metà di quella italiana e una
popolazione stimata in 161 milioni (UN population statistics, 2015).
Attualmente (2015) la diaspora bengalese all’estero conta oltre 7
milioni di persone (7.205.410), quasi quintuplicate rispetto ai
1.493.000 del 2003 e cresciute di due volte e mezzo dai 2.908.000
del 2010 (IBRD, World Development Indicators 2013). Gli immigrati
presenti nel paese sono quasi un milione e mezzo (1.422.805). Le
previsioni al 2050 stimano per il Bangladesh una popolazione totale
di oltre 202 milioni di abitanti (IDOS, 2016, 23).
L’indice di sviluppo umano del Bangladesh (0,570), che lo pone
attualmente al 142° posto nel mondo (in terzultima posizione fra i
paesi a sviluppo umano medio, prima della Cambogia e di Sao
Tomé e Principe) è sostanzialmente stagnante a partire dal 2010,
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dopo aver conosciuto una discreta crescita nei due decenni
precedenti (UN Human Development Report 2015, Statistical
Annex, Human Development Index Trends 1990-2014)

La diaspora europea e italiana
La regione del Bengala ha una grande tradizione storica, da
sempre al centro delle rotte commerciali che collegavano Europa e
Asia (cfr. Priori, 2012, p. 31): “le città del Bengala erano luoghi
cosmopoliti dove beni e valute cambiavano di mano e dove si
mescolavano idee da tutto il mondo conosciuto” (Van Schendel
2009, p. 43). Sulla base di questa consolidata tradizione si inserì il
reclutamento massiccio di marinai da parte della Compagnia delle
Indie Orientali, spesso attraverso l’intermediazione di broker indiani,
che diede vita alle prime comunità di bengalesi in terraferma,
soprattutto a Londra, oltre che in vari porti asiatici e degli Stati Uniti.
L’emanazione del British Nationality Act nel 1948, che liberalizzava
la permanenza nel Regno Unito di tutti i cittadini delle ex-colonie,
contribuì molto ad ingrossare le fila della comunità bangla a Londra,
che, con i suoi 6.000 componenti, raccoglieva negli anni ‘60 la
quasi totalità degli emigranti bengalesi oltremare. Anche le
successive restrizioni introdotte dal legislatore britannico,
paradossalmente, hanno contribuito ad irrobustire la presenza dei
bengalesi sull’isola, rafforzandone la catena migratoria (cfr.
Demaio, Pittau, 2009, p. 329 e ss.): il Commonwealth Immigration
Act del 1962 riservava infatti l’ingresso nel Paese a quanti potevano
dimostrare di essere stati chiamati da un datore di lavoro locale (cfr.
Priori, 2012, p. 37). A riprova del ruolo fondamentale della
legislazione nella disciplina dei flussi migratori, fu ancora un
provvedimento del 1971 (Immigration Act) ad imprimere una svolta
ai destini delle comunità bengalesi: dato che la legge consentiva
l’ingresso solo a quanti potevano dimostrare un legame di parentela
con un immigrato già presente nel Paese, il ruolo dei
ricongiungimenti familiari crebbe di importanza nella composizione
della comunità, portando alla stabilizzazione e al radicamento del
soggiorno.

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Se il Regno Unito (a causa dei legami storico-coloniali accennati
sopra) è stata la prima e principale mèta degli emigranti bengalesi
oltremare, a partire dagli anni ‘70 si assiste ad una progressiva
diversificazione delle rotte migratorie, che li portarono a stabilirsi sia
in Medioriente che nell’Europa centrale, orientale, e mediterranea. Il
boom economico generato dall’aumento dei prezzi del petrolio nel
1973-74 da’ origine, nei paesi del Golfo, a forti richieste di
manodopera straniera che, se all’inizio si dirige essenzialmente
verso professioni qualificate, negli anni ‘90 si concentrerà
soprattutto sulla forza-lavoro a basso costo, con conseguente
scarso prestigio sociale (cfr. Quattrocchi, 2003, p. 49) L’afflusso
verso Germania e Francia fu invece originato rispettivamente da un
forte afflusso di profughi alla metà degli anni ‘70 e dalle aspettative
create dall’elezione di un presidente socialista (François
Mitterrand). Nel giro di due decenni, però, i flussi si sarebbero diretti
in maniera consistente verso i paesi mediterranei come Spagna,
Grecia e Italia: a questo cambio di rotta contribuirono da una parte
le restrizioni all’ingresso introdotte dalla Francia (e ancor prima
dalla Germania) e dall’altra il rapido esaurirsi delle speranze di
accoglienza nei Paesi dell’ex-blocco socialista post-89, deluse dalle
difficoltà economiche della transizione e dalle crescenti ondate di
razzismo. I paesi mediterranei, invece, erano a quell’epoca
caratterizzati al tempo stesso da un’economia relativamente
avanzata, da una forte permeabilità geografica e anche da un livello
di controlli relativamente lasco (cfr. Quattrocchi, 2003, p. 58).
Questo insieme di ragioni fece sì che, all’inizio del XXI secolo, la
comunità bengalese contasse circa 7.000 membri in Spagna,
11.000 in Grecia e ben 70.000 in Italia (Priori, 2012, p. 59).
In realtà, le prime tracce di presenza bengalese risalgono agli anni
‘70, ma si tratta di poche centinaia di persone, concentrate perlopiù
a Roma. E’ invece alla fine degli anni ’80 che vengono a
concentrarsi sull’Italia una serie di accadimenti (nazionali e globali)
ai quali si fa concordemente risalire la formazione di una comunità
nazionale bengalese nel nostro Paese. Mentre da una parte si
inaridiscono le prospettive che sembravano essersi aperte nei paesi
arabi del Golfo (v. sopra), dall’altra l’Italia lancia, con la legge
Martelli (l. 39/1990) una sanatoria dai confini estremamente ampi,
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che viene accordata a chiunque sia in grado di dimostrare la propria
presenza sul territorio nazionale            al 31 dicembre 1989,
indipendentemente dal possesso di un contratto di lavoro. La
sanatoria porta alla regolarizzazione di 4.296 bengalesi (Priori,
2012, p. 63) che vanno a costituire il primo nucleo stabile di
immigrazione in Italia e che si stabiliscono prevalentemente a
Roma (dove ancora nel 1991 risiedeva il 92% di tutti i bengalesi
d’Italia). Se la sistemazione alloggiativa era improntata ad
un’estrema precarietà (i bengalesi erano infatti presenti in misura
rilevante fra gli occupanti del pastificio abbandonato “Pantanella” di
Roma), l’inserimento lavorativo era diversificato: accanto ad una
rilevante presenza in settori marginali (come quello delle vendite
ambulanti, soprattutto per quanti erano privi di permesso di
soggiorno), i bengalesi erano presenti anche nel settore alberghiero
e nella ristorazione, seppure in ruoli non a contatto con il pubblico
(cucine, pulizia camere, etc.). A proposito delle modalità di ingresso
nel mercato del lavoro, e con uno sguardo alla situazione attuale
dell’impiego dei bengalesi a Monfalcone, è interessante notare
l’opinione di Priori, che, sulla base di un lavoro di Knights (1996)
ritiene che la collettività mostri una spiccata preferenza per il
sistema del passaparola, “evitando qualsiasi forma di mediazione
formale” (Priori, 2012, p. 66). Un altro dato interessante è che, già
ai tempi della prima presenza a Roma, metà dei bengalesi erano
originari della città di Shariatpur (Mantovan, 2003, p. 286). Nel
contesto monfalconese (come si vedrà più avanti) l’associazione
dei “paesani” (come essi stessi si definiscono) di Shariatpur appare
l’aggregazione più consistente, in termini numerici, fra quelle che si
rifanno ad una comune provenienza infranazionale.

La presenza in Italia
L’Italia, nonostante rappresenti per molti stranieri una cd.
“migrazione opportunista” (cioè originata da una serie di circostanze
storiche e geo-politiche che abbiamo brevemente riassunto sopra),
mantiene intatta, almeno per i migranti provenienti dal Bangladesh,
la sua forza di attrazione. La presenza bengalese nel nostro Paese
è infatti andata progressivamente consolidandosi, fino a contare, al
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1° gennaio 2016, 143.870 titolari di un permesso di soggiorno e
118.790 residenti. La percentuale femminile a livello nazionale è del
29,2%, mentre in oltre la metà dei casi (54,5%) si tratta di permessi
di soggiorno senza scadenza. Il restante 45,5% di titoli di soggiorno
a termine è a sua volta composto dal 59,3 % di permessi per motivi
di lavoro, 28,3% per motivi di famiglia e solo l’11,2% per protezione
internazionale.
Anche il numero dei residenti è andato crescendo in misura
considerevole negli ultimi anni, facendo registrare un aumento del
115% fra il 2008 e il 2016 (e quindi ben più consistente sia del 79%
degli immigrati asiatici che del 46% degli stranieri in generale),
come si vede chiaramente dai valori assoluti contenuti nella
seguente tabella:

Tab. 1. Cittadini stranieri residenti in Italia. Serie storica 2008-2016

         2008        2009        2010        2011        2012        2013        2014        2015        2016
           55.242      65.529    73.965      82.451      81.683      92.695      111.223     115.301     118.790
Bangl.
          551.985     616.060    687.365     765.696     719.376     803.846     931.281     969.445     989.438
Asia
         3.432.651   3.891.295   4.235.059   4.570.317   4.052.081   4.387.721   4.922.085   5.014.437   5.026.153
Totale

Fonte: elaborazione su dati ISTAT

In termini relativi, i bengalesi rappresentano l’ottava comunità
straniera in Italia, dopo i romeni, gli albanesi, i marocchini, i cinesi,
gli ucraini, i filippini e gli indiani.
A livello regionale e locale, il Lazio si conferma la prima regione di
residenza per la comunità bengalese in Italia, sia a livello di cifre
assolute (32.553) che in termini di incidenza (5% del totale degli
stranieri). La maggiore concentrazione si trova a Roma, che con
quasi 29.000 residenti bengalesi, continua a costituire il maggior
polo di attrazione nazionale (fonte ISTAT al 1° gennaio 2016). Il
Friuli Venezia Giulia, dove i 3.544 residenti bengalesi
rappresentano il 3,4% del totale degli stranieri residenti, è la quarta
regione (dopo Lazio, Sicilia e Veneto) per incidenza del gruppo sul
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totale delle presenze straniere costituisce quindi un importante
punto di riferimento per la comunità nazionale.
La presenza in Friuli Venezia Giulia e nell’area specifica
Come si è visto, fino ai primi anni del decennio la presenza
bengalese era concentrata essenzialmente su Roma, che già al 1°
gennaio 2001 ne ospitava oltre un terzo del totale (6.813 su
17.894). La provincia più importante, all’interno del Friuli Venezia
Giulia, era quella di Gorizia, che comunque contava appena 112
presenze. E’ proprio a partire dalla fine degli anni ‘90 che la
comunità bengalese in Italia inizia a spostarsi dalla capitale,
prevalentemente verso i centri medio-grandi del Nord, attirata dalle
maggiori opportunità di lavoro5.
Attualmente (1° gennaio 2016), come accennato sopra, i residenti
bengalesi in Friuli Venezia Giulia sono 3.544, con un aumento di
quasi il 73% rispetto al 2008, un trend tutto sommato non lontano
dalla crescita dei cittadini asiatici in regione (76,5%), ma
decisamente superiore se confrontato al 26,3% dei cittadini stranieri
nella loro totalità.

Tab. 2. Cittadini stranieri residenti in Friuli Venezia Giulia. Serie storica
2008-2016
       2008   2009   2010    2011    2012 2013      2014    2015    2016
Bangl. 2.050 2.595     2.875   3.014 2.802    3.191   3.439   3.569   3.544
Asia    7.397 8.829    9.866 10.640 10.068 11.161 12.059 12.443 13.056
Totale 83.306 94.976 100.850 105.286 97.327 102.568 107.917 107.559 105.222
Fonte: elaborazione su dati ISTAT

La gran parte della popolazione bengalese in Friuli Venezia Giulia
si concentra, come evidenziato dalla tabella seguente, in provincia
di Gorizia.

5
 Unica eccezione, Palermo, dove già a partire dal 1990 i bengalesi sono presenti in
misura consistente, e nel 2000 sfiorano le 1.600 presenze.
                                                                                      11
Tab. 3. Friuli Venezia Giulia: Residenti bengalesi per provincia
(01.01.2016)
                 Gorizia Pordenone Trieste Udine FVG      Nord-Est Italia
Res. Bangladesh   2.164         765    241    364   3.544    31.048   118.790
Totale stranieri 12.692      32.438 20.243 39.849 105.222 1.321.542 5.026.153

La tabella mostra anche chiaramente la forte incidenza della
comunità bengalese sul totale degli stranieri in provincia di Gorizia,
che si attesta al 17% circa. Nel panorama delle presenze straniere
in provincia di Gorizia, inoltre, i bengalesi rappresentano la prima
comunità in assoluto, come si vede dalla tabella seguente:

Tab. 4: prime 8 nazionalità in provincia di Gorizia (01.01.2016)

 Nazionalità       Prov. GO % su tot. stranieri (12.692)
 Bangladesh           2.164                       17,0%
 Romania              1.906                       15,0%
 Bosnia-Erzegovina      995                        7,8%
 Croazia                835                        6,6%
 Kosovo                 723                        5,7%
 Macedonia              699                          5,5
 Slovenia               531                          4,2
 Cina                   485                          3,8

Fonte: elaborazione su dati ISTAT

Dalla tabella si evince inoltre un panorama che, al di là dei
bengalesi (e dei cinesi, ottava nazionalità presente in provincia), si
compone essenzialmente di paesi dell’Europa orientale e
segnatamente dell’ex-Jugoslavia (i cittadini serbi sono a quota 377).
L’attuale peso specifico relativo delle varie nazionalità presenti in
provincia di Gorizia è frutto di un’evoluzione storica nel medio
periodo, dato che nel 2003 al primo posto figuravano gli sloveni
(con 1.144 presenze, più del doppio delle attuali) e i bengalesi (con
364 residenti) erano soltanto al quinto posto, dopo Slovenia,
Croazia, Bosnia-Erzegovina e Jugoslavia (dati Questura di Gorizia
al 19.04.2003, in Quattrocchi, 2003, p. 68). Ovviamente ogni
collettività nazionale ha seguito trend di evoluzione diversi della

                                                                                12
propria presenza sul territorio, ma quella bengalese è la comunità
che (dopo la romena) si è maggiormente rafforzata in provincia.
 La classifica della maggiori nazionalità rappresentate cambia
leggermente se, al posto della provincia di Gorizia, prendiamo in
esame il territorio di Monfalcone. Il dato interessante, in questo
caso, è che, diversamente dalle altre nazionalità considerate, i
bengalesi della provincia di Gorizia risiedono in grandissima parte
(il 90%) proprio nel Comune di Monfalcone, a conferma della
centralità assoluta del Comune oggetto dell’indagine nel contesto
della provincia di appartenenza. A sua volta, Monfalcone accoglie
oltre la metà (55%) dei bengalesi residenti in regione.
Il progressivo radicamento dei bengalesi in provincia di Gorizia è
anche testimoniato dal dato sulle acquisizioni di cittadinanza
italiana, come confermato dai dati ufficiali ottenuti dalla Prefettura di
Gorizia: se nel 2008 e nel 2009 queste sono assenti, cominciano
invece a prodursi a partire dal 2010, con un unico caso; l’anno di
maggior frequenza è il 2014, quando le acquisizioni sono state un
totale di 44, contro le 7 dell’anno precedente. Nel 2015 si assiste ad
una leggera flessione, che porta il totale dell’anno a 39 (5.953 a
livello nazionale, v. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
2016, p. 7). Se rapportiamo il numero di concessioni di cittadinanze
al totale della popolazione bengalese presente, vediamo che,
mentre a livello nazionale queste hanno rappresentato il 5% (1
residente bengalese su 20 è diventato cittadino italiano), a livello
provinciale ciò è avvenuto soltanto nell’1,8% dei casi (1 residente
su 55). Al di là dei totali generali, va notato che la stragrande
maggioranza si riferisce a naturalizzazioni, e cioè ad acquisizioni di
cittadinanza per residenza superiore a dieci anni: soltanto tre casi
(uno nel 2014 e due nel 2015) riguardano l’acquisizione ex art. 5
della legge sulla cittadinanza, e cioè per matrimonio con coniuge
cittadino italiano (che in un caso ha riguardato un uomo e nei
restanti due donne).        I dati mostrano anche che, delle 44
acquisizioni del 2014, ben 41 riguardavano uomini, e che soltanto
sei delle acquisizioni del 2015 hanno interessato donne.
Se le acquisizioni di cittadinanza forniscono un’indicazione riguardo
al grado di stabilità (e all’investimento sul loro futuro in Italia) degli
                                                                       13
immigrati stranieri, i dati sulle sottoscrizioni di accordi di
integrazione6 costituiscono invece un indicatore interessante per
misurare l’andamento dei nuovi arrivi. Fra il 2012 e il 2015 il dato
per tutti gli stranieri si mantiene costante ad un totale di 401
accordi, con una leggera caduta (da 394 a 362) nel passaggio fra il
2013 e il 2014. Inversa appare invece la tendenza della comunità
bengalese che, pur sostanzialmente stabile fra i 77 accordi
sottoscritti nel 2012 e i 68 del 2015, ha conosciuto nel 2014
(contrariamente a quanto avvenuto per la totalità degli stranieri) un
balzo in avanti del 62%, che l’ha portata da 74 a 120.
Che la provincia di Gorizia e il Comune di Monfalcone siano, dal
punto di vista della residenza dei bengalesi, quasi sovrapponibili,
viene confermato anche dalla tabella seguente, da cui si vede che
la situazione illustrata è costante nel tempo e caratterizza quindi in
maniera stabile l’insediamento bengalese in provincia di Gorizia (e
in regione). D’altro canto, il Comune di Monfalcone si sovrappone
anche alla cd. area omonima, data l’irrilevanza relativa dei residenti
bengalesi nei comuni di Staranzano e Ronchi dei Legionari.
Questa situazione di crescita costante (anche se lenta) delle
residenze a Monfalcone non trova però un preciso riscontro nelle
interviste:
Alcuni sono andati via nel 2013-2014 in altri paesi, perché aspettavano
lavoro, e non hanno trovato lavoro... tanti sono usciti da Monfalcone e sono
andati a cercare lavoro a Roma, a Milano... adesso sono circa 2.000...
adesso però la crisi è passata all’80%, nei cantieri c’è di nuovo lavoro...
Prima tanti amici venivano a cercare a me aiutami a cercare un lavoro, parli
con altri, parli con altra ditta, io sono tanto tempo in disoccupazione... adesso
sento veramente poco, vuol dire che si sta sistemando...
(Presidente di associazione)
in quanto probabilmente si tratta di trasferimenti non definitivi, e che
quindi non hanno comportato il cambio di residenza.

Tab. 5. Residenti bengalesi area di Monfalcone e provincia di Gorizia.
Serie storica 2008-2016

6
 Obbligo introdotto nel 2012, e che riguarda tutti gli stranieri che ricevono per la prima
volta un permesso di soggiorno.
                                                                                             14
2008       2009 2010    2011   2012   2013   2014   2015   2016
Monfalcone      973      1.265 1.437 1.455 1.338 1.583 1.739 1.866 1.945
Staranzano        0          0      0      0      4     11     20     17     16
Ronchi dei L.     0          0      7      5      4      3      4      6      8
Prov. GO Bgd. 1.068      1.380 1.566 1.650 1.450 1.735 1.955 1.866 2.164
Prov. GO tot. 8.360      9.688 10.484 10.870 10.088 11.222 12.067 12.546 12.692

La tendenza storica al rafforzamento sul territorio provinciale, cui si
è accennato sopra, si ritrova in gran parte anche se si fa riferimento
al Comune di Monfalcone. Come si vede dalla tabella che segue,
un terzo di tutti gli stranieri presenti nel Comune è di nazionalità
bengalese, che rappresenta quindi un attore da non sottovalutare
nel contesto dell’immigrazione locale. Se però escludiamo dal conto
i cittadini comunitari (che, com’è noto, almeno da un punto di vista
giuridico-amministrativo, sono equiparati ai cittadini nazionali) e
consideriamo soltanto i 3.642 residenti non comunitari, ecco che i
bengalesi diventano oltre la metà del totale (53,4%) e dunque
interlocutori imprescindibili dell’amministrazione pubblica per ogni
politica di integrazione nel tessuto socio-economico e culturale
locale.

Tab. 6: Prime 8 nazionalità residenti nel Comune di Monfalcone,
01.01.2016
    Nazionalità       Monfalcone % su tot. stranieri (5.776)
    Bangladesh             1.945                        33,6
    Romania                1.000                        17,3
    Croazia                  455                         7,9
    Bosnia-Erzegovina        381                         6,6
    Macedonia                292                         5,0
    Somalia                  184                         3,2
    Albania                  165                         2,8
    Cina                     159                         2,7
   Fonte: elaborazione su dati Servizi demografici del Comune di Monfalcone

Per quanto riguarda infine la presenza di minori, rileviamo che a
Monfalcone questa è notevolmente più alta che a livello nazionale: i
minori bengalesi (fino al 19° anno di età) sono infatti il 35% (un dato
grosso modo costante a partire dal 2008, con fluttuazioni intorno

                                                                                  15
all’1%) nel Comune di Monfalcone (dati Servizi Demografici
comunali) contro il 24,2% a livello nazionale (v. Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali, 2016, p. 14).

La condizione femminile
Dopo aver tratteggiato da un punto di vista statistico-quantitativo
l’importanza e il ruolo della comunità bengalese nel contesto
cittadino di Monfalcone, passiamo ora ad esaminare brevemente
altri aspetti relativi alla comunità, primo fra tutti quello della
ripartizione per genere. A livello nazionale, le comunità asiatiche
sono fra quelle che presentano una minore presenza femminile, e
quella monfalconese non fa eccezione. Può però essere
interessante verificare se e in quale misura la situazione locale si
discosta da quella nazionale, e soprattutto se, nel corso della storia
migratoria della comunità, si intravedono tendenze evolutive. Come
si diceva, a livello nazionale, le donne bengalesi rappresentano
soltanto il 29,2% del totale della comunità, mentre la componente
femminile totale dell’immigrazione si attesta ormai al 52,6%. Si
tratta ovviamente di un valore medio, che tiene conto di comunità a
forte prevalenza femminile, come quella ucraina (78,8%) ed altre
caratterizzate da una preponderante presenza maschile, come ad
esempio, oltre alla già citata comunità bengalese, la nazionalità
senegalese (27,1%). Nel contesto monfalconese odierno, sui 1.945
residenti bengalesi, 795 (quasi il 41%) sono donne, percentuale
peraltro identica a quella della provincia di Gorizia, per i motivi
sopra esposti. A partire dal 1999, quando le donne bengalesi erano
soltanto il 3% del totale (63), la situazione è andata gradualmente
evolvendosi nel senso di una maggiore „familiarizzazione“ di un
processo migratorio che all’inizio era partito come totalmente
maschile (cfr. Quattrocchi, 2003, pp. 78-79). Dieci anni dopo, infatti,
nel 2008, i dati dei servizi demografici del Comune di Monfalcone ci
consegnano una fotografia della composizione della comunità
bengalese in cui le donne sfiorano il 36%, fino ad arrivare al 41%
attuale. Il fatto che la percentuale fra i generi tenda a riequilibrarsi

                                                                     16
non equivale necessariamente ad una maggiore partecipazione
delle donne al mondo del lavoro. Nel caso delle donne bengalesi, il
tasso di inattività raggiungerebbe (a livello nazionale) addirittura
punte dell’80% (IDOS, 2016,109). Per quanto riguarda il livello
locale, l’immagine restituitaci dalle interviste è, com’era logico
attendersi, piuttosto variegata:
sì, tante donne lavorano qua, fanno negozi, negozi bengalesi, alimentari, call
center, qualcuna lavora pulizie, qualcuna lavora Comune come interprete,
anche ospedale, più donne, quelle che studiano qua.
(Presidente associazione)

Mia moglie non lavora, sta a casa con i bambini...anche a loro piace questo,
che non devono andare fuori, lavorare...se mia moglie va a lavorare, chi
gestisce mio figlio? Se no, figlio va fuori strada...
Non sanno italiano bene, allora dove deve lavorare? Loro sono contente. Tra
loro c’è contatti con le sue amiche, escono da casa, è loro che comandano....
(Commerciante)
Secondo una giovane mediatrice culturale sposata e con figli, il
problema non è la mancanza dell’autorizzazione del marito, quanto
piuttosto il fatto che la priorità sono sempre la casa e i figli, e il
lavoro è quindi una possibilità residuale.
Le donne che lavorano, secondo un’altra mediatrice:
posso anche contare quante sono qualcuno fa un’attività magari in casa,
senza un contratto, senza partita IVA, così, una fa la parrucchiera, perché lo
ha fatto in Bangladesh, oppure magari ha imparato...anche italiani ci vanno,
le spiego perché...se lei lavora a casa prende molto di meno, per esempio,
per un taglio femminile, se io vado dalla parrucchiera, lei mi prende almeno
20 euro, invece lei mi prende otto, e allora perché non vado?
(Mediatrice interculturale)
Altri impieghi casalinghi sono la sartoria, oppure ci sono donne che
danno ripetizioni di lingua bangla ai bambini, o anche di inglese,
matematica e italiano.

                                                                           17
Ci sono anche quelle che escono molto, sono nei parchi, però sempre tra di
loro, le donne sposate, quelle con i bambini... però ci sono le ragazze o i
ragazzi che sono in giro anche con gli amici italiani, escono molto, però le
donne sposate sono un po’ chiuse nella comunità...non sapendo parlare... e
poi la maggior delle donne italiane lavorano, e invece queste qua sono
sempre casalinghe, e quindi per loro è difficile comunicarsi.
(Mediatrice interculturale)
Tutto sommato le interviste, pur con l’inevitabile diversità di
sfumature, confermano in buona sostanza l’immagine di una donna
bengalese che da una parte è come minimo poco incoraggiata dal
marito ad uscire dal circuito casa-bambini-donne connazionali. I
mariti sembrano, infatti, far leva su argomenti (purtroppo) reali, quali
la scarsa o nulla conoscenza dell’italiano, la scarsa familiarità con
un ambiente estraneo per “convincerle” a rimanere in un ambito
intra-comunitario più agevole da tenere sotto controllo, facendo
della cura della casa e dei bambini il fulcro della loro vita
quotidiana.
D’altra parte, però, nonostante molti degli intervistati non lo
esplicitino chiaramente (ma tendano piuttosto ad addossarsi tutte le
colpe della mancanza di integrazione), l’atteggiamento degli
autoctoni, soprattutto in tempi recenti, non sembra incoraggiare una
maggiore interazione fra le componenti della società:
c’era un tempo, quando sono arrivata io, dieci anni, fa, che la gente era
simpaticissima, tutti accettavano a braccia aperte, e quindi...era bello... però
adesso, con questa crisi, ed essendo maggior parte di Monfalcone extra-
comunitari, sono un po’ infastiditi anche loro.
(Mediatrice interculturale)
La situazione, come accennato sopra, non è ovviamente monolitica
come potrebbe apparire ad un primo sguardo esterno e
superficiale. Da un’intervista (che purtroppo non è stato possibile
registrare, per il rifiuto dell’intervistato) ad un lavoratore di una ditta
industriale, residente a Ronchi, e in Italia dal 2004, risulta infatti che
la coppia ha rinunciato ad avere figli per i primi sei anni, perché la
moglie (che ha conseguito la licenza media a Staranzano) potesse
studiare, altrimenti, ha concluso l’intervistato:

                                                                             18
se la donna ha subito figli, come fa ad andare a lavorare? E' costretta a
rimanere in casa per occuparsi dei bambini, e non ha più tempo per il resto.
(Lavoratore metalmeccanico)

L’integrazione scolastica
Il panorama scolastico monfalconese è dominato (per quanto
riguarda le scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado,
che ricomprendono la grande maggioranza degli alunni stranieri) da
due istituti comprensivi (“E. Giacich” e “Randaccio”) che
racchiudono al proprio interno rispettivamente sette e sei scuole.
Complessivamente i due istituti hanno (nell’a.s. 2016/17) 2.182
alunni, di cui 729 (il 33,4%) stranieri. Fra questi ultimi, 361 sono
bengalesi, e rappresentano dunque quasi la metà (il 49,5%) della
popolazione scolastica straniera dei due istituti. Si tratta di valori
che, già ad un primo sguardo, appaiono di molto superiori a quelli
che si registrano a livello regionale, dove gli alunni stranieri non
arrivano al 12% del totale, con punte del 14% nelle scuole
dell’infanzia (cfr. Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Rapporto
immigrazione 2016, p. 35, con dati riferiti all’a. s. 2014/15).
All’interno di questi valori medi, si registrano ovviamente notevoli
differenze, sia fra i due istituti (il “Giacich” ha quasi il 40% di
stranieri, mentre al “Randaccio” sono poco più di uno su quattro)
che fra i diversi gradi di insegnamento. L’incidenza degli alunni
bengalesi, inoltre, è molto più rilevante nel “Giacich” che nel
“Randaccio”.
Nel primo Istituto, i cui plessi sono in gran parte più vicini al centro
cittadino, gli alunni stranieri sono 467 su un totale di 1.170, e cioè
circa il 39%, con punte di oltre il 67%. La vice-dirigente rileva una
grande mobilità degli alunni stessi, che provocherebbe forti difficoltà
di integrazione. Anche la partecipazione delle famiglie alla vita della
scuola sembrerebbe costituire un punto problematico nei rapporti

                                                                         19
con l’utenza straniera, a causa anche del fatto che le madri
bengalesi hanno difficoltà ad esprimersi in italiano.
Sembra inoltre che, a seguito del maggiore afflusso di alunni
stranieri (e bengalesi in particolare) nel “Giacich”, le famiglie italiane
tendano a spostare i propri figli verso altre realtà scolastiche, non
tanto il “Randaccio”, quanto soprattutto in scuole extraurbane
(Staranzano, Pieris e oltre), che spesso offrono il tempo pieno. La
vice-dirigente conferma questa sorta di “fuga” da parte delle
famiglie italiane, ma soltanto negli ultimi due anni, e limitatamente
ad una scuola (la “Duca d’Aosta”). Il fenomeno sarebbe inoltre
circoscritto alla frequenza a tempo pieno, di cui le famiglie straniere
tendono a fare minor uso rispetto a quelle italiane, sia per via dei
costi del servizio mensa che per la maggiore disponibilità delle
madri straniere a seguire personalmente i propri bambini, essendo
meno occupate dal lavoro rispetto alle autoctone.
L’istituto “Randaccio” (secondo dati forniti dallo stesso Istituto e dai
servizi demografici del Comune di Monfalcone, e relativi all’a.s.
2016-2017) comprende un totale di sei plessi scolastici, di cui tre
scuole dell’infanzia, due scuole primarie e una secondaria di I
grado, con un totale di 999 alunni, di cui 262 non italofoni. Il gruppo
numericamente più consistente è quello bengalese, con il 39% del
totale degli alunni stranieri, pari a 102, di cui oltre la metà (60) nati
in Italia e molti altri arrivati fra i 3 e i 5 anni di età. Le percentuali di
alunni stranieri variano ovviamente da scuola a scuola (soprattutto
in relazione al grado), da un minimo del 17% nella scuola media
fino al 90% (54 su 60, di cui 34 bengalesi) in una scuola
dell’infanzia (Collodi). Si tratta di una scuola ubicata molto vicino al
centro città, preferita dai genitori bengalesi per la praticità (le madri
sono quasi sempre prive di un mezzo di trasporto autonomo) degli
spostamenti. Nonostante l’alto numero dei nati in Italia fra i bambini
bengalesi possa far ritenere un buon grado di conoscenza della
lingua italiana (raffrontabile per certi versi a quello dei bambini
autoctoni), la testimonianza delle insegnanti smentisce questa
ipotesi:
…sono bambini che arrivano alla scuola dell’infanzia senza competenza in
lingua italiana…perché sono comunità molto chiuse, nel senso che vivono

                                                                          20
bene in rete fra loro, però i bambini sono abituati, la maggior parte, a giocare
fra loro, con pochi contatti con altri bambini…
diversi bambini arrivati alla scuola dell’infanzia, e che quindi il prossimo anno
andranno alla primaria, hanno competenze in italiano pari a zero.
(Insegnante scuola infanzia ist. comp. “Randaccio”)
La preponderante presenza bengalese fra gli alunni stranieri, unita
alla scarsa conoscenza dell’italiano, almeno nelle fasi iniziali,
provoca anche una situazione che rende difficile l’interazione con
gli alunni italiani:
essendo tutti bengalesi in una classe, o avendo la maggior parte degli
studenti bengalesi, il bambino o la bambina non riesce a comunicarsi con gli
italiani, con le maestre, e praticamente non impara niente, perché loro si
fanno un gruppo tra di loro, e rimangono sempre bengalesi.
(Mediatrice interculturale)
La criticità maggiore, almeno da dal punto di vista linguistico,
sembra tuttavia essere quella di comunicare con le famiglie, dato
che soltanto da poco le scuole possono usufruire di un servizio di
mediazione (grazie ad un progetto sostenuto dal Comune),
composto peraltro da un’unica mediatrice per tutto l’Istituto
comprensivo. L’utilizzo della mediazione per le scuole dell’infanzia
è essenzialmente dedicato alla comunicazione con le famiglie
(assemblee, etc.) e ai colloqui individuali con i genitori. La scuola
per l’infanzia fornisce anche corsi di sostegno in italiano L2.
L’Istituto “Randaccio” ha anche promosso, con la finalità di
permettere alle madri di occuparsi più proficuamente
dell’andamento scolastico dei figli, corsi di italiano L2
appositamente pensati per loro, che vengono tenuti dalle stesse
insegnanti della scuola, di mattina, presso la scuola stessa. Questo
mix (orario, ubicazione presso la scuola, insegnanti che le donne
già conoscono) sembra aver contribuito in maniera determinante al
successo di questi corsi, che, sempre secondo il corpo docente,
vengono frequentati con entusiasmo e con profitto.
Per quanto riguarda invece l’unica scuola secondaria dell’Istituto, il
problema della lingua sussiste ovviamente soltanto per i nuovi arrivi

                                                                             21
(che spesso si verificano nel corso dell’anno, e qualche volta negli
ultimi mesi), dato che gli alunni che hanno alle spalle cinque anni di
primaria sono perfettamente a proprio agio con la lingua italiana. Le
difficoltà dei nuovi arrivati sembrano però attenere ad una recente
evoluzione dei movimenti migratori dal Bangladesh:
abbiamo visto anche con la mediatrice culturale che, mentre anni fa questi
ragazzi provenivano da grandi città del Bangladesh, e quindi avevano avuto
già un certo tipo di istruzione, adesso stanno venendo da villaggi, da città più
piccole…
(Insegnante ist. comp. “Randaccio”)
Un ulteriore fattore di criticità, che influenza il buon andamento
scolastico degli alunni bengalesi, è quello legato ai frequenti (e
lunghi) spostamenti delle famiglie, che trascorrono diverse
settimane in patria, anche durante l’anno scolastico, ed è
riconducibile, nelle parole della responsabile dell’ufficio stranieri
della CGIL locale, alla scarsa familiarità di alcune comunità con il
concetto di scuola dell’obbligo:
c’è un po’ di problema su questo, da parte di alcuni genitori…il problema è la
scuola dell’obbligo, che non è una cosa dappertutto, perché non esiste, ad
esempio anche in Senegal, qua è obbligatorio, e farglielo capire non è tanto
facile…fanno su e giù, quando gli pare, e questo con la scuola non è… anche
per quelli della scuola diventa poi un altro impegno per farli integrare nelle
classi e tutto…questo è un problema grosso, bisogna dirlo...il discorso è di
farli studiare, o di qua o di là, bisogna scegliere.
(Responsabile ufficio stranieri, CGIL Monfalcone)
Ciò non toglie che ci siano esempi di bengalesi che sono andati
avanti con gli studi, anche fino all’Università, ma si tratta di appunto
di casi isolati:
ce ne sono anche all’università, però con problemi economici: eccolo qua,
per esempio Ryan, il primo bengalese diplomato, però adesso è in
Fincantieri…
(Responsabile ufficio stranieri, CGIL Monfalcone)

                                                                             22
Il lavoro, l’imprenditoria, le rimesse
Alcuni dati di base possono contribuire ad inquadrare il ruolo dei
lavoratori bengalesi nel contesto regionale.
In Friuli Venezia Giulia, gli occupati di nazionalità bengalese
rappresentano (dati INAIL 2015) circa l’1,9% del totale degli
stranieri (1.563 su 78.206). Su base regionale, gli occupati
bengalesi sono attivi soprattutto in provincia di Gorizia (876,
corrispondente al 56,0% del totale regionale) e, a seguire, nelle
province di Pordenone (24,6%, 385), di Udine (13,3% 208) e di
Trieste (6,0%, 94). Quasi un lavoratore straniero su 10 (il 9,6%) in
provincia di Gorizia è di nazionalità bengalese, contro 1 su 50 (il
2,0%) a livello regionale. Si tratta, di fatto, della quasi totalità dei
lavoratori dell’Asia centro-meridionale, che non vanno oltre il 10,9%
del totale. Anche in termini di assunzioni nette (2015) la parte del
leone spetta alla provincia di Gorizia, con 604 su 963 (il 62,7%), e
oltre la metà delle 1.863 assunzioni nette di lavoratori provenienti
dall’Asia centro-meridionale.
La tabella seguente presenta un riassunto schematico dei dati
salienti:
Tab. 7 Cittadini nati all’estero assicurati all’INAIL nel corso del 2015.
Occupati netti
Paesi             Pordenone Udine Gorizia Trieste FVG   Nord Est Italia
Bangladesh               208    385   876      94 1.563  15.607      64.055
Asia centro- mer.      1.072    946   991    247 3.256   60.327    269.741
Asia                   1.694 2.684  1.240    975 6.593 122.136     588.773
Totale                22.144 33.107 9.121 13.834 78.206 853.767 3.561.126
Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS, elaborazioni su dati INAIL

Da un confronto sugli ultimi tre anni disponibili (tab. 8) si evidenzia
una forte crescita in tutte le province (ma soprattutto a Pordenone
fra il 2013 e il 2014), tranne un lieve arretramento proprio nella
provincia di Gorizia nell’ultimo anno (dopo una forte crescita nel
precedente 2014), al quale peraltro non corrisponde un simile trend
nel caso dei lavoratori asiatici e sul totale.

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Tab. 8. Cittadini nati all’estero assicurati all’INAIL. Confronto 2013-14-
 15
Paesi                 Pordenone                    Udine                     Gorizia                    Trieste
               2013     2014     2015     2013     2014     2015     2013     2014     2015    2013     2014      2015

Bangladesh        36      243      208      182      316      385     599      891      876       60        87         94

Asia     c.-     390     1.066    1.072     403      849      946     637      958      991      127       218      247
mer.
Asia             674     1.693    1.694    1.182    2.548    2.684    734     1.215    1.240     445       928      975

Totale         22.500   21.690   22.144   33.654   32.920   33.107   9.246    9.098    9.121   13.881   13.712    13.834

 Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS, elaborazioni su dati INAIL

 Mentre i dati di fonte INAIL ci restituiscono una fotografia, per così
 dire, statica della situazione esistente, i dati dei Centri per l’Impiego
 (CPI), messi a disposizione dall’Agenzia regionale per il Lavoro, ci
 danno l’andamento storico di vari aspetti dell’occupazione a partire
 dal 2009, consentendoci così di avere un quadro della situazione
 lungo tutto il periodo della crisi economico-occupazionale iniziata
 nel 2008. A livello regionale, vediamo infatti che le assunzioni
 hanno subito un andamento altalenante, che le ha portate dalle
 1.250 del 2009 fino ad un picco di 1.803 nel 2013, dal quale sono
 (lievemente) ridiscese, per poi risalire a 1.794 nel 2015.
 L’andamento in provincia di Gorizia (la più importante, come si è
 visto, per i lavoratori bengalesi) è leggermente più favorevole
 rispetto a quello regionale, dato che il numero di assunzioni del
 2015 è quasi doppio rispetto a quello del 2009, ed è comunque il
 valore più alto della serie storica. Il rapporto fra eventi e teste, che
 può essere assunto come un indice di precarietà, è soltanto
 leggermente aumentato fra il 2009 (1,30) e il 2015 (1,48). Se però
 guardiamo ai saldi (differenza fra assunzioni e cessazioni nel
 rapporto di lavoro) vediamo che questi sono quasi raddoppiati dai
 161 del 2009 ai 293 del 2015 (+82%).
 Tab. 9. Assunzioni lavoratori bengalesi in Friuli Venezia Giulia. Serie
 storica 2009-2015
             Gorizia     Pordenone      Trieste      Udine      FVG totale
           eventi teste eventi teste eventi teste eventi teste eventi teste
 2009        704    542   183    144   171      69  192    144  1250     899
 2010        891    646   206    142     88     40  234    145  1419     973
 2011        799    589   135     97     79     50  208    134  1221     870

                                                                                                                  24
2012        1036      766       121       86       93          68   208   140   1458   1060
2013        1388      924       136       83      108          99   171   125   1803   1231
2014        1036      715        81       50      148         101   163   125   1428    991
2015        1404      945       108       66      127          92   155   119   1794   1222
Fonte: elaborazioni su dati Agenzia regionale per il lavoro

Meno favorevole (248) appare invece il saldo circoscritto al lavoro
dipendente „in senso stretto“, che si limita ai contratti a tempo
indeterminato, determinato, di apprendistato, ed interinale7. Il dato
sulla ripartizione provinciale conferma poi la forte (e progressiva)
preponderanza della presenza bengalese nella provincia di Gorizia
e, all’interno di questa, nel Comune di Monfalcone: se nel 2009 le
assunzioni di bengalesi avvenivano per il 56% nella provincia, tale
percentuale nel 2015 raggiungeva già il 78%, indicando un
progressivo aumento di importanza del territorio goriziano per
l’immigrazione bengalese. Sempre nel 2015, oltre il 96% delle
assunzioni in provincia di Gorizia era circoscritto al territorio
monfalconese. Uno sguardo ai codici ATECO (sempre relativi al
2015) ci indica con chiarezza che le assunzioni di bengalesi in
regione (ma abbiamo già visto in precedenza come, nel caso
specifico, i dati a livello di regione, di provincia di Gorizia e dell’area
monfalconese siano sostanzialmente sovrapponibili) riguardano
l’industria per oltre la metà dei casi (51%) e, nella metà di questi
ultimi, l’industria metalmeccanica. Oltre uno su cinque (il 21%)
riguarda l’edilizia, e più di uno su dieci (il 12%) il settore turistico
(alberghi e ristoranti). Dai dati sulla ripartizione ISTAT per qualifiche
risulta invece che quasi due su tre (il 64,3%) è stato assunto con la
qualifica di operaio specializzato, quasi il 20% con mansioni non
qualificate e poco più di uno su 20 (il 5,4%) come conduttori di
impianti operai di macchinari e conducenti di veicoli. Dalla
ripartizione per tipologia contrattuale (v. supra) si vede inoltre che le
assunzioni sono state effettuate nel 43% dei casi a tempo
determinato, e quelle a tempo indeterminato hanno riguardato
soltanto un lavoratore su cinque (il 20,8%), mentre molto più
rilevante appare la quota di assunzioni in regime di
somministrazione (il 31%) che, com’è noto, possono riguardare

7
  Ed esclude dunque le altre tipologie contrattuali, quali il parasubordinato, l’intermittente, i
tirocini, il lavoro domestico e i lavori socialmente utili (lsu)
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anche “missioni” estremamente brevi, perfino inferiori al giorno e
rappresentano dunque un chiaro indizio di precarietà nella
situazione lavorativa. Dalla tabella che segue si nota con molta
chiarezza la riduzione della “qualità del lavoro” negli anni: se da una
parte, infatti, l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato
aumenta di qualche punto percentuale, si assiste ad una vera a
propria esplosione del lavoro prestato con l’intermediazione delle
agenzie interinali, che in pochi anni passa da una rilevanza
pressoché nulla a quasi un quarto del totale.

Tab. 10. Assunzioni lavoratori bengalesi in provincia di Gorizia. Valori
percentuali per tipologia contrattuale. Serie storica 2009-2015
                                   2009 2011 2013      2015
           Apprend. e form. lavoro 3,14 0,68 0,76       0,85
                                                               Fonte: elaborazione su
           Determinato             67,34 69,27 69,05   50,48   dati Agenzia regionale
           Indeterminato           18,08 17,66 11,26   24,66   per il lavoro
           Parasubordinato          0,55 0,17 0,65      0,32
           Somministrato            0,37 3,06 13,31    23,28
           Intermittente            4,24 3,23 0,43      0,11
           Tirocinio                0,00 0,00 0,00      0,11
           Lav. domestico           6,27 5,60 4,55      0,21
           Lav.socialmente utili    0,00 0,34 0,00      0,00
           Totale                    100  100   100      100

Infine, quanto già notato a proposito dello scarsissimo
coinvolgimento della componente femminile nel lavoro (almeno in
quello oggetto di un contratto) viene confermato e addirittura
rafforzato dal dato relativo alla ripartizione per genere, che ci
restituisce un totale di 31 donne (di cui quasi la metà a tempo
determinato) assunte nel 2015 su un totale di 1.794 assunzioni.
Data la particolare situazione dei lavoratori bengalesi a Monfalcone
(v. infra), questi dati vanno comunque presi con cautela. Non è,
infatti, infrequente il caso di lavoratori impiegati (a Monfalcone) da
ditte con sede legale fuori regione, o, al contrario, di lavoratori
“trasfertisti” che, assunti magari a Marghera o a La Spezia,
vengono impiegati per periodi variabili presso i cantieri di
Monfalcone.

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