La complessa arte della traduzione. Parte II: l'etica del traduttore
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La complessa arte della traduzione. Parte II: l’etica del traduttore di Alejandra Crespo Martínez, “Revista de Letras”, traduzione di Francesca Lenti. Tradurre non consiste soltanto nel riversare un contenuto da una lingua a un’altra, ma anche nel trasmettere l’effetto che questo contenuto dovrebbe produrre in chi lo riceve, e per di più in mondi e culture differenti; è qui che si nasconde il suo grande problema. Le lingue sono i veicoli d’espressione di mondi reali molto diversi tra loro e, per questo, la ricerca di termini equivalenti tra una lingua e l’altra risulta particolarmente complessa; alcuni ostacoli diventano tanto più insormontabili quanto più lontane sono tra loro le due culture. In alcuni casi la distanza è tale che il traduttore si vede obbligato a intervenire, con maggiore o minore successo, per ottenere presso i suoi lettori lo stesso effetto, o perlomeno un effetto equivalente, di quello voluto dall’autore per i propri. Così inteso, il traduttore è essenzialmente un mediatore tra interlocutori che non possono stabilire un contatto diretto tra loro a causa della barriera imposta dalla lingua e, in questo senso, agisce come un canale di comunicazione tra chi ha prodotto il testo originale e i suoi lettori nella lingua di destinazione, come una strada che facilita e propizia il trasferimento culturale: I traduttori mediano tra le culture (che includono le ideologie, i sistemi morali e le strutture socio-politiche) con l’obiettivo di vincere le difficoltà che si presentano lungo la strada che porta al trasferimento di significato. Ciò che, in quanto segno, possiede un valore in una comunità culturale, può risultare sprovvisto di significato in un’altra, e il traduttore si ritrova immancabilmente a dover identificare tale disparità e cercare di risolverla[1]. La mediazione (traduzione) consta di un complesso procedimento che comprende l’interpretazione-lettura e la parafrasi di un testo. Tale procedimento dà luogo alla riformulazione (conosciuta col nome di traduzione libera) del testo originale che viene messa a disposizione di un gruppo di fruitori che altrimenti non potrebbero accedere al testo in maniera diretta. A differenza del lettore comune, il traduttore legge per produrre, decodifica per codificare nuovamente usando codici diversi; ma il territorio dal quale svolge questo compito non è un territorio vergine: in quanto individuo è governato da schemi interpretativi (le regole che reggono il gruppo sociale a cui appartiene), da principi creativi specifici (che probabilmente sono via via più diversi quanto più aumenta la distanza tra le culture), da concezioni distinte su come si ordina una data realtà, dalla tradizione, da ideologie, da credenze (sistemi di pensiero) e, in sostanza, da modelli legati a una determinata dinamica socioculturale. In questo senso, si suppone che ogni traduttore sia mosso da una certa etica, secondo la quale dovrà cercare di intercettare l’intenzione retorica generale e i valori discorsivi presenti nel testo originale e restarvi fedele (nei limiti del possibile); ciò nonostante, data la difficoltà che comporta rinnegare la propria natura, l’unica opzione realistica sarebbe cercare un equilibrio tra le diverse dimensioni (socioculturale, storica, ideologica…) e avvicinarsi il più possibile alle intenzioni dell’autore dell’originale, tenendo sempre presente che qualsiasi testo che voglia riprodurne un altro, scritto in una lingua diversa, porta inevitabilmente con sé una parte di interpretazione. Non è possibile
tradurre e basta. Si traduce avendo in mente una specifica comunità di lettori, a partire da un’ipotesi iniziale riguardo a cosa significhi tradurre e in circostanze che richiedono che queste direttrici astratte vengano adattate alle esigenze del momento (senza contare che potrebbero esistere altri obiettivi nascosti). In questo modo, tra autore e fruitore si apre uno spazio intermedio che viene occupato dal traduttore (che interpreta e rielabora). Un aspetto, questo, non esente dal rischio di polemiche, poiché implica la presenza della soggettività del traduttore in tutto il testo tradotto, soggettività che potrebbe a sua volta implicare la manipolazione del testo originale in varie forme più o meno fedeli alle intenzioni e agli effetti iniziali. La figura del traduttore inteso come interprete ha assunto una caratterizzazione più nitida negli ultimi decenni del ventesimo secolo, accompagnata dall’idea del traduttore- traditore che manipola intenzionalmente il messaggio e approfitta, dalla sua posizione di privilegio, dell’opportunità di lasciar intravedere il suo pensiero o quello dell’eminenza che ideologicamente lo patrocina e lo sostiene. In fondo, persino la scelta di tradurre un determinato testo presuppone un carico intenzionale non trascurabile. Secondo Borges, “le traduzioni che più si propongono di essere fedeli e letterali sono quelle che maggiormente tradiscono l’originale”[2], e il merito della traduzione risiede in quell’aspetto condannato dai più che altro non è se non ciò che Borges chiama infedeltà creatrice[3]. Tradizionalmente, le traduzioni vengono valutate sulla base di una comparazione con l’originale, e da questa operazione escono sempre sconfitte, poiché il traduttore non può riprodurre tutti gli aspetti linguistici, culturali e storici presenti nel testo iniziale. Tuttavia l’infedeltà creatrice riscrive l’opera in un contesto nuovo. Il testo cambia nel momento in cui cambia la lingua, cambiano le parole, le circostanze in cui vengono lette e la cultura nella quale si innestano. In tal senso, la traduzione si presenta come un processo di appropriazione nel quale vi è sempre una perdita, ma anche una trasformazione e la possibilità di creare qualcosa di nuovo. Se non fosse possibile modificare, non sarebbe possibile tradurre.
Da questo punto di vista il testo tradotto assume la stessa importanza dell’originale (in opposizione alla tradizionale concezione secondo cui la traduzione risultava sempre secondaria all’originale e perciò aveva meno valore) e ogni nuova traduzione presuppone una nuova opera tanto quanto una nuova lettura. In tal senso, le diverse versioni di un testo apparse nel corso della storia o in diverse lingue, secondo Borges, “non possono essere che abbozzi. Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza”[4], arrivando ad affermare che in alcuni casi “l’originale è infedele alla traduzione”[5]. Per lo scrittore argentino, tradurre è una maniera di leggere e leggere significa interpretare e costruire un testo; pertanto la traduzione smette di essere una copia dell’originale per diventare essa stessa un’opera originale, nuova e diversa. Secondo Borges, le migliori traduzioni non sono quelle che restituiscono il significato o le parole dell’originale, ma quelle meglio scritte, le più piacevoli da leggere. In definitiva, la traduzione non si valuta in rapporto alla sua fedeltà o distanza rispetto all’originale, ma sulla base della fedeltà alla cultura e alla lingua a cui è indirizzata. “Tradurre è uno strumento per creare cultura e rendere più grande una lingua, introducendo al suo interno echi di altre lingue”[6]. In ogni caso, già dagli inizi del XIX secolo, il problema della traduzione è stato indissolubilmente legato al problema del dialogo tra culture, a partire dalle considerazioni del filosofo e filologo romantico Schleiermacher. Nel suo Sui diversi metodi del tradurre[7] leggiamo: Quali vie deve allora percorrere il vero traduttore che intende realmente accostare questi due personaggi così separati tra loro, quali sono lo scrittore e il suo lettore, e venire in aiuto di quest’ultimo, senza tuttavia costringerlo a uscire dalla cerchia della lingua materna per poter capire e gustare il primo nella maniera più precisa e completa possibile? A mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore.
Stando così le cose, in conclusione bisogna dire che il processo di traduzione presuppone, senza dubbio, una comprensione/lettura dell’originale, che avviene da una prospettiva precisa e avendo in mente destinatari specifici; questa lettura varia inoltre a seconda delle epoche, delle culture e dei traduttori stessi. La comprensione di un testo è un lungo processo che non termina mai davvero, e ogni nuova interpretazione produce una nuova traduzione, una nuova lettura e, di conseguenza, amplia l’originale e lo completa. Una volta compreso va ripensato in un’altra lingua ed è questo a conferirgli una nuova portata. Qualsiasi lingua nella quale si intenda tradurre possiede modi di dire che probabilmente non coincidono con quelli della lingua d’origine. Ed è a partire da questa possibilità offerta dalla lingua di traduzione che il testo iniziale si va trasformando fino a esprimere con una forma nuova quanto detto nella lingua di partenza. Questo è possibile perché si pensa in una lingua diversa, e in questo modo la traduzione contribuisce alla piena comprensione del testo originale. La traduzione non è un tramite per arrivare all’originale, ma un mezzo per comprenderlo. Traducendo comprendiamo tutto ciò che è contenuto nella versione iniziale, ma lo comprendiamo in un altro modo. Si tratta, in sostanza, delle diverse relazioni dell’uomo con il mondo, che ogni lingua esprime a modo proprio. Tradurre significa individuare le relazioni con la realtà presenti in ogni lingua e usare il linguaggio, la lingua adatta per rielaborare queste relazioni una a una. Su questa stessa linea H.G. Gadamer in Verità e metodo afferma che “la traduzione di un testo, per quanto il traduttore sia penetrato nell’animo e nella mentalità dell’autore, non può essere mai una pura riattualizzazione del processo spirituale originario della produzione, ma una riproduzione del testo guidata dalla comprensione di ciò che in esso vien detto. Nessuno può mettere in dubbio che qui si tratta di una interpretazione, non di un puro ricalco”[8]. Può sembrare che tutte queste teorie sulla traduzione libera siano relativamente recenti e innovative, ma non potrebbe esserci niente di più lontano dalla realtà. Già nel I secolo a.C., il grande Cicerone, il primo difensore di questo metodo, oratore affermato e traduttore di scrittori come Eschine e Demostene, dichiarava: Ho tradotto da oratore, non già da interprete di un testo, con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi di rendere questo, con un lessico appropriato all’indole della nostra lingua. In essi non ho creduto di rendere parola per parola, ma ho mantenuto ogni carattere e ogni efficacia delle parole stesse. Perché non ho pensato più conveniente per il lettore dargli, soldo su soldo, una parola dopo l’altra: piuttosto,
sdebitarmene in solido[9]. [1] Basil Hatim, Ian Mason, Discourse and the Translator. The translator as a mediator, Routledge, Londra 1990. [2] La definizione è di Sergio Waisman, autore del volume: Borges y la traducción. La irreverencia de la periferia, Adriana Hidalgo Editora, Buenos Aires 2005; Borges e la traduzione. L’irriverenza della periferia, traduzione di Alessio Mirarchi, Arcoiris, Salerno 2014. [3] Jorge Luis Borges, I traduttori delle “Mille e una notte”, in Storia dell’eternità, da Tutte le opere, vol. I, a cura di Domenico Porzio e Hado Lyria, Mondadori, Milano 1984. [4] Jorge Luis Borges, Le versioni omeriche, in Discussione, da Tutte le opere, vol. I, cit. [5] Jorge Luis Borges, Sopra il “Vathek” di William Beckford, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere, vol. I, cit. [6] Juan Gabriel López Guix, Ana Gargatagli, Ficciones y teorías en la traducción: Jorge Luis Borges, Livius. Revista de estudios de traducción, n. 1, Universidad de León: Departamento de Filología Moderna, León 1992. [7] Friedrich Schleiermacher, Ueber die verschiedenen Methoden des Übersetzens (1813); Sui diversi metodi del tradurre, in Etica e ermeneutica, traduzione e cura di Giovanni Moretto, Bibliopolis, Napoli 1985. [8] Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, Erganzungen, Mohr Siebeck, Tübingen 1993; Verità e metodo 2, Integrazioni, traduzione e cura di Riccardo Dottori, Bompiani, Milano 1996. [9] Marco Tullio Cicerone, Libellus de optimo genere oratorium (46 a.C.); Qual è il migliore oratore, in Tutte le opere di Cicerone, traduzione e cura di Galeazzo Tissoni, Mondadori, Milano 1973.
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