L'Orazio satiro e il Dante profeta, ovvero: analisi dei possibili echi oraziani nella Commedia.

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Silvia Mangiatordi
                                                                       Università di Roma “La Sapienza”
                                                                                        18 Maggio 2021

L’Orazio satiro e il Dante profeta, ovvero: analisi dei possibili
echi oraziani nella Commedia.

Premessa

Il seguente lavoro di approfondimento non vuole essere un punto di arrivo ma, altresì, di partenza
per un dibattito. L’argomento che andrò a trattare non è, infatti, tale da consentire affermazioni
ferme e risolute: il modo in cui un autore attinga e si misuri con i suoi modelli non è mai univoco,
né tantomeno categorizzabile in qualche pagina di discussione. Tanto più se l’autore in questione è
un Sommo come Dante, che quanto a riferimenti letterari, com’è ben noto, non è affatto parco (ed
anzi, ad ogni rilettura della sua opera si possono scoprire interpretazioni e punti di vista sempre
nuovi, tale è la ricchezza di spunti).
Lo scopo che mi sono prefissata in questa sede è quello di analizzare due interessanti punti di vista
in merito all’utilizzo e adattamento dell’elemento satirico nell’opera dantesca e, in particolar modo,
nella Commedia, e a quanto possa aver influito in tale processo la figura e la dottrina di Orazio-
poeta. Trattasi, quello di Steno Vazzana da un lato e di Ambrogio Camozzi Pistoja dall’altro, di due
sviluppi che apparentemente si pongono agli antipodi, basandosi su assunti diversi, su riferimenti
testuali differenti, che in maniera prettamente didascalica (cercando di approfondire, laddove le
risorse in mio possesso me lo consentano) andrò ad esporre, cercando in un secondo momento di
trarre una breve e personale conclusione (ferma restando la mia consapevolezza di essere una
studentessa ancora alle prime armi con il mondo della Letteratura classica e non).

“Orazio satiro?”: un commento di Steno Vazzana a partire da Inferno IV, 89.

Punto di partenza della trattazione di Steno Vazzana è il canto IV dell’Inf. di Dante.
Il Canto descrive il Limbo, il I Cerchio dell'Inferno dove sono relegate le anime di coloro che
vissero virtuosamente, ma non furono battezzati (come i bambini morti in tenera età) oppure vissero
prima di Cristo (come i pagani, fra cui Virgilio stesso). Questi spiriti non sono dannati, la loro unica
pena consiste in un desiderio eternamente inappagato di vedere Dio e non potranno mai salvarsi. Il
nome Limbo significa «lembo» e indica l'orlo estremo della voragine infernale. Protagonisti del
Canto sono quattro fra i principali poeti classici secondo il pensiero medievale: anzitutto Omero,
autore di Iliade e Odissea e presentato come il più autorevole del gruppo, quindi Orazio, Ovidio,
Lucano. Proprio in merito ad Orazio, il poeta fiorentino scrive:
L’altro è Orazio satiro che vene
                                                                                       (Inf. IV, v. 89)

È proprio da questo verso che inizia la trattazione di Steno Vazzana, volta a comprendere quale
possa essere il valore che Dante attribuisce a quel satiro con cui accompagna Orazio, e se tale
dicitura possa essere sintomatica del tipo di influenza che il poeta antico ha avuto su quello
medievale.
Sembra che con l'espressione «Orazio satiro» null'altro Dante abbia inteso significare che «scrittore
di satire», quale Orazio stesso si era qualificato nell'epistola ai Pisoni:

                            Non ego inornata et dominantia nomina solum
                             verbaque, Pisones, satyrarum scriptor amabo
                          (Se io scriverò drammi satireschi, Pisoni, non userò
                            solo nomi e verbi senza figure e senza metafore)
                                                                                 (Ep. II 3. Vv. 234-5)

Ma sono veramente le Satire, di tutta la poesia oraziana, la parte che ha avuto più peso sulla poesia
Dante, come la definizione di Inf. IV, 89 sembra suggerire? Del resto, ciò potrebbe esser
comprovato dall’intera tradizione medioevale, rivolta a privilegiare, di tutta l'opera di Orazio, le
Satire e le Epistole, come le più fedeli a quella che si stimava la funzione essenziale della poesia,
cioè istruire nel vero e nel bene.

In realtà, facendo attenzione alle corrispondenze di linguaggio, che sono quelle meglio
documentano la frequentazione maggiore ο minore di un autore con altro, Vazzana ne rinviene due
sole in tutto il poema dantesco con le Satire oraziane. La prima è nell’Inferno:

                                Ma se presso il mattin del ver si sogna
                                                                                    (Inf. XXVI, v. 7),

che ripete il senso dell'esametro

                             Post mediam noctem. visus cum somnia vera
                                                                                    (Sat. I, X, v. 33).

L’altra è nel Paradiso:

                                        E molte volte taglia
                                più ο meglio una che le cinque spade
                                                                                 (Par. XVI, w. 71-2),

che ripete almeno quattro parole dell'oraziano

                                            Ridiculum aere
                            fortius et melius magnas plerumque secat res
                                                                                  (Sat. I, X, w. 15-6),
dove aere sta a «spade», fortius et melius a «più e meglio», plerumque a «molte volte», secat a
«taglia»; ma in un contesto completamente differente.
Due sole referenze sono troppo poco perché le Satire si possano dire presenti nel linguaggio poetico
di Dante e perché Dante possa riconoscere nel poeta satirico la qualità più caratteristica di Orazio.
Invero si rinvengono più numerosi echi stilistici dalle altre opere, a cominciare dagli Epodi, da cui
vengono riportati alcuni esempi:

    1. Inferno XVV. Nella VII Bolgia dell’ottavo cerchio, Dante incontra i ladri. Uno di loro
       subisce un’orrenda metamorfosi, venendo attaccato da un serpente che aderisce
       perfettamente al dannato, fondendosi con esso, e a tal proposito viene detto

                                           Ellera abbarbicata mai non fue
                                                     ad arbor sì
                                                                                               (Inf. XXV, v. 58)

        riprendendo l’oraziano

                               Arctius atque hedera procera adstringitur ilex
                          (Sull’alto leccio ti stringevi a me con le braccia flessuose)
                                                                                                 (Epo XV, v. 5)

        dell’Epodo XV, altresì noto come epodo della donna infedele1.

    2. Paradiso XXIII. Nel VII Cielo, quello delle Stelle Fisse, Beatrice annuncia l'arrivo delle
       schiere dei beati e di Cristo in trionfo. Dante vede in seguito migliaia di luci, simili alle
       stelle che circondano la luna nelle notti serene, in quanto sono illuminate da una luce assai
       più intensa (Cristo): all'interno di essa il poeta scorge la figura umana di Gesù, ma essa
       trascende le sue capacità visive e non è in grado di sostenerla. Proprio per indicare il
       maggiore bagliore di Cristo rispetto alle altre luci, viene detto

                                            Quale nei plenilunii sereni
                                           Trivia ride tra le ninfe eterne
                                                                                         (Par. XXIII. vv. 25-6)

        che in maniera esplicita riprende il modello latino

                                    Nox erat et coelo fulgebat luna sereno
                                               inter minora sidera
               (Era notte, e la luna splendeva nel cielo sereno in mezzo agli astri minor)

1
  L’amante ingannato dal falso giuramento della propria donna lancia un’invettiva sia a lei, Neera, che al rivale
vittorioso. Alla donna prospetta che un giorno gli uomini non cederanno più ai suoi capricci, all’ignoto rivale che
anch’egli sarà un giorno tradito da quella donna. Si tratta di un carme ricco di luoghi comuni, ma nel complesso si
avverte già l’atteggiamento di fondo di Orazio, che pensa facilmente a un superamento della passione o della
situazione presente con la prospettiva di un’altra.
(Epo, XV, vv. 1-2)

Nel secondo caso la trasfigurazione lirica dantesca risulta ben più energica che quella oraziana, ma
il quadro descritto è perfettamente identico: «Trivia ride» sta in fatti a fulgebat luna; «nei plenilunii
sereni» sta a coelo sereno; «tra le ninfe eterne» sta a inter minora sidera.
La più abbondante messe di derivazioni dalle Odi renderebbe testimonianza che stilisticamente
Dante ha più presente l'Orazio lirico che il «satiro». In verità la critica più recente tende a ridurre in
limiti assai ristretti la conoscenza diretta delle opere di Orazio da parte di Dante2, ma le
corrispondenze che individuiamo sembrano confermare il contrario. Si tratta di corrispondenze di
immagini e verbali. Sono assunzioni senza dubbio coscienti quelle che si riferiscono a medesimi
soggetti, com'è in

    1.                                   Nave senza nocchiero in gran tempesta
                                                                                                    (Purg. VI, v. 77),

         metafora delle pessime condizioni civili dell'Italia all'inizio del '300, che ripete la
         drammatica ansia di Orazio, alla ripresa della guerra civile fra Ottaviano e Antonio, per le
         sorti della repubblica3:

                                           Ο navis, referent in mare te novi
                                                          fluctus
                                    (O nave, nuovi flutti ti sospingeranno in mare!)4
                                                                                                   (Odi, I, XIV, v. 1);

         ode della quale Dante ripete perfino il sollicitum taedium (ivi, v. 17), l'affannoso disgusto,
         nell'immagine finale dell'Italia «bordello», che chiude la terzina (Purg. VI, v. 71).

    2.                                       La morte prese subitanea e atra
                                                                                                      (Par. VI, v. 78),

         detto di Cleopatra durante il racconto della “storia dell’aquila”, rimanda indubitabilmente,
         per la presenza di atra, all'oraziano

                                    ut atrum corpore conbiberet venenum
                                  (per assorbire nel suo corpo il nero veleno)
                                                                                            (Odi. I, XXXVII, v. 27),

         detto della regina superba, ma eroica, che preferì suicidarsi, piuttosto che

2
  «La conoscenza di Orazio da parte di Dante è largamente deficitaria. Oltre alle Odi e agli Epodi (per tutti minus
usuales) non pare che Dante abbia letto neppure le Satire e le Epistole... L Arte Poetica è Punico testo di Orazio per cui
sia possibile dire che fu noto direttamente a Dante» (G. Brignoli, voce Orazio, in Enc. Dant. IV. P. 176)
3
  Quintiliano (Inst. Orat. VIII, b. 44) testimonia che si tratta proprio di questo evento
4
  La nave, in balia dei pericoli e dei flussi, è un’immagine classica già usata nella poesia greca e da Cicerone nel primo
libro del De republica.
deduci superbo
                                     non humilis mulier triumpho
              (essere condotta, come donna comune, lei, donna regale, al superbo trionfo)
                                                                                       (ivi, w. 31-2).

    3. Anche l’invocazione alle Muse, all’inizio del Purgatorio:
                                  Ο sante Muse, poi che vostro sono
                                                                                                              (Purg. I. 8)

         ripete in forme non molto differenti l'oraziano

                                            Vester, Camenae, vester in arduos
                                                      tollor Sabinos
                                                                                                 (Odi, III. IV, vv. 21).

         In forma meno enfatica, ma altrettanto convinta e incisiva, Dante ripete la fede di Orazio
         nella poesia.

Altrove il riferimento non è legato alla scelta lessicale, ma la memoria oraziana è nel suggerimento
congiunto della scena e della metafora ad essa implicita. Mi limito a riportare uno degli esempi
citati dal Vazzana, vale a dire il giudizio di Dante su Omero

                                        che sopra gli altri com'aquila vola
                                                                                                          (Inf. IV, v. 96)

che innegabilmente è stato suggerito per riflesso da quello di Orazio su Pindaro nell’ode a Iullo
Antonio, che fu, come Ovidio, una vittima del rigore augusteo5:

                                   Pindarum quisquis studet aemulari,
                                         Sulle, ceratis ope dedalea
                                       nititur pennis vitreo daturus
                                               nomina ponto
                      (Chi vuole imitare Pindaro, Iullo, si alza in volo con ali di cera
                        al modo di Dedalo, che diede il suo nome al limpido mare)
                                                                                      (Odi IV, II, vv. 1-4).

Troppo identiche appaiono le immagini dei due poeti come grandi uccelli pennuti e troppo evidente
la similarità di Pindaro, non raggiungibile da alcuno, con l'aquila che vola alta sugli altri volatili.

5
 L’ode rivolta a Iullo Antonio, un letterato della corte di Augusto, svolge il tema della recusatio. È imminente il ritorno
di Augusto a Roma dalle Gallie, dove ha trionfato sui Sigambri: a Orazio è stata chiesta una celebrazione di stile
pindarico, ma il poeta dichiara di non essere all’altezza e lascia il compito al destinatario. In realtà qualcosa è concesso
di quel che si rifiuta e gli accenni all’impresa di Augusto sono solenni e in stile appunto pindarico. Ma l’insistenza con
cui il poeta difende le proprie scelte è notevole, specie se consideriamo che in quegli anni (la datazione probabile
oscilla dal 15 al 13) il regime di Augusto era ben consolidato e assai meno tollerante dei primi tempi.
La più ampia messe di richiami oraziani in Dante si raccoglie però dalle Epistole. Se si può
accettare la distinzione che ha fatto il Turolla di tutta l'opera oraziana in due soli generi, il lirico
(Odi ed Epodi) e il satirico (Satire ed Epistole)6, questa potrebbe giustificare la definizione di
«Orazio satiro», perché questo genere potrebbe effettivamente apparire il più seguito da Dante,
stanti i riscontri più numerosi nelle Epistole che nelle Odi. Ma anche più in evidenza appare in
questo settore la tematica moralistica. Non mancano neanche qui palesi corrispondenze verbali.

In primis va menzionato il celeberrimo virtus et sapientia, che fa fede che nella costruzione del suo
Ulisse Dante non dimenticò l'Ulisse oraziano, anzi lo sentì come antitetico al virgiliano scelerum
inventer7, facendo infine risultare il suo dalla sintesi di entrambi:

                                       Fatti non foste a viver come bruti,
                                       ma per seguir virtute e conoscenza
                                                                                               (Inf. XXVI. vv. 118-9)

                                    Quid virtus et sapientia possit
                               utile proposuit nobis exemplar Ulixen
         (Di contro si propone Ulisse, esempio e simbolo di ciò che possono virtù e saggezza)
                                                                                 (Ep. I, II, vv. 17-8).

La virtus et sapientia, che Orazio riconosce ad Ulisse, nell'Ulisse dantesco è rimasta mortificata e
tradita da quello scelus che Dante trovava evidenziato in Virgilio e che in lui prende la fisionomia
di fraudolenta persuasione al male. Ma non c'è dubbio che questa persuasione Dante trovò comodo
costruirla con le parole positive di Orazio, che credette alla virtù di Ulisse, trasferendo di peso virtus
et sapientia in «virtù e conoscenza», seppur evidenziandone l'impiego negativo.

Ma la parentela più stretta fra Dante e Orazio, specialmente con le sue Epistole, non è tanto di
natura verbale quanto concettuale, tramite la quale anche per il fiorentino il poeta latino è maestro
di vita.

E la lezione più frequente delle Epistole oraziane arriva a Dante da quella ai Pisoni, alla quale fa
riferimento anche nell’epistola a Cangrande (Epis. XIII, 308) e nel De Vulgari Eloquentia (II, IV,
4), dove il venosino è detto “magister noster Horatius”, e “magister” proprio in riferimento a quegli
insegnamenti che gli vennero da quell’epistola, che Quintiliano a ragione aveva intitolata Ars
Poetica. Ciò può essere una prova che la riflessione dantesca sull'arte poetica, che fu lunga e
approfondita in tutta la sua opera, trovasse nella riflessione oraziana un netto riscontro.

6
  Ε. Τurolla, Orazio. Firenze 1931
7
  En II, ν. 164
8
   In questa sezione dell’epistola, più volte messa in dubbio dagli studiosi moderni per via di alcune affermazioni circa
l'interpretazione del poema, Dante introduce un commento della Commedia. Iniziando proprio dal giustificare il titolo
scelto per il poema, l’autore riprende il concetto della diversità di linguaggio a seconda del genere che si sta trattando,
e scrive: Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter, sicut vult
Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso: interdum tamen et vocem
comedia tollit, iratusque Chremes tumido delitigat ore; et tragicus plerunque dolet sermone pedestri Telephus et
Peleus, etc.
1. Più volte Dante sente nel Paradiso la responsabilità di non sapersi levare all’altezza del tema
   troppo arduo e chiede venia al lettore. Ad esempio, quando viene scritto:

                                   Ma chi pensasse il ponderoso
                                 e l'omero mortal che se ne carca
                                noi biasmerebbe se sott'esso trema
                                                                           (Par. XXIII, w. 64-6).

   Non si può ignorare il riferimento al passo oraziano

                      Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam
                         viribus et versate diu quid ferre recusent,
                                    quid valeant humeri
      (Voi che scrivete, prendete un argomento pari alle vostre forze, e valutate bene cosa le
                            vostre spalle possono sopportare e cosa no)
                                                                            (Ep. II, III, w. 38-40)

   Dante sembra trascurarne qui il consiglio, dal momento che continuerà poi a raccontare la
   sua ascesa all’Empireo fino all’incontro finale con la Trinità. Tuttavia, sembra che lo abbia
   invece accolto nel De Vulgari Eloquentia.
   Nel secondo libro, infatti, Dante si pone di discutere come alcuni generi nuovi, inesistenti
   nell’antichità, possano essere codificati, giungendo alla conclusione che anche nel praticare
   nuova poesia bisogna attenersi alla poetica dei grandi teorici del passato.

    Ante omnia ergo dicimus unumquenque debere materie pondus propriis humeris coequare,
      ne forte humerorum nimio gravata virtute in cenum cespitare necesse sit: hoc est quod
      magister noster Oratius precipit, cum in principio Poetrie ‘Sumite materiam ...’ dicit.
                                                                                (DVE II, IV 4)

   Ma, tornando per un attimo a Par. XIII, Dante deve aver meditato su queste parole quanto
   poteva uno scrittore che si assumeva un tema inimmaginabile alla poesia classica. Spia ne è
   l’identità dell’immagine, cioè la corrispondenza tra humeri ed «omero», cui l'attribuito
   «mortal» aggiunge un affanno che in Orazio non poteva esserci, cioè la consapevolezza di
   misurarsi proprio con un tema eccedente le forze umane e insieme di poterlo sostenere con
   l'aiuto divino; che è sentimento che trascende il sentire di Orazio, legato ad una visione
   esclusivamente umana e razionale della poesia.

2. O ancora, nella prima terzina di Par. XXV, che è ancora una riflessione sul rapporto tra lui
   poeta e la sua poesia. Il Canto, dedicato principalmente all'esame sulla speranza cui Dante è
   sottoposto da san Giacomo, si apre con una delle affermazioni più alte e orgogliose
   dell'autocoscienza poetica dell'autore, il quale si augura di ricevere l'incoronazione poetica
   dell'alloro nel Battistero di S. Giovanni della sua Firenze, se mai la fama che il poema gli ha
   conquistato vincerà la crudeltà dei suoi avversari politici che lo costringono a un ingiusto
   esilio:
Se mai continga che il poema sacro,
                              al quale han posto mano e cielo e terra,
                              sì che m'ha fatto per più anni macro...
                                                                               (Par. XXV, vv. 1-3)

   la parola “macro” sta troppo in evidenza (per giunta in grazia di rima, qui ancor più
   illuminata dal richiamo “sacro…macro”, che le conferisce anche solennità) perché non si
   senta che è una parola meditata e di nobile estrazione, una di quelle parole, abbondantissime
   nel Paradiso, scelte da Dante con cura e soppesate. E l’estrazione è ancora da Orazio, il
   quale allude, seppur in un’ottica differente, al medesimo rapporto:

                                             Si me
                         palma negata macrum, donata reducit opimum
            (Se un lauro negato m’ha da far magro, e uno concesso m’ha da far ricco)
                                                                        (Ep. II, I, w. 180-1).

   In questo caso, come affermato poco dinanzi, l’ottica è differente. Si tratta di una critica
   rivolta a quei poeti che sono costretti a sottostare agli umori del pubblico. E se lo stato
   d'animo dell'autore dipende dal successo dall' insuccesso della propria opera (l’essere
   “magro” o “ricco”), valeat res ludicra. Il vero poeta, afferma orgogliosamente Orazio, non
   esercita la sua attività per cupidigia di denaro, ma per amore di gloria (laudis avarum). Ce
   n'è abbastanza perché il poeta programmi il suo convinto distacco dalla res ludicra, con un
   valeat (v. 180) che esprime un consapevole rifiuto di tutto ciò che appartiene alla scena.
   Acquista dunque una forza maggiore l'immagine metaforica della palma della vittoria (v.
   181), quella stessa a cui Dante aspira (prenderò ‘l cappello, Par. XXV, 9), capace di
   deprimere chi non la ottiene e di esaltare chi la riceve.

3. Un'altra notevole citazione è in Purg. XXII. Dante e Virgilio stanno percorrendo la salita
   alla VI cornice (dove si sconta il peccato capitale di gola), affiancati dal poeta Stazio, il
   quale chiede a Virgilio se conosce il destino ultraterreno del poeta antico Terenzio, di
   Cecilio Stazio, di Plauto e di Vario, poiché egli vuol sapere se sono dannati e in quale
   Cerchio si trovano:

                               Dimmi dov'è Terenzio nostro antico,
                                    Cecilio, Plauto e Vario
                                                                             (Purg. XXII, w. 97-8).

   La disposizione dei nomi, che è appunto quella di Orazio, denuncia la sua fonte:

                                            Quid autem
                           Cecilio Plautoque dabit Romanus ademptum
                                        Vergilio Varioque?
                  (D’altra parte perché i critici romani tolgono a Virgilio e Vario
                          quello che hanno concesso a Cecilio e Plauto?)
                                                                             (Ep. II. III, vv. 53-5).
L'ordine della successione dei nomi è una spia tipica di memoria associativa, ricostruibile in
         numerose altre occasioni nella Divina Commedia9 ed è da considerarsi l'indizio forse più
         sicuro delle letture di Dante.

Tuttavia, dalla selezione di passi praticata da Vazzana, emerge che l’Orazio satiro non abbia
stilisticamente -e contenutisticamente- pesato su Dante più del lirico, pur volendo includere col
Turolla le Epistole, l'opera oraziana che abbiamo trovato più presente nel poema dantesco, nel
genere satirico. Ma allora perché il fiorentino ha collocato Orazio tra i massimi poeti dell’antichità
come satiro?
La conclusione di Vazzana risulta essere un compromesso: la lezione oraziana, sotto l’aspetto
stilistico, era perfettamente assumibile nelle strutture del “comico”, ma per il suo carico morale, per
il suo consacrare il poeta latino a “maestro di vita”, meritava di stare all'altezza dei grandi che si
erano avvalsi dello stile epico, l’alto stile per eccellenza, tutti altresì maestri di vita e di umana
nobiltà e dignità. Sarà proprio da Orazio che anche autori di epoche classiciste (si passa dai
Carmina di Ariosto alle Odi barbare di Carducci) apprenderanno come arricchire la parola, anche
quella satiresca, di dignità formale e musicale; ma in tempi -quali quello di Dante- in cui la validità
poetica era legata alla sua funzione morale, più che lo stile e il gusto, erano la saggezza e rettitudine
di vita i metri che ne esaltavano il valore. E benché questa saggezza di vita non mirasse, da pagana
qual era, oltre la vita stessa, si mostrò perfettamente conforme e perciò includibile dentro i canoni
della poesia cristiana. Perciò Orazio meritò di essere collocato nel Limbo accanto al suo amico
Virgilio e agli altri

                                                 che le tre sante
                                        virtù non si vestiro e senza vizio
                                      conobber l'altre e seguir tutte quante
                                                                                                  (Purg. VII, w. 34-6),

Cioè come alunno delle quattro virtù cardinali, delle quali la sua opera di castigatore dei costumi lo
faceva discepolo. E dunque il celeberrimo statuto oraziano

                                               […] miscuit utile dulci
                                                                                                   (Ep. III, III, v. 343),

può assumersi anche come massima conclusiva della poetica dantesca, con la sola differenza che
quell’equilibrio fra utile e dulce, che per Orazio era da realizzarsi tutto in questa vita, in Dante viene
spezzato a favore di un utile che, trascendendo ogni fine umano, immiseriva e sbaragliava la
mondana misura del dulce. È questa la ragione per cui Dante, nella Commedia, trascura il
suggerimento di Orazio, il motivo per cui poteva assumersi il ponderoso tema sul suo omero

9
  Cfr.: «Camilla e la Pentesilea» (Inf. IV. v. 124) da En. XI, w. 657-62; «Semiramide e Nino» (Inf. V, w. 58-9) da Orosio.
Historiae. I, IV. 4: «Chelidri, iaculi e faree - produce e ceneri con anfe sibena» (Inf. XXIV, w. 86-7) da Lucano, Farsaglia
IX. 708 e ss.; «Atena e Lacedemone» (Purg. VI. 139) dal Corpus luris Civilis Iustinianei, Institutiones I. 2. 10: «Vedea
Timbreo, vedea Pallade e Marte» (Purg. XII, v. 31) da Stazio, Tebaide, II, w. 597-9; «E con le suore sue Deidamia»
[Purg. XXII, v. 114) da Stazio. Achilleide, I, 296; «O Cesare ο poeta» (Par. I. 29) da Tebaide, VI. 73: «Moisé, Samuel»
(Par. IV, v. 29) da Geremia. XV, 1.
mortal, mentre il poeta latino riconosceva di dovere ammonire se stesso e gli altri scrittori del
proprio limite umano.

“Profeta e satiro”: Ambrogio Camozzi Pistoja a proposito di Inferno XIX

La trattazione di Pistoja si apre con un’affermazione che sembra andare contro quanto osservato dal
Vazzana: Orazio viene sempre e comunque interpretato come un autore satirico moraleggiante,
anche dove il testo comprende tutt'altro10.

La satira, si legge in numerosi testi, deriva dal primitivo linguaggio dei satiri, nemorum dei, per
l'esattezza demoni, esseri semiferini, incolti, capripedi e cornuti. Sono i Fauni silvis deducti
dell’Epistola ai Pisoni di Orazio, creature irsute, strombazzanti, che gridano oscenità e contumelie:

                                   inmunda crepent ignominiosaque dicta
                                                                                             (Ars Poetica, v. 247)

A queste creature selvatiche, allo spirito irriverente che esse incarnano, Orazio dedica la parte
centrale della sua Ars Poetica. I versi 202-50 dell'Epistola ai Pisoni, se letti attraverso il corredo
esegetico delle glosse mediolatine in uso nelle scuole al tempo di Dante, narrano la storia di un
tentato addomesticamento.
Il fictum carmen, (v. 240), la poesia nuova che mescola tragedia e satira è un modo per ammansire i
Fauni silvestri:
                                       Ita commendare dicaces
                                           conveniet Satyros
                                                                          (Ars Poetica, vv. 225-226).

Orazio fronteggia i Fauni che escono dalla selva (Silvis deducti caveant me iudice Fauni- Ars
Poetica, 244) e li blandisce con un linguaggio medio che integra alcuni degli elementi tipici del loro
repertorio sfrontato, triviale e osceno, con alcuni degli elementi tipici dello stile tragico.

Con le dovute differenze, l'itinerario metapoetico della Commedia narra una storia molto simile.
L'uscita dalla selva dura, selvaggia, aspra, amara segna l'inizio di un processo di incivilimento di un
linguaggio un tempo irriverente, senza freni, selvaggio appunto. La selva rappresenta un momento
della carriera poetica di Dante caratterizzato da un linguaggio tanto amaro "che poco è più morte"
(Inf. I, 7). In questo processo di incivilimento, che fa del linguaggio irriverente della selva una satira
al servizio dell'Impero e della Chiesa, gli elementi catalizzanti e normativi sono almeno due, uno di
natura tecnica—la tradizione retorica classica -e uno di natura spirituale- la lettura figurale della
tradizione profetico-biblica. Le due componenti sono profondamente intrecciate, condividono

10
  Si veda Bernhard Bischoff, "Living with the Satirists," in Classical Influences on European Culture a.d. 500-1500, a
cura di Robert R. Bolgar (Cambridge: Cambridge University Press, 1971), 83-94 (90):"The Odes are misinterpreted in a
most incredible manner in order to make them fit this medieval concept [che cioè il satirista sia per definizione un
censore della morale N.d.R.]".
immagini e parole chiave, si confondono nell'architettura a doppia elica del poema, dove ascesi
tecnica e ascesi morale esistono in un movimento unico.

Come accennato, la saldatura di queste due tradizioni avviene per la prima volta, in maniera
limpida, nel canto diciannovesimo dell'Inferno. La bolgia dei simoniaci è un momento chiave del
processo di innesto e legittimazione del portato violento della tradizione satirica nella polisemia del
poema sacro. L'attacco del canto è quello tipico degli scritti satirici, ex abrupto, ad alta voce:

                                       O Simon mago, o miseri seguaci
                                       che le cose di Dio, che di bontate
                                        deon essere spose, e voi rapaci
                                       per oro e per argento avolterate,
                                    or convien che per voi suoni la tromba
                                                                                                (Inf. XIX, vv- 1-5)11

Il satiro s'indigna, fatica a trattenere la sua ira, il suo disprezzo è annunciato senza preamboli. La
tromba a cui Dante allude nella protasi non sarà solamente la tromba della profezia, dell'apocalissi,
ma anche quella della poesia come segnalano i primi commentatori. È quella stessa tuba
strombazzante dell'epistola ai Pisoni di Orazio (Ars poetica, 202-7), un suono volgare, ridanciano.
Come preannunciato dal suono sgraziato della tromba, il vocabolario e la sintassi del canto
rispondono ai requisiti formali degli scritti satirici. Integrato al linguaggio tragico, il poeta adotta un
registro basso, non tecnico, dotato di venature popolari, incentrato sul lessico del corpo—uno dei
campi semantici più frequentati dagli scrittori di satire sempre in cerca di locuzioni sconce, fetide,
basse.
Dal punto di vista sintattico si registrano alcuni usi marcata mente colloquiali, tipici del linguaggio
umile, quotidiano, rusticus: "dopo lui verrà di più laida opra" (Inf 19.82); "Deh, or mi di" (90);
"Però ti sta, ché tu se' ben punito" (97). Ancora più evidente, poi, è il richiamo delle parole che al v.
123 sono vere: come da prassi nel genere satirico, sono infatti impiegate parole dal significato
'nudo', schietto, prive dell'integumento allegorico12.

Tipica della tradizione satirica è anche la materia tractandi del canto e cioè la cupidigia, l'avarizia
del clero, declinata nella forma particolare della simonia, del mercimonio della virtù:

                                      La vostra avarizia il mondo attrista
                                     calcando i buoni e sollevando i pravi
                                                                                           (Inf. XIX, vv. 104-105).

Ciò che infiamma l'ira dei satiri e li porta a scrivere è lo stato di profonda decadenza in cui è
precipitata la società in cui vivono. Il mondo in cui il satiro si ritrova è un mondo sottosopra, che va

11
   "Anche l'apertura ex abrupto del canto (che qui, insolitamente, interrompe il filo della narrazione [. . .] a guisa di
prologo [. . .]) sottolinea fin da principio [una] violenta e prepotente intrusione di un elemento soggettivo e polemico”
Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno (Firenze:La Nuova Italia, 1985).
12
   Si veda Orazio, Ars Poetica, 234-35: "Non ego inornata et dominantia nomina solum | verbaque, Pisones, Satyrorum
scriptor amabo”; si veda anche un popolare accessus all'Ars poetica: "Distat etiam, quia hic pulchris et honestis verbis
nos ad virtutes excitât, ibi [nelle Satire] nudis et apertis verbis vitia resecat”.
all'incontrario. I pravi, i prepotenti, i ladri, i ruffiani sono incensati e comandano. I giusti sono
reietti, calpestati, umiliati. Si tratta del tòpos letterario e iconografico del mondo sottosopra (mundus
inversus o mundus immundus), che la fantasia di Dante dispiega in questo canto in un crescendo di
forme impreviste e immaginifiche. La messinscena spaziale ed etica del canto fa perno sulla postura
capovolta dei simoniaci ("'1 di sù tien di sotto" Inf. XIX, 46). La bolgia, costruita sulla figura
retorica dell'inversione, è un carnevale dei sacramenti con rappresentazione parodica del battesimo,
del matrimonio, dell'ordinazione sacerdotale e della confessione. Il regno infernale è dunque il
mundus immundus per eccellenza, il poema satirico "scritto" da Dio per calcare i pravi e sollevare i
buoni.

In preparazione dell'invettiva vera e propria, Dante affila il coltello:

                                   Non mi parean men ampi né maggiori
                                 che que' che son nel mio bel San Giovanni,
                                        fatti per loco d'i battezzatori;
                                   l'un de li quali, ancor non è molt'anni
                                   rupp'io per un che dentro v'annegava:
                                   e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni
                                                                                               (Inf. XIX, vv. 16-21).

È proprio in ossequio alle norme retoriche che Dante, prima di scagliarsi nell'attacco contro i papi
simoniaci, si preoccupa di smacchiare la propria reputazione, in piena osservanza della disciplina
retorica, che impone ai satiri di cominciare da sé stessi13.
Per quanto riguarda l'episodio narrato, la rottura del battezzatore, è stata messa in luce l'esistenza di
un intertesto biblico dal libro di Geremia -per precisione il capitolo diciannovesimo. "La rottura di
un vaso o di un'anfora è [. . .] simbolo profetico ricorrente della distruzione di una città," il Signum
oggettivo che lo scriba Dei riceve da Dio, sigillo dell'autorità profetica.14 La digressione
autobiografica si configura dunque come un altro momento di potente sintesi dei due elementi del
canto, quello biblico-profetico da una parte e quello tecnico-satirico dall'altra. Le impalcature della
retorica sorreggono un momento di agni zione dell'identità profetica. Alio stesso tempo, la rottura
del battezzatore prefigura l'imminente rottura dei vincoli tradizionali della grammatica, delle regole
retoriche.

In controluce a quanto osservato fino a ora si scopre il canto diciannovesimo dell’Inferno avere in
filigrana un'immagine demonica dotata di una tromba, di corna, di gambe caprine, perfettamente
contestualizzabile nell’iconografia greca, romana e medievale che disegna nell’incrocio fra uomo e
capro il corpo del satiro. Di contro, non stupisce la presenza di Virgilio, incarnazione dell’epos
solenne e tragico: per dare vita alla vera satira, la parola selvaggia e forte deve farsi riverente, il
linguaggio dei fauni deve far spazio al pudore della tragedia:

13
   È lo stesso Dante a spiegare il meccanismo secondo le regole della retorica nella sua lanx satura, in Convivio 1.2.1-3,
in particolare: Non si concede per li retorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo
rimosso, perché parlare d’alcuno non si può che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due
cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sè, ne la bocca di ciascuno.
14
   Per il riferimento allo studio di Mirko Tavoni, si veda la bibliografia finale.
Effutire levis indigna tragoedia versus
                                   ut festis matrona moveri iussa diebus,
                               intererit Satyris paullum pudibunda protervis
                           (La tragedia, non fatta per diffondere versi scherzosi,
                            si mescolerà coi Satiri impudenti un po’ pudibonda,
                          come la matrona obbligata a danzare nei giorni di festa)
                                                                              (Ars Poetica, vv. 231-233)

Virgilio, l'autore dell'alta tragedia (l’alta mia tragedìa: Inf. XX, v. 113), vigila guardingo sul
potenziale irriverente dell'uomo uscito dalla selva:

                                       Tanto m'è bel, quanto a te piace:
                                    tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto
                                                 dal tuo volere
                                                                                                 (Inf. XI, vv. 37-39).

È sulle gambe di Virgilio che il poeta scende e riemerge nella bolgia dei simoniaci, pozza liturgica
della sua consacrazione a satiro. E sarà ancora Virgilio, ora pastore, a tenere a freno Dante, "capra
proterva"" (Purg. XVII, vv. 76-87), protervo come i satiri di Orazio

                                 satyros dicit protervos, quia nemini parcunt
                                                                                               (Ars Poetica, v. 233).

La callida mescolanza di elemento tragico e selvatico è una delle componenti principali del
plurilinguismo dantesco. Non è ovviamente l'unica: l'essere ibrido che si arrampica sulla ripa della
terza bolgia dell'ottavo cerchio di Malebolge, così precisamente descritto in tutti i suoi attributi
canonici, è solo uno degli animali del bestiario metapoetico della Commedia (Inf. 16.128; 21.2).
Dante va nelle taverne con i ghiottoni15 a testare l'estensione del linguaggio fino al livello più basso
e triviale che può raggiungere, differentemente da quanto Orazio sollecita:

                                              Ne […]
                            Migret in obscuras humili sermone tabernas
              (In modo che […] non migri, per bassezza di linguaggio, in oscure taverne)
                                                                          (Ars Poetica, vv. 227-229)

Ma fino a dove può spingersi l’intenzione offensiva del linguaggio satirico, fino a dove essa rimane
legittima? La risposta di Camozzi Pistoja a questi interrogativi conclusivi sta proprio
nell’investitura poetica, l’elezione divina che garantisce quella legittimazione che una satira come la
Commedia pretende.

15
  Noi andavam con li diece demoni. / Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa/coi santi, e in taverna coi ghiottoni (Inf.
XXII, vv. 12-15).
Conclusioni

Stando a quanto emerso dall’analisi degli studi ivi riportati, i punti di vista dei due autori sembrano,
come anticipato nella Premessa, porsi in posizioni antitetiche.
Da un lato il Vazzana presuppone un’influenza oraziana di carattere più morale che stilistico-
lessicale, ed è in virtù degli insegnamenti di vita che il modello latino offre, più che del modus
scribendi, che Dante gli attribuisce il titolo di “satiro”, ma accostandolo ai grandi del genere epico e
della poesia solenne. Dall’altro, Camozzi Pistoja evidenzia un chiaro utilizzo, da parte del Poeta
fiorentino, di forme e linguaggi della satira latina, di cui riprende la vis polemica, la varietà
linguistica, l’elaborazione retorica (che culmina nelle celebri invettive, fra cui quella contro i papi
simoniaci presa in esame in questa sede), accostandoli -e in tal modo legittimandoli- all’elezione
divina, allo scopo morale che l’intera Commedia si prefissa, ovvero ripristinare l’ordine,
(ri)capovolgendo il mundus immundus che si è creato, causando la perdizione degli animi umani.
A mio modestissimo parere, ritengo che possa tuttavia esser trovata una quadra, che racchiuda in un
compromesso entrambe le visioni, e che tale quadra vada ricercata nell’etimologia stessa del
termine “satira”: era detta satura lanx il piatto misto di primizie che veniva offerto agli dèi, era
detto lex per saturam il tipo di procedimento giuridico con cui si riunivano stralci di vari argomenti
in un singolo provvedimento legislativo. Insomma, il valore originario della satira era puramente
quello di “mescolanza e varietà”, ed era di ambito puramente romano (Quintiliano: Satura quidem
tota nostra est; Inst. X 1, 93). Sono da negare, dunque, i tentativi di creare una genealogia
retrospettiva in Grecia, associando un Archiloco ad un Lucilio o Orazio. La satira è spazio
personale del poeta, in cui egli può soddisfare la propria necessità di esprimersi, ma con argomenti e
forme diversi, che possono subire variazioni anche in base al periodo storico. Dobbiamo ricordare,
infatti, che Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto
nell’entourage di Ottaviano; era figlio di un liberto, era appena uscito da una difficile e rischiosa
esperienza politico-militare (la battaglia di Filippi). La sua aggressività -che è innegabile nelle
Satire- dev’essere dunque per forza di cose modigerata, e non può che rivolgersi contro bersagli
“minori”: personaggi scoloriti, anonimi, o addirittura fittizi.
C’è da tener presente, in secondo luogo, che Orazio risente dell’influsso della poesia neoterico-
alessandrina: anche per l’influsso dei Giambi di Callimaco, Orazio doveva sentire connaturata
l’esigenza della varietas. Ne risulta una molteplicità di temi, di toni e di livelli stilistici, che la
tradizione romana assegnava all’ambito della satira, mantenendo anche una dizione più sorvegliata,
che metteva in luce non solo il poeta degli eccessi, ma anche il poeta della misura.
Ma Orazio stesso, per quanto volesse creare un collegamento con Archiloco e Lucilio, non
sottovalutava le differenze che caratterizzavano la propria satira rispetto a quella dei suoi modelli.
Tipico è il collegamento stabile e organico fra diatriba e aggressività: l’attacco personale è sempre
legato ad una intenzione di ricerca morale. Non c’è quel piacere gratuito dell’aggressione, ma
l’esigenza di analizzare i vizi, mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle
persone.
E non è casuale che questo intento “comico” venga ripreso proprio dal titolo del capolavoro di
Dante, la Comedìa: proprio nell’Epistola XIII a Cangrande, egli afferma che qualche volta anche la
comedìa si alza di tono, come dice Orazio nella sua Poetica. Non c’è dunque una chiusura in
compartimenti stagni di generi letterari e stili, ma la possibilità di un continuo rimescolamento delle
carte, a seconda dello scopo letterario e morale che caratterizza un determinato componimento.
Ne emerge, dunque, una comunione di intenti fra i due autori, un avvicinamento fra il poeta latino e
quello toscano, ed è proprio in questa vicinanza che, a mio modo di vedere, trovano uno spazio ed
un compromesso entrambi i punti di vista oggi analizzati: la modalità, tanto di Orazio quanto di
Dante, è sì quella di attaccare un bersaglio (quella vis che Camozzi Pistoja mette in evidenza
affrontando Inf. XIX è innegabile, così come innegabile è il richiamo al modello latino). Ma la
satira di cui si servono entrambi i poeti è “addomesticata” (Ars Poetica, vv. 202-250), rabbonita, in
virtù di un insegnamento morale, il cui scopo è quello di individuare una strada da seguire (Orazio
la cercava per pochi eletti, Dante per l’intera comunità dei fedeli), attraverso le storture di una
società che, in entrambe le epoche storiche, è in crisi. C’è una conversione dell’asprezza satirica
originale, della sfrenata iambiké idea di ascendenza archilochea, in virtù di una nuova morale i cui
obiettivi sono l’autàrkeia (l’autosufficienza interiore) e soprattutto la metriòtes (il giusto mezzo, la
moderazione).
E in Dante questa ricerca morale emerge tutta, come giustamente afferma il Vazzana: Orazio è
innegabilmente un maestro di vita, con cui condivide l’obiettivo e le modalità del proprio “fare
satira” (ed in questo torna utile il rinomato plurilinguismo di cui la Commedia è pervasa). Per il
Poeta fiorentino, Orazio è un “satiro” (Inf. 4, v. 89), ma non solamente nell’usus giustamente
evidenziato da Pistoja, quanto anche -e forse soprattutto- per lo scopo che la sua satira si pone, e per
il carico di insegnamenti morali che rendono la dottrina oraziana una guida sicura per il fiorentino
attraverso il suo personalissimo viaggio nel mundus immundus cristiano.

Riferimenti bibliografici

Vazzana, Steno. “«Orazio Satiro»?” Rivista Di Cultura Classica e Medioevale, vol. 43, no. 1, 2001,
pp. 91–102.

Pistoja, Ambrogio Camozzi. “Profeta e Satiro. A Proposito Di ‘Inferno’ XIX.” Dante Studies, with
the Annual Report of the Dante Society, no. 133, 2015, pp. 27–45.

Q. Orazio Flacco, Le Opere. Vol. II: Tomo terzo: Le Epistole; L'Arte poetica. Testo critico di Paolo
Fedeli. Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Libreria dello Stato, 1997.

Q. Orazio Flacco, Le Opere. Vol. II: Tomo quarto: Le Epistole; L'Arte poetica. Commento di Paolo
Fedeli. Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Libreria dello Stato, 1997.

Q. Orazio Flacco, Satire, a cura di Mario Labate, Milano, BUR Classici greci e latini, 1981.

Q. Orazio Flacco, Odi ed Epodi, a cura di Enzo Mandruzzato, Milano, BUR Classici greci e latini,
1985.

Q. Orazio Flacco, Le lettere, a cura di Enzo Mandruzzato, Milano, BUR Classici greci e latini,
1983.

Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno (Firenze: La Nuova Italia, 1985).
Dante Alighieri, Convivio, a cura di Giorgio Inglese, Milano, BUR Classici, 1993.

Mirko Tavoni, “Effrazione battesimale tra i simoniaci (If XIX 13-21)”, Rivista di Letteratura
Italiana, X 3 (1992) [but 1994], pp. 457-512.

Gian Biagio Conte, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’impero romano,
Milano, Mondadori Education, Le Monnier Scuola, 1995.

Per i riferimenti testuali alla Commedia e la contestualizzazione dei passi scelti da Vazzana e
Pistoja mi sono servita del lavoro di Giorgio Inglese: D. Alighieri, Commedia. Inferno, a cura di
Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore Classici, 2016; D. Alighieri, Commedia. Purgatorio, a cura
di Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore Classici, 2016; D. Alighieri, Commedia. Paradiso, a cura
di Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore Classici, 2016.
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