L'ESPERIENZA SOMATICA IN PSICOANALISI E PSICOTERAPIA - Nel linguaggio espressivo del vivente - Armando Editore

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William F. Cornell

L’ESPERIENZA SOMATICA
    IN PSICOANALISI
    E PSICOTERAPIA
Nel linguaggio espressivo del vivente

               ARMANDO
                EDITORE
Sommario

Introduzione all’edizione italiana                              7
Susanna Ligabue

Introduzione                                                   19

Capitolo primo
Il mio corpo è infelice                                        28

Capitolo secondo
La visione radicale e tragica di Wilhelm Reich                 44

Capitolo terzo
Entrare nel gesto come fosse un sogno:                         64
uno psicoanalista incontra il corpo
Capitolo quarto
Attraverso le mani: enactment del contatto o analisi           84
del contatto?
Capitolo quinto
Corpi sconosciuti: la ricerca del desiderio                    99

Capitolo sesto
Tracce dell’altro: incontri con il carattere                  120

Capitolo settimo
La chiamata silenziosa: Reich, Winnicott e il gesto interrotto 141
Capitolo ottavo
Zuffa e baruffa: sensorialità, gioco e maturazione            155

Capitolo nono
Prendimi! Vitalità erotica e perturbante                      176

Capitolo decimo
Perché fare sesso? Carattere, perversione e scelta libera      193
Bibliografia                                                   222
In affettuosa e grata memoria di Rose Leopold:
per avermi dato una seconda occasione nella vita
e per avermi mostrato che vivere una vita
appassionata è possibile

E a Mick Landaiche:
per aver dimostrato che Rose aveva ragione

     Con gratitudine ai maestri, ai colleghi, ai terapeuti, ai supervisori e agli amici che
hanno arricchito, smosso e dato vigore alla mia vita e al mio lavoro: Mr. Davis, Mr. Ut-
ter, Miss Schwartz, Miss Hill, Nicholas Longo, Carol Creedon, Constance Hanf, Virgi-
nia Satir, Constance Fischer, Stephanie Neal Cornell, Howard Goodman, Robert Yoder,
Lois Johnson, Harry Boyd, Elaine Warburton, Mark Ludwig, Richard Miller, Charel-
le Samuels, Frances Bonds-White, Stanley Perelman, Mort Johan, Robin Fryer, Mick
Landaiche, Robert Marin, Christopher Bollas, James McLaughlin, Sam Gerson, Wilma
Bucci, Lew Aron, Muriel Dimen, Ruth Stein, Anne Alvarez, Donnel Stern, Maurice Ap-
prey, Jean-Michel Quinodoz, Danielle Quinodoz, la comunità internazionale di analisi
transazionale, e il gruppo “Keeping Our Work Alive” di Pittsburgh. Le attente e critiche
riletture della prima versione del manoscritto da parte di Mick Landaiche, Christopher
Bollas e Lew Aron sono state fondamentali per farmi scrivere in tono personale e diretto.
     Una speciale menzione di gratitudine va a Susan Wickenden, Susannah Frearson, Kate
Hawes, Sarah Steele, Laura Emsden, and Abigail Stanley delle edizioni Routledge le cui
competenze e gentilezze hanno reso le fasi finali della stesura del libro un vero piacere.
     E grazie ai numerosi clienti che per più di quattro decenni hanno spinto, trasgredito e
oltrepassato i limiti del mio carattere, della mia formazione e della mia capacità di com-
prendere. Questo libro è soprattutto il racconto del nostro lavorare e imparare insieme.
Introduzione all’edizione italiana
Susanna Ligabue

    Quando William Cornell mi ha parlato del suo libro e ancor più quan-
do lo ho avuto tra le mani, ho sentito il desiderio fosse disponibile in
italiano per quanti lavorano in ambito clinico, nella consulenza e per chi
abbia un interesse ad approfondire e pensare la “presenza” del corpo nella
relazione. Nel rileggerlo nei mesi di preparazione della edizione italiana
il mio interesse si è rinnovato. Ogni volta ritrovo una nuova angolatura,
una sollecitazione a pensare intorno a qualche aspetto che prima mi era
sfuggito; una qualità che rende un libro, ai miei occhi, un interlocutore
affidabile: un “compagno vivo”.
    Con Cornell, collega di lunga data, condivido l’appartenenza all’Inter-
national Transactional Analysis Association (ITAA), una delle sue “case
professionali” e l’interesse per la dimensione del corpo nella cura (Liga-
bue, 1991, 2007). Ci accomuna anche un’attenzione più ampia, sociale, al
contesto di cura entro una cornice di social responsibility.
     Come CPAT, una delle prime associazioni italiane di Analisi Tran-
sazionale, affiliata all’European Association for Transactional Analysis
(EATA), di cui sono presidente, abbiamo sostenuto la traduzione e dif-
fusione del libro considerandolo prezioso strumento di lavoro anche per
gli analisti transazionali, da sempre attenti, sulla via aperta da Berne, alla
dimensione fenomenologica dell’esperienza, agli aspetti intrapsichici e
alla intersoggettività della relazione terapeutica.
    Il libro di Cornell, che riprende e approfondisce i temi del suo prece-
dente Explorations in Transactional Analysis: The Meech Lake papers

                                                                            7
(2008), viene pubblicato nel 2015 da Routledge, nella collana che rac-
coglie testi della tradizione relazionale psicoanalitica (RPBS-Relational
Perpective Book Series). Esce in contemporanea con l’altro suo libro,
in edizione francese originale: Une vie pour etre soi (2015), in cui parla
della propria pratica professionale e di sé in prima persona.
    Cornell nel 2016 è anche coautore (con De Graaf, Newton, Thunnis-
sen) di un nuovo manuale di Analisi Transazionale: Into TA: A comprehen-
sive textbook on Transactional Analysis (2016). Alcuni suoi contributi,
particolarmente sui giochi psicologici, su copione e corpo, testimoniano
la sua attenzione alla comunicazione, ai processi di transfert nella relazio-
ne, temi su cui scrive da anni su riviste specializzate e in particolare sul
TAJ (Transactional Analysis Journal) di cui è coeditor e membro storico
della redazione.
    Nel presente testo Esperienza somatica in psicoanalisi e in psicotera-
pia. Nel linguaggio espressivo del vivente, Cornell affronta con linguag-
gio preciso e diretto, a volte graffiante, un aspetto centrale nella relazione
terapeutica: l’esperienza del corpo.
    Argomento che suscita oggi rinnovato interesse e sollecita il nascere
di convergenze tra ambiti teorici diversi sia nella teoria che nella tecnica,
per motivi diversi. Da un lato, il superamento del dualismo cartesiano
mente-corpo ha consentito negli ultimi decenni di andare oltre la po-
larizzazione che ha caratterizzato per lungo tempo la teoria e la clinica
(Damasio, 1994; Stolorow, Atwood, 1992) e dall’altro l’apporto delle
neuroscienze nel comprendere i meccanismi del funzionamento mente-
cervello-memoria ha permesso di rivisitare e differenziare la nozione
di inconscio: Mauro Mancia (2004) ci ha lasciato bellissime pagine al
proposito. Tutto ciò ha consentito di dare solide fondamenta alla comu-
nicazione intersoggettiva (Panksepp, 2009; Shore, 2003; Stern, 2004;
Trevarthen, 2009) come embodied cognition, particolarmente con le più
recenti scoperte sul funzionamento dei “neuroni specchio” (Rizzolatti,
Sinigaglia, 2006). Questo processo di conoscenza e il dibattito che ne è
nato, ha portato nuova luce sui processi relazionali, sulle emozioni e su-
gli affetti, influenzando la comprensibilità di fisiologia e psicopatologia
e aprendo nuovi terreni nel trattamento analitico.
    La letteratura in proposito è ampia e l’attenzione al somatico nell’arena
delle Talking-cure è oggi molto alta (Aron, Anderson 1998; Lemma, 2015).
La centralità del corpo, riconosciuta nella quotidiana vita di relazione, nello

8
svolgersi dello sviluppo e nei processi di crescita, viene messa a tema in
modo forte anche nella stanza della terapia. Una linea di spartiacque è an-
cora ad oggi l’utilizzo diretto o meno e il coinvolgimento intenzionale del
corpo – in varie forme tecniche – nella relazione terapeutica.
    Nel suo libro Cornell, fornisce il proprio punto di vista e offre stru-
menti per poter colmare/attraversare questo iato: essere psicoanalisti, psi-
coterapeuti e terapeuti del corpo.
    Il libro propone e sollecita molti interrogativi. Possiamo pensare e
sentire il corpo? Possiamo considerare l’esperienza somatica dei nostri
pazienti e la nostra?
    Come possiamo osservare, porci domande, fare ipotesi e scegliere se,
quando, in che misura, e a che scopo coinvolgere/coinvolgerci attivamen-
te nella relazione con l’altro a livello somatico?
    L’originalità della prospettiva dell’autore viene sottolineata anche nella
breve introduzione all’edizione originale del testo e nei commenti in quarta
di copertina, dalle voci autorevoli di psicoanalisti come Bollas e Alvarez.
    Christofer Bollas riconosce come sia un azzardo scrivere di Body
work attraverso le parole – così come scrivere di musica – se non conosci
l’idioma specifico e sottolinea come pochi finora hanno osato farlo. Anne
Alvarez sottolinea come il lavoro di Cornell spinga gli psicoanalisti a
interrogarsi e considerare più da vicino l’esperienza corporea dei propri
pazienti per poter riconoscere, oltre alla base sicura, quella che Cornell
chiama una “base vitale”.
    Nel testo è singolare la scelta di Cornell di raccontare, con voce pro-
pria, la teoria e la pratica terapeutica attraverso “incontri” significativi
con maestri tra loro differenti come Reich, Winnicott, McLaughlin, Ber-
ne: i suoi maestri. Ci invita a seguire il proprio itinerario formativo. Ana-
logamente ci offre il racconto dei propri incontri con i pazienti, attraverso
la testimonianza diretta di casi clinici. La self disclosure, onesta e corag-
giosa, a volte “ruvida” per chi legge (come l’immagine scelta dall’autore
per la copertina del testo originale) si accompagna ad una attenzione e
tensione etica percepibile in tutto il libro. L’autore ci invita e ci “provoca”
a sentire e “pensare con” lui.

    Nel testo di Cornell, l’ordine del racconto attraverso cui ci introduce
alla teoria e alla sua pratica è temporale e ci permette di intravedere uno
spaccato degli USA dagli anni ’60 in poi e di cogliere il contesto storico

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e culturale in cui si sono sviluppate: la West Coast e Esalen, il fervore del
movimento umanista di Maslow, l’alimento della filosofia esistenziale di
Binswanger (May, 1966), della terapia della Gestalt di Frederick Perls,
l’attenzione al corpo di Wilhelm Reich e dei suoi prosecutori (Lowen,
Pierrakos, e altri). Si possono intravvedere le tracce del neo-liberismo e le
rigidità del maccartismo negli USA, particolarmente quando parla della
visione radicale e tragica di Reich (cap. 2).
    Attraverso le notazioni personali, si respira il segno dei tempi, il de-
siderio di aprire nuove strade di cura, di coinvolgersi come curanti in
un fervore rinnovato nel dopoguerra e attraversato da un vento “demo-
cratico” in particolar modo dagli anni ’60-’70 in poi. Una cultura che
trasformerà anche alcune delle ortodossie psicoanalitiche, facendo spazio
alla psicoanalisi relazionale, nel complesso intreccio dell’evolversi della
psicoanalisi americana, che ha profondamente risentito dell’apporto degli
psicoanalisti emigrati in USA nel dopoguerra (Meneguz, 2006).
    Seguendo lo svolgersi dei capitoli comprendiamo le linee essenziali
del pensiero dell’autore.
    Dopo l’accento forte, nella Introduzione, sulla “carne” del mondo e
la carne del corpo come essenza dell’essere/esserci, con Merleau-Ponty
(1969, Il visibile e l’invisibile) ci invita nel primo capitolo a “far spazio al
corpo”, al corpo del paziente e a quello dell’analista, e man mano al corpo
del noi in cui la relazione si sostanzia. La presenza, reale ed evocata, del
corpo si configura innanzitutto come possibilità e necessità di creare uno
spazio riflessivo di cui il corpo sia soggetto e oggetto, pensante e pensato
nella diade terapeuta-paziente al lavoro, in un campo relazionale condivi-
so (McLaughlin 2005; Stern. D.B. 1997).
    Corpo quindi non solo come luogo di difese caratteriali, seguendo la
lezione di Wilhelm Reich e dei suoi prosecutori e neppure motore di agiti
secondo alcune visioni della psicoanalisi (cap. 4) ma innanzitutto terreno
di incontro tra persone: un luogo e un territorio specifico e di riflessione
condivisa, conoscenza incarnata.
    Creare uno spazio riflessivo può voler dire partire dal corpo. Come
Cornell dice fin dall’inizio (cap. 1) l’impatto del corpo della paziente in
terapia – l’agitazione di Pat, il suo occupare lo spazio della stanza e della
seduta in modo forte e per certi versi “aggressivo” – creava in lui una
sorta di urgenza, “induceva” uno stato dell’essere, un invito a sentire-
con/sperimentare – con la paziente stessa il forte stato di distress che

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stava vivendo. Una “chiamata” per il terapeuta ad entrare in un terreno
dove la parola non aveva ancora preso significato. Cornell suggerisce
che la ricerca di immedesimazione nell’esperienza dell’altro, il “diventa-
re l’altro” (il domandarsi/domandare “cosa succederebbe se anch’io co-
minciassi a camminare in modo agitato per la stanza come lei fa? E il po-
terlo eventualmente fare”), produce una sorta di rispecchiamento, offre
alla paziente un modo per guardarsi attraverso lo sguardo dell’altro. Nel
contempo offre al terapeuta un’apertura sul vissuto emotivo profondo
della paziente (“Cominciai a sentire acutamente la sua vulnerabilità”) e
produce un movimento nella coppia terapeutica al lavoro. Poche sessioni
dopo emerge dalla paziente l’immagine/desiderio/impulso di spingere
il terapeuta con la spalla, di dargli una spallata. Un invito alla presenza
che il terapeuta accetta traducendolo in un gesto: lei dà una spallata e lui
resiste. La spalla è solida e per la paziente la solidità è una sorpresa. Da
questo gesto condiviso nascono storie, emergono memorie di aggressio-
ni e di vuoto che possono ora “trovare” le parole. Emerge anche nella
paziente l’acuta e diretta consapevolezza che la sua agitazione sottende
ed evita l’esperienza del vuoto.
    Cornell domanda: era possibile intervenire sull’agitazione senza
arrivare letteralmente a “spingersi” l’un l’altro? Certamente! Tuttavia,
nello scegliere questo esempio in apertura, l’autore marca il confine tra
terapie centrate sul corpo e approcci maggiormente orientati in senso
cognitivo o psicoanalitico. È sua convinzione che l’allontanamento dal
corpo di alcuni pazienti e insieme il disperato desiderio di riprendere
vitalità debbano essere messi in una tensione dialettica, di cui l’altro,
il terapeuta, diviene mediatore. Queste due forze possono, a volte in-
contrarsi solo nella sintassi del corpo, hanno necessità di riconoscere
e ri-costituire un idioma dimenticato. Qui il gesto incarnato (pensato
e voluto dal terapeuta, non agito inconsapevolmente) diviene traccia,
forma vivente, contenimento, struttura, che restituisce pienezza ad una
azione sentita e pensata e apre nuove prospettive nella relazione. Il tera-
peuta segue la propria intuizione e sceglie il timing, delimita il confine.
Si offre come presenza vitale e pensante.
    Per comprendere meglio il terreno su cui si situa Cornell e compren-
derne l’itinerario vorrei riprendere alcuni spunti di riflessione.

                                                                         11
Di quale corpo parliamo?

    A questo proposito desidero ricordare la distinzione di Husserl tra
Leib, “corpo vissuto”, evidenza esperienziale, corpo-soggetto e Korper:
corpo oggetto, “il corpo che ho”, oggetto esterno di riflessione e cono-
scenza. Stanghellini (2006) sottolinea come il tema del corpo-vissuto sia
al centro della riflessione fenomenologica sulla coscienza di sé e l’inter-
soggettività.

     La coppia concettuale Leib/Korper è innanzitutto la descrizione di una
     svolta nel concepire il corpo e di viverlo concretamente. Da un lato in-
     fatti il concetto fenomenologico di Leib preannuncia l’enfasi sul vissuto
     corporeo e sul “corpo liberato” degli anni ’60. Dall’altro il concetto di
     Korper o “corpo scientifico” sintetizza il travaglio di almeno cinque
     secoli di storia occidentale, iniziato dalla riduzione galileiana: il corpo
     privato dei propri attributi soggettivi (impressioni, volizioni, affettività)
     cioè del pathos della vita, concepito come correlato di proposizioni ge-
     ometriche e come tale reso disponibile a essere investigato dalle scienze
     naturali (Stanghellini, 2006, p. 252).

   Il fenomeno dell’intersoggettività si fonda sulla percezione della vita
emotiva dell’altro e il corpo vissuto è al centro del problema della inter-
soggettività. La coscienza è incarnata e la carne in quanto materia im-
pressionabile, riceve dal contatto con il mondo il sentimento della propria
presenza al mondo: una presenza non riflessiva chiamata “ipseità”.

     L’intersoggettività è intercorporeità: una “comunione di carne e non
     una relazione tra soggetti pensanti isolati, legame percettivo attraverso
     il quale noi riconosciamo gli altri esseri in quanto simili a noi (Stan-
     ghellini, 2006, p. 252).

    Per meglio significare l’esperienza del sé con l’altro, oltre ai noti con-
tributi di Daniel N. Stern (2004) e alle riflessioni derivate dal suo lavoro
in ambito evolutivo attraverso l’Infant Observation e l’Infant Research,
riprendo tra le tante fonti disponibili, alcune parole riassuntive di Ales-
sandra Lemma, nel capitolo di introduzione del suo recente testo Minding
the body (2015), a proposito del sé-incarnato (embodied-self):

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Il sistema della memoria implicita (preverbale) include le memo-
   rie procedurali, emozionali ed affettive. Ciò è centrale riguardo
   a come noi ci rappresentiamo il corpo poiché le più precoci espe-
   rienze senso-motorie, che stimolano emozioni, portano con sé affetti
   e sono molto verosimilmente codificate come memorie procedurali
   del mio-corpo-con-l’altro. Sono inoltre molto verosimilmente archi-
   viate nell’inconscio-non-represso. Queste memorie – anche chiamate
   “schemi-emotivi” (Bucci, 2008) – incorporano rappresentazioni di al-
   tri che validano o viceversa respingono l’esperienza del sé-corporeo
   del bambino. Uno schema emotivo può essere attivato direttamente
   da tracce sensorie nella percezione o dalla memoria. Da un punto di
   vista clinico questo è rilevante e suggerisce che l’analista debba sinto-
   nizzarsi sulla comunicazione sub-simbolica, che è incorporata (Buc-
   ci, 2008), il che significa che stiamo parlando di processi somatici e
   sensori che non possono essere né verbalizzati, né simbolizzati e che
   possono operare al di fuori di un controllo intenzionale o di un pensie-
   ro organizzato e che possono essere registrati dall’analista attraverso
   il proprio controtransfert somatico (Lemma, 2015, p. 7, trad. propria).

    Cornell è un attento conoscitore della prospettiva teorica della Bucci
da lui intervistata anche in occasione del congresso EATA sulla ricerca, a
Roma, nel 2015 (“1st EATA Transactional Analysis Theory Development
and Research Conference”, Roma, 9-11 luglio 2015) e di cui ha scritto in
diversi articoli alcuni dei quali tradotti in italiano sulla rivista Quaderni
di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane.
    Cornell ci introduce alla sua esperienza del corpo nella relazione con
il paziente, nel regno della lettura del sub-simbolico, nel corpo-a-corpo
della relazione terapeutica (cap. 3). Un aspetto saliente nel corpo del pa-
ziente viene colto dall’analista attraverso un processo di imitazione/im-
medesimazione che attiva risonanze controtransferali a livello senso-mo-
torio e diviene una possibile via per accedere all’esperienza del corpo-sé-
dell’altro. Attraverso l’attenzione alle risonanze nel corpo e nella reverie
dell’analista, Cornell ci conduce a pensare al gesto similmente al sogno
e a riflettere sulla qualità dell’incontro nel qui ed ora della relazione tera-
peutica, ricollocando l’interruzione dei “gesti spontanei” nella storia del
paziente e ri-significandoli.

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Di quale gesto?

    Il corpo dell’analista con le sue risonanze sensoriali ed emotive, le
fantasie e i pensieri che emergono nel campo relazionale che condivide
con il proprio paziente, gli permettono di scegliere se e come leggere un
“gesto” (postura, sguardo, suono, respiro, movimento… che il paziente
accompagna alle parole), potendo immaginarlo, sognarlo, proporlo con-
cretamente, lasciando che si espanda, si amplifichi, si trasformi, lasciando
emergere il versante “non formulato” dell’esperienza (Stern D.B., 1997).
Si richiede all’analista uno sguardo e un ascolto attento e curioso, che la-
scia spazio all’intuizione. Una intuizione che mette da parte i pre-supposti,
i pre-concetti direbbe Berne (1949-1962) e che permette di dar corpo e
man mano anche parola ad un sentire del paziente finora racchiuso in uno
schema emozionale implicito e ricorrente. Un ponte e una traccia di una
nuova esperienza emotiva di cui l’analista è tramite e testimone.
    Modellare il proprio corpo su quello dell’altro, rappresenta una sfida
al processo classico in analisi, ci ricorda Cornell (cap. 3). Se la domanda
centrale nel processo psicoanalitico centrato sulla Talking cure è: “Cosa ti
viene alla mente?” E la libertà nel parlarne, per esplorare il regno del sub-
simbolico occorre porre (e sperimentare) domande diverse: “Cosa viene
dal tuo corpo, cosa emerge? Cosa potresti aver bisogno di fare? Come
potrebbe aver bisogno di muoversi il tuo corpo?” E ancora: “Potresti de-
scrivere ogni sensazione del tuo corpo mentre ne parli?”.
    L’analista è curioso nel cercare una traccia di una esperienza relazio-
nale che il paziente ha sentito interrotta, bloccata, ripetuta e ha l’intuizio-
ne e il coraggio di proporre al paziente una possibile nuova esperienza, di
cui è tramite e testimone partecipe.
    Intuizione e coraggio: un gesto attento, ma che osa.
    In questo percorso Cornell racconta dei suoi maestri:
– delle acute intuizioni e ipotesi di Reich sul “linguaggio del vivente”,
    delle sue osservazioni sulla postura e sull’armatura caratteriale, del
    suo aver perso la dimensione relazionale nel rapporto con il paziente,
    pur avendo scritto pagine magistrali sul controtransfert;
– della curiosità e delle accurate osservazioni sui processi del corpo di
    McLaughlin, con cui ha collaborato a lungo;
– della attenzione di Winnicott, insuperata nel descrivere la relazione di
    vicinanza (relatedness) tra madre e figlio, con un linguaggio entrato

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nel lessico comune (la madre sufficientemente buona, un handling/
   holding empatico, una preoccupazione materna primaria, il gesto
   spontaneo), del suo scrivere del corpo, pur senza lavorare con il corpo
   attraverso un contatto diretto con il paziente.

Quale gesto tra paziente e analista?

    Nel caso di Andrè (cap. 4) Cornell racconta di essere stato colpito
dalle mani, dai gomiti, dalle spalle dolenti e contratte del paziente e
della sua proposta al paziente di ascoltarle. La scelta di proporre un
contatto diretto e un successivo intervento di pressione sul dorso del
paziente, hanno aperto la via per riconoscere una tensione trattenuta
e un cinismo che nascondeva/proteggeva desideri celati e una grande
vulnerabilità del paziente.
    Parlando di un intervento diretto è d’obbligo parlare anche di setting e
protezione del cliente, attraverso un contratto chiaro e un consenso informato
circa il “toccare”. Il dibattito e la letteratura al proposito è oggi ampia. Cor-
nell sottolinea come l’informazione al cliente debba riguardare anche i buoni
motivi per includere il contatto diretto, come strumento analitico, consape-
vole e intenzionale, per esplorare, conoscere e governare le emozioni, che
sono inscindibilmente legate al corporeo. Nel caso di “Eric e Alan” conclude
dicendo che «Mani, contatto, movimento, sensazioni e carne, sono stati il
medium attraverso cui il lavoro analitico ha potuto realizzarsi e procedere».
    Dunque il contatto fisico diventa un linguaggio specifico, di cui le
mani sono tramite. Con Diamond (2006) ci ricorda che il tocco può essere
considerato una forma di pensiero, un know-how affettivo legato alla me-
moria emozionale. Il training al contatto è forse la linea di demarcazione
maggiore tra le modalità di lavoro centrate sul corpo e le forme più tradi-
zionali di psicoterapia e psicoanalisi.
    Cornell ci ricorda (cap. 5) come il contatto permetta l’esplorazione dei
confini, anziché la loro violazione.
    Circa le tecniche e le metodologie somatiche di approccio al corpo
Cornell ci ricorda in molte parti del suo testo, che vi sono differenze nei
diversi approcci (ad esempio la Gestalt e i modelli neo-reichiani offrono
un diverso quadro di riferimento circa l’uso del contatto) e il repertorio
è vasto, e molte sono le tecniche che possono facilitare la vitalità e la

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“considerazione” del corpo. Il fine, tuttavia, non è la tecnica che stimoli
la regressione e neppure l’abreazione e l’apertura emozionale di per sé,
né l’allentamento delle tensioni muscolari, o il solo allineamento degli
assetti verticali. Ciò che promuove efficaca (efficacy) nel corpo è il con-
tatto relazionale in continua tensione dialettica tra sé e l’altro lungo il
corso della terapia, così come nella vita.

Un contatto vivificante: tra bisogni e desiderio

    Cornell ci parla di un corpo portatore di energia, desiderio, che spinge
al contatto con gli altri, che ne sollecitano la vitalità nel contatto: la carne
del corpo in relazione. Ci ricorda, con Anzieu, a proposito dell’Io-Pelle,
la funzione dell’inter-sensorialità, nello stimolare l’emergere di un nuovo
linguaggio dove sensi e parole hanno una loro coerenza.
    Ci invita anche ad andare oltre il “bisogno di attaccamento”, la cui
enfasi rischia di colludere con la scomparsa della sessualità dal panorama
emotivo, relazionale e terapeutico al giorno d’oggi. Ci sollecita a consi-
derare la lingua del desiderio, a confrontarci con la dimensione della ses-
sualità intrinseca alla relazione e al processo vivente. Si domanda come
poter trovare un linguaggio più ricco e articolato per il corpo erotico, per
la passione (cap. 9). Introducendo riflessioni su “Carattere, perversione e
libera scelta” (cap. 10).
     Nelle sue parole ritroviamo la lezione di Reich che considerava la
vitalità sessuale indice di salute emotiva e di relazioni mature, così come
la voce di autori diversi con cui Cornell si confronta nella parte finale del
suo testo. Sottolinea che se è vero che i pazienti adulti hanno bisogno di
una “base sicura”, allo stesso modo hanno bisogno, anzi fame, di relazio-
ni “sfidanti” (challenging) e vitalizzanti, dove si possa far spazio, oltre
che alla sintonizzazione empatica, anche al conflitto, a fantasie aggressi-
ve, all’insicurezza e alla tolleranza dell’incertezza: ingredienti intrinseci
alla base vitale che ci caratterizza come esseri umani.
    Una lettura stimolante, che apre nuovi terreni di confronto, sollecita
dubbi e incoraggia a sperimentarsi e pensare insieme.

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Bibliografia

Aron L., Anderson F.S., Relational perspectives on the body, Hillsdale-
   NY, The Analitic Press, 2013.
Berne E., (1949-1962), trad. it. (Novellino M. a cura di) Intuizione e stati
   dell’Io, Roma, Astrolabio, 1971.
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   copione di vita” a cura di Susanna Ligabue).

18
Introduzione

La carne del corpo

    Cosa significa vivere in un corpo? Come possiamo adeguatamente
mettere in parole l’esperienza che facciamo del corpo? Nonostante la fra-
se, ampiamente citata, in cui Freud afferma che l’Io è prima di ogni altra
cosa un Io-corpo, la psicoanalisi e la psicoterapia hanno attribuito spazio
e significati incerti all’esperienza corporea. La psicoanalisi si riferisce,
il più delle volte, all’esperienza somatica nel processo terapeutico colle-
gando il corpo al concetto di regressione e a quegli stati dell’esperienza
primitivi, concreti, non simbolizzati, non mentalizzati, che devono essere
convogliati in territori più maturi dell’organizzazione psichica.
    Questo libro si basa su una premessa differente, ossia che gli esseri
umani possano generare significati profondi e sostanziosi anche grazie
alla capacità di fare esperienze corporee profonde e durature: in altre pa-
role, il nostro corpo, grazie alle competenze percettive e sessuali risulta
essere un’importante risorsa per la crescita psichica. Il nostro corpo non
è semplicemente una prigione piena di detriti primitivi o di ingranaggi
neuromuscolari: esso fornisce gli strumenti fondamentali allo sviluppo di
sé e al contatto con gli altri. Altra premessa di questo libro è che un’at-
tenzione consapevole e costante all’esperienza corporea può offrire un
collegamento essenziale fra i territori dell’inconscio e le capacità, consce,
di comprensione, scelta, azione e vitalità.
    La fenomenologia di Merleau-Ponty affonda le sue radici nel prima-
to dell’esperienza corporea. Verso la fine della sua vita, questo autore
introdusse il concetto di “carne” al fine di evocare una percezione più
vivida e vivente del corpo in quanto «Carne del mondo-Carne del corpo-
Essere» (Merleau Ponty, 1969, p. 260). Iniziò a utilizzare la parola carne
nel tentativo di cogliere e illustrare più attivamente l’esperienza del corpo
immerso nel mondo, sia materiale sia umano. Secondo Merleau Ponty:

                                                                          19
Ciò significa che il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo
     (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe
     il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa sopra-
     vanza sul mondo (il sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di
     materialità) essi sono in rapporto di trasgressione o di sopravanzamento
     (Ibidem).

    La sua morte improvvisa, nel 1961 a cinquantatré anni, arrestò lo svi-
luppo di questi concetti, tuttavia, Merleau Ponty ci ha lasciato una filosofia
unica che integra la struttura dell’umana esperienza con il corpo sensoriale.
L’autore sostiene che la carne è un tessuto sensoriale che si estende oltre
al corpo fisico, nel toccare e nell’essere toccati dagli altri, così come nel
toccare e nell’essere toccati dal mondo materiale. Include gli spazi fra sé
e l’altro, creando un tipo di conoscenza viscerale, non pensata. La carne
testimonia l’essenziale fisicità dell’esperienza intersoggettiva.
    Quando ho scoperto questo vocabolo, carne, ho ritenuto che richia-
masse fortemente il mio modo di concepire la mia pratica clinica centrata
sul corpo. Questa parola evoca insieme la vitalità e la fragilità del corpo,
nel senso di corpo vissuto e vivente (Gilbert e Lennon, 1988). Lucian
Freud, in una descrizione del suo approccio alla pittura, coglie questo
senso di carne: «Voglio che la pittura sia come la carne […] A mio avviso,
la pittura è la persona. Voglio che sia per me come la carne» (L. Freud,
2010, p. 146, trad. propria).
    La carne è uno strumento di contatto, è pelle dotata di profondità,
movimento e vitalità. La pelle e i muscoli si fanno carne quando si mi-
schiano e si pervadono della carne dell’altro. Esiste anche l’eccitazione
aggressiva della carne: la capacità di eccitare e turbare l’altro, il desiderio
di entrargli nella pelle (get under another’s skin), di insinuarsi nell’altro
in modo da non poter essere dimenticati, sostituiti da qualcun altro, di
penetrare ed essere penetrati nelle nostre relazioni intime.
    La carne può però essere anche ferita, la carne si decompone. Michael
Bronski descrive vividamente le realtà della carne:

     La carne ci unisce e ci separa.
     Ho sempre pensato che il verso di Amleto fosse: “Oh! Così questa trop-
     po solida carne potesse fondersi…”. Ma mi è stato detto che è “sor-
     dida”, non “solida” e in effetti ha senso. La carne non è solida, non è

20
marmo, non è né nobile, né pura, ma cedevole, pronta a ferirsi e a strap-
   parsi e a dolere. Come “la verità”, “l’onestà” e perfino “l’amore”, può
   inspiegabilmente corrompersi, lacerarsi e distruggersi (Bronski, 2002,
   p. 291, trad. propria).

    La carne è viva, ricorda, desidera e ha paura.
    Fin dal principio del mio lavoro di psicoterapeuta, mi sono trovato
immerso in queste dinamiche centrate sul corpo. Quando ho iniziato a
pensare all’introduzione di questo libro, mi è capitato di ritornare su una
passata descrizione (Cornell, 2008a) di una delle mie primissime espe-
rienze di psicoterapia. Mi accingevo a esplorare dei ricordi molto precoci,
e piuttosto disturbanti durante un seminario con Christopher Whitmont
(1972, 1973), un analista junghiano che ho incontrato all’inizio della mia
formazione in analisi transazionale.
    Emersero solo due ricordi, entrambi situati nel salotto del primo piano
della casa dei miei nonni materni, dalla quale io, mia madre e mio padre
traslocammo prima che avessi compiuto quattro anni.
    Il primo ricordo corrispondeva a un’immagine visiva delle sbarre mar-
roni del mio lettino di legno. Non c’era narrativa, né una sequenza di
eventi, solo l’immagine delle sbarre e la sensazione della mia schiena che
preme contro il legno. L’altro ricordo, che ha luogo nella stessa stanza,
è la musica del ritornello di “Hernando’s Hideaway” e la sensazione di
essere tenuto dalle braccia di mia madre mentre balla.
    Condivisi queste memorie al seminario tenutosi all’inizio della mia
formazione come analista transazionale. Whitmont fece notare che i miei
ricordi si traducevano in sensazioni fisiche piuttosto che in immagini vi-
sive o narrazioni. Spiegò che nel suo lavoro clinico sulle memorie precoci
o sui sogni prestava attenzione alla principale modalità dell’esperienza
coinvolta nel ricordo o nel sogno: se si trattasse di una sensazione somati-
ca, di un’immagine visiva o di una narrazione. Iniziava quindi a esplorare
il materiale all’interno della modalità dell’esperienza attraverso la quale
era stato organizzato il ricordo o il sogno, utilizzando la tecnica junghiana
dell’immaginazione attiva.
    Suggerì di lavorare sui miei ricordi come esperienze sensoriali per
vedere cosa potessimo scoprire. Mi chiese di sedermi, a occhi chiusi, e di
concentrare la mia attenzione sulla sensazione delle sbarre contro la mia
schiena per notare qualsiasi piccola propensione al movimento da parte

                                                                               21
del mio corpo. Mi incoraggiò a sentire ogni sensazione o movimento. Le
sensazioni all’inizio furono vivide e profondamente disturbanti. Senza
davvero sapere cosa il mio corpo stesse facendo, mi misi in piedi, inar-
candomi indietro, premendo la schiena nell’aria, con la sensazione delle
sbarre che si intensificava. Avrei voluto battere la testa. Piansi. L’unico
movimento possibile per il mio corpo consisteva nel premere all’indie-
tro contro sbarre inesistenti. Insieme con queste sensazioni emerse una
profonda e familiare angoscia di solitudine. Infine, crollai in lacrime sul
pavimento sentendomi profondamente solo.
    Whitmont attese in silenzio, attento, che il mio disagio si affievolisse.
Quindi, sottolineò il fatto che avevo presentato due ricordi e mi chiese se
desideravo passare al secondo. Di nuovo, non mi chiese di ricordare e rac-
contare il ricordo, ma di “entrare” nella memoria e di lasciarla “muovere
dentro di me”. Mi chiese di sentire la musica e di provare la sensazione
della musica nel corpo. Immediatamente, nella ricostruzione mentale di
quell’esperienza, ricordai la musica con tenerezza. L’avevo associata a
ricordi infantili più recenti in cui ballavo il jitterbug con mia madre, sulle
canzoni di un disco LP che ancora possiedo. Tuttavia, l’esperienza nel
mio corpo mentre mi muovevo a ritmo di musica non fu così dolce. Sen-
tivo una profonda tenerezza nei confronti di mia madre, sentivo la sensa-
zione del ballare abbracciato al corpo di lei, ma sentivo anche l’intensa
e nostalgica solitudine del suo corpo. Ancora una volta piansi e mi sentii
solo. Provavo un senso di solitudine, in me stesso, con mia madre e in mia
madre. Ecco la vita della carne fra me e mia madre – che plasma, carat-
terizza e impregna la mia esperienza corporea nell’incontro con l’altro.
    Avevo avviato la formazione con l’analisi transazionale dopo una
laurea altamente intellettualistica a indirizzo fenomenologico. Stavo at-
traversando un periodo di eccessivo lavoro e una vita da giovane adulto
con troppe responsabilità, che seguiva un’adolescenza di dipendenza da
droghe e assuefazione da eroina. Attraverso questi ricordi, registrati nel
corpo, potei intravvedere per la prima volta la funzione dei miei sforzi,
con esiti di tipo maniacale e dipendente, di tenere lontano la profonda
solitudine che aveva permeato i miei primi anni di vita.
    Fu in questo unico scorcio di psicoterapia centrata sul corpo che ap-
presi qualcosa che riguardava me stesso in relazione con i miei cari, su
cui sarei tornato più e più volte nel corso della mia psicoterapia corpo-
rea e della mia successiva psicoanalisi, raggiungendo strati sempre più

22
profondi di significato. Attraverso le sensazioni provate con l’esplorazione
di quei due ricordi, mi resi conto di qualcosa di fondamentale nell’area
delle mie dinamiche relazionali inconsce. Lo ricordai nel corpo, lo esplo-
rai attraverso il corpo e quell’esperienza fu essenziale per plasmare la mia
crescita come psicoterapeuta. Allora non conoscevo ancora nessuna teoria
e nessuna tecnica di psicoterapia corporea, ma seppi che l’utilizzo diretto
del corpo sarebbe stato un elemento essenziale nel mio lavoro clinico.
    Durante la cena, dopo il seminario, chiesi a Whitmont come aves-
se sviluppato il suo approccio piuttosto insolito al lavoro sui sogni. Mi
disse che all’inizio della sua carriera aveva incontrato Jung e Reich. Era
profondamente affascinato dal lavoro di Reich e dalla sua fisicità, ma lo
trovava un tipo ruvido e sgradevole. Jung invece aveva un tocco di classe
e ciò, confessò Whitmont, solleticava il suo ideale dell’Io. Seguì quindi la
formazione junghiana invece che quella reichiana. Comunque, Whitmont
trovò il proprio modo di introdurre nel suo lavoro clinico un senso attivo
di esperienza corporea.
    Il mio incontro con il pensiero di Reich giunse completamente inat-
teso. Attraverso una serie di eventi fortuiti, mentre frequentavo il Reed
College di Portland, in Oregon, iniziai a lavorare all’interno di un pro-
gramma di trattamento residenziale per bambini gravemente disturbati e
per i loro genitori. Per ottenere il posto, era necessario seguire un corso
di formazione e un trattamento di una settimana con Virginia Satir. For-
tunatamente per me, questo seminario si teneva all’Istituto Esalen. Ave-
vo solo 18 anni e quella era la mia prima esperienza terapeutica. Era la
fine degli anni Sessanta e l’Istituto Esalen era all’inizio del suo sviluppo
come luogo di nascita del movimento del potenziale umano. All’epoca
era un luogo abbastanza informale e indipendente dove si respira la vo-
glia di scoperta e di rivoluzione. Satir, allora direttrice del programma
residenziale di formazione di Esalen, mi prese sotto la sua ala. Poiché
non avevo denaro, mi permise di frequentare i seminari in cambio del
mio lavoro nella struttura. Avrei fatto l’autostop fino a Big Sur tutte le
volte che avessi potuto per frequentare i corsi disponibili. Divenni una
specie di mascotte dell’Istituto Esalen di Big Sur, in California.
    Un fine settimana, senza avere alcuna idea di quello che mi aspet-
tasse, frequentai un seminario di bioenergetica condotto da tre uomini.
Fu impressionante per tutta una serie di motivi, primo fra i quali il fatto
che mentre i conduttori rimasero vestiti, i partecipanti erano nudi. Il mio

                                                                         23
corpo magrolino, ansioso e maldestro fu gettato in un universo differente.
Riuscivo appena a respirare. Durante una delle attività del seminario il
conduttore faceva assumere a un partecipante una serie di posture molto
faticose chiamate “posizioni di stress” (Lowen, 1975; Lowen e Lowen,
1977), per poi osservare da vicino i pattern del corpo e le reazioni. Dopo
alcune posizioni uno dei conduttori avrebbe raccontato, come per magia,
storie dell’infanzia di quella persona, lanciandosi in speculazioni sulla
sua struttura del carattere sulle sue difese. Era, in pratica, uno spettacolo
di magia umiliante. Non osai farmi avanti. I conduttori del gruppo cita-
rono ripetutamente Wilhelm Reich come ideatore di questo tipo di psico-
terapia, così decisi che, una volta rientrato al College, avrei approfondito
l’argomento con alcune letture.
    Una volta rientrato al Reed, scoprii che, sebbene tutti i libri di Reich
fossero in catalogo, non se ne trovava alcuno sugli scaffali. Quando chie-
si spiegazioni, la direttrice della biblioteca mi raccontò la storia delle
persecuzioni subite da Reich da parte del governo degli Stati Uniti, la
confisca delle sue opere e la loro distruzione. Entrò nel suo ufficio e ritor-
nò con Psicologia di massa del fascismo (1970), porgendomi l’edizione
dell’Orgone Institute Press, disse: «Non ho potuto permettere che quei
bastardi prendessero anche questa». Reich scrisse questo libro alla vigilia
dell’ascesa al potere di Hitler, un testo brillante, provocatorio e sorpren-
dentemente attinente allo spirito rivoluzionario della fine degli anni Ses-
santa. Successivamente mi prestarono l’edizione dell’Orgone Press de
La Biopatia del Cancro (1973). Mia madre all’epoca stava morendo di
cancro. Sebbene la lettura del libro in parte lo faccia sembrare un trattato
fantascientifico delirante, le vivide descrizioni che Reich fa della rasse-
gnazione caratteriale coglievano l’essenza dell’esistenza di mia madre.
La profonda solitudine e rassegnazione di mia madre corrispondevano a
una parte di ciò che avrei rivissuto più tardi nell’esperienza con Christo-
pher Whitmont. Decisi che un giorno avrei imparato a lavorare nel modo
in cui suggeriva Reich. Col tempo misi insieme una raccolta delle opere
di Reich, ma sarebbero dovuti passare diversi anni prima che potessi in-
traprendere una vera e propria formazione nel campo.
    La specializzazione si situò fra i miei studi universitari e il mio ritorno
a Reich. Il dipartimento di psicologia al Reed aveva un orientamento basa-
to sul comportamentismo di Skinner, con mio dispiacere. Durante gli anni
della mia formazione universitaria, imperversava un dibattito filosofico

24
e politico fra le correnti del comportamentismo e della fenomenologia
esistenzialista. Scelsi il programma di studi in psicologia fenomenologi-
ca all’Università di Duquesne. Lì lottai con la corposità del pensiero di
Merleau Ponty, Husserl, Heidegger, solo per nominarne alcuni. Merle-
au Ponty aveva tratteggiato un modello del funzionamento psicologico
profondamente radicato nell’esperienza sensoriale e corporea, ma la cui
declinazione clinica risultava elusiva. Lasciai Duquesne con un sentito
rispetto per i potenti effetti dell’indagine fenomenologica sulla soggetti-
vità dello stare al mondo. La mia formazione fenomenologica costituì il
fondamento del mio orientamento clinico. Tuttavia, mi sentivo incerto su
cosa esattamente avrei potuto dire e fare con un paziente.
    Fin dagli anni della mia adolescenza, la lettura delle opere di Freud e
di Jung mi aveva fatto immaginare di diventare uno psicoanalista. A parti-
re dall’università frequentai diverse conferenze all’Istituto psicoanalitico di
Pittsburgh. Rimasi deluso. Non ritrovavo il rispetto, di cui ero invece stato
testimone a Duquesne, nei confronti della reale esperienza vissuta dal pa-
ziente; ogni cosa veniva fatta risalire alle difese e alla psicopatologia. Gli
incontri erano condotti da uomini in abiti scuri, impegnati in dibatti narci-
sistici, intellettualmente elevati e sgradevolmente competitivi. Ero sicuro di
non voler crescere e diventare come loro, quindi iniziai a guardarmi intorno.
    Ebbi una seconda occasione di imbattermi in un modo di pensare in-
novativo durante i corsi al Reed. Il centro di trattamento residenziale che
mi aveva inviato a Esalen per lavorare con Virginia Satir teneva le riu-
nioni di équipe sulla diagnostica e sulla pianificazione dell’intervento con
un’organizzazione che trovai molto interessante. Secondo il modello di
intervento dell’istituto, chiunque fosse entrato in contatto con il bambino
di cui si discuteva il caso (psichiatra, insegnanti, genitori) era presente
all’incontro e veniva coinvolto. Inoltre, anche il bambino, al di là della
sua età o del suo livello di funzionamento, era invitato a queste riunio-
ni. L’esperienza del bambino su cosa stava funzionando e cosa no, su
chi era d’aiuto all’interno dello staff (fosse il genitore o l’operatore della
caffetteria) e chi no, veniva attivamente inclusa nella pianificazione del
trattamento. Quando chiesi al dirigente psicologo come fossero giunti a
questa idea, mi descrisse il modello di supervisione di Eric Berne (1961,
1968) usato nelle consultazioni psichiatriche in cui paziente e terapeuta
erano ugualmente coinvolti. Secondo questo modello, i terapeuti discute-
vano la propria esperienza della terapia di fronte ai pazienti, poi i pazienti

                                                                            25
prendevano la parola e i terapeuti ascoltavano la loro esperienza. Era
un assetto dei ruoli terapeuta-paziente non comune e provocatorio. Da
studente universitario in seguito approfondii il pensiero di Berne (1963,
1966) e compresi il suo tentativo di integrare la psicoanalisi (si formò
come psicoanalista dell’Io sul modello degli anni ’50) con lo spirito di
ricerca fenomenologico. Dopo la specializzazione scovai un formatore a
orientamento transazionale e così trovai la mia strada professionale. La
comunità degli analisti transazionali rappresentò un contrasto ristoratore
rispetto a quanto avevo visto nell’istituzione psicoanalitica. Benché pro-
fondamente interessati alla vita intrapsichica e a quella interpersonale dei
loro pazienti, gli psicoterapeuti transazionali tendevano a essere molto
più pratici nel loro approccio alla psicoterapia.
    Conclusa la scuola di specializzazione, fui assunto per il mio primo
incarico in una straordinaria clinica di salute mentale di comunità: a quei
tempi infatti i servizi di salute mentale erano veramente forniti all’interno
della comunità – scuole, chiese, gruppi di genitori, una caffetteria nel
seminterrato per adolescenti, servizi di sostegno agli anziani. Il nostro
psichiatra, ora semi-pensionato, si era formato con Harry Stack Sulli-
van (e come Sullivan era segretamente omosessuale) e per lui l’analisi
transazionale era immediatamente comprensibile. Praticamente l’intero
gruppo di lavoro era formato secondo questo modello, quindi offrimmo
alla comunità diversi corsi e gruppi a orientamento transazionale. Era il
momento perfetto per essere un giovane psicoterapeuta in erba.
    Fu in questo stesso periodo che iniziai la formazione come psicotera-
peuta corporeo neo-reichiano. La cosa si rivelò in un certo senso una sfida,
poiché nell’analisi transazionale era proibito toccare il paziente, mentre
durante la mia formazione reichiana non concludevo mai una seduta sen-
za averlo toccato. Ci vollero anni per colmare questo divario e, in seguito,
misi fortemente in dubbio l’orientamento reichiano. Le istituzioni neo-
reichiane mi sembravano rigide e isolate, mentre in quelle a orientamento
transazionale avevo trovato apertura e appartenenza, sebbene mancasse
una certa curiosità. Ritornai alle letture e alle supervisioni psicoanaliti-
che, cercando soluzioni al mio dilemma. Erano sempre presenti divari da
colmare, ma progressivamente sperimentai come questi modelli molto
lontani potessero in realtà mettersi in dubbio e darsi forma l’un l’altro.
Nell’analisi transazionale contemporanea (Morrison e Goodman, 2007),
così come nella psicoanalisi (Aron e Anderson, 1998; Orbach, 2006a;

26
Anderson 2008) è presente un crescente tentativo di individuare modi di
lavorare con l’esperienza somatica all’interno della relazione terapeuti-
ca. Questo libro vuol dare un contributo in questa direzione. La stesura
di questo libro si fonda su un’autobiografia intellettuale e professionale.
Spero, nelle pagine che seguono, di saper cogliere alcuni aspetti dei con-
fini esplorativi degli attuali sviluppi della psicoanalisi e della psicoterapia
psicodinamica in relazione al crescente interesse verso il corpo.
    Il titolo del libro proviene da Analisi del carattere di Reich (1972) ed è
stato scelto per esprimere lo spirito del testo. È in questa sua famosa opera
che Reich per la prima volta dichiara la sua radicale rottura con la psico-
analisi del suo tempo al fine di comprendere e articolare il fondamento
somatico dell’esperienza e dell’espressione umana: «Il vivente funziona
non solo prima e al di là del funzionamento parlato; esso ha anche forme
espressive motorie proprie che non sono affatto afferrabili con le parole»
(Reich, 1949, p. 441).
    Uno degli obiettivi principali di questo libro è presentare l’opera di
Reich sotto una nuova luce, più contemporanea. Delle miriadi di per-
sonaggi di cui si circondava Freud, Reich fu senza dubbio uno dei più
controversi e snaturati. Susan Sontag ha osservato:

   Alcuni autori divengono classici letterari o intellettuali proprio perché
   non vengono letti, essendo per certi versi intrinsecamente illeggibili.
   Sade, Artaud e Reich appartengono a questa categoria: autori che sono
   stati imprigionati o chiusi nei manicomi perché urlavano, perché erano
   fuori controllo; immodesti, ossessionati, stridenti, autori che si ripetono
   senza fine, che risultano gratificanti se citati o letti a piccole dosi, ma
   che travolgono e logorano se letti in grande quantità (Sontag, 1976).

    Mi auguro che questo libro, fra l’altro, possa stimolare alcuni lettori a
intraprendere una lettura delle opere di Reich più intima e approfondita.

Nota sul materiale clinico: tutti i casi descritti estesamente e quelli che
comprendono il riferimento diretto ai dialoghi avvenuti in seduta sono stati
condivisi con i clienti, discussi e inclusi nel trattamento come parte del
processo terapeutico in corso. Le vignette cliniche più brevi presentano
dettagli romanzati delle storie dei pazienti, mentre la descrizione del pro-
cesso terapeutico è attinta direttamente dagli appunti clinici.

                                                                                 27
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