L'ESPERIENZA SOMATICA IN PSICOANALISI E PSICOTERAPIA - Nel linguaggio espressivo del vivente - Armando Editore
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William F. Cornell L’ESPERIENZA SOMATICA IN PSICOANALISI E PSICOTERAPIA Nel linguaggio espressivo del vivente ARMANDO EDITORE
Sommario Introduzione all’edizione italiana 7 Susanna Ligabue Introduzione 19 Capitolo primo Il mio corpo è infelice 28 Capitolo secondo La visione radicale e tragica di Wilhelm Reich 44 Capitolo terzo Entrare nel gesto come fosse un sogno: 64 uno psicoanalista incontra il corpo Capitolo quarto Attraverso le mani: enactment del contatto o analisi 84 del contatto? Capitolo quinto Corpi sconosciuti: la ricerca del desiderio 99 Capitolo sesto Tracce dell’altro: incontri con il carattere 120 Capitolo settimo La chiamata silenziosa: Reich, Winnicott e il gesto interrotto 141 Capitolo ottavo Zuffa e baruffa: sensorialità, gioco e maturazione 155 Capitolo nono Prendimi! Vitalità erotica e perturbante 176 Capitolo decimo Perché fare sesso? Carattere, perversione e scelta libera 193 Bibliografia 222
In affettuosa e grata memoria di Rose Leopold: per avermi dato una seconda occasione nella vita e per avermi mostrato che vivere una vita appassionata è possibile E a Mick Landaiche: per aver dimostrato che Rose aveva ragione Con gratitudine ai maestri, ai colleghi, ai terapeuti, ai supervisori e agli amici che hanno arricchito, smosso e dato vigore alla mia vita e al mio lavoro: Mr. Davis, Mr. Ut- ter, Miss Schwartz, Miss Hill, Nicholas Longo, Carol Creedon, Constance Hanf, Virgi- nia Satir, Constance Fischer, Stephanie Neal Cornell, Howard Goodman, Robert Yoder, Lois Johnson, Harry Boyd, Elaine Warburton, Mark Ludwig, Richard Miller, Charel- le Samuels, Frances Bonds-White, Stanley Perelman, Mort Johan, Robin Fryer, Mick Landaiche, Robert Marin, Christopher Bollas, James McLaughlin, Sam Gerson, Wilma Bucci, Lew Aron, Muriel Dimen, Ruth Stein, Anne Alvarez, Donnel Stern, Maurice Ap- prey, Jean-Michel Quinodoz, Danielle Quinodoz, la comunità internazionale di analisi transazionale, e il gruppo “Keeping Our Work Alive” di Pittsburgh. Le attente e critiche riletture della prima versione del manoscritto da parte di Mick Landaiche, Christopher Bollas e Lew Aron sono state fondamentali per farmi scrivere in tono personale e diretto. Una speciale menzione di gratitudine va a Susan Wickenden, Susannah Frearson, Kate Hawes, Sarah Steele, Laura Emsden, and Abigail Stanley delle edizioni Routledge le cui competenze e gentilezze hanno reso le fasi finali della stesura del libro un vero piacere. E grazie ai numerosi clienti che per più di quattro decenni hanno spinto, trasgredito e oltrepassato i limiti del mio carattere, della mia formazione e della mia capacità di com- prendere. Questo libro è soprattutto il racconto del nostro lavorare e imparare insieme.
Introduzione all’edizione italiana Susanna Ligabue Quando William Cornell mi ha parlato del suo libro e ancor più quan- do lo ho avuto tra le mani, ho sentito il desiderio fosse disponibile in italiano per quanti lavorano in ambito clinico, nella consulenza e per chi abbia un interesse ad approfondire e pensare la “presenza” del corpo nella relazione. Nel rileggerlo nei mesi di preparazione della edizione italiana il mio interesse si è rinnovato. Ogni volta ritrovo una nuova angolatura, una sollecitazione a pensare intorno a qualche aspetto che prima mi era sfuggito; una qualità che rende un libro, ai miei occhi, un interlocutore affidabile: un “compagno vivo”. Con Cornell, collega di lunga data, condivido l’appartenenza all’Inter- national Transactional Analysis Association (ITAA), una delle sue “case professionali” e l’interesse per la dimensione del corpo nella cura (Liga- bue, 1991, 2007). Ci accomuna anche un’attenzione più ampia, sociale, al contesto di cura entro una cornice di social responsibility. Come CPAT, una delle prime associazioni italiane di Analisi Tran- sazionale, affiliata all’European Association for Transactional Analysis (EATA), di cui sono presidente, abbiamo sostenuto la traduzione e dif- fusione del libro considerandolo prezioso strumento di lavoro anche per gli analisti transazionali, da sempre attenti, sulla via aperta da Berne, alla dimensione fenomenologica dell’esperienza, agli aspetti intrapsichici e alla intersoggettività della relazione terapeutica. Il libro di Cornell, che riprende e approfondisce i temi del suo prece- dente Explorations in Transactional Analysis: The Meech Lake papers 7
(2008), viene pubblicato nel 2015 da Routledge, nella collana che rac- coglie testi della tradizione relazionale psicoanalitica (RPBS-Relational Perpective Book Series). Esce in contemporanea con l’altro suo libro, in edizione francese originale: Une vie pour etre soi (2015), in cui parla della propria pratica professionale e di sé in prima persona. Cornell nel 2016 è anche coautore (con De Graaf, Newton, Thunnis- sen) di un nuovo manuale di Analisi Transazionale: Into TA: A comprehen- sive textbook on Transactional Analysis (2016). Alcuni suoi contributi, particolarmente sui giochi psicologici, su copione e corpo, testimoniano la sua attenzione alla comunicazione, ai processi di transfert nella relazio- ne, temi su cui scrive da anni su riviste specializzate e in particolare sul TAJ (Transactional Analysis Journal) di cui è coeditor e membro storico della redazione. Nel presente testo Esperienza somatica in psicoanalisi e in psicotera- pia. Nel linguaggio espressivo del vivente, Cornell affronta con linguag- gio preciso e diretto, a volte graffiante, un aspetto centrale nella relazione terapeutica: l’esperienza del corpo. Argomento che suscita oggi rinnovato interesse e sollecita il nascere di convergenze tra ambiti teorici diversi sia nella teoria che nella tecnica, per motivi diversi. Da un lato, il superamento del dualismo cartesiano mente-corpo ha consentito negli ultimi decenni di andare oltre la po- larizzazione che ha caratterizzato per lungo tempo la teoria e la clinica (Damasio, 1994; Stolorow, Atwood, 1992) e dall’altro l’apporto delle neuroscienze nel comprendere i meccanismi del funzionamento mente- cervello-memoria ha permesso di rivisitare e differenziare la nozione di inconscio: Mauro Mancia (2004) ci ha lasciato bellissime pagine al proposito. Tutto ciò ha consentito di dare solide fondamenta alla comu- nicazione intersoggettiva (Panksepp, 2009; Shore, 2003; Stern, 2004; Trevarthen, 2009) come embodied cognition, particolarmente con le più recenti scoperte sul funzionamento dei “neuroni specchio” (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Questo processo di conoscenza e il dibattito che ne è nato, ha portato nuova luce sui processi relazionali, sulle emozioni e su- gli affetti, influenzando la comprensibilità di fisiologia e psicopatologia e aprendo nuovi terreni nel trattamento analitico. La letteratura in proposito è ampia e l’attenzione al somatico nell’arena delle Talking-cure è oggi molto alta (Aron, Anderson 1998; Lemma, 2015). La centralità del corpo, riconosciuta nella quotidiana vita di relazione, nello 8
svolgersi dello sviluppo e nei processi di crescita, viene messa a tema in modo forte anche nella stanza della terapia. Una linea di spartiacque è an- cora ad oggi l’utilizzo diretto o meno e il coinvolgimento intenzionale del corpo – in varie forme tecniche – nella relazione terapeutica. Nel suo libro Cornell, fornisce il proprio punto di vista e offre stru- menti per poter colmare/attraversare questo iato: essere psicoanalisti, psi- coterapeuti e terapeuti del corpo. Il libro propone e sollecita molti interrogativi. Possiamo pensare e sentire il corpo? Possiamo considerare l’esperienza somatica dei nostri pazienti e la nostra? Come possiamo osservare, porci domande, fare ipotesi e scegliere se, quando, in che misura, e a che scopo coinvolgere/coinvolgerci attivamen- te nella relazione con l’altro a livello somatico? L’originalità della prospettiva dell’autore viene sottolineata anche nella breve introduzione all’edizione originale del testo e nei commenti in quarta di copertina, dalle voci autorevoli di psicoanalisti come Bollas e Alvarez. Christofer Bollas riconosce come sia un azzardo scrivere di Body work attraverso le parole – così come scrivere di musica – se non conosci l’idioma specifico e sottolinea come pochi finora hanno osato farlo. Anne Alvarez sottolinea come il lavoro di Cornell spinga gli psicoanalisti a interrogarsi e considerare più da vicino l’esperienza corporea dei propri pazienti per poter riconoscere, oltre alla base sicura, quella che Cornell chiama una “base vitale”. Nel testo è singolare la scelta di Cornell di raccontare, con voce pro- pria, la teoria e la pratica terapeutica attraverso “incontri” significativi con maestri tra loro differenti come Reich, Winnicott, McLaughlin, Ber- ne: i suoi maestri. Ci invita a seguire il proprio itinerario formativo. Ana- logamente ci offre il racconto dei propri incontri con i pazienti, attraverso la testimonianza diretta di casi clinici. La self disclosure, onesta e corag- giosa, a volte “ruvida” per chi legge (come l’immagine scelta dall’autore per la copertina del testo originale) si accompagna ad una attenzione e tensione etica percepibile in tutto il libro. L’autore ci invita e ci “provoca” a sentire e “pensare con” lui. Nel testo di Cornell, l’ordine del racconto attraverso cui ci introduce alla teoria e alla sua pratica è temporale e ci permette di intravedere uno spaccato degli USA dagli anni ’60 in poi e di cogliere il contesto storico 9
e culturale in cui si sono sviluppate: la West Coast e Esalen, il fervore del movimento umanista di Maslow, l’alimento della filosofia esistenziale di Binswanger (May, 1966), della terapia della Gestalt di Frederick Perls, l’attenzione al corpo di Wilhelm Reich e dei suoi prosecutori (Lowen, Pierrakos, e altri). Si possono intravvedere le tracce del neo-liberismo e le rigidità del maccartismo negli USA, particolarmente quando parla della visione radicale e tragica di Reich (cap. 2). Attraverso le notazioni personali, si respira il segno dei tempi, il de- siderio di aprire nuove strade di cura, di coinvolgersi come curanti in un fervore rinnovato nel dopoguerra e attraversato da un vento “demo- cratico” in particolar modo dagli anni ’60-’70 in poi. Una cultura che trasformerà anche alcune delle ortodossie psicoanalitiche, facendo spazio alla psicoanalisi relazionale, nel complesso intreccio dell’evolversi della psicoanalisi americana, che ha profondamente risentito dell’apporto degli psicoanalisti emigrati in USA nel dopoguerra (Meneguz, 2006). Seguendo lo svolgersi dei capitoli comprendiamo le linee essenziali del pensiero dell’autore. Dopo l’accento forte, nella Introduzione, sulla “carne” del mondo e la carne del corpo come essenza dell’essere/esserci, con Merleau-Ponty (1969, Il visibile e l’invisibile) ci invita nel primo capitolo a “far spazio al corpo”, al corpo del paziente e a quello dell’analista, e man mano al corpo del noi in cui la relazione si sostanzia. La presenza, reale ed evocata, del corpo si configura innanzitutto come possibilità e necessità di creare uno spazio riflessivo di cui il corpo sia soggetto e oggetto, pensante e pensato nella diade terapeuta-paziente al lavoro, in un campo relazionale condivi- so (McLaughlin 2005; Stern. D.B. 1997). Corpo quindi non solo come luogo di difese caratteriali, seguendo la lezione di Wilhelm Reich e dei suoi prosecutori e neppure motore di agiti secondo alcune visioni della psicoanalisi (cap. 4) ma innanzitutto terreno di incontro tra persone: un luogo e un territorio specifico e di riflessione condivisa, conoscenza incarnata. Creare uno spazio riflessivo può voler dire partire dal corpo. Come Cornell dice fin dall’inizio (cap. 1) l’impatto del corpo della paziente in terapia – l’agitazione di Pat, il suo occupare lo spazio della stanza e della seduta in modo forte e per certi versi “aggressivo” – creava in lui una sorta di urgenza, “induceva” uno stato dell’essere, un invito a sentire- con/sperimentare – con la paziente stessa il forte stato di distress che 10
stava vivendo. Una “chiamata” per il terapeuta ad entrare in un terreno dove la parola non aveva ancora preso significato. Cornell suggerisce che la ricerca di immedesimazione nell’esperienza dell’altro, il “diventa- re l’altro” (il domandarsi/domandare “cosa succederebbe se anch’io co- minciassi a camminare in modo agitato per la stanza come lei fa? E il po- terlo eventualmente fare”), produce una sorta di rispecchiamento, offre alla paziente un modo per guardarsi attraverso lo sguardo dell’altro. Nel contempo offre al terapeuta un’apertura sul vissuto emotivo profondo della paziente (“Cominciai a sentire acutamente la sua vulnerabilità”) e produce un movimento nella coppia terapeutica al lavoro. Poche sessioni dopo emerge dalla paziente l’immagine/desiderio/impulso di spingere il terapeuta con la spalla, di dargli una spallata. Un invito alla presenza che il terapeuta accetta traducendolo in un gesto: lei dà una spallata e lui resiste. La spalla è solida e per la paziente la solidità è una sorpresa. Da questo gesto condiviso nascono storie, emergono memorie di aggressio- ni e di vuoto che possono ora “trovare” le parole. Emerge anche nella paziente l’acuta e diretta consapevolezza che la sua agitazione sottende ed evita l’esperienza del vuoto. Cornell domanda: era possibile intervenire sull’agitazione senza arrivare letteralmente a “spingersi” l’un l’altro? Certamente! Tuttavia, nello scegliere questo esempio in apertura, l’autore marca il confine tra terapie centrate sul corpo e approcci maggiormente orientati in senso cognitivo o psicoanalitico. È sua convinzione che l’allontanamento dal corpo di alcuni pazienti e insieme il disperato desiderio di riprendere vitalità debbano essere messi in una tensione dialettica, di cui l’altro, il terapeuta, diviene mediatore. Queste due forze possono, a volte in- contrarsi solo nella sintassi del corpo, hanno necessità di riconoscere e ri-costituire un idioma dimenticato. Qui il gesto incarnato (pensato e voluto dal terapeuta, non agito inconsapevolmente) diviene traccia, forma vivente, contenimento, struttura, che restituisce pienezza ad una azione sentita e pensata e apre nuove prospettive nella relazione. Il tera- peuta segue la propria intuizione e sceglie il timing, delimita il confine. Si offre come presenza vitale e pensante. Per comprendere meglio il terreno su cui si situa Cornell e compren- derne l’itinerario vorrei riprendere alcuni spunti di riflessione. 11
Di quale corpo parliamo? A questo proposito desidero ricordare la distinzione di Husserl tra Leib, “corpo vissuto”, evidenza esperienziale, corpo-soggetto e Korper: corpo oggetto, “il corpo che ho”, oggetto esterno di riflessione e cono- scenza. Stanghellini (2006) sottolinea come il tema del corpo-vissuto sia al centro della riflessione fenomenologica sulla coscienza di sé e l’inter- soggettività. La coppia concettuale Leib/Korper è innanzitutto la descrizione di una svolta nel concepire il corpo e di viverlo concretamente. Da un lato in- fatti il concetto fenomenologico di Leib preannuncia l’enfasi sul vissuto corporeo e sul “corpo liberato” degli anni ’60. Dall’altro il concetto di Korper o “corpo scientifico” sintetizza il travaglio di almeno cinque secoli di storia occidentale, iniziato dalla riduzione galileiana: il corpo privato dei propri attributi soggettivi (impressioni, volizioni, affettività) cioè del pathos della vita, concepito come correlato di proposizioni ge- ometriche e come tale reso disponibile a essere investigato dalle scienze naturali (Stanghellini, 2006, p. 252). Il fenomeno dell’intersoggettività si fonda sulla percezione della vita emotiva dell’altro e il corpo vissuto è al centro del problema della inter- soggettività. La coscienza è incarnata e la carne in quanto materia im- pressionabile, riceve dal contatto con il mondo il sentimento della propria presenza al mondo: una presenza non riflessiva chiamata “ipseità”. L’intersoggettività è intercorporeità: una “comunione di carne e non una relazione tra soggetti pensanti isolati, legame percettivo attraverso il quale noi riconosciamo gli altri esseri in quanto simili a noi (Stan- ghellini, 2006, p. 252). Per meglio significare l’esperienza del sé con l’altro, oltre ai noti con- tributi di Daniel N. Stern (2004) e alle riflessioni derivate dal suo lavoro in ambito evolutivo attraverso l’Infant Observation e l’Infant Research, riprendo tra le tante fonti disponibili, alcune parole riassuntive di Ales- sandra Lemma, nel capitolo di introduzione del suo recente testo Minding the body (2015), a proposito del sé-incarnato (embodied-self): 12
Il sistema della memoria implicita (preverbale) include le memo- rie procedurali, emozionali ed affettive. Ciò è centrale riguardo a come noi ci rappresentiamo il corpo poiché le più precoci espe- rienze senso-motorie, che stimolano emozioni, portano con sé affetti e sono molto verosimilmente codificate come memorie procedurali del mio-corpo-con-l’altro. Sono inoltre molto verosimilmente archi- viate nell’inconscio-non-represso. Queste memorie – anche chiamate “schemi-emotivi” (Bucci, 2008) – incorporano rappresentazioni di al- tri che validano o viceversa respingono l’esperienza del sé-corporeo del bambino. Uno schema emotivo può essere attivato direttamente da tracce sensorie nella percezione o dalla memoria. Da un punto di vista clinico questo è rilevante e suggerisce che l’analista debba sinto- nizzarsi sulla comunicazione sub-simbolica, che è incorporata (Buc- ci, 2008), il che significa che stiamo parlando di processi somatici e sensori che non possono essere né verbalizzati, né simbolizzati e che possono operare al di fuori di un controllo intenzionale o di un pensie- ro organizzato e che possono essere registrati dall’analista attraverso il proprio controtransfert somatico (Lemma, 2015, p. 7, trad. propria). Cornell è un attento conoscitore della prospettiva teorica della Bucci da lui intervistata anche in occasione del congresso EATA sulla ricerca, a Roma, nel 2015 (“1st EATA Transactional Analysis Theory Development and Research Conference”, Roma, 9-11 luglio 2015) e di cui ha scritto in diversi articoli alcuni dei quali tradotti in italiano sulla rivista Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane. Cornell ci introduce alla sua esperienza del corpo nella relazione con il paziente, nel regno della lettura del sub-simbolico, nel corpo-a-corpo della relazione terapeutica (cap. 3). Un aspetto saliente nel corpo del pa- ziente viene colto dall’analista attraverso un processo di imitazione/im- medesimazione che attiva risonanze controtransferali a livello senso-mo- torio e diviene una possibile via per accedere all’esperienza del corpo-sé- dell’altro. Attraverso l’attenzione alle risonanze nel corpo e nella reverie dell’analista, Cornell ci conduce a pensare al gesto similmente al sogno e a riflettere sulla qualità dell’incontro nel qui ed ora della relazione tera- peutica, ricollocando l’interruzione dei “gesti spontanei” nella storia del paziente e ri-significandoli. 13
Di quale gesto? Il corpo dell’analista con le sue risonanze sensoriali ed emotive, le fantasie e i pensieri che emergono nel campo relazionale che condivide con il proprio paziente, gli permettono di scegliere se e come leggere un “gesto” (postura, sguardo, suono, respiro, movimento… che il paziente accompagna alle parole), potendo immaginarlo, sognarlo, proporlo con- cretamente, lasciando che si espanda, si amplifichi, si trasformi, lasciando emergere il versante “non formulato” dell’esperienza (Stern D.B., 1997). Si richiede all’analista uno sguardo e un ascolto attento e curioso, che la- scia spazio all’intuizione. Una intuizione che mette da parte i pre-supposti, i pre-concetti direbbe Berne (1949-1962) e che permette di dar corpo e man mano anche parola ad un sentire del paziente finora racchiuso in uno schema emozionale implicito e ricorrente. Un ponte e una traccia di una nuova esperienza emotiva di cui l’analista è tramite e testimone. Modellare il proprio corpo su quello dell’altro, rappresenta una sfida al processo classico in analisi, ci ricorda Cornell (cap. 3). Se la domanda centrale nel processo psicoanalitico centrato sulla Talking cure è: “Cosa ti viene alla mente?” E la libertà nel parlarne, per esplorare il regno del sub- simbolico occorre porre (e sperimentare) domande diverse: “Cosa viene dal tuo corpo, cosa emerge? Cosa potresti aver bisogno di fare? Come potrebbe aver bisogno di muoversi il tuo corpo?” E ancora: “Potresti de- scrivere ogni sensazione del tuo corpo mentre ne parli?”. L’analista è curioso nel cercare una traccia di una esperienza relazio- nale che il paziente ha sentito interrotta, bloccata, ripetuta e ha l’intuizio- ne e il coraggio di proporre al paziente una possibile nuova esperienza, di cui è tramite e testimone partecipe. Intuizione e coraggio: un gesto attento, ma che osa. In questo percorso Cornell racconta dei suoi maestri: – delle acute intuizioni e ipotesi di Reich sul “linguaggio del vivente”, delle sue osservazioni sulla postura e sull’armatura caratteriale, del suo aver perso la dimensione relazionale nel rapporto con il paziente, pur avendo scritto pagine magistrali sul controtransfert; – della curiosità e delle accurate osservazioni sui processi del corpo di McLaughlin, con cui ha collaborato a lungo; – della attenzione di Winnicott, insuperata nel descrivere la relazione di vicinanza (relatedness) tra madre e figlio, con un linguaggio entrato 14
nel lessico comune (la madre sufficientemente buona, un handling/ holding empatico, una preoccupazione materna primaria, il gesto spontaneo), del suo scrivere del corpo, pur senza lavorare con il corpo attraverso un contatto diretto con il paziente. Quale gesto tra paziente e analista? Nel caso di Andrè (cap. 4) Cornell racconta di essere stato colpito dalle mani, dai gomiti, dalle spalle dolenti e contratte del paziente e della sua proposta al paziente di ascoltarle. La scelta di proporre un contatto diretto e un successivo intervento di pressione sul dorso del paziente, hanno aperto la via per riconoscere una tensione trattenuta e un cinismo che nascondeva/proteggeva desideri celati e una grande vulnerabilità del paziente. Parlando di un intervento diretto è d’obbligo parlare anche di setting e protezione del cliente, attraverso un contratto chiaro e un consenso informato circa il “toccare”. Il dibattito e la letteratura al proposito è oggi ampia. Cor- nell sottolinea come l’informazione al cliente debba riguardare anche i buoni motivi per includere il contatto diretto, come strumento analitico, consape- vole e intenzionale, per esplorare, conoscere e governare le emozioni, che sono inscindibilmente legate al corporeo. Nel caso di “Eric e Alan” conclude dicendo che «Mani, contatto, movimento, sensazioni e carne, sono stati il medium attraverso cui il lavoro analitico ha potuto realizzarsi e procedere». Dunque il contatto fisico diventa un linguaggio specifico, di cui le mani sono tramite. Con Diamond (2006) ci ricorda che il tocco può essere considerato una forma di pensiero, un know-how affettivo legato alla me- moria emozionale. Il training al contatto è forse la linea di demarcazione maggiore tra le modalità di lavoro centrate sul corpo e le forme più tradi- zionali di psicoterapia e psicoanalisi. Cornell ci ricorda (cap. 5) come il contatto permetta l’esplorazione dei confini, anziché la loro violazione. Circa le tecniche e le metodologie somatiche di approccio al corpo Cornell ci ricorda in molte parti del suo testo, che vi sono differenze nei diversi approcci (ad esempio la Gestalt e i modelli neo-reichiani offrono un diverso quadro di riferimento circa l’uso del contatto) e il repertorio è vasto, e molte sono le tecniche che possono facilitare la vitalità e la 15
“considerazione” del corpo. Il fine, tuttavia, non è la tecnica che stimoli la regressione e neppure l’abreazione e l’apertura emozionale di per sé, né l’allentamento delle tensioni muscolari, o il solo allineamento degli assetti verticali. Ciò che promuove efficaca (efficacy) nel corpo è il con- tatto relazionale in continua tensione dialettica tra sé e l’altro lungo il corso della terapia, così come nella vita. Un contatto vivificante: tra bisogni e desiderio Cornell ci parla di un corpo portatore di energia, desiderio, che spinge al contatto con gli altri, che ne sollecitano la vitalità nel contatto: la carne del corpo in relazione. Ci ricorda, con Anzieu, a proposito dell’Io-Pelle, la funzione dell’inter-sensorialità, nello stimolare l’emergere di un nuovo linguaggio dove sensi e parole hanno una loro coerenza. Ci invita anche ad andare oltre il “bisogno di attaccamento”, la cui enfasi rischia di colludere con la scomparsa della sessualità dal panorama emotivo, relazionale e terapeutico al giorno d’oggi. Ci sollecita a consi- derare la lingua del desiderio, a confrontarci con la dimensione della ses- sualità intrinseca alla relazione e al processo vivente. Si domanda come poter trovare un linguaggio più ricco e articolato per il corpo erotico, per la passione (cap. 9). Introducendo riflessioni su “Carattere, perversione e libera scelta” (cap. 10). Nelle sue parole ritroviamo la lezione di Reich che considerava la vitalità sessuale indice di salute emotiva e di relazioni mature, così come la voce di autori diversi con cui Cornell si confronta nella parte finale del suo testo. Sottolinea che se è vero che i pazienti adulti hanno bisogno di una “base sicura”, allo stesso modo hanno bisogno, anzi fame, di relazio- ni “sfidanti” (challenging) e vitalizzanti, dove si possa far spazio, oltre che alla sintonizzazione empatica, anche al conflitto, a fantasie aggressi- ve, all’insicurezza e alla tolleranza dell’incertezza: ingredienti intrinseci alla base vitale che ci caratterizza come esseri umani. Una lettura stimolante, che apre nuovi terreni di confronto, sollecita dubbi e incoraggia a sperimentarsi e pensare insieme. 16
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Introduzione La carne del corpo Cosa significa vivere in un corpo? Come possiamo adeguatamente mettere in parole l’esperienza che facciamo del corpo? Nonostante la fra- se, ampiamente citata, in cui Freud afferma che l’Io è prima di ogni altra cosa un Io-corpo, la psicoanalisi e la psicoterapia hanno attribuito spazio e significati incerti all’esperienza corporea. La psicoanalisi si riferisce, il più delle volte, all’esperienza somatica nel processo terapeutico colle- gando il corpo al concetto di regressione e a quegli stati dell’esperienza primitivi, concreti, non simbolizzati, non mentalizzati, che devono essere convogliati in territori più maturi dell’organizzazione psichica. Questo libro si basa su una premessa differente, ossia che gli esseri umani possano generare significati profondi e sostanziosi anche grazie alla capacità di fare esperienze corporee profonde e durature: in altre pa- role, il nostro corpo, grazie alle competenze percettive e sessuali risulta essere un’importante risorsa per la crescita psichica. Il nostro corpo non è semplicemente una prigione piena di detriti primitivi o di ingranaggi neuromuscolari: esso fornisce gli strumenti fondamentali allo sviluppo di sé e al contatto con gli altri. Altra premessa di questo libro è che un’at- tenzione consapevole e costante all’esperienza corporea può offrire un collegamento essenziale fra i territori dell’inconscio e le capacità, consce, di comprensione, scelta, azione e vitalità. La fenomenologia di Merleau-Ponty affonda le sue radici nel prima- to dell’esperienza corporea. Verso la fine della sua vita, questo autore introdusse il concetto di “carne” al fine di evocare una percezione più vivida e vivente del corpo in quanto «Carne del mondo-Carne del corpo- Essere» (Merleau Ponty, 1969, p. 260). Iniziò a utilizzare la parola carne nel tentativo di cogliere e illustrare più attivamente l’esperienza del corpo immerso nel mondo, sia materiale sia umano. Secondo Merleau Ponty: 19
Ciò significa che il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa sopra- vanza sul mondo (il sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di materialità) essi sono in rapporto di trasgressione o di sopravanzamento (Ibidem). La sua morte improvvisa, nel 1961 a cinquantatré anni, arrestò lo svi- luppo di questi concetti, tuttavia, Merleau Ponty ci ha lasciato una filosofia unica che integra la struttura dell’umana esperienza con il corpo sensoriale. L’autore sostiene che la carne è un tessuto sensoriale che si estende oltre al corpo fisico, nel toccare e nell’essere toccati dagli altri, così come nel toccare e nell’essere toccati dal mondo materiale. Include gli spazi fra sé e l’altro, creando un tipo di conoscenza viscerale, non pensata. La carne testimonia l’essenziale fisicità dell’esperienza intersoggettiva. Quando ho scoperto questo vocabolo, carne, ho ritenuto che richia- masse fortemente il mio modo di concepire la mia pratica clinica centrata sul corpo. Questa parola evoca insieme la vitalità e la fragilità del corpo, nel senso di corpo vissuto e vivente (Gilbert e Lennon, 1988). Lucian Freud, in una descrizione del suo approccio alla pittura, coglie questo senso di carne: «Voglio che la pittura sia come la carne […] A mio avviso, la pittura è la persona. Voglio che sia per me come la carne» (L. Freud, 2010, p. 146, trad. propria). La carne è uno strumento di contatto, è pelle dotata di profondità, movimento e vitalità. La pelle e i muscoli si fanno carne quando si mi- schiano e si pervadono della carne dell’altro. Esiste anche l’eccitazione aggressiva della carne: la capacità di eccitare e turbare l’altro, il desiderio di entrargli nella pelle (get under another’s skin), di insinuarsi nell’altro in modo da non poter essere dimenticati, sostituiti da qualcun altro, di penetrare ed essere penetrati nelle nostre relazioni intime. La carne può però essere anche ferita, la carne si decompone. Michael Bronski descrive vividamente le realtà della carne: La carne ci unisce e ci separa. Ho sempre pensato che il verso di Amleto fosse: “Oh! Così questa trop- po solida carne potesse fondersi…”. Ma mi è stato detto che è “sor- dida”, non “solida” e in effetti ha senso. La carne non è solida, non è 20
marmo, non è né nobile, né pura, ma cedevole, pronta a ferirsi e a strap- parsi e a dolere. Come “la verità”, “l’onestà” e perfino “l’amore”, può inspiegabilmente corrompersi, lacerarsi e distruggersi (Bronski, 2002, p. 291, trad. propria). La carne è viva, ricorda, desidera e ha paura. Fin dal principio del mio lavoro di psicoterapeuta, mi sono trovato immerso in queste dinamiche centrate sul corpo. Quando ho iniziato a pensare all’introduzione di questo libro, mi è capitato di ritornare su una passata descrizione (Cornell, 2008a) di una delle mie primissime espe- rienze di psicoterapia. Mi accingevo a esplorare dei ricordi molto precoci, e piuttosto disturbanti durante un seminario con Christopher Whitmont (1972, 1973), un analista junghiano che ho incontrato all’inizio della mia formazione in analisi transazionale. Emersero solo due ricordi, entrambi situati nel salotto del primo piano della casa dei miei nonni materni, dalla quale io, mia madre e mio padre traslocammo prima che avessi compiuto quattro anni. Il primo ricordo corrispondeva a un’immagine visiva delle sbarre mar- roni del mio lettino di legno. Non c’era narrativa, né una sequenza di eventi, solo l’immagine delle sbarre e la sensazione della mia schiena che preme contro il legno. L’altro ricordo, che ha luogo nella stessa stanza, è la musica del ritornello di “Hernando’s Hideaway” e la sensazione di essere tenuto dalle braccia di mia madre mentre balla. Condivisi queste memorie al seminario tenutosi all’inizio della mia formazione come analista transazionale. Whitmont fece notare che i miei ricordi si traducevano in sensazioni fisiche piuttosto che in immagini vi- sive o narrazioni. Spiegò che nel suo lavoro clinico sulle memorie precoci o sui sogni prestava attenzione alla principale modalità dell’esperienza coinvolta nel ricordo o nel sogno: se si trattasse di una sensazione somati- ca, di un’immagine visiva o di una narrazione. Iniziava quindi a esplorare il materiale all’interno della modalità dell’esperienza attraverso la quale era stato organizzato il ricordo o il sogno, utilizzando la tecnica junghiana dell’immaginazione attiva. Suggerì di lavorare sui miei ricordi come esperienze sensoriali per vedere cosa potessimo scoprire. Mi chiese di sedermi, a occhi chiusi, e di concentrare la mia attenzione sulla sensazione delle sbarre contro la mia schiena per notare qualsiasi piccola propensione al movimento da parte 21
del mio corpo. Mi incoraggiò a sentire ogni sensazione o movimento. Le sensazioni all’inizio furono vivide e profondamente disturbanti. Senza davvero sapere cosa il mio corpo stesse facendo, mi misi in piedi, inar- candomi indietro, premendo la schiena nell’aria, con la sensazione delle sbarre che si intensificava. Avrei voluto battere la testa. Piansi. L’unico movimento possibile per il mio corpo consisteva nel premere all’indie- tro contro sbarre inesistenti. Insieme con queste sensazioni emerse una profonda e familiare angoscia di solitudine. Infine, crollai in lacrime sul pavimento sentendomi profondamente solo. Whitmont attese in silenzio, attento, che il mio disagio si affievolisse. Quindi, sottolineò il fatto che avevo presentato due ricordi e mi chiese se desideravo passare al secondo. Di nuovo, non mi chiese di ricordare e rac- contare il ricordo, ma di “entrare” nella memoria e di lasciarla “muovere dentro di me”. Mi chiese di sentire la musica e di provare la sensazione della musica nel corpo. Immediatamente, nella ricostruzione mentale di quell’esperienza, ricordai la musica con tenerezza. L’avevo associata a ricordi infantili più recenti in cui ballavo il jitterbug con mia madre, sulle canzoni di un disco LP che ancora possiedo. Tuttavia, l’esperienza nel mio corpo mentre mi muovevo a ritmo di musica non fu così dolce. Sen- tivo una profonda tenerezza nei confronti di mia madre, sentivo la sensa- zione del ballare abbracciato al corpo di lei, ma sentivo anche l’intensa e nostalgica solitudine del suo corpo. Ancora una volta piansi e mi sentii solo. Provavo un senso di solitudine, in me stesso, con mia madre e in mia madre. Ecco la vita della carne fra me e mia madre – che plasma, carat- terizza e impregna la mia esperienza corporea nell’incontro con l’altro. Avevo avviato la formazione con l’analisi transazionale dopo una laurea altamente intellettualistica a indirizzo fenomenologico. Stavo at- traversando un periodo di eccessivo lavoro e una vita da giovane adulto con troppe responsabilità, che seguiva un’adolescenza di dipendenza da droghe e assuefazione da eroina. Attraverso questi ricordi, registrati nel corpo, potei intravvedere per la prima volta la funzione dei miei sforzi, con esiti di tipo maniacale e dipendente, di tenere lontano la profonda solitudine che aveva permeato i miei primi anni di vita. Fu in questo unico scorcio di psicoterapia centrata sul corpo che ap- presi qualcosa che riguardava me stesso in relazione con i miei cari, su cui sarei tornato più e più volte nel corso della mia psicoterapia corpo- rea e della mia successiva psicoanalisi, raggiungendo strati sempre più 22
profondi di significato. Attraverso le sensazioni provate con l’esplorazione di quei due ricordi, mi resi conto di qualcosa di fondamentale nell’area delle mie dinamiche relazionali inconsce. Lo ricordai nel corpo, lo esplo- rai attraverso il corpo e quell’esperienza fu essenziale per plasmare la mia crescita come psicoterapeuta. Allora non conoscevo ancora nessuna teoria e nessuna tecnica di psicoterapia corporea, ma seppi che l’utilizzo diretto del corpo sarebbe stato un elemento essenziale nel mio lavoro clinico. Durante la cena, dopo il seminario, chiesi a Whitmont come aves- se sviluppato il suo approccio piuttosto insolito al lavoro sui sogni. Mi disse che all’inizio della sua carriera aveva incontrato Jung e Reich. Era profondamente affascinato dal lavoro di Reich e dalla sua fisicità, ma lo trovava un tipo ruvido e sgradevole. Jung invece aveva un tocco di classe e ciò, confessò Whitmont, solleticava il suo ideale dell’Io. Seguì quindi la formazione junghiana invece che quella reichiana. Comunque, Whitmont trovò il proprio modo di introdurre nel suo lavoro clinico un senso attivo di esperienza corporea. Il mio incontro con il pensiero di Reich giunse completamente inat- teso. Attraverso una serie di eventi fortuiti, mentre frequentavo il Reed College di Portland, in Oregon, iniziai a lavorare all’interno di un pro- gramma di trattamento residenziale per bambini gravemente disturbati e per i loro genitori. Per ottenere il posto, era necessario seguire un corso di formazione e un trattamento di una settimana con Virginia Satir. For- tunatamente per me, questo seminario si teneva all’Istituto Esalen. Ave- vo solo 18 anni e quella era la mia prima esperienza terapeutica. Era la fine degli anni Sessanta e l’Istituto Esalen era all’inizio del suo sviluppo come luogo di nascita del movimento del potenziale umano. All’epoca era un luogo abbastanza informale e indipendente dove si respira la vo- glia di scoperta e di rivoluzione. Satir, allora direttrice del programma residenziale di formazione di Esalen, mi prese sotto la sua ala. Poiché non avevo denaro, mi permise di frequentare i seminari in cambio del mio lavoro nella struttura. Avrei fatto l’autostop fino a Big Sur tutte le volte che avessi potuto per frequentare i corsi disponibili. Divenni una specie di mascotte dell’Istituto Esalen di Big Sur, in California. Un fine settimana, senza avere alcuna idea di quello che mi aspet- tasse, frequentai un seminario di bioenergetica condotto da tre uomini. Fu impressionante per tutta una serie di motivi, primo fra i quali il fatto che mentre i conduttori rimasero vestiti, i partecipanti erano nudi. Il mio 23
corpo magrolino, ansioso e maldestro fu gettato in un universo differente. Riuscivo appena a respirare. Durante una delle attività del seminario il conduttore faceva assumere a un partecipante una serie di posture molto faticose chiamate “posizioni di stress” (Lowen, 1975; Lowen e Lowen, 1977), per poi osservare da vicino i pattern del corpo e le reazioni. Dopo alcune posizioni uno dei conduttori avrebbe raccontato, come per magia, storie dell’infanzia di quella persona, lanciandosi in speculazioni sulla sua struttura del carattere sulle sue difese. Era, in pratica, uno spettacolo di magia umiliante. Non osai farmi avanti. I conduttori del gruppo cita- rono ripetutamente Wilhelm Reich come ideatore di questo tipo di psico- terapia, così decisi che, una volta rientrato al College, avrei approfondito l’argomento con alcune letture. Una volta rientrato al Reed, scoprii che, sebbene tutti i libri di Reich fossero in catalogo, non se ne trovava alcuno sugli scaffali. Quando chie- si spiegazioni, la direttrice della biblioteca mi raccontò la storia delle persecuzioni subite da Reich da parte del governo degli Stati Uniti, la confisca delle sue opere e la loro distruzione. Entrò nel suo ufficio e ritor- nò con Psicologia di massa del fascismo (1970), porgendomi l’edizione dell’Orgone Institute Press, disse: «Non ho potuto permettere che quei bastardi prendessero anche questa». Reich scrisse questo libro alla vigilia dell’ascesa al potere di Hitler, un testo brillante, provocatorio e sorpren- dentemente attinente allo spirito rivoluzionario della fine degli anni Ses- santa. Successivamente mi prestarono l’edizione dell’Orgone Press de La Biopatia del Cancro (1973). Mia madre all’epoca stava morendo di cancro. Sebbene la lettura del libro in parte lo faccia sembrare un trattato fantascientifico delirante, le vivide descrizioni che Reich fa della rasse- gnazione caratteriale coglievano l’essenza dell’esistenza di mia madre. La profonda solitudine e rassegnazione di mia madre corrispondevano a una parte di ciò che avrei rivissuto più tardi nell’esperienza con Christo- pher Whitmont. Decisi che un giorno avrei imparato a lavorare nel modo in cui suggeriva Reich. Col tempo misi insieme una raccolta delle opere di Reich, ma sarebbero dovuti passare diversi anni prima che potessi in- traprendere una vera e propria formazione nel campo. La specializzazione si situò fra i miei studi universitari e il mio ritorno a Reich. Il dipartimento di psicologia al Reed aveva un orientamento basa- to sul comportamentismo di Skinner, con mio dispiacere. Durante gli anni della mia formazione universitaria, imperversava un dibattito filosofico 24
e politico fra le correnti del comportamentismo e della fenomenologia esistenzialista. Scelsi il programma di studi in psicologia fenomenologi- ca all’Università di Duquesne. Lì lottai con la corposità del pensiero di Merleau Ponty, Husserl, Heidegger, solo per nominarne alcuni. Merle- au Ponty aveva tratteggiato un modello del funzionamento psicologico profondamente radicato nell’esperienza sensoriale e corporea, ma la cui declinazione clinica risultava elusiva. Lasciai Duquesne con un sentito rispetto per i potenti effetti dell’indagine fenomenologica sulla soggetti- vità dello stare al mondo. La mia formazione fenomenologica costituì il fondamento del mio orientamento clinico. Tuttavia, mi sentivo incerto su cosa esattamente avrei potuto dire e fare con un paziente. Fin dagli anni della mia adolescenza, la lettura delle opere di Freud e di Jung mi aveva fatto immaginare di diventare uno psicoanalista. A parti- re dall’università frequentai diverse conferenze all’Istituto psicoanalitico di Pittsburgh. Rimasi deluso. Non ritrovavo il rispetto, di cui ero invece stato testimone a Duquesne, nei confronti della reale esperienza vissuta dal pa- ziente; ogni cosa veniva fatta risalire alle difese e alla psicopatologia. Gli incontri erano condotti da uomini in abiti scuri, impegnati in dibatti narci- sistici, intellettualmente elevati e sgradevolmente competitivi. Ero sicuro di non voler crescere e diventare come loro, quindi iniziai a guardarmi intorno. Ebbi una seconda occasione di imbattermi in un modo di pensare in- novativo durante i corsi al Reed. Il centro di trattamento residenziale che mi aveva inviato a Esalen per lavorare con Virginia Satir teneva le riu- nioni di équipe sulla diagnostica e sulla pianificazione dell’intervento con un’organizzazione che trovai molto interessante. Secondo il modello di intervento dell’istituto, chiunque fosse entrato in contatto con il bambino di cui si discuteva il caso (psichiatra, insegnanti, genitori) era presente all’incontro e veniva coinvolto. Inoltre, anche il bambino, al di là della sua età o del suo livello di funzionamento, era invitato a queste riunio- ni. L’esperienza del bambino su cosa stava funzionando e cosa no, su chi era d’aiuto all’interno dello staff (fosse il genitore o l’operatore della caffetteria) e chi no, veniva attivamente inclusa nella pianificazione del trattamento. Quando chiesi al dirigente psicologo come fossero giunti a questa idea, mi descrisse il modello di supervisione di Eric Berne (1961, 1968) usato nelle consultazioni psichiatriche in cui paziente e terapeuta erano ugualmente coinvolti. Secondo questo modello, i terapeuti discute- vano la propria esperienza della terapia di fronte ai pazienti, poi i pazienti 25
prendevano la parola e i terapeuti ascoltavano la loro esperienza. Era un assetto dei ruoli terapeuta-paziente non comune e provocatorio. Da studente universitario in seguito approfondii il pensiero di Berne (1963, 1966) e compresi il suo tentativo di integrare la psicoanalisi (si formò come psicoanalista dell’Io sul modello degli anni ’50) con lo spirito di ricerca fenomenologico. Dopo la specializzazione scovai un formatore a orientamento transazionale e così trovai la mia strada professionale. La comunità degli analisti transazionali rappresentò un contrasto ristoratore rispetto a quanto avevo visto nell’istituzione psicoanalitica. Benché pro- fondamente interessati alla vita intrapsichica e a quella interpersonale dei loro pazienti, gli psicoterapeuti transazionali tendevano a essere molto più pratici nel loro approccio alla psicoterapia. Conclusa la scuola di specializzazione, fui assunto per il mio primo incarico in una straordinaria clinica di salute mentale di comunità: a quei tempi infatti i servizi di salute mentale erano veramente forniti all’interno della comunità – scuole, chiese, gruppi di genitori, una caffetteria nel seminterrato per adolescenti, servizi di sostegno agli anziani. Il nostro psichiatra, ora semi-pensionato, si era formato con Harry Stack Sulli- van (e come Sullivan era segretamente omosessuale) e per lui l’analisi transazionale era immediatamente comprensibile. Praticamente l’intero gruppo di lavoro era formato secondo questo modello, quindi offrimmo alla comunità diversi corsi e gruppi a orientamento transazionale. Era il momento perfetto per essere un giovane psicoterapeuta in erba. Fu in questo stesso periodo che iniziai la formazione come psicotera- peuta corporeo neo-reichiano. La cosa si rivelò in un certo senso una sfida, poiché nell’analisi transazionale era proibito toccare il paziente, mentre durante la mia formazione reichiana non concludevo mai una seduta sen- za averlo toccato. Ci vollero anni per colmare questo divario e, in seguito, misi fortemente in dubbio l’orientamento reichiano. Le istituzioni neo- reichiane mi sembravano rigide e isolate, mentre in quelle a orientamento transazionale avevo trovato apertura e appartenenza, sebbene mancasse una certa curiosità. Ritornai alle letture e alle supervisioni psicoanaliti- che, cercando soluzioni al mio dilemma. Erano sempre presenti divari da colmare, ma progressivamente sperimentai come questi modelli molto lontani potessero in realtà mettersi in dubbio e darsi forma l’un l’altro. Nell’analisi transazionale contemporanea (Morrison e Goodman, 2007), così come nella psicoanalisi (Aron e Anderson, 1998; Orbach, 2006a; 26
Anderson 2008) è presente un crescente tentativo di individuare modi di lavorare con l’esperienza somatica all’interno della relazione terapeuti- ca. Questo libro vuol dare un contributo in questa direzione. La stesura di questo libro si fonda su un’autobiografia intellettuale e professionale. Spero, nelle pagine che seguono, di saper cogliere alcuni aspetti dei con- fini esplorativi degli attuali sviluppi della psicoanalisi e della psicoterapia psicodinamica in relazione al crescente interesse verso il corpo. Il titolo del libro proviene da Analisi del carattere di Reich (1972) ed è stato scelto per esprimere lo spirito del testo. È in questa sua famosa opera che Reich per la prima volta dichiara la sua radicale rottura con la psico- analisi del suo tempo al fine di comprendere e articolare il fondamento somatico dell’esperienza e dell’espressione umana: «Il vivente funziona non solo prima e al di là del funzionamento parlato; esso ha anche forme espressive motorie proprie che non sono affatto afferrabili con le parole» (Reich, 1949, p. 441). Uno degli obiettivi principali di questo libro è presentare l’opera di Reich sotto una nuova luce, più contemporanea. Delle miriadi di per- sonaggi di cui si circondava Freud, Reich fu senza dubbio uno dei più controversi e snaturati. Susan Sontag ha osservato: Alcuni autori divengono classici letterari o intellettuali proprio perché non vengono letti, essendo per certi versi intrinsecamente illeggibili. Sade, Artaud e Reich appartengono a questa categoria: autori che sono stati imprigionati o chiusi nei manicomi perché urlavano, perché erano fuori controllo; immodesti, ossessionati, stridenti, autori che si ripetono senza fine, che risultano gratificanti se citati o letti a piccole dosi, ma che travolgono e logorano se letti in grande quantità (Sontag, 1976). Mi auguro che questo libro, fra l’altro, possa stimolare alcuni lettori a intraprendere una lettura delle opere di Reich più intima e approfondita. Nota sul materiale clinico: tutti i casi descritti estesamente e quelli che comprendono il riferimento diretto ai dialoghi avvenuti in seduta sono stati condivisi con i clienti, discussi e inclusi nel trattamento come parte del processo terapeutico in corso. Le vignette cliniche più brevi presentano dettagli romanzati delle storie dei pazienti, mentre la descrizione del pro- cesso terapeutico è attinta direttamente dagli appunti clinici. 27
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