Intervista a Wanda Gobbi, HR manager presso Groupalia
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Intervista a Wanda Gobbi, HR manager presso Groupalia A cura di Daniele Cursi, Ilaria Stocco e Michele Polo Master in Risorse Umane e Organizzazione 2013 Ci parli di lei… La mia storia professionale è un po’ legata al caso. All’università scelgo in Cattolica “linguaggi dei media”. Studio cinema e teatro ed eventi culturali, mi rendo conto che è bellissimo, ma mi mancava proprio la sostanza. Una volta presa la triennale, decido di fare una scelta intelligente e non legata al caso, ovvero scegliere tra le specialistiche proposte quella che più completasse il profilo, ma che non mi snaturasse. Scelgo un’interfacoltà tra lettere ed economia, che si chiamava “comunicazione d’impresa”. Il pregio di questa specialistica era che per chi veniva da lettere c’era un recupero delle materie economiche. Perciò: economia aziendale, marketing, economia e gestione delle imprese e via dicendo. Una rottura di cosiddette indicibile, però avendo la sensazione che stai effettivamente imparando qualcosa che prima non sapevi. Arrivo al momento della laurea. In comunicazione d’impresa si studiavano le varie declinazioni della comunicazione. Tutti i miei colleghi volevano fare marketing e chi non voleva fare marketing voleva fare relazioni pubbliche o pubblicità. Io volevo fare comunicazione interna, perché era quella che mi aveva colpito e interessato di più. Quindi la decisione di iniziare a orientarmi verso le risorse umane parte da lì. Mi faccio la tesi da sola e senza molto appoggio all’interno della, ormai defunta, Ventaglio. Questo da un lato sicuramente è stato meno avvincente rispetto a seguire un’azienda, però dall’altra parte mi ha permesso di leggere veramente tanto, sia sulla comunicazione interna sia sulle risorse umane. Finisco l’università, mi laureo e cerco uno stage in risorse umane. Lo trovo in un’azienda metalmeccanica a Sesto San Giovanni, una realtà industriale molto grossa e vecchio stampo. C’era questo tirocinio della durata di sei mesi, dedicato nello specifico a seguire il ciclo del performance management. La cosa bella è stata che lavorando a un progetto che coinvolgeva un perimetro aziendale professional (quadri e dirigenti) io parlavo con queste figure, che avevano mediamente una senority, un livello medio - alto. Io stavo in una direzione del personale con due HR manager che vi auguro di non incontrare mai sulla faccia della terra. Gli spazi che loro lasciavano liberi io li occupavo, non perché fossi ambiziosa (ambiziosa non sono neanche oggi), ma perché mi rompevo le palle a stare tutto il giorno lì a non fare niente aspettando il ciclo della performance evaluation. Quindi ho iniziato a vedere la parte di selezione, e poi ho iniziato a vedere i grossi file di budget del personale che, ovviamente, non capivo, però almeno hanno iniziato a girarmi un po’ nella testa. L’esperienza si conclude. Trovo un’occupazione sempre nell’ambito delle risorse umane in un’azienda molto diversa, perché era padronale. Settore ICT, quindi settore diverso, dimensioni diverse. Quest’azienda stava a Vimercate in un centro direzionale fighissimo prospiciente a Cisco, infatti eravamo nell’indotto di Sisco, un mondo completamente diverso! Arrivo lì per fare selezione, perché era la cosa che non avevo mai fatto. E quindi a me serviva. Loro avevano bisogno di una che fosse molto orientata e motivata a fare quel mestiere lì, ed io lo ero! Nel giro di due anni e mezzo circa, che è il tempo che ho trascorso lì, credo di aver visto mille persone senza esagerare. Quindi vuol dire che di selezione ne ho fatta, e parecchia.
Che cosa è successo? Che dopo tre mesi neanche che ero lì l’HR manager, che era una signora di quaranta e più anni, ha dato le dimissioni. Quindi, cosa fa la giovane Wanda in quella situazione? Vabbè, il caso mi ha messo di fronte a questa situazione che può essere il più grande cactus della mia vita o una grande opportunità… giochiamocela! E quindi lì inizio a fare tutto, dalla selezione a tutto il resto! Imparo come si gestisce il personale, i contratti, come funzionano, come non funzionano. Le paghe non le sviluppavo io, ma tutto quello che portava alla paga lo facevo io. Ho anche imparato a leggere i cedolini, è stata una questione caratteriale: quando mi fanno una domanda devo trovare la risposta. Quindi ovviamente mi spacco la testa per cercare di capire il problema che ci sta dietro. Dopo due anni e mezzo arrivo alla stessa identica posizione che aveva raggiunto la mia precedente capa, quindi sai cosa c’è: quello che potevo imparare l’ho imparato! Non credo in quello che sto facendo, quindi decido di dimettermi! Arriva Groupalia. O meglio arriva Page Personnel. Perché a forza di pubblicare CV da tutte le parti, rispondere a qualunque annuncio, qualcuno ti considera! Mi chiamano e nel giro di una settimana faccio tipo quattro o cinque colloqui. Morale della favola nel giro di una settimana mi propongono di iniziare a lavorare per Groupalia. È indicativo che per il tuo primo stage la figura di riferimento fosse chiamato direttore del personale, cioè avesse una connotazione da direttore del personale… Sì sì, un direttore del personale dello stabilimento di Sesto San Giovanni, dove facevano dei convertitori. Neanche lui sapeva cosa fossero. Però lui aveva un passato da direttore del personale di una funzione di Alfa Romeo. Sotto di lui c’erano tre manager. Tre donne. Una più International, una scienze politiche, l’altra sociologia. Erano lì, avevano trenta e trentacinque anni, però era il loro unico posto di lavoro, erano sempre state lì. Ed effettivamente un po’ si vedeva. Se posso darvi un consiglio, cambiate! Cercate di cambiare, non come dei pazzi mille volte, però neanche quindici anni nella stessa azienda. Perché davvero vi chiude la testa, c’è poco da fare. Soprattutto all’inizio. Poi dopo uno trova una sua stabilità…. Qual è il vostro mercato di riferimento? Quali sono i vostri competitor e cosa vi distingue da loro? Allora, noi siamo una compagnia che nell’ambito dell’e-commerce si occupa nello specifico di social shopping, o couponing. Di concorrenti tanti ne nascono, tanti ne muoiono. Che cosa abbiamo di diverso da loro? Io mi permetto di dire quasi tutto! Perché sono qui dal giorno quasi uno e tutta la nascita di quest’azienda è stata fatta in contrapposizione con la genesi di Groupon. Le differenze con il concorrente principale, con il leader di mercato, sono a ogni livello: sicuramente siamo molto più piccoli e saremo sempre molto più piccoli, non abbiamo l’obiettivo di diventare i prossimi leader. Abbiamo però da sempre l’obiettivo di avere un rapporto con il partner diverso da come l’hanno loro. Noi abbiamo dai due ai tre milioni di utenti iscritti: se vi dicessi che comprano tutti sarebbe una cavolata mostruosa, di questi 200.000 saranno clienti paganti, di solito sempre gli stessi. La quantità che gli riusciamo a mandare (ai fornitori) è sicuramente molto minore, questo, che sembrerebbe un minus, in realtà è un plus, poiché riusciamo ad avere con i partner un rapporto di reale partnership, ci parliamo in maniera molto più serena, non li ingorghiamo; i problemi ci sono, ci saranno sempre in questo mercato, ma c’è sicuramente un rapporto più personale, anche con i partner. Un’altra grande differenza rispetto a Groupon sono i dipendenti: abbiamo un turnover molto basso, purtroppo è un po’ cresciuto ultimamente, però fin dall’inizio la nostra logica è stata “assumo te, perché secondo me tu sei proprio la persona giusta per fare questo mestiere qui in quest’azienda”, molti dei nostri dipendenti
assunti nel 2010 sono ancora con noi. Avere un dipendente che è ancora con noi, da due anni e mezzo quasi tre, in questo settore significa non avere un turnover e questo qui è comune. A questo proposito quindi voi cercate delle persone già “Groupalia”, non le “groupalizzate” una volta dentro, giusto? Cerchiamo persone già Groupalia, per semplificare la risposta al massimo. Quest’azienda te la devi sentire addosso, è una missione. All’inizio era più facile, io sto facendo i conti con il dover ammettere che quando perdi un po’ lo spirito della startup perdi anche un po’ di forza e di lucidità. Quando sono arrivata, eravamo in dieci circa in tutta Italia, o meglio fra Milano e Roma, nelle altre città ancora non avevamo aperto. Mi dicono [dalla Spagna, NdR] che ci sono da aprire altre dieci città entro settembre ed era il 19 luglio. Bene! Seleziona seleziona seleziona! Io non potevo permettermi di vedere 1000 persone per ogni ruolo, ciò che avevo fatto nell’azienda precedente non era pensabile, come avrei potuto? Non c’era materialmente il tempo. Ho avuto la fortuna di poter usare Page Personnel, si sono occupati di tutta quella parte di pubblicazione e screening e mi hanno mandato solo le rose dei candidati. Ha un costo, ma era impossibile per me fare altrimenti, non c’era modo. Per fortuna c’è stato un investimento da parte dell’azienda. Page Personnel ha capito perfettamente le nostre necessità: le persone che vedevo avevano tutti delle caratteristiche che già erano molto predeterminate rispetto a quello che serviva a noi. Queste persone non venivano da noi per fare il salto di carriera, perché non era così, non entri in una startup in cui non si sa neanche se arrivi a mangiare il panettone a Natale con l’ambizione di fare un salto di carriera: con l’ambizione di fare un percorso sì, ma non guadagnare di più nel passaggio. La maggior parte della gente è passata a stipendio pari o qualcuno più basso, questo esclusivamente perché credevano nel progetto ed erano entusiasti della proposta. Molti erano senza lavoro, non erano dei poveri disgraziati rimasti senza lavoro da non so quanto tempo con capacità da definire. Erano delle persone che secondo me avevano passato qualcosa che non era diverso da quello che avrei potuto passare anch’io se non avessi avuto la fortuna di trovare Groupalia nel momento in cui me ne andavo. Riuscivo a riconoscere in loro un ragionamento molto simile a quello che avevo fatto io. Sono entrati tutti a tempo determinato per sei mesi, tutti con la stessa convinzione, e tutti sono stati confermati e trasformati a tempo indeterminato, tutte le persone assunte nell’arco del 2010. Abbiamo iniziato l’anno a luglio in dieci e abbiamo finito il 2010 in trentacinque, alla fine del 2011 eravamo quasi 100, una crescita pazzesca, ora siamo poco più di ottanta. Ecco, erano persone già Groupalia: con un atteggiamento umano molto compatibile con l’azienda. Secondo me le persone non le inquadri, quello che mi dispiace è che alcuni lo perdono con il tempo, forse anch’io rispetto a quella che ero due anni fa o tre ho perso cose e non me ne rendo conto, le vedo negli altri e non in me.
Come si crea in maniera rapida la cultura d’azienda in una startup? Condividendo bene e male, qualunque cosa. Lo zoccolo duro dell’azienda, quelli che sono qui dall’inizio, dal CEO al country manager in Italia, hanno condiviso gioie e dolori. Quando il country manager diceva: “chiudi questo bill! Devi riuscire a chiudere questo bill! Mi serve questa cosa!” e il commerciale gli diceva “non riesco, non mi ascolta”, lui tirava su il telefono e davanti a lui cercava di fare la stessa cosa lì davanti. Se ci riusciva, gli diceva “visto che si può fare?”, se non ci riusciva, diceva “non si chiude, c’hai ragione”, e questo in tutto. Quando la trasparenza e l’open space non sono solo una questione fisica, ma toccano la mentalità inevitabilmente si diffonde il morbo positivo, così come si diffonde velocemente eventuale malcontento. Una volta passata la fase startup ci sono anche delle difficoltà oggettive che l’azienda attraversa: finché stai assumendo, tutti entrano, nessuno esce, ogni settimana arriva la mail di benvenuto con qualcuno di nuovo, si crea un grande team: mediamente le persone hanno quell’età lì, quell’atteggiamento lì, quelle caratteristiche caratteriali, compatibili con gli altri, tutti fanno team, sembra una grande scuola, c’è una fucina delle idee; quando vedi anche la gente che esce, è chiaro che è più difficile mantenere quest’atmosfera. Quanto impegno richiede creare un ambiente così con ottanta persone al posto che una trentina? È molto più faticoso? Sì, è molto più faticoso, perché aumenta la dispersione, le occasioni di malcontento e di misunderstanding; è un po’ come, credo, avere tanti figli: non tutti si sentono trattati e considerati allo stesso modo, bisogna fare un salto ulteriore, è sicuramente molto più difficile, costa molta più fatica. Che sistemi adottate? Basta solo vedersi e parlarsi? Non so quale sia la soluzione. Quando studi ti dicono che si mettono in atto tutta una serie di sistemi di incentivazione, rewarding, valorizzazione delle competenze, delle abilità delle capacità: nella pratica per fare tutto ciò non basta solo la volontà di farlo, ovviamente ci vuole il budget, ci vuole tempo, ci vuole la forza per portare avanti i progetti e ci vuole la ricettività dall’altra parte, probabilmente ci vogliono anche altre cose, ma queste sicuramente ci vogliono. Il budget non è mai abbastanza, il tempo non è mai abbastanza. Quando l’obiettivo principale era crescere numericamente e trovare le persone giuste, nessuno mi chiedeva di pensare a delle politiche di compensation, o nessuno mi diceva “vabbè dai, però la policy dei viaggi bisognerebbe scriverla”, non c’era e in qualche modo ci arrangiavamo. Poi siamo diventati tanti. C’erano “diversi tavoli a cui servire”, e quindi è diventato più difficile. Noi facciamo proprio fatica, materialmente, a fare. Che cosa cerchiamo di fare? Cerchiamo di parlare tanto con le persone, il più possibile, di tenere sempre la porta aperta, pronti al confronto con tutti, di non nasconderci mai dietro un dito, di ascoltarli ogni volta che hanno voglia di essere ascoltati, e di offrire un servizio: di quelle che sono le attività che dobbiamo fare per forza, cerchiamo di essere impeccabili, la busta paga deve essere perfetta, il pagamento perfetto, ogni volta che ci fanno una domanda, la risposta deve essere esaustiva e convincente. Nel frattempo strutturi dei piani di compensation, e chiedi alla casa madre che ti dia un budget, ogni volta che riesci ad ottenere qualcosa, lo utilizzi e lo impieghi per premiare qualcuno.
Le persone le conosciamo e ci parliamo e cerchiamo di non perderci niente. Credo che ci stiamo riuscendo, infatti non sono mai arrivate delle dimissioni inaspettate, quindi non è mai successo, fino ad oggi, che qualcuno arrivasse e presentasse le dimissioni e noi cascassimo dalle nuvole dicendo “ma perché te ne vai?”, questo significa che bene o male abbiamo ancora il polso della situazione. Per quanto riguarda la selezione siamo passati da una fase iniziale in cui occupava il 95% della nostra attività: gli obiettivi erano molto sfidanti, ogni settimana entravano dalle due alle tre persone. Oggi la selezione è molto limitata, non ci spendiamo più un quattrino perché un po’ di Cv li abbiamo acquisiti, infatti c’è Linkedin, c’è il passaparola, insomma cerchiamo di arrivarci senza investirci dei soldi, perché se abbiamo a disposizione dei soldi li impieghiamo per il rewarding. Non abbiamo moltissime figure da selezionare, ci può essere qualche rimpiazzo da fare, o per una job rotation interna o perché qualcuno è uscito per svariate ragioni. Oggi abbiamo due posizioni aperte, rispetto a prima che erano venticinque tutte in una volta, con un ordine di priorità tutte uno. Lei è in Groupalia sin dall’inizio, quali sono i problemi che avete affrontato da un punto di vista strettamente delle risorse umane in Italia o che vi siete portati dietro dalla Spagna? Problemi non ce ne sono stati di grossissimi. Qui è come essere al pronto soccorso, non ci arrivano moribondi, però ci arriva tutto contemporaneamente, sia rispetto all’area delle risorse umane che in generale come azienda. Sicuramente i rapporti con la spagna non sono facili: i due paesi hanno politiche del lavoro molto diverse, non è facile farglielo capire, perché sono proprio mondi altri, loro hanno da sempre un turnover molto elevato, questo è sia volontario sia involontario, perché c’è un mercato del lavoro che funziona in maniera molto più fluida rispetto al nostro. La Spagna ha un mercato del lavoro fluido, è più facile ricollocarsi, è più facile trovare una nuova posizione, in Italia non è così. Viceversa, dover fare delezioni comporta molto più impegno, molti più rischi, quindi noi siamo rispetto a loro molto più ingessati, dall’altra parte però siamo più attaccati all’azienda. In Spagna ogni tanto cambiano i riferimenti, qua invece c’è sempre la stessa persona. Magari essere poco gerarchizzati fa sì che le comunicazioni siano tante e a tutti i livelli, anzi a volte sono troppe e quindi si genera confusione anziché generare fluidità di processo. Bisogna essere flessibili. Certo che se tu assumi gente poco flessibile non vai da nessuna parte in un’azienda così. Era appunto una delle caratteristiche iniziali che bisognava avere per entrarci. La crisi ha rappresentato un problema o un’occasione? La crisi è stata un’opportunità enorme, ci abbiamo investito. Fatturiamo tra i 7/8 milioni al mese quindi siamo un’azienda che della crisi ha fatto sicuramente virtù. Questo non significa che la crisi non si senta, perché noi viviamo dei consumi di chi compra e il loro potere di acquisto è sempre quello, io gli posso anche fare sconti, ma è chiaro che viviamo di una stagionalità.
Un’altra domanda che ci era venuta in mente, ma che richiede un minimo di chiarimento: noi abbiamo immaginato che voi in pratica siate degli intermediari, quindi da un lato v’interfacciate con un fornitore al quale offrite pubblicità e dall’altro lato con i clienti finali ai quali proponete l’offerta, quindi il vostro customer care è fondamentale da entrambi i lati, ma profondamente diverso. E ci chiedevamo, in ambito risorse umane, come lavorate per gestire queste due anime interne. Le due anime non sono queste, però esistono due anime all’interno dell’azienda: una commerciale e una di operations, ossia customer service e merchant care che lavorano in maniera veramente coesa, fisicamente sono seduti in due isole prospicienti e collaborano tra di loro. Queste due attività sono in parte interne in parte esterne, cioè ci sono dei contact service esterni, anche perché arrivano migliaia di mail e telefonate. L’anima commerciale, è quella sulla quale dobbiamo lavorare, il commerciale pur di portare a casa il partner non dico che gli tira fuori la qualsiasi, ma quasi, poi assume il partner come una problematica propria. Il customer riesce ad avere un approccio più oggettivo di fronte alle problematiche del cliente, il commerciale no per cui a volte si trova in quella terra di confine in cui è più d’accordo con il partner di quanto non lo sia con l’azienda. Far convivere queste due anime è difficile e non so se c’è modo di sanare un conflitto di questo genere. Quali sono secondo lei le qualità che deve avere un giovane che si affaccia al mondo delle HR in questo momento? Una volta chi lavorava alle risorse umane aveva un atteggiamento molto soft, serio, distaccato ai limiti del formale, sicuramente rappresentava un riferimento competente e autorevole, anche per questo poco dentro alle dinamiche del business. Secondo quella che è la mia esperienza, se state facendo questo mestiere in un’azienda nella quale non credete in ciò che fa o non vi piace il management o non vi piacciono le politiche messe in atto, allora andate via, perché la gente non vi crede se voi non credete in quello che fate. Poi tutto il resto si può imparare, siate onesti e sinceri quando parlate con le persone, inevitabilmente dovete essere discreti, perché purtroppo noi sappiamo tutto e ci sono cose che non possiamo dire neanche se all’interno dell’azienda abbiamo degli amici. Ognuno ha secondo me aspetti caratteriali diversi, il consiglio che vi do è di cercare di orientare le vostre scelte professionali verso un’azienda che ha una cultura che si confà alla vostra e li riuscirete a esprimere il meglio del vostro potenziale, altrimenti potete agilmente fare altri lavori, per esempio potete essere dei consulenti eccezionali. Dovete cercare qual è la cosa che vi somiglia di più, magari provatele se potete, se riuscite provatele. Se decidete di entrare nell’azienda non tiratevi indietro davanti a niente, perché magari è interessante fare selezione, è bellissimo fare formazione però la busta paga la devi conoscere, devi sapere qual è la tassazione IRPEF che c’è su quel reddito, perché fa parte della tua formazione e da forza alle risposte che dai e al ruolo che hai: professionalità.
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