INTERVENTI DELLA GIUSTIZIA MINORILE E DI COMUNITÀ - A cura di Jada Fantasia Giulia Lotti Angela Pugliese Monica Rosati - Unipd
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INTERVENTI DELLA GIUSTIZIA MINORILE E DI COMUNITÀ A cura di Jada Fantasia Giulia Lotti Angela Pugliese Monica Rosati 1
Un ringraziamento speciale all’Assistente Sociale Minorile Enza Elena Gatto, che con la sua passione, professionalità, competenza e pazienza ci ha indirizzato in questa tematica, e le cui parole non saranno dimenticate. 2
INDICE 1- INTRODUZIONE……………………………….........pag. 4 2- IL QUADRO NORMATIVO………………………. ..pag.6 3- LA REALTÀ ALL’INTERNO DELLE COMUNITÀ PER MINORI ……………………………………………pag. 24 4- DALL’ACCOGLIENZA ALL’AUTONOMIA………………pag.43 5- DATI STATISTICI: SERVIZI DELLA GIUSTIZIA MINORILE………………………………………pag.59 6- CONCLUSIONE……………………………………pag. 78 7- BIBLIOGRAFIA……………………………………pag.79 3
INTRODUZIONE A cura di Monica Rosati e Jada Fantasia La Comunità Educativa è un servizio residenziale che accoglie temporaneamente il minore qualora il nucleo familiare sia impossibilitato o incapace di assolvere il proprio compito. Offre ai minori un contesto educativo di sostegno nella gestione giornaliera dei vari aspetti della vita ed è vissuta come luogo di socializzazione con tempi e modalità simili allo stile familiare. L’obiettivo primario è il Benessere fisico, psichico e sociale del minore ponendo al centro dell’intervento educativo la relazione come stimolo alla scoperta e allo sviluppo delle potenzialità individuali verso un percorso di autonomia. La tutela dei bambini e degli adolescenti fuori dalla propria famiglia di origine costituisce una delle sfide fondamentali accolte dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. La condizione dei minorenni che vivono un’esperienza di allontanamento necessita, invero, di particolare attenzione e sostegno sia nella scelta della risposta più conforme al bisogno specifico di ciascun minorenne, sia nella fase dell’eventuale reinserimento all’interno della dimensione sociale. La comunità educativa per minori si propone come luogo fisico e relazionale caratterizzato da un clima familiare, nel quale il minore possa rielaborare i propri sentimenti e le proprie esperienze, offrendo un affiancamento affettivo ed educativo che consenta al minore stesso di sviluppare una nuova identità. La comunità per minori è un servizio educativo - assistenziale che ha il compito di accogliere il minore durante il giorno, qualora il nucleo famigliare sia impossibilitato o incapace a garantire il benessere e i bisogni, anche primari, del ragazzo. Essa si rivolge quindi a minori in situazioni di disagio sociale, familiare e personale non particolarmente grave, ma in condizioni di precarietà e fragilità affettiva e relazionale, tali da compromettere un'evoluzione personale, equilibrata ed 4
armonica. La comunità per minori è luogo di vita quotidiana; è alternativa all’affidamento; è lavoro di rete tra operatori, genitori e ragazzi; è una nuova casa e famiglia per i minori; è luogo d’incontro e di scontro; è ambiente di rieducazione e di ascolto; è un insieme di emozioni, affetti e storie di vita differenti ma che s’intrecciano creando un sentire comune e un sentimento di accettazione reciproca. Questo servizio pone al centro il minore e lo vede come persona inserita in un contesto relazionale sia interno sia esterno dal luogo di ospitalità. Da ciò si può evincere che il modello teorico di riferimento delle comunità è quello sistemico - relazionale poiché si considera il singolo come persona unica inserita in diversi sistemi di relazione; la comunità è quindi un sistema aperto, che scambia informazioni con l’ambiente circostante e con tutti gli altri servizi di cui il minore quotidianamente usufruisce. C’è da aggiungere cha la comunità, oltre ad essere un luogo “protetto” perché assicura al minore protezione e tutela, è anche un luogo “esposto” a rischio poiché è inserito in un contesto rappresentato dalle aspettative dei soggetti in gioco. In questo approfondimento il tema degli “interventi della giustizia e comunità minorile” viene affrontato sotto la sfera giuridica e sociale con particolare attenzione all’aspetto inclusivo dei minori nella società e al quadro dei dati statistici più recenti. 5
IL QUADRO NORMATIVO A cura di Angela Pugliese Il maltrattamento dei minori è sempre esistito, ma viene percepito come un fenomeno a se stante, e come problema sociale e medico, verso la seconda metà del Novecento, ed è definito socialmente come la soglia posta per indicare se un minore sia o meno vittima di abusi; esso cambia in virtù delle violazioni alle pratiche di allevamento, alla centralità dell’infanzia e della famiglia nel contesto culturale nonché sulla base dei criteri morali e legali che governano la vita della collettività. Il concetto di abbandono, nel diritto come nella vita sociale, si radica sul riconoscimento che vi è, da una parte, una persona che non è in grado di badare adeguatamente a se stessa per insufficienze fisiche, mentali o di sviluppo e, dall’altra, qualcuno che, pur avendone il dovere morale, omette di prendersi cura di lei in alcuni casi. L’abbandono, fisiologicamente, mette a repentaglio la stessa vita e l’integrità fisica del soggetto incapace; in altri casi, può compromettere gravemente il suo sviluppo umano quando vengono a mancare quegli apporti indispensabili per strutturarsi o per vivere. Dalle situazioni di maltrattamento e abbandono si sviluppano percorsi che portano all’allontanamento del minore dalla propria famiglia, percorsi di competenza civile, atti alla protezione e tutela del minore. Vi sono altri casi, e altri percorsi, quello amministrativo o penale, che riguardano l’allontanamento del minore dalla famiglia, percorsi che negli anni sono stati oggetti di modifiche ed evoluzione. L’allontanamento del minore, all’interno di questi processi, può condurre al suo inserimento all’interno di una comunità minorile, o alla sua adozione/affidamento da parte di una famiglia nel caso di competenza civile. Per quanto riguarda la competenza civile, le disposizioni che consentono all'autorità pubblica e all'autorità giudiziaria di allontanare un minore dalla propria famiglia d'origine sono contenute nel codice civile quanto nella legge 6
sulle adozioni, n. 184/1983. Quest’ultima è stata modificata dalla legge 476/98, la quale introduce nel nostro sistema la normativa relativa alla convenzione internazionale dell’Aja in materia di tutela dei minori, firmata dallo stato italiano nel maggio del 1993. Gli scopi che la Convenzione intende raggiungere sono molteplici. Il principale è quello di stabilire delle garanzie affinché le adozioni internazionali si facciano nell'interesse del minore e nel rispetto dei diritti fondamentali che gli sono riconosciuti dal diritto internazionale. Nel Preambolo della Convenzione si specifica però, che ogni Stato dovrebbe adottare, con criterio di priorità, misure appropriate per consentire la permanenza del minore nella famiglia d'origine e che quindi l'adozione internazionale può offrire un'opportunità solo a favore dei bambini per i quali non può essere trovata una famiglia idonea nel loro Stato di origine. Le norme presenti nella Convenzione sono finalizzate anche a creare un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti, che assicuri il pieno riconoscimento delle adozioni realizzate in conformità alla Convenzione. In seguito, la legge di riforma n°149/2001 sancisce il “diritto del minore a una famiglia”, introducendo così molte innovazioni nell’iter delle pratiche di adozione, oltre ad aver modificato nettamente i ruoli all’interno dei servizi socio-sanitari. Il legislatore con la nuova legge ha inteso dettare misure tali da rendere pienamente operativo il diritto del minore ad una propria famiglia, da intendersi sia quella naturale d’origine sia quella cui sia eventualmente affidato a causa delle difficoltà della stessa. Le novità riguardanti le funzioni dei servizi socio-assistenziali degli enti locali che sono contenute nella stessa all’articolo 29-bis, comma 4: “I servizi socio-assistenziali degli enti locali singoli o associati, anche avvalendosi per quanto di competenza delle aziende sanitarie locali e ospedaliere, svolgono le seguenti attività: a) informazione sull'adozione internazionale e sulle relative procedure, sugli enti autorizzati e sulle altre forme di solidarietà nei confronti dei minori in difficoltà, anche in collaborazione con gli enti autorizzati di cui all'articolo 39-ter; 7
b) preparazione degli aspiranti all'adozione, anche in collaborazione con i predetti enti; c) acquisizione di elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori adottivi, sul loro ambiente sociale, sulle motivazioni che li determinano, sulla loro attitudine a farsi carico di un'adozione internazionale, sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze di più minori o di uno solo, sulle eventuali caratteristiche particolari dei minori che essi sarebbero in grado di accogliere, nonché acquisizione di ogni altro elemento utile per la valutazione da parte del tribunale per i minorenni della loro idoneità all'adozione.” A questo punto i servizi trasmettono al tribunale per i minorenni, in esito all’attività svolta, una relazione completa di tutti gli elementi indicati entro i quattro mesi successivi alla trasmissione della dichiarazione di disponibilità. La nuova normativa demanda ai servizi socio-assistenziali ed ai loro operatori, nuovi e importanti compiti: 1- INFORMAZIONE SULL’ADOZIONE INTERNAZIONALE: 2- INFORMAZIONE SULLE PROCEDURE DELL’ ADOZIONE INTERNAZIONALE; 3- L’INFORMAZIONE SUGLI ENTI AUTORIZZATI; 4- L’INFORMAZIONE SULLE ALTRE FORME DI SOLIDARIETA’ NEI CONFRONTI DEI MINORI IN DIFFICOLTA’; 5- LA PREPARAZIONE ALL’ADOZIONE. Per queste nuove competenze gli operatori necessitano di acquisire nozioni aggiornate, nonché attivare una collaborazione con gli esperti del settore e con gli enti autorizzati. Tra le competenze degli operatori del settore è importante la preparazione delle coppie. Questo perché è stato colto il bisogno espresso dagli aspiranti genitori adottivi di un iter che non sia finalizzato soltanto ad una valutazione, seppur necessaria, al conseguimento dell’idoneità, ma ad un’azione più completa e precisa di un percorso di accompagnamento verso l’adozione. 8
Quando un minore, nonostante la presenza di entrambi i genitori, è adottabile? Bisogna innanzi tutto sapere che nella fisiologia della complessa vicenda familiare, vi sono i due diritti di pari dignità sotto il profilo della tutela giuridica, quello dei genitori ad istruire, mantenere ed educare la prole, e quello dei figli a crescere armonicamente nella famiglia di origine coincidono. Nelle relazioni familiare è contemplato il diritto dei genitori alla genitorialità, che fisiologicamente garantisce, per l’ordinamento, quello del minore ad un armonico sviluppo psico-fisico, affinché, si tuteli al contempo, il diritto fondamentale del bambino a crescere nel nucleo di provenienza. Nel momento in cui tale diritto non viene rispettato, la patologia normalmente emerge, in maniera più o meno esplicita, attraverso alcuni indicatori quali deperimento psico-fisico, difficoltà di apprendimento o scarso rendimento a scuola, frequenza scolastica irregolare, ritardo psico- motorio, frequenti ricoveri ospedalieri, e altro. In presenza di suddetti indicatori, e laddove vi sia il consenso, ovvero la disponibilità dei genitori esercenti la podestà, a collaborare con i servizi socio-sanitari di zona a seguire le indicazioni, l’intervento delle istituzioni sarà unicamente di tipo amministrativo-assistenziale. A volte, purtroppo, le situazioni familiari sono talmente compromesse e deteriorate (grave dipendenza da stupefacenti, da alcool, gravi malattie psichiatriche, …) da non consentire, o comunque, rendere incompatibile che il minore stia con la famiglia d’origine. L’intervento del giudice si rende necessario, laddove vi sia un’opposizione dei genitori a seguire le indicazioni del servizi socio-sanitari di zona, e vi sia la necessità di limitare la podestà genitoriale degli stessi. Infatti l'art. 330 del codice civile disciplina le ipotesi di allontanamento del minore per decadenza dalla responsabilità genitoriale, mentre l’articolo 333 del codice civile giustifica comunque la misura dell'allontanamento a seguito 9
di un comportamento pregiudizievole del genitore ai figli, ipotesi meno grave ma più frequente rispetto a quella descritta dall’articolo 330 c.c. Articolo 330 Decadenza della responsabilità genitoriale sui figli Il giudice può pronunziare la decadenza della responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. Articolo 333 Condotta del genitore pregiudizievole al figlio Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento. Il contenuto dei provvedimenti che il giudice può adottare non è indicato dalla legge, ma è rimesso al suo apprezzamento, che si configura come strumento di protezione del minore contro le violazioni dei genitori. Il giudice è chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti dello stato di abbandono, ed è poi chiamato ad esprimersi circa la necessità di recidere, in modo totale e perpetuo, ogni legame tra il minore e la sua famiglia d’origine. All’intervento giudiziale, vengono comunque posti dei limiti: perseguimento dell'interesse del minore, proporzione con la gravità del pregiudizio per quest'ultimo, limitazione al campo dei rapporti relativi alla persona, rispetto dell'autonomia dei genitori. La legge n. 149 del 2001, già citata precedentemente, ha modificato gli articoli 330 e 333 c.c., prevedendo che il giudice possa disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore o del convivente, che maltratta o abusa del minore. Questo provvedimento può 10
adottarsi in via immediata e provvisoria a norma dell'articolo 336.3 c.c., che permette di risparmiare alla vittima di un abuso in famiglia, il danno ulteriore di subire egli stesso l'allontanamento da casa. Articolo 336 I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricordo dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero; dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio. L’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile al Tribunale per i Minorenni regola riguardo la domanda di limitazione o decadenza della potestà genitoriale. Quando però tali procedimenti si inseriscono nell'ambito di un giudizio di separazione o divorzio, la competenza passa al tribunale ordinario. La Corte di Cassazione ha da ultimo precisato che la competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni, anche se, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della perpetuatio jurisdictionis e a ragioni di economia processuale, che trovano fondamento anche nelle disposizioni costituzionali (art. 111 Cost.) e sovranazionali (art. 8 CEDU e art.24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea). 11
Articolo 8 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo Diritto al rispetto della vita privata e familiare Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Articolo 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea Diritti del bambino I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente. Ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse. Il codice civile, all’articolo 403, regola anche l’intervento della pubblica autorità a favore dei minori quand’essi siano moralmente o materialmente abbandonati, quando siano allevati in locali insalubri o pericolosi, oppure quando un genitore, o il loro tutore, è incapace di provvedere all’educazione 12
del minore. La pubblica autorità alla quale si fa riferimento coincide con i servizi sociali locali, vale a dire con quello stesso organo competente per l'affidamento familiare, fermo restando che il servizio sociale dovrà poi segnalare l'abbandono al tribunale per i minorenni quando riscontri l'esistenza di una situazione di questo tipo, o altrimenti provvedere all'affidamento familiare nei modi previsti dalla legge. Questa disposizione, originariamente, valeva come principio generale, con il quale si riconosceva l’intervento dell’autorità a favore dell’infanzia abbandonata. Oggi è la Costituzione, tramite gli articoli 30.2 e 31, la fonte del principio da cui deriva il generale dovere della pubblica autorità, e dello stesso legislatore ordinario, di provvedere agli interessi dei minori abbandonati. Nel sistema vigente, il Tribunale per i Minorenni ha una competenza di carattere generale, che si estende ad ogni tipo di situazione tale da esigere il collocamento coattivo del minore in luogo diverso da quello in cui si trova: l'art. 403 c.c., prevedendo l'intervento di altra autorità, ha funzione residuale. La norma assicura la protezione dei minori anche quando un tempestivo provvedimento del giudice non sia possibile: trovando applicazione solo nelle ipotesi di urgente necessità, e quindi procedendo al collocamento, si conciliano le esigenze di non lasciare privo di protezione alcuno dei minori che ne abbiano bisogno, con il principio secondo cui il compito di provvedervi spetti, di regola, ad un organo giudiziario. Il collocamento costituisce un provvedimento provvisorio, destinato ad aver effetto soltanto finché la competente autorità emetta quello definitivo. Un intervento diverso dall’autorità del giudice, è consentita solo quando vi sia il pericolo che lo stesso non possa provvedere tempestivamente; per cui la concorrente competenza di più organi è giustificata dall’urgenza. Si garantisce così che almeno uno degli organi provveda in modo tempestivo. Il collocamento implica l'affidamento del minore a chi, almeno temporaneamente, possa proteggerlo. La forza di riferimento normativo di fondo della giustizia minorile resta, il d.P.R n 448/1988, che ha innovato la procedura penale minorile. Il sistema 13
processuale minorile e le istituzioni sociali in tale contesto coinvolte protendono verso il recupero dell’individuo di minore età, a vario titolo entrato nel circuito giudiziario. L’intero apparato normativo, sostanziale e processuale mira, in particolare, ad evitare che la risposta penale possa lasciare segni evidenti nell’evoluzione del giovane. Il d.P.R n.448/1988 e le norme di attuazione contenute nel decreto legislativo n.272/1989, approvano un sistema di giustizia penale diversificato, dove il passaggio più significativo è costituito dallo spostamento dell’attenzione al minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Si configura un sistema penale adeguato alla capacità del soggetto adolescente di valutare la portata della trasgressione e di sopportare il peso della sanzione. Il testo normativo sollecita provvedimenti che consentano la rapida chiusura del processo, la riduzione di risposte limitative della libertà personale e la riduzione del danno che l’impatto con la giustizia può produrre sul piano educativo. Per la fuoriuscita dal circuito penale, la norma traccia percorsi diversificati che valorizzano interventi di aiuto e sostegno attuabili attraverso il livello del caso individuale, e il livello territoriale, con il coinvolgimento delle risorse presenti nel contesto per una lettura/risposta a fenomeno della devianza, nella realtà in cui si origina e sviluppa. I principi cardine del d.p.R n.448/1988 sono: - PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA: il processo penale minorile deve adeguarsi alla personalità del minore e alle sue esigenze educative, in quanto deve essere teso alla reintegrazione del minore nella società. Il processo penale, quindi, deve restituire il minore alla normalità della vita sociale, evitando gli interventi che possano destrutturarne la personalità. - PRINCIPIO DI MINIMA OFFENSIVITÀ: con tale principio viene evidenziata l’esigenza di tenere in considerazione come il contatto del minore con il sistema penale possa creare rischi allo sviluppo armonico della sua personalità e compromettere l’immagine, anche sociale. Ciò comporta il vincolo, per giudici e operatori, di 14
preoccuparsi nelle loro decisioni di non interrompere i processi educativi in atto evitando il più possibile l’ingresso del minore nel circuito penale consentendogli, per quanto possibile, di usufruire di strumenti alternativi. Quest’ultimi possono essere: il perdono giudiziale, non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, prescrizioni, permanenza in casa/, sospensione del processo e messa alla prova, tutti previsti dal d.P.R n. 488/1988. - PRINCIPIO DI DE-STIGMATIZZAZIONE: sempre al fine di evitare al minore il pregiudizio nel confronti della sua immagine che può derivargli dal contatto col processo penale, l’ordinamento tende a garantire la tutela della riservatezza e dell’anonimato rispetto alla società esterna. - PRINCIPIO DI RESIDUALITÀ DELLA DETENZIONE: secondo tale principio l’ordinamento prevede strumenti adeguati affinché la carcerazione sia l’ultima e residuale opzione da applicarsi. Questa trova applicazione in misure quali il collocamento in comunità, misura cautelare di livello intermedio tra la permanenza in casa e la custodia in carcere. - PROCESSO DI AUTO SELETTIVITÀ DEL PROCESSO PENALE: tale principio tende a garantire il primato delle esperienze educative del minore sulla stessa prosecuzione del processo penale che viene pertanto ad “autoeliminarsi”. Determinante nell’ambito del sistema penale minorile è il concetto di imputabilità: affinché si possa procedere penalmente nei confronti di un minore è necessario che questi sia imputabile. L’imputabilità è determinata dall’età del soggetto, la quale deve essere superiore ai quattordici anni. Ai soggetti non imputabili che siano resi responsabili di un reato, possono essere applicate sia misure amministrative sia di sicurezza. 15
Le misure di sicurezza si rivolgono a persone, ritenute pericolose socialmente, che abbiano commesso un reato, al fine di impedirne la recidiva. La pericolosità sociale si desume dal reato e dalla probabilità di commissione di nuovi reati, in base alle circostanze individuate dall’articolo 133 del codice penale, ossia la gravità del reato e la capacità a delinquere. Articolo 133 Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente , il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Le misure di sicurezza sono a tempo indeterminato: la legge fissa una data minima al cui termine vi sarà il riesame della pericolosità; se dall’esame viene meno la pericolosità, la misura cessa, altrimenti si procede a un nuovo esame. Le misure di sicurezza possono essere di due tipi: non detentive, la libertà vigilata, e detentive, il riformatorio giudiziario con la modalità del collocamento in comunità. Affinché si possa affermare la pericolosità sociale del minore bisogna fare riferimento all’articolo 37.2 del d.P.R n. 448/1988, secondo cui è possibile applicare una misura di sicurezza in via provvisoria se “ricorrono le condizioni previste dall’articolo 224 del codice penale e 16
quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata”. Nei confronti dei minorenni la libertà vigilata è eseguita nelle forme previste dagli articoli 20 e 21 del d.P.R n.488/1988 e la misura del riformatorio giudiziario è applicata soltanto per i delitti previsti dall’articolo 23 ed è eseguita nelle forme dell’articolo 22 del d.P.R n.488/1988, ossia del collocamento in comunità. La competenza amministrativa concerne gli interventi e le misure applicabili ai minori di anni 18 che diano manifeste prove di irregolarità della condotta e del carattere. Si concretizza in misure amministrative, o definite anche rieducative, che hanno lo scopo di prevenire la commissione di reati, in situazioni di evidente rischio, e quindi di evitare che il minore possa incorrere nella giustizia penale. “Possono essere definite provvedimenti di natura non penale, consistenti in trattamenti risocializzati, educativi o terapeutici, con funzione di prevenzione speciale ante delictum1”. È possibile che siano comunque applicate nei confronti di minori che abbiano commesso reati, se infraquattordicenni o incapaci di intendere e di volere. A seguito di segnalazione il Tribunale dei Minori esplica approfondite indagini sulla personalità del minore e dispone, se necessario, con decreto motivato una delle seguenti misure: - Affidamento al servizio sociale. Precedentemente al d.P.R n. 616/1977 il servizio sociale titolare di questa misura era il servizio sociale del Ministero della giustizia; dal 1977 in poi, a seguito del decentramento delle competenze agli enti locali, tale misura compete al servizio sociale del Comune; 1 RICCIORRI R., La giustizia penale minorile, Cedam, Milano, 2007. 17
- Collocamento in strutture residenziali ossia Comunità educative pubbliche o convenzionate con gli enti locali. Anche in questo caso bisogna fare riferimento al d.P.R n. 616/1977 e al relativo passaggio di competenza nella gestione della misura all’ente locale. Precedentemente a tal data esisteva il collocamento in casa di rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico, strutture del Ministero di grazia e giustizia, attualmente soppresse. La competenza amministrativa nel nostro sistema si è connotata con un approccio di tipo para-penale e con evidenti caratteristiche di controllo sociale che hanno caricato le cosiddette misure rieducative di notevoli ambiguità e contraddizioni. La condotta irregolare del ragazzo che non sfocia in violazioni della legge penale, più che di risposte di tipo para-penale, necessita di un sistema articolato di interventi forse più di natura civile a sostegno e aiuto al minore e alla famiglia. Tali interventi non sono stati garantiti dal semplice trasferimento della titolarità dei servizi della giustizia minorile ai servizi territoriali con il d.P.R n. 616/1977. La discrezionalità degli enti locali ha, infatti, comportato una risposta molto differenziata sul territorio nazionale, nell’offerta di servizi e politiche a favore della condizione giovanile. Il che, di fatto, ha prodotto, sulla base di variabili di contesto socio-economico diverse, una realtà sperequata nell’offerta di opportunità, che non ha garantito, in certe aree, alcun tipo di servizio, o il subentro nell’intervento del servizio sociale della giustizia minorile, su esplicita richiesta dell’Autorità Garante Minorile. Il codice di procedura penale minorile ha posto le basi per una trasformazione culturale che trova fondamento nel riconoscere il soggetto minorenne come titolare di diritti peculiari e individuo meritevole di particolare tutela. 18
Negli ultimi decenni, anche a livello internazionale e comunitario ci sono stati degli sviluppi nell’ambito della giustizia e della tutela minorile. In particolare, d.P.R 448/1988 anticipa di un anno la Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176. I diritti sanciti dalla convenzione rappresentano il simbolo di come tutti i dispositivi giuridici debbano porsi al servizio dei diritti dei minori, che si fondano sul principio paritario de “il miglior interesse”. Tali diritti valgono anche qualora un minore sia autore di reato: l’articolo 40 della convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia chiarisce questo aspetto e stabilisce “il diritto del minore sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di aver commesso un reato, ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima”. Centrale è il tema del benessere del minore che chiama in causa un intero sistema di diritti di cui esso è titolare, di cui quattro coincidono con quelli che l’ordinamento penitenziario chiama “elementi del trattamento”, intendendo il trattamento non come imposizione di comportamenti e valori in vista di modificazioni soggettive, ma offerta di opportunità e disponibilità che rendano possibile una scelta di vita aderente ai valori della legalità e della civile convivenza. Tali elementi, inoltre, se, da una parte, sono quelli che, più di altri, possono essere considerati quali strumenti per la realizzazione della personalità e il cui mancato esercizio può compromettere gravemente l’equilibrio psico- fisico dei soggetti entrati in conflitto con la giustizia, da un’altra, sono quelli che forse meglio rendono l’idea di una “responsabilità” condivisa, di una collaborazione come condizione necessaria per un positivo reinserimento sociale che si consegue, non solo attraverso l’adozione del Ministero della giustizia per il tramite delle sue strutture e del suo personale, ma attraverso 19
l’assunzione di responsabilità, in questo processo, da parte di queste quelle agenzie deputate alla presa in carico del minore. Tali diritti sono: - DIRITTO ALLA PROTEZIONE: implica la tutela del benessere generale e della salvaguardia della condizione psicofisica del soggetto, al fine di promuovere la crescita e lo sviluppo armonioso del minore. La limitazione della libertà di un minorenne è lecita unicamente allo scopo di sorvegliare la sua educazione. - DIRITTO ALLA SALUTE: la giustizia minorile e i servizi del sistema di salute pubblica collaborano al fine di assicurare la tutela della salute del minore, in virtù di quanto stabilito dai cambiamenti normativi previsti dal d.P.C.M del 1 aprile 2008, che ha trasferito al Servizio sanitario nazionale le funzioni sanitarie e le relative risorse finanziarie, umane e strumentali afferenti la medicina penitenziaria. Il minore è sempre sottoposto a verifica medica, fisica e psicologica. - DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE: sono garantiti l’istruzione e il proseguimento degli studi. La scuola si impegna a: organizzare percorsi di istruzione e formazione diretti a favorire l’acquisizione e il recupero delle abilità e competenze individuali. In accordo con diverse aziende, il sistema di giustizia minorile opera per la formazione e l’inserimento lavorativo, come opportunità di crescita, autorealizzazione e opportunità per la persona di operare attivamente nella società. - DIRITTO ALLO SVAGO: come la salute, l’alloggio, il lavoro, il riposo, l’educazione, lo svago è indispensabile alla dignità e allo sviluppo della persona, ancorché del soggetto minorenne. Le pratiche sportive, culturali, artistiche, formative, di rilassamento o di divertimento costituiscono importanti fattori non solo per un armonico sviluppo della personalità, ma anche ai fini di una positiva integrazione sociale. Rappresentando il reinserimento nel contesto sociale, il momento topico dell’intervento della giustizia minorile, è 20
evidente come l’efficacia dell’intervento non possa non passare per una proficua collaborazione da parte del sistema della giustizia minorile con quelle realtà che, a livello locale, presiedono servizi deputato allo svago. Gioca anche a favore della necessità della tutela della condizione del minore che entra nel circuito penale la direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, che dovrà essere recepita dagli stati membri entro tre anni. Si tratta del primo strumento normativo dell’Unione volto a disciplinare i procedimenti penali che vedono coinvolti minori tenendo conto delle specificità di quest’ultimi. Circa un milione di minori ogni anno in Europa entra formalmente in contatto con le forze dell’ordine e con la giustizia penale. Sono molti: il 12% del totale della popolazione coinvolta in procedimenti penali. E come tutti i minori, ma ancor di più, proprio perché in conflitto con la legge, sono particolarmente fragili e vulnerabili, specie nel contesto di una vicenda, il processo, che hanno difficoltà a comprendere e decifrare. Per questo motivo, come l’esperienza italiana ha dimostrato, un sistema giudiziario a misura di minore è, nella maggior parte dei casi, la condizione indispensabile per il reinserimento sociale dei ragazzi autori di reati e, quindi, ora la prevenzione delle recidive. Una necessità, questa, alla quale l’Unione Europea ha risposto con la nuova direttiva sulle garanzie procedurali per i minori penalmente indagati o imputati, ponendo fine così a una diffusa disarmonia tra le normative nazionali in questo settore. È la nascita del giusto processo penale minorile europeo: per la prima volta viene introdotta una disciplina specifica dei procedimenti penali nei confronti dei minori. Un grande risultato, nel quale si riflette in buona parte il modello italiano. La direttiva è un catalogo di diritti e garanzie procedurali elevate che colma le distanze tra gli ordinamenti nazionali delineando un modello condiviso in cui poter bilanciare l’esigenza di accertare i fatti di reato, con le relative responsabilità, e quella di tenere nella dovuta considerazione gli specifici 21
bisogni dei minori. Il superiore interesse del minore è posto al centro del sistema. Sono fissati importanti punti fermi tra i quali, innanzitutto, la necessaria assistenza di un difensore, finora non sempre riconosciuta dalle legislazioni interne, il principio della detenzione separata rispetto agli adulti e, ancora, la formazione specialistica sia dei magistrati che degli altri operatori coinvolti nel procedimento, fin qui prevista solo in sei stati membri. La direttiva afferma anche il diritto del minore a una valutazione individuale, il cui esito va documentato e messo a disposizione dell’autorità procedente affinché abbia informazioni sulla personalità del minore, sulla sua condizione familiare e socio-economica così come su tutti gli altri elementi utili per capire quale grado di consapevolezza del reato abbia avuto, quale misura cautelare sia più opportuna, quali siano le prospettive di rieducazione. A tutti i minori ai quali venga applicata una qualunque restrizione della libertà personale dovranno essere inoltre assicurati l’assistenza medica necessaria e il diritto di incontrare prima possibile il titolare della responsabilità genitoriale. I governi nazionali dovranno garantire al minore anche la possibilità di essere informato sui propri diritti e di partecipare attivamente al procedimento. Altro elemento essenziale è l’obbligo, a carico degli stati membri, di assicurare ai minori detenuti l’educazione, la formazione e il regolare esercizio delle relazioni familiari, il tutto nel pieno rispetto della libertà religiosa e di pensiero. La direttiva sul giusto processo minorile rappresenta anche un importante passo verso l’ampliamento dello spazio europeo di giustizia, che favorirà il mutuo riconoscimento delle decisioni giurisdizionali tra i Paesi membri dell’Unione. Gli stati membri avranno adesso 36 mesi di tempo, a decorrere dalla pubblicazione della direttiva in Gazzetta ufficiale, per uniformare la normativa interna. 22
LA REALTÀ ALL’INTERNO DELLE COMUNITÀ PER MINORI A cura di Giulia Lotti Che cos’è la comunità per minori? La comunità educativa per minori si propone come luogo fisico e relazionale caratterizzato da un clima familiare, nel quale il minore possa rielaborare i propri sentimenti e le proprie esperienze, offrendo un affiancamento affettivo ed educativo che consenta al minore stesso di sviluppare una nuova identità. La comunità per minori è un servizio educativo - assistenziale che ha il compito di accogliere il minore, qualora il nucleo famigliare sia impossibilitato o incapace a garantire il benessere e i bisogni, anche primari, del ragazzo. Essa si rivolge quindi a minori in situazioni di disagio sociale, familiare e personale, in condizioni di precarietà e fragilità affettiva e relazionale, tali da compromettere un'evoluzione personale equilibrata ed armonica. La comunità, oltre ad essere un luogo “protetto”, in quanto assicura al minore protezione e tutela, è anche un luogo “esposto” a rischio poiché è inserito in un contesto rappresentato dalle aspettative dei soggetti in gioco. Primi fra tutti i bambini, che molto spesso formulano delle idee non positive sulla comunità in cui sono inseriti, individuandola come luogo di punizione. Poi ci sono i genitori: alcuni si mostrano favorevoli alle comunità e le vedono come luoghi di aiuto non solo per i figli, ma anche per loro stessi; altri invece le considerano come luoghi negativi e inappropriati specie quando ad essere intaccata è la loro capacità genitoriale. Non ultimi ci sono gli operatori: educatori, psicologi, assistenti sociali, giudici, neopsichiatri che devono affrontare quotidianamente delle serie di problematiche relazionali, burocratiche ed educative. 23
Nelle Comunità si assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato, ai sensi degli artt. 18, 18- bis, 22, 36 e 37 del d.P.R 448/88. I principi fondamentali su cui si basa il lavoro delle Comunità ministeriali sono la promozione delle risorse personali, familiari e sociali del minore, la necessità di limitare il più possibile la permanenza del minore all’interno della struttura e l’importanza di favorire attività formative, ricreative, ecc., in ambienti esterni alla struttura. Alla luce di tali principi, gli obiettivi fondamentali del collocamento presso le Comunità sono: • stabilire un programma educativo destinato al minore che tenga presente tanto delle sue esigenze quanto delle sue risorse personali, familiari e sociali; • favorire la responsabilizzazione e la consapevolezza del minore rispetto alla misura restrittiva della libertà personale; • individuare e valorizzare le risorse del minore; • offrire al giudice informazioni che contribuiscano ad una scelta conforme il più possibile alle esigenze educative del ragazzo; • preparare le dimissioni del minore dalla Comunità e curarne l’eventuale invio ad altre strutture; • restituire il minore al suo contesto sociale. Secondo quando affermato dal d.lgs. 272, 1989, le Comunità devono rispettare i seguenti criteri fondamentali relativi alla gestione: • organizzazione di tipo familiare, che preveda anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale (con capienza di massimo dieci unità, limite che facilita e garantisce una conduzione e un clima educativamente significativi); 24
• presenza di operatori professionali specializzati in diverse discipline (assistenti sociali, mediatori culturali, ecc.), che accompagnino e sostengano il minore durante il proprio percorso; • capacità di collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzo delle risorse del territorio; • Attuazione di progetti educativi individualizzati (PEI). I criteri per l’individuazione della struttura sono: - Le indicazioni dell’Autorità Giudiziaria; - La residenza del nucleo familiare (territorialità); - La continuità del trattamento; - Le caratteristiche del minore e della struttura; - La disponibilità dei posti nelle strutture L’ingresso del minore in comunità è obbligatoriamente accompagnato da una documentazione che attesta la sua precedente esperienza al fine di garantire una certa continuità del percorso all’interno del circuito penale. L’inserimento del ragazzo è seguito dalla definizione di un “Progetto Educativo Individualizzato” (P.E.I.): si tratta di un piano educativo che viene stilato prestando attenzione alla personalità del minore e alla valorizzazione dei processi di responsabilizzazione e risocializzazione del ragazzo, nonché nel rispetto della garanzia dei suoi diritti ed esigenze educative. Il progetto, elaborato dopo un’attenta osservazione del minore nella sua globalità, dovrà indicare: • gli obiettivi che il minore deve raggiungere • le attività che dovrà svolgere • le indicazioni sulle modalità di svolgimento delle attività 25
• le modalità di verifica, utili all’Autorità giudiziaria. Attualmente le comunità del privato sociale accolgono la maggior parte dei giovani sottoposti a misure penali minorili, con particolare riferimento alle misure cautelari e alle messe alla prova, connotandosi sempre più come un servizio funzionale ai bisogni dei ragazzi e della magistratura minorile. Le comunità del privato sociale riflettono inevitabilmente una forte articolazione legata alla specificità dei contesti territoriali e alla diversità valoriale e/o organizzativa delle stesse che genera una forte differenziazione nel territorio. Allo scopo di offrire una corretta visuale del lavoro occorre preliminarmente porre in evidenza una delle criticità insite nel settore dell’accoglienza dei minorenni in comunità che sono emerse nel corso dell’osservazione del fenomeno. Con riferimento alla diversa denominazione che le strutture di accoglienza per i minorenni ricevono sul territorio nazionale, si rileva che l’articolo 2 della legge n. 184 del 1983, individua un’unica tipologia di presidio idonea ad accogliere i minorenni, qualificata come “comunità di tipo familiare”, caratterizzata da un’organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. Articolo 2 legge n. 184/1983 1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell'articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno. 2. Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede 26
preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l'inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare. 3. In caso di necessità e urgenza l'affidamento può essere disposto anche senza porre in essere gli interventi di cui all'articolo 1, commi 2 e 3. 4. Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. 5. Le regioni, nell'àmbito delle proprie competenze e sulla base di criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli standard minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e verificano periodicamente il rispetto dei medesimi Tuttavia, a fronte di questa unica e generica classificazione, si rinvengono, in atti normativi, sia nazionali che regionali, altre tipologie di strutture, il più delle volte prive di una correlata univoca definizione. Ciò si verifica, ad esempio, per i “gruppi appartamento” richiamati, insieme alle “comunità di tipo familiare”, nel decreto del Ministero per la solidarietà sociale n. 308, del 21 maggio 2001, ove trovano menzione anche le “strutture a carattere comunitario”. Un importante tentativo di catalogazione delle strutture residenziali è rappresentato dal “Nomenclatore interregionale degli interventi e servizi sociali”, realizzato nel 2009 e giunto, nel 2013 alla sua seconda versione. Tuttavia, sebbene tale strumento classifichi le diverse tipologie di presidi 27
“familiari”, non si è ancora giunti alla unificazione delle definizioni adottate nei diversi ambiti territoriali e, in particolare, anche con riferimento alla più diffusa dicitura di “casa famiglia”, si registra tuttora la mancanza di una definizione univoca e della sua menzione nel citato nomenclatore. Prescindendo delle differenti nomenclature è comunque utile, a fini pratici, ricondurre le tipologie di strutture di accoglienza esistenti a tre macro- tipologie di comunità di accoglienza residenziale, in ragione delle caratteristiche strutturali che le connotano. Una simile attività è stata intentata dal Gruppo di lavoro sulle comunità di tipo familiare, istituito nell’ambito della Consulta delle associazioni e delle organizzazioni, presieduta dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, nel cui contesto è stata proposta la seguente classificazione: – COMUNITÀ FAMILIARI/CASA FAMIGLIA: caratterizzate dalla presenza stabile di adulti residenti (famiglia, coppie, educatori residenti) – comunità educative/socio-educative, caratterizzate da operatori/educatori che non abitano in comunità ma che sono presenti con modalità “a rotazione” –COMUNITÀ SOCIO-SANITARIE: siano esse comunità familiari/case famiglia o comunità educative, caratterizzate dalla complementarietà delle funzioni socio-educative e terapeutiche assunte da operatori professionali e a titolarità compartecipata tra la competenza sociale e sanitaria. I soggetti destinatari del servizio educativo Quando si parla delle comunità per minori, i primi soggetti destinatari del lavoro educativo sono i minori stessi. In realtà, il servizio di comunità non si rivolge unicamente ai minori, ma si interessa anche alle loro famiglie e ai genitori. 28
È da questa premessa che possiamo dividere i destinatari di questi servizi educativi in soggetti diretti e indiretti. Chiameremo diretti i minori che sono interamente coinvolti nelle attività quotidiane delle comunità, che passano la maggior parte del tempo all’interno di questi servizi o che vi vivono stabilmente. I soggetti indiretti, invece, possono essere individuati nei genitori e nelle famiglie di questi ragazzi, in quanto, gli operatori ed educatori non hanno rapporti quotidiani con loro, ma periodicamente hanno degli incontri finalizzati all’obbiettivo educativo, per le comunità in cui i minori sono inseriti temporaneamente, di ristabilire un legame solito e “sano” tra genitori e figli che permetta una continuità della crescita armonica del ragazzo. In quest’ottica, le strutture di servizio possono assumere, nei riguardi delle famiglie, diversi tipi di atteggiamento: a) Il rapporto con le famiglie può essere inesistente: gli operatori del servizio guardano, in questo caso, agli utenti, i minori, come soggetti avulsi da un contesto relazionale familiare; si punta unicamente all’aspetto tecnico, cioè a garantire determinate prestazioni, prescindendo dai legami affettivi dei bambini. Questo può determinare o una rigidità del servizio, contrassegnato in certi casi da una progettualità che non tiene minimamente conto della vita reale degli utenti, oppure, al contrario, uno svuotamento dei contenuti degli interventi attuati dal servizio, conseguenza della deresponsabilizzazione di quest’ultimo dall’assoluta mancanza di un confronto con la famiglia. b) Il rapporto con le famiglie può essere poco influente: in questo caso alla famiglia viene riconosciuto nei confronti del bambino un ruolo significativo, ma operante in un ambito diverso e parallelo rispetto a quello sociale, cosicché il servizio concepisce il proprio intervento come aggiuntivo rispetto a quello della famiglia; un rapporto in cui ognuno fa la sua parte. In questa prospettiva alla famiglia viene restituita una funzione e può esservi 29
una relazione con il servizio, ma si esclude l’idea di un dialogo costruttivo tra i due contesti. c) Un rapporto di interazione tra famiglia e servizio è quello che meglio può garantire un percorso di crescita e di autonomia del bambino e della bambina. Secondo quest’ottica ogni intervento non si esaurisce in se stesso, ma è sempre parte di un più ampio sistema di relazioni. Così come nella “vita sociale” i bambini portano se stessi con tutti i legami per loro più significativi, allo stesso modo, nel ritornare in famiglia essi determineranno in quell’ambiente delle trasformazioni, dovute al fatto che la loro crescente autonomia, per le esperienze vissute all’esterno, solleciterà i familiari a modificare i propri comportamenti. Il servizio sarà allora spinto a progettare interventi non semplicemente sulla base di ciò che si ritiene utile per l’utente, ma anche sulla base dei messaggi che arrivano dalla famiglia. In questo senso la consapevolezza che un servizio offerto ad un individuo abbia una ripercussione non indifferente sulla sua storia familiare dovrebbe essere per gli operatori un incentivo ad operare con maggiore senso di responsabilità e, contemporaneamente, ad avere uno sguardo più ampio, un atteggiamento meno burocratico e più aperto alle diverse esigenze legate alla sensibilità infantile Creare dei progetti su una base di maggiore flessibilità senza compromettere la professionalità non è sempre facile: è più semplice puntare sulle “cose da fare” e sulle tecniche da adoperare, piuttosto che curare le relazione umane, che impongono in molti casi di rimettere in gioco i propri schemi operativi. Chi lavora quotidianamente con bambini sa quanto l’attenzione e la disponibilità data alle famiglie si rifletta positivamente non solo sulla “salute” del bambino, ma anche sull’andamento delle attività e sul clima complessivo 30
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