Imperativo presente! Strumenti di lavoro per progettare l'anno scolastico 2019/2020 - Collegio San Carlo

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Imperativo presente!

Strumenti di lavoro per progettare
   l’anno scolastico 2019/2020
Indice
Imperativo presente!                                             pag. 04

“Mi può fare un esempio?”                                        pag. 07

Il tema della responsabilità
nella Divina Commedia                                            pag. 10

La responsabilità nella spiritualità cristiana                   pag. 13

La responsabilità nei classici della letteratura antica          pag. 14

La responsabilità come categoria filosofica                      pag. 16

La storia: un esempio di responsabilità in Dietrich Bonhoeffer   pag. 18

Le Scienze Umane: Responsabilità                                 pag. 20

Educare i bambini alla responsabilità: un esempio pedagogico     pag. 23

Forever Young                                                    pag. 26

La responsabilità nel linguaggio artistico                       pag. 29

La responsabilità nella letteratura inglese:
l’esempio del Signore degli Anelli                               pag. 33

Scienza e responsabilità: le scelte dello scienziato             pag. 35

Responsabilità come categoria psicologica                        pag. 37

Responsabilità: pedagogia dei “primi passi”                      pag. 39

La Responsabilità in educazione: questione di sguardi            pag. 41

La Responsabilità di accompagnare:
il seme, il tempo, la scelta                                     pag. 43

Intervento dell’Arc. Mons. Mario Delpini
all’incontro con il personale del Collegio San Carlo
in occasione della celebrazione dei 150 anni                     pag. 46

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Imperativo presente!

Lo strumento che più di tutti accomuna chi lavora nella scuola è il calendario: chi
lo ha cartaceo, chi digitale, chi colorato, chi se lo fa gestire da altri… tutti però
vivono una sorta di “tirannìa” dei giorni e dei mesi che trascorrono, che ritmano i
programmi e le attività. La scuola, così come è strutturata, spesso rischia di fare del
calendario stesso l’unico elemento (e a volte criterio) di progettazione di riflessio-
ne educativa e didattica. Le cose si fanno se ci stanno nelle agende! E’ importante
non improvvisare, programmare per tempo, fare in modo che le cose siano ben
strutturate perché anche da questo dipende la qualità della nostra proposta edu-
cativa. Tuttavia, per una scuola come il San Carlo, il calendario (o la programmazio-
ne) non deve essere l’unico criterio di progettazione e programmazione di un anno
scolastico; ecco perché il tema dell’anno o lo “sfondo integratore” (comunque lo
si voglia chiamare) non è solo il titolo di copertina ma un vero e proprio criterio e
orizzonte e di lavoro.
Il nostro essere scuola cattolica (ed in particolare della Chiesa Diocesana) non è
appellativo di un retaggio storico, non è nemmeno (o almeno in parte non lo è più)
aggettivo attrattivo ma è la radice del nostro modo di fare scuola, e quindi ha a che
fare con la nostra vocazione (o mission) di annunciare la Buona Novella all’interno
di una esperienza culturale e umana forte e avvincente e per questo riconoscibile
e attrattiva.
Lo abbiamo imparato in questi anni e la cartellonistica e simboli ci hanno aiutato.
Abbiamo iniziato nell’anno scolastico 2017/2018 con il tema dei desideri, ci hanno
accompagnato le stelle con il loro invito a guardare verso il cielo. Ho sempre detto
che avere a che fare con i desideri vuol dire avere a che fare con il futuro. Poi in
questo anno appena concluso abbiamo guardato alla terra, alle nostre radici e alla
nostra storia, occasione dei 150 anni per riscoprire l’esercizio di una memoria che
diventa gratitudine e sostiene il cammino. Il prossimo anno sarà il presente il tempo
su cui lavoreremo.
Futuro, passato e presente sono le dimensioni di un’esistenza: è vero, e chi ha fatto
dell’educazione anche una professione, sa bene che in una relazione educativa è
difficile distinguere i tre momenti; noi lo abbiamo fatto, quasi forzando anche la
realtà, come se fosse un esercizio pedagogico esposto ai rischi dell’accademica,
ma ben consci che futuro, passato e presente sono grammatica di ogni stagione
della vita.
Il presente quindi. Per noi cristiani il presente non è qualcosa da evitare, da do-
minare o ancora peggio da fuggire. E’ il luogo dove ancora lo Spirito cova come
grembo del bene. Con lo Spirito si guardano le cose scoprendone la loro potenzia-
lità e le si valorizzano. Proprio in questi giorni, leggendo un libro, mi è tornato tra
mano un testo di C.S.Lewis tratto dalle sue Lettere di Berlicche: si tratta di un’o-

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pera geniale dello scrittore inglese in cui si immagina uno zio diavolo che scrive al
nipote che sta imparando l’arte del tentare gli uomini. Nel suo linguaggio tutto è
rovesciato e il “Nemico”, ovviamente è il Padre Celeste
“Gli esseri umani vivono il tempo, ma il nostro Nemico li destina all’eternità. Perciò,
credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: della eternità
stessa e di quel punto del tempo che essi chiamano presente. Il presente è infat-
ti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità. Del momento presente, e soltanto
di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro
Nemico ha della realtà intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà la realtà.
Egli vorrebbe perciò che essi fossero continuamente occupati o con l’eternità (il
che vuol dire essere occupati di Lui) o con il presente – o che meditino sulla loro
eterna unione con Lui, o sulla separazione da Lui, oppure che obbediscano alla
voce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere
presente. Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente”.1
L’insegnamento continua mutuando i consigli dello zio che spiega che soprattutto
il futuro (il tratto tra il presente e l’eterno) sia la cosa in cui bisogna che si concentri
l’attività tentatrice, sicché uno viva di nulla.
E’ proprio questa la tentazione da fuggire, il pensare che il presente non sia il luogo
in cui poter già orientarsi non solo al futuro ma renderlo possibilità di sperimentare
l’eterno. Spesso sono i luoghi comuni, o il pensiero più diffuso secondo l’aria che
tira al momento gli unici criteri con cui guardiamo il tempo, per esempio moti-
vando un ottimismo del progresso che si immagina che andrà sempre meglio o
un reiterato pessimismo della decadenza che si immagina che oggi le cose vanno
male, ma domani andranno senz’altro peggio).
Per noi cristiani il futuro è la terra promessa (il Regno di Dio, la dimora preparata
da Gesù, la gloria, la risurrezione, la gioia perfetta ed eterna, la vita di Dio, la vita
eterna). La terra promessa, la vita eterna, non sono nomi per indicare un luogo che
sta negli anni a venire (futuro e aspettativa), né alle spalle (passato e nostalgia),
né in “cielo” (sogno, realtà virtuale e evasione dalla storia). La terra promessa è la
comunione con il Padre per opera di Spirito Santo: quindi si tratta di una relazione,
di una alleanza che trasfigura il presente, il passato e il futuro.
Se c’è una terra promessa, se la promessa è affidabile, pensare per il futuro signifi-
ca mettersi in cammino, significa vivere il pellegrinaggio, l’esodo. Contro la rasse-
gnazione. Se c’è una promessa, pensare per il futuro significa vivere come persone
chiamate che possono rispondere, la libertà della risposta alla vocazione. Contro il
determinismo. Se c’è un tempo da vivere, una storia da abitare, pensare per il futu-
ro significa esercitare la responsabilità di mettere a frutto i talenti ricevuti. Contro
la sottovalutazione di sé.2
Vorrei che quest’anno l’attenzione sul “tempo presente” abbia dentro di sé questo
richiamo alla responsabilità, personale, comunitaria e sociale. La parola “respon-
sabilità” è la grammatica con cui in una vita si costruisce quella risposta ad una

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chiamata che è innanzitutto chiamata all’amore di Dio.

Ciò che qui scrivo non ha niente a che vedere con un tratto etico o moralistico:
essere capaci di responsabilità non ha solo a che fare con i singoli gesti ma ha che
fare con il fondamento ultimo della nostre vite. Faccio un esempio: in questi ultimi
tempi, complice anche la maggiore attenzione mediatica, il tema della salvaguar-
dia dell’ambiente sta muovendo coscienze e avviando processi di buone pratiche.
Ottima cosa; è vero anche però che noi Cristiani abbiamo una responsabilità mag-
giore (per certi versi anche colpe maggiori), per noi l’ambiente non è solo fine a
sé stesso ma è il Creato, opera di un’artista, luogo in cui prende forma la storia
della salvezza. Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato Sìì” lo ha chiarito bene.
Responsabilità allora è innanzitutto risposta ad una chiamata alla Vita, che poi si
traduce in comportamenti, gesti e regole.

Ho chiesto ad alcuni colleghi un contributo a questo mio avvio di riflessione chie-
dendo loro dei brevi testi (che trovate in questo libretto) che ci aiutino in quell’e-
sercizio, innanzitutto personale e poi collegiale e comunitario, di riflessione sui
contenuti che successivamente diventeranno, dentro le esigenze e la creatività dei
singoli, veri e propri progetti ed esperienze didattiche ed educative. L’arte, la lette-
ratura, i grandi classici, la spiritualità cristiana e la filosofia, la sapienza pedagogica
e le scienze umane sono gli ambiti entro cui ciascun collega ha cercato di declinar-
le il significato della parola “responsabilità”. Un tentativo, di certo non esaustivo, di
affrontare questo argomento anche in diverse discipline e da differenti prospettive
ricercando l’unità dei saperi nella figura di umanità realizzata in Gesù.

Certo non è il romanzo o il giornale da leggere sotto l’ombrellone ma i prossimi
mesi dedicati al risposo e alla custodia degli affetti possono essere l’occasione
propizia e feconda per avviare la riflessione e stimolare la creatività.

                                                                          Don Alberto, rettore

_________________________________________________________________________________

C.S.Lewis, Le lettere di Berlicche, ed.Jaca Book
1

2
 M.Delpini, intervento al Convegno organizzato da Tribunale e Procura per i Minorenni di Milano Te-
atro I.P.M. “Cesare Beccaria” Milano – 6 giugno 2019

6
“Mi può fare un esempio?”

Uno studente un giorno mi ha chiesto: “Ma cosa vuol dire responsabile?” Gli ho ri-
sposto semplicemente così: “Vuol dire essere capace di dare risposte”. “Risposte a
che cosa?” insisteva lo studente. “Risposte ad un invito, ad una chiamata, ad una
azione che ti ha provocato. Solo chi sa dare risposte vere, esaustive, convincenti,
potrà essere definito responsabile”. “Mi può fare un esempio?” mi chiese in un at-
teggiamento tra la sfida e l’attesa. Come dire: “Vediamo se mi sa dare lui risposte
davvero convincenti o se è la solita raccomandazione adulta un po’ trita e ritrita su
come bisogna essere seri, diligenti, obbedienti…” Ho raccolto entrambi i suoi ap-
procci alla questione e ho cominciato così. “Vedi, al mattino quando ti svegli, la
mamma o il papà ti chiamano perché è ora di alzarsi, bisogna andare a scuola, non
si può fare tardi. Che cosa rispondi tu? Fai come alcuni che si girano dall’altra par-
te, a volte persino senza rispondere? Oppure svogliatamente dici: “Ancora cinque
minuti!” Ho sonno, non sono ancora del tutto sveglio, oppure “uffa, ma è già ora? È
presto! Dai…aspetta ancora un pochino!” e così via... Che tipo di risposte sono que-
ste? Come le potremmo definire in rapporto alla motivazione che stava dietro alla
domanda? E se invece tu rispondessi: ‘Va bene, mi alzo subito’, oppure ‘ ok, grazie,
mi preparo immediatamente’. Queste che tipo di risposte sarebbero rispetto alle
precedenti? È vero che si tratta sempre di risposte, ma quale delle due tipologie ha
intercettato la ragione profonda della chiamata o dell’invito dei tuoi genitori?” “Si-
curamente le seconde” mi disse lo studente “Perché hanno accolto e accettato
l’invito, che aveva uno scopo positivo, e hanno cominciato ad attuarlo per realizza-
re un bene”. “E che esito avrebbero avuto invece le prime?” ripresi io. “Quello di
farmi arrivare in ritardo a scuola, creando problemi un po’ a tutti: innanzitutto a me,
poi ai miei compagni, ai miei docenti e alla mia famiglia perché sarei stato richia-
mato con note disciplinari”. “Bravo!” dissi io, “hai colto il nocciolo della questione!
Chi sa dare risposte costruttive per un bene personale o comune è una persona
responsabile. Ti faccio un altro esempio – aggiunsi – i tuoi docenti spesso ti chia-
mano e ti rivolgono delle richieste. Ti domandano di studiare questa o quella lezio-
ne, di eseguire questo o quell’esercizio per una determinata data. Che risposte sai
offrire a queste richieste? Poi magari a casa i tuoi genitori riprendono anch’essi
l’invito e ti sollecitano a fare i compiti, a non perdere tempo, ad onorare quanto
indicato dai docenti. E tu che risposte sai dare? Sei uno o una che approccia la
questione in modo negativo? Oppure offri una disponibilità parziale e quindi calco-
li a cosa dire di sì e a cosa dire di no in base ai tuoi impegni, alle tue preferenze, alle
probabilità o meno di un’interrogazione? E quindi neutralizzi la portata della do-
manda accogliendone solo e unicamente quello che ti sembra più utile ed oppor-
tuno? Oppure offri una risposta piena e generosa con una disponibilità aperta an-
che alla fatica di abbracciare in prospettiva anche quello che ti appare più faticoso
e meno immediato? Se valuti anche in questo caso il bene che ha fatto scattare la
domanda e le richieste, sapresti ancora una volta indicare le risposte più capaci di

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realizzarlo in pienezza per un appagamento personale e collettivo più completo e
ricco.” “È vero” – mi disse- “ma noi non facciamo sempre queste riflessioni. Pren-
diamo decisioni e quindi diamo risposte senza tante previe meditazioni”. “Certo” -
risposi –“lo capisco, tuttavia nella vita essere capaci di dare risposte convincenti e
capaci di realizzare qualcosa di bello e grande per me e per gli altri richiede un
supplemento di pensiero e di logica. Perché il bene e la felicità che cerchiamo han-
no una logica. Infatti una persona irresponsabile è anche una persona illogica, che
agisce senza ragionare e che rischia, quindi, di compromettere a volte in modo
grave, il bene comune”. “Addirittura?” - mi domandò – con uno sguardo che sem-
brava dirmi ‘stavolta l’hai sparata un po’ troppo grossa’. “ma certo che è così! ” -
continuai – prova a pensare alle domande che ci vengono rivolte dalle regole della
vita associata, a scuola, sulle strade, nella vita civile e politica, nel mondo delle
comunicazioni e dei social. Quanti inviti riceviamo al rispetto di norme e di doveri?
E che risposte diamo? Che qualità di responsabilità esprimiamo con le nostre azio-
ni? Riusciamo innanzitutto a scorgere i beni preziosi che le leggi e i regolamenti
cercano in tutti i modi di custodire e di promuovere? E che, a causa delle risposte
parziali o addirittura negative ed oppositive di alcuni, rischiano di venire a manca-
re per tutti? Pensa alla sicurezza, alla qualità dell’ambiente, alla possibilità di vivere
una vita serena e operosa, alla pace e alla prosperità. La responsabilità è dunque la
capacità che abbiamo di intravedere in una chiamata e in una richiesta un bene da
salvaguardare assolutamente, per me e per tutti. Se riesco a vederlo e a coglierlo,
allora saprò formulare risposte adeguate e preziose in ordine alla sua realizzazione.
E guarda che questo criterio funziona anche al contrario”. “ In che senso?” – mi
chiese un po’ stupito. Gli risposi “se qualcuno ti chiede qualcosa che non ha a che
fare con un bene o con un valore, ma, al contrario, con qualcosa che fa peggiorare
le cose per me e per gli altri, devo pensare bene a che risposta dare. Se uno ti chie-
de di offendere un altro sui social perché gli ha fatto uno sgarbo e, in qualità di
amico, di domanda solidarietà, tu che cosa fai? Se qualcuno, quando sei in macchi-
na, picchia sull’acceleratore infischiandosene del codice della strada o ti chiede di
fare altrettanto per provare un po’ di ebrezza, tu che cosa fai? Che risposte dai?
Quando sei in compagnia e un bicchiere tira l’altro, fino a che punto ti spingi quan-
do ti domandano di partecipare alla bevuta, magari facendoti sentire un po’ sfiga-
to se preferisci la moderazione e la serietà? Vedi che essere responsabile significa
in alcuni casi dire dei sì e in altri dire dei no? Chi è capace di farlo individuando il
bene o il male che sta dietro alle domande, diventa capace di dare le risposte ade-
guate e diventa responsabile. Ok?” “Sì ora comincio un po’ a capire” – disse. “Se hai
un po’ di pazienza – aggiunsi – puoi vedere le cose anche in una prospettiva anco-
ra più ampia e vertiginosa”. “In che senso, mi scusi? – mi domandò sperando che
avessi finito già la predica. “Vedila così” - replicai – Noi tutti, anche io e te, siamo
stati chiamati alla vita. Attraverso la collaborazione dei nostri genitori, il Buon Dio
ci ha invitato e chiamato all’esistenza. Non l’abbiamo deciso noi. E’ stato un Altro
che ce l’ha regalata. Per un bene che è quello di farci esistere. Altrimenti non sa-
remmo nemmeno qui a parlare insieme. Allora questa chiamata all’esistenza ci in-
terpella. Che cosa rispondiamo? I cristiani definiscono questo dono della vita ‘vo-

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cazione’, che vuol dire chiamata. Noi spesso pensiamo che la vocazione sia
qualcosa che riguarda solo i preti. Invece no. La vocazione per ciascuno di noi co-
mincia dal primo giorno di vita e dura fino all’ultimo. Che cosa ne faccio di questo
dono della vita? So, ad esempio, esprimere una gratitudine perenne? A Dio, ai ge-
nitori, a tutti quelli che hanno protetto e custodito questo dono che ho ricevuto e
che ancora lo proteggono e lo promuovono, nella famiglia e nella società civile?
Oppure non ne colgo il valore e quindi non vivo nella gratitudine ma, al contrario,
nella continua pretesa, che spesso sconfina nella cronica scontentezza e rabbia
verso tutto e tutti? Non è forse responsabile chi invece impara, perché viene edu-
cato a questo, a scorgere la grandezza, vertiginosa appunto, del dono della vita? E
non solo della mia, ma anche di quella di tuti quelli che mi circondano? Allora que-
sta vocazione a vivere mi provoca continuamente a dare risposte. La vita ricevuta
mi domanda: ‘ che ne vuoi fare di te? Insieme alle persone con cui condividi questo
dono della vita? Cosa rispondi al Creatore che ti manda continuamente segnali,
come quelli appunto che vedevamo prima, attraverso le persone che ti vogliono
bene a nome suo? Allora è responsabile anche colui o colei che, ringraziando per
tutto quello che ha ricevuto, cerca di rispondere impostando tutta la sua esistenza
perché essa realizzi veramente quella strepitosa promessa che conteneva fin dall’i-
nizio: la mia e nostra totale e piena felicità per sempre!”

                                    Osvaldo Songini, preside Scuola Primaria e SS1

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Il tema della responsabilità
nella Divina Commedia

Nei primi versi dell’Inferno, ci si fa incontro Dante agens, cioè personaggio, dentro
una selva intricata: tale smarrimento, allegoricamente, rappresenta l’amara condi-
zione di peccato, di totale disarmonia.
 Non sa spiegarsi come sia accaduto: il sonno, ovvero l’abitudine al male, gli aveva
intorpidito la coscienza e non si era reso conto d’avere abbandonato la verace via
(If. I 12).
Nella sua libertà, aveva scelto ingannevoli beni: e volse i passi suoi per via non vera,
/imagini di ben seguendo false, /che nulla promession rendono intera (Pg. XXX
130-32).
Presumendo che la ragione da sola fornisse tutte le risposte e, forte dell’altezza
d’ingegno, come il suo Ulisse, aveva tentato il folle volo dell’uomo che basta a se
stesso.
Dante, dopo aver sondato gli abissi del suo io, attraverso una terribile catabasi fino
al centro della terra, dov’è conficcato Lucifero, ed un arduo cammino penitenziale,
accompagnato da Virgilio, verrà proclamato dal maestro signore di se stesso: pie-
namente responsabile nell’operare le sue scelte, guidato da una volontà svincolata
dalla servitù del peccato, perché il suo arbitrio è ormai libero, dritto e sano (Pg.
XXVII 140).
Potrà quindi iniziare la sua ascesa di cielo in cielo, fino alla visio Dei, a congiungere
il suo sguardo con l’essenza divina. Si riconoscerà e ritroverà allora in Cristo, il solo
che, nel sublime mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, sollevi l’uomo, salva-
to, fino a Dio, riconsegnandolo al suo abbraccio paterno.
Qui Dante abbandonerà ogni pretesa razionale di comprendere nel Logos incar-
nato le due nature, divina ed umana. Riconoscendo che le sue penne non possono
portarlo a tale altezza, si abbandonerà all’illuminazione della Grazia ed all’amore di
Dio, nella totale armonia della beatitudine.
Dunque, l’autore della “Commedia” ha così a cuore il tema della responsabilità
dell’agire umano da rappresentarlo nella propria vicenda di caduta e di riscatto,
prima ancora che nei personaggi che ne animano l’opera, uomini e donne da lui
ritenuti realmente esistiti, anche quelli che popolano i miti, perché chi in vita ha
scelto, si è giocato il destino post mortem di salvezza o dannazione.
Vale a dire che il breve spazio della vita terrena è l’ambito in cui ciascuno, sulla base
del bene e del male operato, decide la propria condizione per l’eternità.
Come ha evidenziato Erich Auerbach nel suo fondamentale scritto Dante poeta

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del mondo terreno, l’autore della Commedia vi ha rappresentato tutta la realtà
terrena e storica a lui nota, già giudicata da Dio, come sarà nell’ultimo giorno, man-
tenendo nel destino escatologico di ciascuno, dannato, o destinato alla salvezza, o
beato che sia, la sua peculiare individualità.
Infatti, quelle figure, ormai giunte al compimento di sé nel giudizio divino, indelebili
nella memoria del lettore, non hanno perso nulla della loro personalità terrena e
storica che, anzi, ormai compiutasi nel giudizio divino, assume un valore esemplare
e può, pertanto, guidarlo nell’intricata selva della vita.
Dante, nella controversa Epistola XIII indirizzata a Cangrande della Scala, con cui
gli dedica il Paradiso e, ad un tempo, fornisce l’accessus alla Commedia, chiarisce
che il modus dell’opera è appunto exemplificativus, ovvero ricorre ad esempi, così
come in Pd. XVII vv.136-142 chiarisce che le anime incontrate nel viaggio oltremon-
dano son di fama note (v.138) perché non si dà credibilità ad un esempio scono-
sciuto o ad una argomentazione che non sia evidente.
È di fondamentale importanza, inoltre, il fatto che Dante dedichi l’intero canto XVI
del Purgatorio, che si colloca al centro della Commedia, proprio al tema del libero
arbitrio.
Nell’incontro con Marco Lombardo, viene chiarito che gli astri esercitano sugli uo-
mini solo un influsso iniziale. La responsabilità morale dell’individuo è svincolata
dal determinismo astrale, poiché l’intelletto resta del tutto libero di distinguere fra
bene e male, e la volontà di scegliere e perseguire l’uno o l’altro, come ben si coglie
in queste parole: lume v’è dato a bene e a malizia /e libero voler (Pg. XVI 75-76).
Nei canti successivi XVII e XVIII è la volta di Virgilio, che tratta il complesso tema
del rapporto tra amore e libero arbitrio, distinguendo tra amore naturale, in po-
tenza, ovvero tensione innata dell’animo, e amore in atto, ovvero d’elezione, che
sceglie l’oggetto d’amare ed implica, pertanto, una responsabilità morale.
Questo solo è passibile di giudizio e può degenerare nei sette peccati capitali.
Il tema dottrinale, complesso, assume implicazioni anche sul piano letterario, poi-
ché Dante auctor compie un’autocritica, superando la concezione cortese e stilno-
vistica, condivisa in gioventù, che ogni amore, se provato da un cuore nobile, sia
in sé laudabil cosa (Pg. XVIII 36). E’ ormai chiara la sua posizione: da perseguire è
solo l’amore-virtù.
Anche nell’Epistola XIII indica l’esercizio del libero arbitrio come subiectum della
Commedia secondo il senso allegorico, conferendole in tal modo un valore univer-
sale che travalica il tempo: il soggetto, di fatto, è l’uomo, in quanto, meritando e
demeritando liberamente, è sottoposto alla giustizia del premio o della pena.
Il poema sacro stesso può essere letto come esito della sofferta presa di coscienza
dell’Alighieri di una propria responsabilità di fronte a Dio ed all’umanità nel suo
ruolo di intellettuale e scriba Dei, voce profetica che interviene a scuotere il mon-

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do che mal vive (Pg.XXXII 103), sostituendosi alle due guide, Papa ed Imperatore,
venute meno al proprio compito.
Sicuramente lo stato di exul immeritus, allontanato dai beni più cari, se da un lato
è stato l’esito di un mondo caotico, dove anche la Giustizia è in esilio, dall’altro lo
ha portato a maturare il disegno della Commedia, una volta elaborato e sublimato,
come si coglie nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, e nel canto
XVII del Paradiso con chiara evidenza per bocca del trisavolo Cacciaguida.
La consapevolezza di Dante auctor di non poter essere timido amico del vero (Pd.
XVII 118), pur nella precaria condizione di chi è costretto a chiedere asilo ai potenti,
pervade di una straordinaria forza i versi in cui il suo antenato, dopo avergli chiarito
il doloroso destino che lo attende, lo sprona a rivelare, tornato nel mondo, tutta
la sua visione, incurante delle reazioni di chi si sentirà chiamato in causa, o per le
colpe proprie, o dei familiari.
Solo a questo prezzo, pagato in prima persona, Dante non verrà meno al proprio
compito, e la sua opera diverrà per l’umanità vital nodrimento…quando sarà dige-
sta (Pd. XVII 131-132), guidandola, attraverso il corretto esercizio del libero arbitrio,
alla felicità, cioè al Sommo Bene, unica fonte di autentica gioia.

                                                          Magda Bosisio, docente SS2

12
La responsabilità
nella spiritualità cristiana

Un bel racconto rabbinico mette in scena la colomba: la sera del grande Giorno
della creazione, la creaturina zampetta triste triste ai piedi del Creatore. Dal suo
Trono di fulgore le rivolge lo sguardo: “Che cosa c’è colombella?” “Sono triste, Si-
gnore del Cielo e della terra. Il gatto mi insegue”. “Uh! Hai ragione, colombella. Ecco
qui: ti regalo un paio di splendide ali. Vai e non essere più triste”. La colombella
è tutta contenta, ma la sera dopo viene ancora triste triste a zampettare ai suoi
piedi. “Il gatto mi insegue, sommo Creatore”. “Ma ti ho dato le ali…”. “Infatti, Signo-
re. Già prima, con queste due zampette così corte, era una fatica: adesso che ho
questi due cosi che mi pesano sulla schiena è pure peggio…”. E il Creatore, nel suo
sguardo di sconfinata tenerezza: “Ma colombella: io ti ho dato le ali non perché tu
le portassi, ma perché le ali portassero te…”. I rabbini concludono: Nella tradizione
Israele è spesso paragonato alla colomba, perché? Perché il Creatore ha donato
a Israele le ali della Torà, perché potesse volare alto e solcare i cieli della vita. Ma
Israele sente la Torà come un peso e se ne lamenta giorno e notte.

La nostra vocazione fondamentale è a volare alto. La vita ci chiede continuamente
di rispondere a questa vocazione fondamentale. Il nostro desiderio profondo è
di crescere, di spalancare le ali del desiderio ed esprimere il nostro potenziale di
avventurieri dell’esistenza, di esploratori del Mistero che freme in ogni cosa. La
dimensione religiosa della vita vuole accompagnare e favorire lo spalancarsi delle
ali al volo. Le ali tarpate sono il segno incontestabile di una schiavitù: e spesso chi
non vola è schiavo della paura.

Magari della paura di sbagliare. Di dover fare i conti con il Grande Censore che ci
scruta dall’altissimo trono della sua Implacabilità. Gesù ha messo in campo alcune
suggestioni, al riguardo: nella parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) racconta che il
terzo servo, che ha ricevuto una grande ricchezza – un talento equivale a circa 25
chili d’oro – si lascia bloccare dalla paura del padrone: “Sapevo che sei un uomo
severo”, gli dice, “perciò sono andato a nasconder sotterra la tua ricchezza. Eccola
qui, te la ridò intatta”. La paura è un prezioso sentimento, ma se diventa una pri-
gione le ali si bloccano, i desideri atrofizzano, e noi ci nascondiamo sotto le zolle
di molte scuse.

“Se guardassimo sempre il cielo finiremmo per avere le ali”, scriveva Flaubert. Il
Creatore ci chiama anzitutto ad osare l’avventura del volo.

                                                      Don Paolo Alliata, docente SS2

                                                                                      13
La responsabilità nei classici
della letteratura antica

Ogni scuola dovrebbe avere un “responsabile della felicità”.

Una persona in cui uno studente veda lo sguardo di chi è sempre alla ricerca e con
l’attitudine a respondere a ogni suo moto di sfiducia nei confronti del futuro. A
capitanare questo ufficio immaginiamoci un educatore che sia anche giardiniere
e veda ogni studentessa e ogni studente che varca tutte le mattine la porta della
sua scuola come fosse un albero, felix solo quando la sua natura gli fa dare frutti.
Si può essere felici quando si è fecondi di vita, di progetti e di amici in carne e
ossa, ma questi frutti germogliano solo se hanno radici ben salde nel ben-essere,
intimo e irripetibile di ciascuno.

Erodoto, nelle sue Storie del V sec a. C, racconta che un giorno Creso, il re della
Lidia famoso per la sua ricchezza, ospitò a corte Solone, il legislatore ateniese
famoso per la sua saggezza. Il re fece visitare al legislatore le stanze della reggia
dove teneva custoditi i suoi famosi tesori.

Al termine della visita Creso, con orgoglio e una punta arroganza, chiese a Solone
se avesse mai conosciuto un uomo più felice di lui. “Tello l’Ateniese è l’uomo più
felice che io abbia mai incontrato” rispose senza esitare Solone “un uomo sempli-
ce, che ha avuto la gioia dell’amore di una moglie, dei suoi figli e dei suoi nipoti,
morendo mentre combatteva con onore in difesa della propria città, dopo aver
visto crescere l’intero arco della generazione nata da lui. Un uomo - concluse So-
lone guardando dritto negli occhi il re sbigottito- che ha saputo gioire della felicità
quotidiana e duratura”. Poi aggiunse: “Creso caro, di te non potrò dire nulla prima
del tuo ultimo giorno di vita. Per ogni cosa bisogna sempre considerare la fine e,
soprattutto, non confondere la felicità con la fortuna”.

I Greci con le parole ci sapevano fare e ne avevano più d’una per raccontare le
forme della felicità. A me piace quella che descrive Tello come ólbios. La sua bíos,
la sua vita, è olon, completamente piena di gioie quotidiane da cogliere. È piena di
amore, rispetto, visione, relazioni umane sine cera, senza trucco e sincere, quelle
dove si mette a nudo l’anima. Quest’uomo greco è paradigma senza tempo di una
felicità che è contemporaneamente un augurio di cui ogni educatore però, profes-
sore o genitore che sia, sente le vertigini della responsabilità di mettere in luce la
parte di un alunno o di un figlio che è lì, pronta a germogliare.

Chi ha esperienza con i giovani sa bene che il ben-essere è spesso questione di
auto-stima: è così difficile capire il proprio valore e averne stima! Con il tempo

14
mi sono costruita l’idea che essere responsabili di o per qualcuno può semplice-
mente voler dire esserci. La nostra presenza è una risposta, forse la più preziosa,
per far cogliere ai nostri ragazzi il loro kairós, quel momento opportuno per osare
essere felice.

I Greci, con la loro solita fantasia, immaginavano questo momento come un gio-
vane ragazzo bellissimo, che cammina su un asfera, con le ali ai piedi, i capelli
lunghi sulla fronte e rasati sulla nuca per essere difficile da acciuffare e un rasoio
nella mano destra, sottile e tagliente come può esserlo il momento propizio per
ciascuno.

                                                   Cristina Dell’Acqua, docente SS2

                                                                                    15
La responsabilità
come categoria filosofica

Il concetto di responsabilità non ha goduto di uno sviluppo tematico specifico nel-
la maggior parte dei grandi autori che i nostri ragazzi incontrano nel loro percorso
di filosofia. Lo si trova in relazione alla problematica della libertà umana, come suo
corollario: si può parlare di responsabilità solo in presenza di libere scelte, dato che
nessuno può essere considerato responsabile di qualcosa che non è dipeso da una
sua decisione. Incontriamo il termine “responsabilità” nel dibattito specificamente
filosofico in Kant che lo utilizza però nell’ambito giuridico-politico, lo stesso ambito
nel quale continueremo ad incontrarlo dopo di lui fino ai nostri giorni.
Ci sono due autori che fanno eccezione e che hanno invece messo a tema della
loro indagine filosofica la nozione di responsabilità: sono Lévinas, del quale non
posso occuparmi per motivi di spazio, e Jonas. Il capolavoro filosofico di Hans
Jonas (1903-1993) - Il principio responsabilità. Ricerca di un’etica per la civiltà tec-
nologica - è interamente dedicato al concetto di responsabilità e mantiene, a qua-
rant’anni dalla sua pubblicazione avvenuta nel 1979, una impressionante attualità.
Il punto di partenza di Jonas è la constatazione del mutato rapporto tra uomo e
natura intervenuto con la rivoluzione scientifica iniziata nel 1600: da allora in poi
l’uomo rompe il rapporto di passiva soggezione che aveva nei confronti della na-
tura per assumere un atteggiamento di dominio e di sistematico sfruttamento a
proprio vantaggio. Il filosofo Francesco Bacone (1561-1626) lo dice a chiare lettere:
sapere è potere, non ha più senso una conoscenza slegata dalla tecnica. Poco più
di un secolo dopo la rivoluzione industriale inizia la grande trasformazione del
mondo conseguente a questa nuova visione della conoscenza. Prometeo, che rubò
il fuoco agli dei per darlo agli uomini, è il simbolo della rivoluzione industriale che
dalla seconda metà del Settecento fino ad oggi continua senza sosta il suo corso.
Il punto cui è arrivata questa rivoluzione pone però oggi problemi del tutto nuovi
perché l’azione dell’uomo sulla natura sta mettendo a rischio la possibilità stessa
della vita. Jonas indicava nel suo libro i rischi di un conflitto nucleare, lo sfrutta-
mento esaustivo delle risorse naturali, la concimazione chimica selvaggia, la defo-
restazione, l’effetto serra. Oggi potremmo non solo allungare l’elenco, ma anche
renderlo più terribile con la constatazione di quanto quelle stesse minacce si sono
aggravate nell’arco di quarant’anni.
Le parole con le quali Jonas iniziava il suo libro mantengono intatto il loro valore:
“Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza
precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che me-
diante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per
gli uomini. La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato
con il suo smisurato successo la più grande sfida che sia mai venuta all’essere

16
umano dal suo stesso agire”. Religioni e filosofie hanno in passato indicato agli
uomini regole morali incentrate sulla coscienza e sulle intenzioni, mettendo in se-
condo piano le conseguenze non immediate delle azioni e dei comportamenti. Ora
questo è insufficiente e rischia di svuotarsi di significato: ci avviciniamo sempre di
più al momento in cui potrebbe non esserci più un prossimo da amare, nè regole
morali o religioni da seguire perché è la vita umana in quanto tale ad essere in
grave pericolo. L’imperativo categorico di Kant diceva: “agisci in modo da tratta-
re l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come
fine e mai semplicemente come mezzo”. Ineccepibile, ma insufficiente perché, dice
Jonas, “strutturalmente miope”, incapace di vedere lontano. Il nuovo imperativo
categorico proposto da Jonas dice: “Agisci in modo che le conseguenze della tua
azione non distruggano la possibilità futura della vita sulla terra”. “Il primo impera-
tivo categorico è che esista un’umanità”.
Questo nuovo obbligo è sintetizzato nel concetto di responsabilità. È la responsa-
bilità che ci indica la direzione della cura per tutta l’umanità e non solo per il no-
stro prossimo. È nostra responsabilità pensare alle generazioni future nello stesso
modo in cui è responsabilità dei genitori proteggere i propri figli e rendere possibi-
le la loro vita. E questa responsabilità può esprimersi solo attraverso il rifiuto dello
“spietato antropocentrismo” e dell’”utopismo tecnologico” che ha fatto coincidere
il progresso umano con il progresso tecnologico e con la crescita economica. Un
utopismo che ha scambiato il mezzo (lo sviluppo tecnologico e la crescita econo-
mica) con il fine (la vita, una vita autenticamente umana) e che ha coinvolto nello
stesso modo le società comuniste del secolo scorso e quelle capitalistiche.
Ma come giustifica Jonas il suo imperativo etico? Per quale motivo dovremmo fare
sacrifici per uomini che non sono ancora nati e che come non esistenti non posso-
no certo godere di diritti o essere oggetto di rispetto o amore? “Perché abbiamo
un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora, né in sé ha bisogno di esistere, e co-
munque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? (…) Non è affatto facile
dare una fondazione teorica a questi perché”. È evidente che la fondazione di que-
sta morale non può essere di tipo utilitaristico. Jonas riteneva che solo convinzioni
di tipo metafisico o religioso potessero costituire un fondamento: la convinzione
che l’essere in quanto tale sia bene, che la vita umana sulla terra sia un valore irri-
nunciabile e che sia nostro compito, nostra responsabilità, salvaguardarla.
L’applicazione del principio responsabilità descritto da Jonas imporrebbe muta-
menti radicali nei nostri stili di vita e di consumo. Non basterebbero scelte in-
dividuali, che per quanto meritorie non hanno possibilità realistiche di incidere
sostanzialmente sul corso degli eventi. Sarebbero necessarie decisioni prese con-
cordemente da tutti gli stati del mondo e fatte rispettare con forza di legge. E il
discorso etico diventerebbe inevitabilmente politico.

                                                      Massimo Gianotti, docente SS2

                                                                                      17
La storia: un esempio di responsabilità
in Dietrich Bonhoeffer

Germania meridionale, campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945. A
pochi giorni dall’arrivo delle truppe alleate, cinque uomini si avviano, completamen-
te nudi, al patibolo. L’ordine di condanna a morte è giunto direttamente da Berlino.
Il più anziano dei cinque, l’ammiraglio Wilhelm Canaris, fino al febbraio 1944 era
stato il capo dell’Abwher, il potente controspionaggio militare tedesco. Nel 1939,
dopo aver scoperto le atrocità commesse dalla Wehrmacht e dalle SS in Polonia,
aveva iniziato a congiurare in segreto contro il regime nazista, avvantaggiandosi
del suo ruolo per stabilire contatti con l’intelligence britannica e per salvare, per
quanto possibile e forse maldestramente, l’onore della Germania. Hans Oster, Lu-
dwig Gehere e Karl Sack, incamminati davanti a lui verso il luogo dell’esecuzione,
sono tre alti ufficiali coinvolti (come lo stesso Canaris) nel complotto che aveva
portato all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. L’ultimo condannato è giovane, ha
solo trentanove anni, ed è un teologo luterano: si chiama Dietrich Bonhoeffer. La
loro fine, avvenuta per soffocamento mediante una corda di pianoforte, è terribile,
resa ancor più atroce dal rimbombo dell’artiglieria pesante americana in avvicina-
mento, il suono beffardo della salvezza a portata di mano. L’agonia, volutamente
prolungata dal medico del lager, incaricato di fermare il boia ogniqualvolta stesse
per sopraggiungere la morte, risulta infinita. Lo stesso medico, riferendosi a Bonho-
effer, dichiarerà successivamente: “Nella mia professione di quasi cinquant’anni non
ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio”. Sebbene su questa afferma-
zione gravi, pesante, il sospetto d’essere stato un tentativo ipocrita da parte sua
per sgravarsi la coscienza, non abbiamo elementi per dubitare della serenità di quel
giovane uomo di fronte all’estremo sacrificio. Qualche mese prima, da una cella
del carcere berlinese di Tegel, Bonhoeffer scriveva agli amici e alla fidanzata Maria
intensissime lettere sulla storia, sulla fede, sulla vita responsabile, su don Chisciotte
e Sancho Panza. Temi che impegnavano la sua riflessione da anni. Essere respon-
sabili, per lui, non significava fare genericamente il bene. Anche perché, rifletteva,
che cos’è il bene? Un principio assoluto, identificabile a priori e applicabile incon-
dizionatamente? Troppo astratto e pericoloso: dopotutto, anche i criminali nazisti
erano convinti di sapere cosa fosse il bene e agivano di conseguenza. “Quello che
ci interessa non è di sapere che cosa sarebbe il bene se noi non vivessimo, ossia
in condizioni ipotetiche […]. Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma
che cosa sia bene nella vita così com’è per noi che viviamo”. Per Bonhoeffer la
questione è molto chiara: il bene è qualcosa che dev’essere colto in ogni istante
dentro l’esistenza concreta. Aggiunge subito dopo: “Noi dunque ci interroghia-
mo riguardo al bene non già facendo astrazione dalla vita, ma impegnandoci in
essa”. Impegnarsi nella vita. Sono parole grosse, che pongono subito la questione,
drammatica e avvincente, del rapporto con la Storia. Se fare il bene significa infatti
impegnarsi con la vita, ciò vuol dire che la responsabilità si gioca nel saper ricono-

18
scere il bene in ciò che accade intorno a noi, dentro le nostre particolari circostanze
esistenziali. Qui Bonhoeffer fa emergere la sua profonda sensibilità teologica, che
naturalmente legge le vicende storiche come la modalità attraverso cui Dio entra
nella realtà del mondo. Il bene non è dunque affermare “ciò che sarebbe buono una
volta per tutte, ma come Cristo prenda forma tra noi oggi e qui”. Le forme storiche
di questa presenza possono essere le più disparate e inaspettate (volti, drammi,
incontri, fatti, circostanze, amori, insomma il tessuto intero dell’esistenza, la grande
“polifonia della vita”): ecco perché il bene non può essere un già saputo, un ideale
astratto, costituendosi invece come una continua, quotidiana tensione a riconosce-
re le forme sempre nuove di Dio, lasciando ad esse spazio. L’uomo è quindi in ogni
istante interpellato dalla storia, che Bonhoeffer chiama Destino (das Schicksal) e
che, la sfida sta proprio qui, supera ogni capacità di comprensione. Il Destino, l’ac-
cadere di Dio nella storia - nella grande Storia, così come nella storia di ciascuno
- ha un qualcosa fuori dalla nostra portata, un ché di eccedente, di incomprensibile:
l’uomo di fronte alla storia è l’uomo di fronte all’incommensurabile mistero di Dio.
Davanti ad esso non possono esserci posizioni preconcette, ma solo un’integrale
disponibilità. Bonhoeffer irride i don Chisciotte (quelli che si oppongono alla realtà
ad ogni costo, “fino al non-senso, anzi alla follia”) e i Sancho Panza (quelli che, al
contrario, “si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che accade”), proponendo in-
vece l’immagine di un uomo teso a conformarsi a Dio in ogni circostanza storica,
resistendo laddove necessario e arrendendosi all’imperscrutabile, nella certezza di
essere sempre in compagnia di Cristo. Una responsabilità, in fondo, riecheggiata
nella famosa preghiera composta negli stessi anni da un altro pastore protestante,
il tedesco-americano Reinhold Niebuhr: “Dio, concedimi la serenità di accettare
le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la
saggezza per riconoscere la differenza”. Quella di Bonhoeffer non fu una proposta
puramente teorica: egli impegnò l’intera sua vita in questa fiduciosa risposta a Dio,
dapprima aderendo alla cosiddetta “Chiesa confessante”, la comunità evangelica
tedesca che si opponeva al sostegno dato dalla chiesa ufficiale al regime, quindi
sostenendo la resistenza anti-nazista attraverso scritti e conferenze, animando nel
contempo molte iniziative in favore degli ebrei. Infine, nel 1939, quando già si trova-
va negli Stati Uniti come “docente ospite”, decise di fare ritorno in Germania, giac-
ché la coscienza gli impediva di stare alla finestra mentre il suo popolo sprofondava
nell’abisso della barbarie. Si unì al gruppo di resistenza legato all’ammiraglio Ca-
naris. Il 5 aprile 1943, fu arrestato dalla Gestapo. Dietrich Bonhoeffer era convinto
che la responsabilità fosse possibile “soltanto mediante il dono totale della propria
vita al prossimo”. Lo fece: donò la sua giovane esistenza, fino al sacrificio estremo,
testimoniando al mondo la ricchezza di una vita responsabile.

                                                       Andrea Beneggi. docente SS2

                                                                                      19
Le Scienze Umane:
Responsabilità

Siamo come «passeggeri di un aereo quando scoprono che la cabina di pilotag-
gio è vuota e che la voce rassicurante del capitano era solo la ripetizione di un
messaggio registrato molto tempo prima»1. Con questa metafora il grande socio-
logo contemporaneo Z. Bauman vuole riassumere la nostra condizione di uomini
contemporanei. L’analisi del sociologo polacco punta l’accento sul fatto che nella
nostra epoca post moderna tutto cambia molto velocemente e che i grandi pilastri
morali, etici, religiosi e politici non esistono più e al loro posto ci sono solo parole e
forme vuote il cui contenuto cambia molto velocemente come un continuo flusso
senza un’origine e una fine. Non a caso il termine da lui più utilizzato come chiave
di lettura della nostra epoca è “liquido” e una delle sue più celebri frasi sentenzia:
«La modernità liquida è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa perma-
nente e che l’incertezza è l’unica certezza»2.

L’origine di questa situazione, secondo Bauman, è la crisi del concetto di comu-
nità e come effetto più evidente la responsabilità liquida, cioè una responsabilità
che da decenni ciascun individuo ha demandato ai piloti di turno (politici, finanza,
economia, diritto, pace, democrazia, tradizione) salvo poi accorgersi drammatica-
mente che la cabina di pilotaggio era vuota e rimanere da solo a dover affrontare
problemi enormi. È come andare in guerra credendo di essere a capo di un bat-
taglione invincibile e nel momento decisivo girarsi e stupirsi di essere da soli nel
campo di battaglia.

Bauman non è un sociologo dalle risposte facili e in diverse occasioni avverte il
lettore di non possedere una medicina per questa nostra società malata e soffe-
rente; nello stesso tempo, indica alcune strade da costruire e alcuni “muratori” da
cui imparare. La più importante delle vie da aprire è quella della costruzione di una
nuova comunità, di una società generata da una rinnovata capacità di creazione di
comunità nelle quali gli individui accolgono l’alterità. In questo gioca un ruolo cen-
trale la riscoperta del senso della responsabilità. Questa riscoperta può emergere
dall’osservazione dello sviluppo della vita dell’individuo all’interno della società.

Innanzitutto non è banale osservare che ciascun individuo viene al mondo come ere-
dità di altre individualità; ciascuno di noi è frutto dell’incontro di altri e nel rapporto
con questi altri si sviluppa la nostra vita. Se si osservano i bambini si nota che ogni
loro agire è determinato dal rendere conto ai genitori delle proprie azioni. Quando
un bambino comincia a disegnare mostra i suoi “capolavori” ai genitori, e quando im-
para a saltare si esibisce in continuazione con grande entusiasmo davanti alla platea
dove risiedono mamma e papà; anche quando rovescia la tempera sul pavimento

20
aspetta il disappunto della madre, e quando lascia partire una sberla al malcapitato
fratellino o sorellina osserva intimorito il rimprovero del padre.

Col passare degli anni le figure adulte di riferimento aumentano e la dinamica si
ripresenta identica: a scuola lo scolaro deve rendere conto ai docenti dei compiti
svolti oppure non svolti e vuole rendere partecipi i suoi educatori delle scoperte che
costellano l’avventura dei primi anni di scuola. Nella fase dell’adolescenza, general-
mente, i rapporti con i genitori diventano burrascosi e ciò sottolinea nuovamente
la presentazione delle scelte e dei giudizi al tribunale di altri. Nell’età adulta questo
movimento diventa fecondo in quanto l’agire è indirizzato verso gli altri siano essi
colleghi, la moglie, il marito, i figli, le persone bisognose, gli amici, la politica, l’eco-
nomia ecc.

Da questa analisi possiamo quindi evincere che, sia all’origine sia in ogni istante
dello sviluppo della vita all’interno della società, le azioni sono sollecitate e abitate
dagli altri. Ogni nostra mossa all’interno della società è motivata dagli altri e orien-
tata verso di loro. Noi siamo continuamente interpellati da altri e in continuazione
ci muoviamo verso gli altri.

Bauman ridefinisce il concetto di responsabilità riferendosi a Levinas che affermò:
«il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad
un volto che mi guarda come un estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi
due momenti»3.

Nel suo tentativo di ridefinire un nuovo concetto di soggettività Levinas affermò
che nel soggetto risiede l’apertura all’altro poiché gli altri sono sempre all’origine
del soggetto e la responsabilità si ridefinisce quindi nel connettere il proprio essere
con l’essere degli altri; il volto degli altri ci chiede di prenderci cura di loro in quan-
to l’altro è «prima di tutto colui di cui sono responsabile»4. L’habitat naturale della
responsabilità, secondo Levinas, è l’originario e sempre attuale rapporto con gli
altri nel quale l’io si struttura ed è sollecitato a rispondere prendendosi cura di loro.

Questo affondo si contrappone ad un preconcetto presente nella nostra società:
l’assunzione di responsabilità è un ostacolo alla realizzazione personale. Lo psica-
nalista Massimo Ammaniti, in una recente intervista di Antonio Polito sulla nostra
società “senza genitori”, sottolinea come siano in aumento le persone che «non
vogliono figli perché trovano più bella la vita senza, o li vogliono il più tardi possi-
bile, e spesso è troppo tardi»5.

Le analisi di Levinas invece propongono un modello opposto nel quale la responsa-
bilità è necessaria per il nostro sviluppo; non quindi un appuntamento da rimanda-
re ma una condizione strutturale di cui rendersi conto e da attuare costantemente.

Possiamo quindi sintetizzare che la nostra responsabilità si fonda nel rapporto
con gli altri e si presenta come la risposta di qualcosa a qualcuno che ci interpella

                                                                                           21
e ci chiama in causa. All’immagine della responsabilità liquida possiamo quindi
sostituire una rappresentazione calcistica: siamo come giocatori di una squadra
che in ogni istante si rendono conto che il proprio gioco è attivato dai compagni
e si indirizza nei confronti di essi secondo una dinamica di risposta di qualcosa a
qualcuno senza soluzione di continuità.

                                                                          Matteo Pirovano, docente SS2

_________________________________________________________________________________
1
    Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli Editore, 2000, pag. 28.
2
    Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pag. 67
3
    E. Levinas, Totalità e infinito, Milano, Jaka Book, 1977, pag. 215.
4
    E. Levinas, La mia responsabilità verso l’altro, Aut-Aut sett.-dic. 1985.
5
 M. Ammaniti, Violenze e social: ecco la società senza genitori, intervista di A. Polito, Corriere della
sera, 02/06/2019.

22
Educare i Bambini alla responsabilità:
un esempio pedagogico

“Ha mostrato scarso senso di responsabilità”, “Ti senti di prenderti questa re-
sponsabilità?”, “Volle assumersi la responsabilità dell’accaduto”, “La responsabilità
dell’incidente è sua”.
Quante volte utilizziamo il termine responsabilità e quante volte ci chiediamo cosa
si intende esattamente con questo termine; e cosa facciamo, in veste di educa-
tori, per fare in modo che i nostri alunni acquisiscano e interiorizzino “il senso di
responsabilità”.
La responsabilità può essere definita come la “possibilità di prevedere le conse-
guenze del proprio comportamento ed essere in grado di modificarlo sulla base
di tale previsione”. Ciò sottintende anche il saper assumersi le conseguenze del
proprio agito e il saper rendere conto delle proprie scelte.
Educare i bambini alla responsabilità è un obiettivo ambizioso, ma fondamentale,
che si raggiunge giorno dopo giorno, attraverso piccoli e importanti passi che
devono condurre alla crescita di una personalità armonica e solida, basata sulla
consapevolezza dei diritti e dei doveri propri e altrui.
Essere responsabili significa, infatti, comprendere i bisogni degli altri, imparando
a calibrare e a gestire le proprie azioni, in modo tale che non vadano a lederne il
rispetto; in poche parole: imparare ad essere coscienti di ciò che si fa.
In che modo è possibile educare anche i più piccoli al senso di responsabilità?
Il buon esempio è sicuramente il primo intervento che possiamo e dobbiamo met-
tere in atto, preoccupandoci di rendere chiari e manifesti i diversi termini della
valutazione; di adottare criteri di giudizio sensati e coerenti con cui dare senso e
significato alle nostre azioni. Il buon esempio, inoltre, non può esimersi dall’esse-
re la testimonianza di chi, coerentemente con le regole proposte, esercita com-
portamenti concreti, attraverso i quali, soprattutto i più piccoli, siano in grado di
comprendere quanto sia pro-sociale il rispetto di un sistema normativo, in virtù
del quale passare dall’eteronomia all’autonomia. È certo possibile educare con le
parole; sicuramente si può essere più incisivi con quello che si fa, ma è indubbio
che si lascerà un segno indelebile mostrando quello che si è.
Le esperienze personali sono importanti per imparare a fare scelte, a gestire i con-
flitti, a conoscere ea d accettare le differenze, a confrontarsi con l’altro. L’autono-
mia, la fiducia in se stessi e il desiderio di mettersi alla prova e sperimentare, sono
quei preziosi elementi che, se ben equilibrati, possono essere fondamentali per la
creazione di persone determinate, sicure di sé e capaci di avere passioni e ideali.
A qualsiasi età ci sono delle regole che si devono conoscere e rispettare con un

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