Imperativo presente! Strumenti di lavoro per progettare l'anno scolastico 2019/2020 - Collegio San Carlo
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Imperativo presente! Strumenti di lavoro per progettare l’anno scolastico 2019/2020
Indice Imperativo presente! pag. 04 “Mi può fare un esempio?” pag. 07 Il tema della responsabilità nella Divina Commedia pag. 10 La responsabilità nella spiritualità cristiana pag. 13 La responsabilità nei classici della letteratura antica pag. 14 La responsabilità come categoria filosofica pag. 16 La storia: un esempio di responsabilità in Dietrich Bonhoeffer pag. 18 Le Scienze Umane: Responsabilità pag. 20 Educare i bambini alla responsabilità: un esempio pedagogico pag. 23 Forever Young pag. 26 La responsabilità nel linguaggio artistico pag. 29 La responsabilità nella letteratura inglese: l’esempio del Signore degli Anelli pag. 33 Scienza e responsabilità: le scelte dello scienziato pag. 35 Responsabilità come categoria psicologica pag. 37 Responsabilità: pedagogia dei “primi passi” pag. 39 La Responsabilità in educazione: questione di sguardi pag. 41 La Responsabilità di accompagnare: il seme, il tempo, la scelta pag. 43 Intervento dell’Arc. Mons. Mario Delpini all’incontro con il personale del Collegio San Carlo in occasione della celebrazione dei 150 anni pag. 46 3
Imperativo presente! Lo strumento che più di tutti accomuna chi lavora nella scuola è il calendario: chi lo ha cartaceo, chi digitale, chi colorato, chi se lo fa gestire da altri… tutti però vivono una sorta di “tirannìa” dei giorni e dei mesi che trascorrono, che ritmano i programmi e le attività. La scuola, così come è strutturata, spesso rischia di fare del calendario stesso l’unico elemento (e a volte criterio) di progettazione di riflessio- ne educativa e didattica. Le cose si fanno se ci stanno nelle agende! E’ importante non improvvisare, programmare per tempo, fare in modo che le cose siano ben strutturate perché anche da questo dipende la qualità della nostra proposta edu- cativa. Tuttavia, per una scuola come il San Carlo, il calendario (o la programmazio- ne) non deve essere l’unico criterio di progettazione e programmazione di un anno scolastico; ecco perché il tema dell’anno o lo “sfondo integratore” (comunque lo si voglia chiamare) non è solo il titolo di copertina ma un vero e proprio criterio e orizzonte e di lavoro. Il nostro essere scuola cattolica (ed in particolare della Chiesa Diocesana) non è appellativo di un retaggio storico, non è nemmeno (o almeno in parte non lo è più) aggettivo attrattivo ma è la radice del nostro modo di fare scuola, e quindi ha a che fare con la nostra vocazione (o mission) di annunciare la Buona Novella all’interno di una esperienza culturale e umana forte e avvincente e per questo riconoscibile e attrattiva. Lo abbiamo imparato in questi anni e la cartellonistica e simboli ci hanno aiutato. Abbiamo iniziato nell’anno scolastico 2017/2018 con il tema dei desideri, ci hanno accompagnato le stelle con il loro invito a guardare verso il cielo. Ho sempre detto che avere a che fare con i desideri vuol dire avere a che fare con il futuro. Poi in questo anno appena concluso abbiamo guardato alla terra, alle nostre radici e alla nostra storia, occasione dei 150 anni per riscoprire l’esercizio di una memoria che diventa gratitudine e sostiene il cammino. Il prossimo anno sarà il presente il tempo su cui lavoreremo. Futuro, passato e presente sono le dimensioni di un’esistenza: è vero, e chi ha fatto dell’educazione anche una professione, sa bene che in una relazione educativa è difficile distinguere i tre momenti; noi lo abbiamo fatto, quasi forzando anche la realtà, come se fosse un esercizio pedagogico esposto ai rischi dell’accademica, ma ben consci che futuro, passato e presente sono grammatica di ogni stagione della vita. Il presente quindi. Per noi cristiani il presente non è qualcosa da evitare, da do- minare o ancora peggio da fuggire. E’ il luogo dove ancora lo Spirito cova come grembo del bene. Con lo Spirito si guardano le cose scoprendone la loro potenzia- lità e le si valorizzano. Proprio in questi giorni, leggendo un libro, mi è tornato tra mano un testo di C.S.Lewis tratto dalle sue Lettere di Berlicche: si tratta di un’o- 4
pera geniale dello scrittore inglese in cui si immagina uno zio diavolo che scrive al nipote che sta imparando l’arte del tentare gli uomini. Nel suo linguaggio tutto è rovesciato e il “Nemico”, ovviamente è il Padre Celeste “Gli esseri umani vivono il tempo, ma il nostro Nemico li destina all’eternità. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: della eternità stessa e di quel punto del tempo che essi chiamano presente. Il presente è infat- ti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro Nemico ha della realtà intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà la realtà. Egli vorrebbe perciò che essi fossero continuamente occupati o con l’eternità (il che vuol dire essere occupati di Lui) o con il presente – o che meditino sulla loro eterna unione con Lui, o sulla separazione da Lui, oppure che obbediscano alla voce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere presente. Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente”.1 L’insegnamento continua mutuando i consigli dello zio che spiega che soprattutto il futuro (il tratto tra il presente e l’eterno) sia la cosa in cui bisogna che si concentri l’attività tentatrice, sicché uno viva di nulla. E’ proprio questa la tentazione da fuggire, il pensare che il presente non sia il luogo in cui poter già orientarsi non solo al futuro ma renderlo possibilità di sperimentare l’eterno. Spesso sono i luoghi comuni, o il pensiero più diffuso secondo l’aria che tira al momento gli unici criteri con cui guardiamo il tempo, per esempio moti- vando un ottimismo del progresso che si immagina che andrà sempre meglio o un reiterato pessimismo della decadenza che si immagina che oggi le cose vanno male, ma domani andranno senz’altro peggio). Per noi cristiani il futuro è la terra promessa (il Regno di Dio, la dimora preparata da Gesù, la gloria, la risurrezione, la gioia perfetta ed eterna, la vita di Dio, la vita eterna). La terra promessa, la vita eterna, non sono nomi per indicare un luogo che sta negli anni a venire (futuro e aspettativa), né alle spalle (passato e nostalgia), né in “cielo” (sogno, realtà virtuale e evasione dalla storia). La terra promessa è la comunione con il Padre per opera di Spirito Santo: quindi si tratta di una relazione, di una alleanza che trasfigura il presente, il passato e il futuro. Se c’è una terra promessa, se la promessa è affidabile, pensare per il futuro signifi- ca mettersi in cammino, significa vivere il pellegrinaggio, l’esodo. Contro la rasse- gnazione. Se c’è una promessa, pensare per il futuro significa vivere come persone chiamate che possono rispondere, la libertà della risposta alla vocazione. Contro il determinismo. Se c’è un tempo da vivere, una storia da abitare, pensare per il futu- ro significa esercitare la responsabilità di mettere a frutto i talenti ricevuti. Contro la sottovalutazione di sé.2 Vorrei che quest’anno l’attenzione sul “tempo presente” abbia dentro di sé questo richiamo alla responsabilità, personale, comunitaria e sociale. La parola “respon- sabilità” è la grammatica con cui in una vita si costruisce quella risposta ad una 5
chiamata che è innanzitutto chiamata all’amore di Dio. Ciò che qui scrivo non ha niente a che vedere con un tratto etico o moralistico: essere capaci di responsabilità non ha solo a che fare con i singoli gesti ma ha che fare con il fondamento ultimo della nostre vite. Faccio un esempio: in questi ultimi tempi, complice anche la maggiore attenzione mediatica, il tema della salvaguar- dia dell’ambiente sta muovendo coscienze e avviando processi di buone pratiche. Ottima cosa; è vero anche però che noi Cristiani abbiamo una responsabilità mag- giore (per certi versi anche colpe maggiori), per noi l’ambiente non è solo fine a sé stesso ma è il Creato, opera di un’artista, luogo in cui prende forma la storia della salvezza. Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato Sìì” lo ha chiarito bene. Responsabilità allora è innanzitutto risposta ad una chiamata alla Vita, che poi si traduce in comportamenti, gesti e regole. Ho chiesto ad alcuni colleghi un contributo a questo mio avvio di riflessione chie- dendo loro dei brevi testi (che trovate in questo libretto) che ci aiutino in quell’e- sercizio, innanzitutto personale e poi collegiale e comunitario, di riflessione sui contenuti che successivamente diventeranno, dentro le esigenze e la creatività dei singoli, veri e propri progetti ed esperienze didattiche ed educative. L’arte, la lette- ratura, i grandi classici, la spiritualità cristiana e la filosofia, la sapienza pedagogica e le scienze umane sono gli ambiti entro cui ciascun collega ha cercato di declinar- le il significato della parola “responsabilità”. Un tentativo, di certo non esaustivo, di affrontare questo argomento anche in diverse discipline e da differenti prospettive ricercando l’unità dei saperi nella figura di umanità realizzata in Gesù. Certo non è il romanzo o il giornale da leggere sotto l’ombrellone ma i prossimi mesi dedicati al risposo e alla custodia degli affetti possono essere l’occasione propizia e feconda per avviare la riflessione e stimolare la creatività. Don Alberto, rettore _________________________________________________________________________________ C.S.Lewis, Le lettere di Berlicche, ed.Jaca Book 1 2 M.Delpini, intervento al Convegno organizzato da Tribunale e Procura per i Minorenni di Milano Te- atro I.P.M. “Cesare Beccaria” Milano – 6 giugno 2019 6
“Mi può fare un esempio?” Uno studente un giorno mi ha chiesto: “Ma cosa vuol dire responsabile?” Gli ho ri- sposto semplicemente così: “Vuol dire essere capace di dare risposte”. “Risposte a che cosa?” insisteva lo studente. “Risposte ad un invito, ad una chiamata, ad una azione che ti ha provocato. Solo chi sa dare risposte vere, esaustive, convincenti, potrà essere definito responsabile”. “Mi può fare un esempio?” mi chiese in un at- teggiamento tra la sfida e l’attesa. Come dire: “Vediamo se mi sa dare lui risposte davvero convincenti o se è la solita raccomandazione adulta un po’ trita e ritrita su come bisogna essere seri, diligenti, obbedienti…” Ho raccolto entrambi i suoi ap- procci alla questione e ho cominciato così. “Vedi, al mattino quando ti svegli, la mamma o il papà ti chiamano perché è ora di alzarsi, bisogna andare a scuola, non si può fare tardi. Che cosa rispondi tu? Fai come alcuni che si girano dall’altra par- te, a volte persino senza rispondere? Oppure svogliatamente dici: “Ancora cinque minuti!” Ho sonno, non sono ancora del tutto sveglio, oppure “uffa, ma è già ora? È presto! Dai…aspetta ancora un pochino!” e così via... Che tipo di risposte sono que- ste? Come le potremmo definire in rapporto alla motivazione che stava dietro alla domanda? E se invece tu rispondessi: ‘Va bene, mi alzo subito’, oppure ‘ ok, grazie, mi preparo immediatamente’. Queste che tipo di risposte sarebbero rispetto alle precedenti? È vero che si tratta sempre di risposte, ma quale delle due tipologie ha intercettato la ragione profonda della chiamata o dell’invito dei tuoi genitori?” “Si- curamente le seconde” mi disse lo studente “Perché hanno accolto e accettato l’invito, che aveva uno scopo positivo, e hanno cominciato ad attuarlo per realizza- re un bene”. “E che esito avrebbero avuto invece le prime?” ripresi io. “Quello di farmi arrivare in ritardo a scuola, creando problemi un po’ a tutti: innanzitutto a me, poi ai miei compagni, ai miei docenti e alla mia famiglia perché sarei stato richia- mato con note disciplinari”. “Bravo!” dissi io, “hai colto il nocciolo della questione! Chi sa dare risposte costruttive per un bene personale o comune è una persona responsabile. Ti faccio un altro esempio – aggiunsi – i tuoi docenti spesso ti chia- mano e ti rivolgono delle richieste. Ti domandano di studiare questa o quella lezio- ne, di eseguire questo o quell’esercizio per una determinata data. Che risposte sai offrire a queste richieste? Poi magari a casa i tuoi genitori riprendono anch’essi l’invito e ti sollecitano a fare i compiti, a non perdere tempo, ad onorare quanto indicato dai docenti. E tu che risposte sai dare? Sei uno o una che approccia la questione in modo negativo? Oppure offri una disponibilità parziale e quindi calco- li a cosa dire di sì e a cosa dire di no in base ai tuoi impegni, alle tue preferenze, alle probabilità o meno di un’interrogazione? E quindi neutralizzi la portata della do- manda accogliendone solo e unicamente quello che ti sembra più utile ed oppor- tuno? Oppure offri una risposta piena e generosa con una disponibilità aperta an- che alla fatica di abbracciare in prospettiva anche quello che ti appare più faticoso e meno immediato? Se valuti anche in questo caso il bene che ha fatto scattare la domanda e le richieste, sapresti ancora una volta indicare le risposte più capaci di 7
realizzarlo in pienezza per un appagamento personale e collettivo più completo e ricco.” “È vero” – mi disse- “ma noi non facciamo sempre queste riflessioni. Pren- diamo decisioni e quindi diamo risposte senza tante previe meditazioni”. “Certo” - risposi –“lo capisco, tuttavia nella vita essere capaci di dare risposte convincenti e capaci di realizzare qualcosa di bello e grande per me e per gli altri richiede un supplemento di pensiero e di logica. Perché il bene e la felicità che cerchiamo han- no una logica. Infatti una persona irresponsabile è anche una persona illogica, che agisce senza ragionare e che rischia, quindi, di compromettere a volte in modo grave, il bene comune”. “Addirittura?” - mi domandò – con uno sguardo che sem- brava dirmi ‘stavolta l’hai sparata un po’ troppo grossa’. “ma certo che è così! ” - continuai – prova a pensare alle domande che ci vengono rivolte dalle regole della vita associata, a scuola, sulle strade, nella vita civile e politica, nel mondo delle comunicazioni e dei social. Quanti inviti riceviamo al rispetto di norme e di doveri? E che risposte diamo? Che qualità di responsabilità esprimiamo con le nostre azio- ni? Riusciamo innanzitutto a scorgere i beni preziosi che le leggi e i regolamenti cercano in tutti i modi di custodire e di promuovere? E che, a causa delle risposte parziali o addirittura negative ed oppositive di alcuni, rischiano di venire a manca- re per tutti? Pensa alla sicurezza, alla qualità dell’ambiente, alla possibilità di vivere una vita serena e operosa, alla pace e alla prosperità. La responsabilità è dunque la capacità che abbiamo di intravedere in una chiamata e in una richiesta un bene da salvaguardare assolutamente, per me e per tutti. Se riesco a vederlo e a coglierlo, allora saprò formulare risposte adeguate e preziose in ordine alla sua realizzazione. E guarda che questo criterio funziona anche al contrario”. “ In che senso?” – mi chiese un po’ stupito. Gli risposi “se qualcuno ti chiede qualcosa che non ha a che fare con un bene o con un valore, ma, al contrario, con qualcosa che fa peggiorare le cose per me e per gli altri, devo pensare bene a che risposta dare. Se uno ti chie- de di offendere un altro sui social perché gli ha fatto uno sgarbo e, in qualità di amico, di domanda solidarietà, tu che cosa fai? Se qualcuno, quando sei in macchi- na, picchia sull’acceleratore infischiandosene del codice della strada o ti chiede di fare altrettanto per provare un po’ di ebrezza, tu che cosa fai? Che risposte dai? Quando sei in compagnia e un bicchiere tira l’altro, fino a che punto ti spingi quan- do ti domandano di partecipare alla bevuta, magari facendoti sentire un po’ sfiga- to se preferisci la moderazione e la serietà? Vedi che essere responsabile significa in alcuni casi dire dei sì e in altri dire dei no? Chi è capace di farlo individuando il bene o il male che sta dietro alle domande, diventa capace di dare le risposte ade- guate e diventa responsabile. Ok?” “Sì ora comincio un po’ a capire” – disse. “Se hai un po’ di pazienza – aggiunsi – puoi vedere le cose anche in una prospettiva anco- ra più ampia e vertiginosa”. “In che senso, mi scusi? – mi domandò sperando che avessi finito già la predica. “Vedila così” - replicai – Noi tutti, anche io e te, siamo stati chiamati alla vita. Attraverso la collaborazione dei nostri genitori, il Buon Dio ci ha invitato e chiamato all’esistenza. Non l’abbiamo deciso noi. E’ stato un Altro che ce l’ha regalata. Per un bene che è quello di farci esistere. Altrimenti non sa- remmo nemmeno qui a parlare insieme. Allora questa chiamata all’esistenza ci in- terpella. Che cosa rispondiamo? I cristiani definiscono questo dono della vita ‘vo- 8
cazione’, che vuol dire chiamata. Noi spesso pensiamo che la vocazione sia qualcosa che riguarda solo i preti. Invece no. La vocazione per ciascuno di noi co- mincia dal primo giorno di vita e dura fino all’ultimo. Che cosa ne faccio di questo dono della vita? So, ad esempio, esprimere una gratitudine perenne? A Dio, ai ge- nitori, a tutti quelli che hanno protetto e custodito questo dono che ho ricevuto e che ancora lo proteggono e lo promuovono, nella famiglia e nella società civile? Oppure non ne colgo il valore e quindi non vivo nella gratitudine ma, al contrario, nella continua pretesa, che spesso sconfina nella cronica scontentezza e rabbia verso tutto e tutti? Non è forse responsabile chi invece impara, perché viene edu- cato a questo, a scorgere la grandezza, vertiginosa appunto, del dono della vita? E non solo della mia, ma anche di quella di tuti quelli che mi circondano? Allora que- sta vocazione a vivere mi provoca continuamente a dare risposte. La vita ricevuta mi domanda: ‘ che ne vuoi fare di te? Insieme alle persone con cui condividi questo dono della vita? Cosa rispondi al Creatore che ti manda continuamente segnali, come quelli appunto che vedevamo prima, attraverso le persone che ti vogliono bene a nome suo? Allora è responsabile anche colui o colei che, ringraziando per tutto quello che ha ricevuto, cerca di rispondere impostando tutta la sua esistenza perché essa realizzi veramente quella strepitosa promessa che conteneva fin dall’i- nizio: la mia e nostra totale e piena felicità per sempre!” Osvaldo Songini, preside Scuola Primaria e SS1 9
Il tema della responsabilità nella Divina Commedia Nei primi versi dell’Inferno, ci si fa incontro Dante agens, cioè personaggio, dentro una selva intricata: tale smarrimento, allegoricamente, rappresenta l’amara condi- zione di peccato, di totale disarmonia. Non sa spiegarsi come sia accaduto: il sonno, ovvero l’abitudine al male, gli aveva intorpidito la coscienza e non si era reso conto d’avere abbandonato la verace via (If. I 12). Nella sua libertà, aveva scelto ingannevoli beni: e volse i passi suoi per via non vera, /imagini di ben seguendo false, /che nulla promession rendono intera (Pg. XXX 130-32). Presumendo che la ragione da sola fornisse tutte le risposte e, forte dell’altezza d’ingegno, come il suo Ulisse, aveva tentato il folle volo dell’uomo che basta a se stesso. Dante, dopo aver sondato gli abissi del suo io, attraverso una terribile catabasi fino al centro della terra, dov’è conficcato Lucifero, ed un arduo cammino penitenziale, accompagnato da Virgilio, verrà proclamato dal maestro signore di se stesso: pie- namente responsabile nell’operare le sue scelte, guidato da una volontà svincolata dalla servitù del peccato, perché il suo arbitrio è ormai libero, dritto e sano (Pg. XXVII 140). Potrà quindi iniziare la sua ascesa di cielo in cielo, fino alla visio Dei, a congiungere il suo sguardo con l’essenza divina. Si riconoscerà e ritroverà allora in Cristo, il solo che, nel sublime mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, sollevi l’uomo, salva- to, fino a Dio, riconsegnandolo al suo abbraccio paterno. Qui Dante abbandonerà ogni pretesa razionale di comprendere nel Logos incar- nato le due nature, divina ed umana. Riconoscendo che le sue penne non possono portarlo a tale altezza, si abbandonerà all’illuminazione della Grazia ed all’amore di Dio, nella totale armonia della beatitudine. Dunque, l’autore della “Commedia” ha così a cuore il tema della responsabilità dell’agire umano da rappresentarlo nella propria vicenda di caduta e di riscatto, prima ancora che nei personaggi che ne animano l’opera, uomini e donne da lui ritenuti realmente esistiti, anche quelli che popolano i miti, perché chi in vita ha scelto, si è giocato il destino post mortem di salvezza o dannazione. Vale a dire che il breve spazio della vita terrena è l’ambito in cui ciascuno, sulla base del bene e del male operato, decide la propria condizione per l’eternità. Come ha evidenziato Erich Auerbach nel suo fondamentale scritto Dante poeta 10
del mondo terreno, l’autore della Commedia vi ha rappresentato tutta la realtà terrena e storica a lui nota, già giudicata da Dio, come sarà nell’ultimo giorno, man- tenendo nel destino escatologico di ciascuno, dannato, o destinato alla salvezza, o beato che sia, la sua peculiare individualità. Infatti, quelle figure, ormai giunte al compimento di sé nel giudizio divino, indelebili nella memoria del lettore, non hanno perso nulla della loro personalità terrena e storica che, anzi, ormai compiutasi nel giudizio divino, assume un valore esemplare e può, pertanto, guidarlo nell’intricata selva della vita. Dante, nella controversa Epistola XIII indirizzata a Cangrande della Scala, con cui gli dedica il Paradiso e, ad un tempo, fornisce l’accessus alla Commedia, chiarisce che il modus dell’opera è appunto exemplificativus, ovvero ricorre ad esempi, così come in Pd. XVII vv.136-142 chiarisce che le anime incontrate nel viaggio oltremon- dano son di fama note (v.138) perché non si dà credibilità ad un esempio scono- sciuto o ad una argomentazione che non sia evidente. È di fondamentale importanza, inoltre, il fatto che Dante dedichi l’intero canto XVI del Purgatorio, che si colloca al centro della Commedia, proprio al tema del libero arbitrio. Nell’incontro con Marco Lombardo, viene chiarito che gli astri esercitano sugli uo- mini solo un influsso iniziale. La responsabilità morale dell’individuo è svincolata dal determinismo astrale, poiché l’intelletto resta del tutto libero di distinguere fra bene e male, e la volontà di scegliere e perseguire l’uno o l’altro, come ben si coglie in queste parole: lume v’è dato a bene e a malizia /e libero voler (Pg. XVI 75-76). Nei canti successivi XVII e XVIII è la volta di Virgilio, che tratta il complesso tema del rapporto tra amore e libero arbitrio, distinguendo tra amore naturale, in po- tenza, ovvero tensione innata dell’animo, e amore in atto, ovvero d’elezione, che sceglie l’oggetto d’amare ed implica, pertanto, una responsabilità morale. Questo solo è passibile di giudizio e può degenerare nei sette peccati capitali. Il tema dottrinale, complesso, assume implicazioni anche sul piano letterario, poi- ché Dante auctor compie un’autocritica, superando la concezione cortese e stilno- vistica, condivisa in gioventù, che ogni amore, se provato da un cuore nobile, sia in sé laudabil cosa (Pg. XVIII 36). E’ ormai chiara la sua posizione: da perseguire è solo l’amore-virtù. Anche nell’Epistola XIII indica l’esercizio del libero arbitrio come subiectum della Commedia secondo il senso allegorico, conferendole in tal modo un valore univer- sale che travalica il tempo: il soggetto, di fatto, è l’uomo, in quanto, meritando e demeritando liberamente, è sottoposto alla giustizia del premio o della pena. Il poema sacro stesso può essere letto come esito della sofferta presa di coscienza dell’Alighieri di una propria responsabilità di fronte a Dio ed all’umanità nel suo ruolo di intellettuale e scriba Dei, voce profetica che interviene a scuotere il mon- 11
do che mal vive (Pg.XXXII 103), sostituendosi alle due guide, Papa ed Imperatore, venute meno al proprio compito. Sicuramente lo stato di exul immeritus, allontanato dai beni più cari, se da un lato è stato l’esito di un mondo caotico, dove anche la Giustizia è in esilio, dall’altro lo ha portato a maturare il disegno della Commedia, una volta elaborato e sublimato, come si coglie nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, e nel canto XVII del Paradiso con chiara evidenza per bocca del trisavolo Cacciaguida. La consapevolezza di Dante auctor di non poter essere timido amico del vero (Pd. XVII 118), pur nella precaria condizione di chi è costretto a chiedere asilo ai potenti, pervade di una straordinaria forza i versi in cui il suo antenato, dopo avergli chiarito il doloroso destino che lo attende, lo sprona a rivelare, tornato nel mondo, tutta la sua visione, incurante delle reazioni di chi si sentirà chiamato in causa, o per le colpe proprie, o dei familiari. Solo a questo prezzo, pagato in prima persona, Dante non verrà meno al proprio compito, e la sua opera diverrà per l’umanità vital nodrimento…quando sarà dige- sta (Pd. XVII 131-132), guidandola, attraverso il corretto esercizio del libero arbitrio, alla felicità, cioè al Sommo Bene, unica fonte di autentica gioia. Magda Bosisio, docente SS2 12
La responsabilità nella spiritualità cristiana Un bel racconto rabbinico mette in scena la colomba: la sera del grande Giorno della creazione, la creaturina zampetta triste triste ai piedi del Creatore. Dal suo Trono di fulgore le rivolge lo sguardo: “Che cosa c’è colombella?” “Sono triste, Si- gnore del Cielo e della terra. Il gatto mi insegue”. “Uh! Hai ragione, colombella. Ecco qui: ti regalo un paio di splendide ali. Vai e non essere più triste”. La colombella è tutta contenta, ma la sera dopo viene ancora triste triste a zampettare ai suoi piedi. “Il gatto mi insegue, sommo Creatore”. “Ma ti ho dato le ali…”. “Infatti, Signo- re. Già prima, con queste due zampette così corte, era una fatica: adesso che ho questi due cosi che mi pesano sulla schiena è pure peggio…”. E il Creatore, nel suo sguardo di sconfinata tenerezza: “Ma colombella: io ti ho dato le ali non perché tu le portassi, ma perché le ali portassero te…”. I rabbini concludono: Nella tradizione Israele è spesso paragonato alla colomba, perché? Perché il Creatore ha donato a Israele le ali della Torà, perché potesse volare alto e solcare i cieli della vita. Ma Israele sente la Torà come un peso e se ne lamenta giorno e notte. La nostra vocazione fondamentale è a volare alto. La vita ci chiede continuamente di rispondere a questa vocazione fondamentale. Il nostro desiderio profondo è di crescere, di spalancare le ali del desiderio ed esprimere il nostro potenziale di avventurieri dell’esistenza, di esploratori del Mistero che freme in ogni cosa. La dimensione religiosa della vita vuole accompagnare e favorire lo spalancarsi delle ali al volo. Le ali tarpate sono il segno incontestabile di una schiavitù: e spesso chi non vola è schiavo della paura. Magari della paura di sbagliare. Di dover fare i conti con il Grande Censore che ci scruta dall’altissimo trono della sua Implacabilità. Gesù ha messo in campo alcune suggestioni, al riguardo: nella parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) racconta che il terzo servo, che ha ricevuto una grande ricchezza – un talento equivale a circa 25 chili d’oro – si lascia bloccare dalla paura del padrone: “Sapevo che sei un uomo severo”, gli dice, “perciò sono andato a nasconder sotterra la tua ricchezza. Eccola qui, te la ridò intatta”. La paura è un prezioso sentimento, ma se diventa una pri- gione le ali si bloccano, i desideri atrofizzano, e noi ci nascondiamo sotto le zolle di molte scuse. “Se guardassimo sempre il cielo finiremmo per avere le ali”, scriveva Flaubert. Il Creatore ci chiama anzitutto ad osare l’avventura del volo. Don Paolo Alliata, docente SS2 13
La responsabilità nei classici della letteratura antica Ogni scuola dovrebbe avere un “responsabile della felicità”. Una persona in cui uno studente veda lo sguardo di chi è sempre alla ricerca e con l’attitudine a respondere a ogni suo moto di sfiducia nei confronti del futuro. A capitanare questo ufficio immaginiamoci un educatore che sia anche giardiniere e veda ogni studentessa e ogni studente che varca tutte le mattine la porta della sua scuola come fosse un albero, felix solo quando la sua natura gli fa dare frutti. Si può essere felici quando si è fecondi di vita, di progetti e di amici in carne e ossa, ma questi frutti germogliano solo se hanno radici ben salde nel ben-essere, intimo e irripetibile di ciascuno. Erodoto, nelle sue Storie del V sec a. C, racconta che un giorno Creso, il re della Lidia famoso per la sua ricchezza, ospitò a corte Solone, il legislatore ateniese famoso per la sua saggezza. Il re fece visitare al legislatore le stanze della reggia dove teneva custoditi i suoi famosi tesori. Al termine della visita Creso, con orgoglio e una punta arroganza, chiese a Solone se avesse mai conosciuto un uomo più felice di lui. “Tello l’Ateniese è l’uomo più felice che io abbia mai incontrato” rispose senza esitare Solone “un uomo sempli- ce, che ha avuto la gioia dell’amore di una moglie, dei suoi figli e dei suoi nipoti, morendo mentre combatteva con onore in difesa della propria città, dopo aver visto crescere l’intero arco della generazione nata da lui. Un uomo - concluse So- lone guardando dritto negli occhi il re sbigottito- che ha saputo gioire della felicità quotidiana e duratura”. Poi aggiunse: “Creso caro, di te non potrò dire nulla prima del tuo ultimo giorno di vita. Per ogni cosa bisogna sempre considerare la fine e, soprattutto, non confondere la felicità con la fortuna”. I Greci con le parole ci sapevano fare e ne avevano più d’una per raccontare le forme della felicità. A me piace quella che descrive Tello come ólbios. La sua bíos, la sua vita, è olon, completamente piena di gioie quotidiane da cogliere. È piena di amore, rispetto, visione, relazioni umane sine cera, senza trucco e sincere, quelle dove si mette a nudo l’anima. Quest’uomo greco è paradigma senza tempo di una felicità che è contemporaneamente un augurio di cui ogni educatore però, profes- sore o genitore che sia, sente le vertigini della responsabilità di mettere in luce la parte di un alunno o di un figlio che è lì, pronta a germogliare. Chi ha esperienza con i giovani sa bene che il ben-essere è spesso questione di auto-stima: è così difficile capire il proprio valore e averne stima! Con il tempo 14
mi sono costruita l’idea che essere responsabili di o per qualcuno può semplice- mente voler dire esserci. La nostra presenza è una risposta, forse la più preziosa, per far cogliere ai nostri ragazzi il loro kairós, quel momento opportuno per osare essere felice. I Greci, con la loro solita fantasia, immaginavano questo momento come un gio- vane ragazzo bellissimo, che cammina su un asfera, con le ali ai piedi, i capelli lunghi sulla fronte e rasati sulla nuca per essere difficile da acciuffare e un rasoio nella mano destra, sottile e tagliente come può esserlo il momento propizio per ciascuno. Cristina Dell’Acqua, docente SS2 15
La responsabilità come categoria filosofica Il concetto di responsabilità non ha goduto di uno sviluppo tematico specifico nel- la maggior parte dei grandi autori che i nostri ragazzi incontrano nel loro percorso di filosofia. Lo si trova in relazione alla problematica della libertà umana, come suo corollario: si può parlare di responsabilità solo in presenza di libere scelte, dato che nessuno può essere considerato responsabile di qualcosa che non è dipeso da una sua decisione. Incontriamo il termine “responsabilità” nel dibattito specificamente filosofico in Kant che lo utilizza però nell’ambito giuridico-politico, lo stesso ambito nel quale continueremo ad incontrarlo dopo di lui fino ai nostri giorni. Ci sono due autori che fanno eccezione e che hanno invece messo a tema della loro indagine filosofica la nozione di responsabilità: sono Lévinas, del quale non posso occuparmi per motivi di spazio, e Jonas. Il capolavoro filosofico di Hans Jonas (1903-1993) - Il principio responsabilità. Ricerca di un’etica per la civiltà tec- nologica - è interamente dedicato al concetto di responsabilità e mantiene, a qua- rant’anni dalla sua pubblicazione avvenuta nel 1979, una impressionante attualità. Il punto di partenza di Jonas è la constatazione del mutato rapporto tra uomo e natura intervenuto con la rivoluzione scientifica iniziata nel 1600: da allora in poi l’uomo rompe il rapporto di passiva soggezione che aveva nei confronti della na- tura per assumere un atteggiamento di dominio e di sistematico sfruttamento a proprio vantaggio. Il filosofo Francesco Bacone (1561-1626) lo dice a chiare lettere: sapere è potere, non ha più senso una conoscenza slegata dalla tecnica. Poco più di un secolo dopo la rivoluzione industriale inizia la grande trasformazione del mondo conseguente a questa nuova visione della conoscenza. Prometeo, che rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini, è il simbolo della rivoluzione industriale che dalla seconda metà del Settecento fino ad oggi continua senza sosta il suo corso. Il punto cui è arrivata questa rivoluzione pone però oggi problemi del tutto nuovi perché l’azione dell’uomo sulla natura sta mettendo a rischio la possibilità stessa della vita. Jonas indicava nel suo libro i rischi di un conflitto nucleare, lo sfrutta- mento esaustivo delle risorse naturali, la concimazione chimica selvaggia, la defo- restazione, l’effetto serra. Oggi potremmo non solo allungare l’elenco, ma anche renderlo più terribile con la constatazione di quanto quelle stesse minacce si sono aggravate nell’arco di quarant’anni. Le parole con le quali Jonas iniziava il suo libro mantengono intatto il loro valore: “Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che me- diante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per gli uomini. La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo la più grande sfida che sia mai venuta all’essere 16
umano dal suo stesso agire”. Religioni e filosofie hanno in passato indicato agli uomini regole morali incentrate sulla coscienza e sulle intenzioni, mettendo in se- condo piano le conseguenze non immediate delle azioni e dei comportamenti. Ora questo è insufficiente e rischia di svuotarsi di significato: ci avviciniamo sempre di più al momento in cui potrebbe non esserci più un prossimo da amare, nè regole morali o religioni da seguire perché è la vita umana in quanto tale ad essere in grave pericolo. L’imperativo categorico di Kant diceva: “agisci in modo da tratta- re l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Ineccepibile, ma insufficiente perché, dice Jonas, “strutturalmente miope”, incapace di vedere lontano. Il nuovo imperativo categorico proposto da Jonas dice: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura della vita sulla terra”. “Il primo impera- tivo categorico è che esista un’umanità”. Questo nuovo obbligo è sintetizzato nel concetto di responsabilità. È la responsa- bilità che ci indica la direzione della cura per tutta l’umanità e non solo per il no- stro prossimo. È nostra responsabilità pensare alle generazioni future nello stesso modo in cui è responsabilità dei genitori proteggere i propri figli e rendere possibi- le la loro vita. E questa responsabilità può esprimersi solo attraverso il rifiuto dello “spietato antropocentrismo” e dell’”utopismo tecnologico” che ha fatto coincidere il progresso umano con il progresso tecnologico e con la crescita economica. Un utopismo che ha scambiato il mezzo (lo sviluppo tecnologico e la crescita econo- mica) con il fine (la vita, una vita autenticamente umana) e che ha coinvolto nello stesso modo le società comuniste del secolo scorso e quelle capitalistiche. Ma come giustifica Jonas il suo imperativo etico? Per quale motivo dovremmo fare sacrifici per uomini che non sono ancora nati e che come non esistenti non posso- no certo godere di diritti o essere oggetto di rispetto o amore? “Perché abbiamo un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora, né in sé ha bisogno di esistere, e co- munque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? (…) Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi perché”. È evidente che la fondazione di que- sta morale non può essere di tipo utilitaristico. Jonas riteneva che solo convinzioni di tipo metafisico o religioso potessero costituire un fondamento: la convinzione che l’essere in quanto tale sia bene, che la vita umana sulla terra sia un valore irri- nunciabile e che sia nostro compito, nostra responsabilità, salvaguardarla. L’applicazione del principio responsabilità descritto da Jonas imporrebbe muta- menti radicali nei nostri stili di vita e di consumo. Non basterebbero scelte in- dividuali, che per quanto meritorie non hanno possibilità realistiche di incidere sostanzialmente sul corso degli eventi. Sarebbero necessarie decisioni prese con- cordemente da tutti gli stati del mondo e fatte rispettare con forza di legge. E il discorso etico diventerebbe inevitabilmente politico. Massimo Gianotti, docente SS2 17
La storia: un esempio di responsabilità in Dietrich Bonhoeffer Germania meridionale, campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945. A pochi giorni dall’arrivo delle truppe alleate, cinque uomini si avviano, completamen- te nudi, al patibolo. L’ordine di condanna a morte è giunto direttamente da Berlino. Il più anziano dei cinque, l’ammiraglio Wilhelm Canaris, fino al febbraio 1944 era stato il capo dell’Abwher, il potente controspionaggio militare tedesco. Nel 1939, dopo aver scoperto le atrocità commesse dalla Wehrmacht e dalle SS in Polonia, aveva iniziato a congiurare in segreto contro il regime nazista, avvantaggiandosi del suo ruolo per stabilire contatti con l’intelligence britannica e per salvare, per quanto possibile e forse maldestramente, l’onore della Germania. Hans Oster, Lu- dwig Gehere e Karl Sack, incamminati davanti a lui verso il luogo dell’esecuzione, sono tre alti ufficiali coinvolti (come lo stesso Canaris) nel complotto che aveva portato all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. L’ultimo condannato è giovane, ha solo trentanove anni, ed è un teologo luterano: si chiama Dietrich Bonhoeffer. La loro fine, avvenuta per soffocamento mediante una corda di pianoforte, è terribile, resa ancor più atroce dal rimbombo dell’artiglieria pesante americana in avvicina- mento, il suono beffardo della salvezza a portata di mano. L’agonia, volutamente prolungata dal medico del lager, incaricato di fermare il boia ogniqualvolta stesse per sopraggiungere la morte, risulta infinita. Lo stesso medico, riferendosi a Bonho- effer, dichiarerà successivamente: “Nella mia professione di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio”. Sebbene su questa afferma- zione gravi, pesante, il sospetto d’essere stato un tentativo ipocrita da parte sua per sgravarsi la coscienza, non abbiamo elementi per dubitare della serenità di quel giovane uomo di fronte all’estremo sacrificio. Qualche mese prima, da una cella del carcere berlinese di Tegel, Bonhoeffer scriveva agli amici e alla fidanzata Maria intensissime lettere sulla storia, sulla fede, sulla vita responsabile, su don Chisciotte e Sancho Panza. Temi che impegnavano la sua riflessione da anni. Essere respon- sabili, per lui, non significava fare genericamente il bene. Anche perché, rifletteva, che cos’è il bene? Un principio assoluto, identificabile a priori e applicabile incon- dizionatamente? Troppo astratto e pericoloso: dopotutto, anche i criminali nazisti erano convinti di sapere cosa fosse il bene e agivano di conseguenza. “Quello che ci interessa non è di sapere che cosa sarebbe il bene se noi non vivessimo, ossia in condizioni ipotetiche […]. Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così com’è per noi che viviamo”. Per Bonhoeffer la questione è molto chiara: il bene è qualcosa che dev’essere colto in ogni istante dentro l’esistenza concreta. Aggiunge subito dopo: “Noi dunque ci interroghia- mo riguardo al bene non già facendo astrazione dalla vita, ma impegnandoci in essa”. Impegnarsi nella vita. Sono parole grosse, che pongono subito la questione, drammatica e avvincente, del rapporto con la Storia. Se fare il bene significa infatti impegnarsi con la vita, ciò vuol dire che la responsabilità si gioca nel saper ricono- 18
scere il bene in ciò che accade intorno a noi, dentro le nostre particolari circostanze esistenziali. Qui Bonhoeffer fa emergere la sua profonda sensibilità teologica, che naturalmente legge le vicende storiche come la modalità attraverso cui Dio entra nella realtà del mondo. Il bene non è dunque affermare “ciò che sarebbe buono una volta per tutte, ma come Cristo prenda forma tra noi oggi e qui”. Le forme storiche di questa presenza possono essere le più disparate e inaspettate (volti, drammi, incontri, fatti, circostanze, amori, insomma il tessuto intero dell’esistenza, la grande “polifonia della vita”): ecco perché il bene non può essere un già saputo, un ideale astratto, costituendosi invece come una continua, quotidiana tensione a riconosce- re le forme sempre nuove di Dio, lasciando ad esse spazio. L’uomo è quindi in ogni istante interpellato dalla storia, che Bonhoeffer chiama Destino (das Schicksal) e che, la sfida sta proprio qui, supera ogni capacità di comprensione. Il Destino, l’ac- cadere di Dio nella storia - nella grande Storia, così come nella storia di ciascuno - ha un qualcosa fuori dalla nostra portata, un ché di eccedente, di incomprensibile: l’uomo di fronte alla storia è l’uomo di fronte all’incommensurabile mistero di Dio. Davanti ad esso non possono esserci posizioni preconcette, ma solo un’integrale disponibilità. Bonhoeffer irride i don Chisciotte (quelli che si oppongono alla realtà ad ogni costo, “fino al non-senso, anzi alla follia”) e i Sancho Panza (quelli che, al contrario, “si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che accade”), proponendo in- vece l’immagine di un uomo teso a conformarsi a Dio in ogni circostanza storica, resistendo laddove necessario e arrendendosi all’imperscrutabile, nella certezza di essere sempre in compagnia di Cristo. Una responsabilità, in fondo, riecheggiata nella famosa preghiera composta negli stessi anni da un altro pastore protestante, il tedesco-americano Reinhold Niebuhr: “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per riconoscere la differenza”. Quella di Bonhoeffer non fu una proposta puramente teorica: egli impegnò l’intera sua vita in questa fiduciosa risposta a Dio, dapprima aderendo alla cosiddetta “Chiesa confessante”, la comunità evangelica tedesca che si opponeva al sostegno dato dalla chiesa ufficiale al regime, quindi sostenendo la resistenza anti-nazista attraverso scritti e conferenze, animando nel contempo molte iniziative in favore degli ebrei. Infine, nel 1939, quando già si trova- va negli Stati Uniti come “docente ospite”, decise di fare ritorno in Germania, giac- ché la coscienza gli impediva di stare alla finestra mentre il suo popolo sprofondava nell’abisso della barbarie. Si unì al gruppo di resistenza legato all’ammiraglio Ca- naris. Il 5 aprile 1943, fu arrestato dalla Gestapo. Dietrich Bonhoeffer era convinto che la responsabilità fosse possibile “soltanto mediante il dono totale della propria vita al prossimo”. Lo fece: donò la sua giovane esistenza, fino al sacrificio estremo, testimoniando al mondo la ricchezza di una vita responsabile. Andrea Beneggi. docente SS2 19
Le Scienze Umane: Responsabilità Siamo come «passeggeri di un aereo quando scoprono che la cabina di pilotag- gio è vuota e che la voce rassicurante del capitano era solo la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima»1. Con questa metafora il grande socio- logo contemporaneo Z. Bauman vuole riassumere la nostra condizione di uomini contemporanei. L’analisi del sociologo polacco punta l’accento sul fatto che nella nostra epoca post moderna tutto cambia molto velocemente e che i grandi pilastri morali, etici, religiosi e politici non esistono più e al loro posto ci sono solo parole e forme vuote il cui contenuto cambia molto velocemente come un continuo flusso senza un’origine e una fine. Non a caso il termine da lui più utilizzato come chiave di lettura della nostra epoca è “liquido” e una delle sue più celebri frasi sentenzia: «La modernità liquida è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa perma- nente e che l’incertezza è l’unica certezza»2. L’origine di questa situazione, secondo Bauman, è la crisi del concetto di comu- nità e come effetto più evidente la responsabilità liquida, cioè una responsabilità che da decenni ciascun individuo ha demandato ai piloti di turno (politici, finanza, economia, diritto, pace, democrazia, tradizione) salvo poi accorgersi drammatica- mente che la cabina di pilotaggio era vuota e rimanere da solo a dover affrontare problemi enormi. È come andare in guerra credendo di essere a capo di un bat- taglione invincibile e nel momento decisivo girarsi e stupirsi di essere da soli nel campo di battaglia. Bauman non è un sociologo dalle risposte facili e in diverse occasioni avverte il lettore di non possedere una medicina per questa nostra società malata e soffe- rente; nello stesso tempo, indica alcune strade da costruire e alcuni “muratori” da cui imparare. La più importante delle vie da aprire è quella della costruzione di una nuova comunità, di una società generata da una rinnovata capacità di creazione di comunità nelle quali gli individui accolgono l’alterità. In questo gioca un ruolo cen- trale la riscoperta del senso della responsabilità. Questa riscoperta può emergere dall’osservazione dello sviluppo della vita dell’individuo all’interno della società. Innanzitutto non è banale osservare che ciascun individuo viene al mondo come ere- dità di altre individualità; ciascuno di noi è frutto dell’incontro di altri e nel rapporto con questi altri si sviluppa la nostra vita. Se si osservano i bambini si nota che ogni loro agire è determinato dal rendere conto ai genitori delle proprie azioni. Quando un bambino comincia a disegnare mostra i suoi “capolavori” ai genitori, e quando im- para a saltare si esibisce in continuazione con grande entusiasmo davanti alla platea dove risiedono mamma e papà; anche quando rovescia la tempera sul pavimento 20
aspetta il disappunto della madre, e quando lascia partire una sberla al malcapitato fratellino o sorellina osserva intimorito il rimprovero del padre. Col passare degli anni le figure adulte di riferimento aumentano e la dinamica si ripresenta identica: a scuola lo scolaro deve rendere conto ai docenti dei compiti svolti oppure non svolti e vuole rendere partecipi i suoi educatori delle scoperte che costellano l’avventura dei primi anni di scuola. Nella fase dell’adolescenza, general- mente, i rapporti con i genitori diventano burrascosi e ciò sottolinea nuovamente la presentazione delle scelte e dei giudizi al tribunale di altri. Nell’età adulta questo movimento diventa fecondo in quanto l’agire è indirizzato verso gli altri siano essi colleghi, la moglie, il marito, i figli, le persone bisognose, gli amici, la politica, l’eco- nomia ecc. Da questa analisi possiamo quindi evincere che, sia all’origine sia in ogni istante dello sviluppo della vita all’interno della società, le azioni sono sollecitate e abitate dagli altri. Ogni nostra mossa all’interno della società è motivata dagli altri e orien- tata verso di loro. Noi siamo continuamente interpellati da altri e in continuazione ci muoviamo verso gli altri. Bauman ridefinisce il concetto di responsabilità riferendosi a Levinas che affermò: «il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come un estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti»3. Nel suo tentativo di ridefinire un nuovo concetto di soggettività Levinas affermò che nel soggetto risiede l’apertura all’altro poiché gli altri sono sempre all’origine del soggetto e la responsabilità si ridefinisce quindi nel connettere il proprio essere con l’essere degli altri; il volto degli altri ci chiede di prenderci cura di loro in quan- to l’altro è «prima di tutto colui di cui sono responsabile»4. L’habitat naturale della responsabilità, secondo Levinas, è l’originario e sempre attuale rapporto con gli altri nel quale l’io si struttura ed è sollecitato a rispondere prendendosi cura di loro. Questo affondo si contrappone ad un preconcetto presente nella nostra società: l’assunzione di responsabilità è un ostacolo alla realizzazione personale. Lo psica- nalista Massimo Ammaniti, in una recente intervista di Antonio Polito sulla nostra società “senza genitori”, sottolinea come siano in aumento le persone che «non vogliono figli perché trovano più bella la vita senza, o li vogliono il più tardi possi- bile, e spesso è troppo tardi»5. Le analisi di Levinas invece propongono un modello opposto nel quale la responsa- bilità è necessaria per il nostro sviluppo; non quindi un appuntamento da rimanda- re ma una condizione strutturale di cui rendersi conto e da attuare costantemente. Possiamo quindi sintetizzare che la nostra responsabilità si fonda nel rapporto con gli altri e si presenta come la risposta di qualcosa a qualcuno che ci interpella 21
e ci chiama in causa. All’immagine della responsabilità liquida possiamo quindi sostituire una rappresentazione calcistica: siamo come giocatori di una squadra che in ogni istante si rendono conto che il proprio gioco è attivato dai compagni e si indirizza nei confronti di essi secondo una dinamica di risposta di qualcosa a qualcuno senza soluzione di continuità. Matteo Pirovano, docente SS2 _________________________________________________________________________________ 1 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli Editore, 2000, pag. 28. 2 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pag. 67 3 E. Levinas, Totalità e infinito, Milano, Jaka Book, 1977, pag. 215. 4 E. Levinas, La mia responsabilità verso l’altro, Aut-Aut sett.-dic. 1985. 5 M. Ammaniti, Violenze e social: ecco la società senza genitori, intervista di A. Polito, Corriere della sera, 02/06/2019. 22
Educare i Bambini alla responsabilità: un esempio pedagogico “Ha mostrato scarso senso di responsabilità”, “Ti senti di prenderti questa re- sponsabilità?”, “Volle assumersi la responsabilità dell’accaduto”, “La responsabilità dell’incidente è sua”. Quante volte utilizziamo il termine responsabilità e quante volte ci chiediamo cosa si intende esattamente con questo termine; e cosa facciamo, in veste di educa- tori, per fare in modo che i nostri alunni acquisiscano e interiorizzino “il senso di responsabilità”. La responsabilità può essere definita come la “possibilità di prevedere le conse- guenze del proprio comportamento ed essere in grado di modificarlo sulla base di tale previsione”. Ciò sottintende anche il saper assumersi le conseguenze del proprio agito e il saper rendere conto delle proprie scelte. Educare i bambini alla responsabilità è un obiettivo ambizioso, ma fondamentale, che si raggiunge giorno dopo giorno, attraverso piccoli e importanti passi che devono condurre alla crescita di una personalità armonica e solida, basata sulla consapevolezza dei diritti e dei doveri propri e altrui. Essere responsabili significa, infatti, comprendere i bisogni degli altri, imparando a calibrare e a gestire le proprie azioni, in modo tale che non vadano a lederne il rispetto; in poche parole: imparare ad essere coscienti di ciò che si fa. In che modo è possibile educare anche i più piccoli al senso di responsabilità? Il buon esempio è sicuramente il primo intervento che possiamo e dobbiamo met- tere in atto, preoccupandoci di rendere chiari e manifesti i diversi termini della valutazione; di adottare criteri di giudizio sensati e coerenti con cui dare senso e significato alle nostre azioni. Il buon esempio, inoltre, non può esimersi dall’esse- re la testimonianza di chi, coerentemente con le regole proposte, esercita com- portamenti concreti, attraverso i quali, soprattutto i più piccoli, siano in grado di comprendere quanto sia pro-sociale il rispetto di un sistema normativo, in virtù del quale passare dall’eteronomia all’autonomia. È certo possibile educare con le parole; sicuramente si può essere più incisivi con quello che si fa, ma è indubbio che si lascerà un segno indelebile mostrando quello che si è. Le esperienze personali sono importanti per imparare a fare scelte, a gestire i con- flitti, a conoscere ea d accettare le differenze, a confrontarsi con l’altro. L’autono- mia, la fiducia in se stessi e il desiderio di mettersi alla prova e sperimentare, sono quei preziosi elementi che, se ben equilibrati, possono essere fondamentali per la creazione di persone determinate, sicure di sé e capaci di avere passioni e ideali. A qualsiasi età ci sono delle regole che si devono conoscere e rispettare con un 23
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