Il Fantasma Di Canterville

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Oscar Wilde
                 Il Fantasma Di Canterville
                          The Canterville Ghost © 1887

                                Prefazione
  Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar
Wilde né di determinare fino a che punto l'atavismo e la forma epìlettoide
della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente
o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro
espiatorio. La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno
scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l'autorità inglese fece il
possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato
di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero
dell'interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la
sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non
provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette
dinanzi alla Corte e il loro autore venne denunziato come un degenerato,
ossessionato da pervertimenti erotici. «Il tempo guerreggia contro di te; è
geloso dei tuoi gigli e delle tue rose.» «Amo vederti errare per le vallate
violacee, fulgido colla tua chioma color miele.» Ma la verità è che Wilde,
lungi dall'essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile
nel mezzo della civiltà moderna d'Inghilterra, è il prodotto logico e
necessario del sistema collegiale e universitario anglosassone, sistema di
reclusione e di segretezza. L'incolpazione del popolo procedeva da molte
cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura.
Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti
espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore. Chi segua dal di
presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che
nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che
scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti
ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento,
temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L'autodifesa di
Oscar Wilde nello «Scots Observer» deve ritenersi valida dinanzi alla
sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato
in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di

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Dorian Gray nessuno lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l'ha commesso.
   Qui tocchiamo il centro motore dell'arte di Wilde: il peccato. Si illuse
credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle
genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità
(forse) della sua razza, l'arguzia, l'impulso generoso, l'intelletto asessuale
al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l'evo
d'oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche
verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo
pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue
assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente
e dell'umile, è questa verità inerente nell'anima del cattolicesimo: che
l'uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di
separazione e di perdita che si chiama peccato.
                                                             JAMES JOYCE

                      IL GIGANTE EGOISTA
  Ogni pomeriggio, al ritorno da scuola, i bambini solevano andare a
giocare nel giardino del Gigante.
  Era un giardino grande e bellissimo, tappezzato di soffice erba verde.
Qua e là sull'erba occhieggiavano fiori simili a stelle, e vi erano dodici
peschi che a primavera si coprivano di delicati boccioli di rosa e di perla, e
in autunno producevano frutti opulenti. Gli uccelli sedevano sugli alberi e
cantavano con tanta dolcezza che i bambini interrompevano spesso i loro
giochi per starli ad ascoltare.
  «Come siamo felici, qui!» dicevano gli uni agli altri.
  Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita da un suo amico, l'orco di
Cornovaglia, e ci era rimasto sette anni. In capo a sette anni, avendo detto
tutto quello che aveva da dire, poiché la sua conversazione era limitata,
decise di rientrare nel proprio castello. Quando arrivò vide i bambini che
giocavano nel giardino.
  «Che cosa fate qua?» gridò con una voce terribilmente burbera, e i
bambini scapparono via di corsa.
  «Il mio giardino è il mio giardino,» disse il Gigante «chiunque deve
capirlo, e non permetterò a nessuno di giocarci all'infuori di me.» Perciò vi
costruì tutt'attorno un muro altissimo, e fece affiggere un cartello:

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I TRASGRESSORI SARANNO PUNITI
   Era un Gigante molto egoista.
   I poveri bambini non avevano più un posto dove giocare. Tentarono di
giocare sulla strada, ma la strada era piena di polvere e irta di pietre
taglienti, e a loro non piaceva. Avevano presa l'abitudine di gironzolare
attorno alle alte mura, quando le loro lezioni erano terminate, parlando del
bel giardino che vi era nascosto dentro.
   «Come eravamo felici, lì!» dicevano gli uni agli altri.
   Poi venne la Primavera, e tutta la contrada era profumata di giovani fiori
e cinguettante di uccellini. Nel giardino del Gigante Egoista, però, era
tuttora inverno. Gli uccelli non si curavano di andarvi a cantare poiché
mancavano i bambini, e gli alberi si dimenticarono di germogliare. Una
volta un bel fiorellino mise la testa fuor del prato, ma quando vide il
cartello gli dispiacque talmente per i bambini, che si rificcò subito a
dormire. Le sole persone contentissime della situazione erano la Neve e il
Gelo. «La Primavera ha dimenticato questo giardino,» gridavano «perciò
noi ci abiteremo tutto l'anno.» La Neve coprì l'erba del suo ampio mantello
candido, e il Gelo dipinse d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono a restare
con loro il Vento del Nord, e questi venne. Era tutto impellicciato, e non
fece che soffiare tutto il giorno in giardino, abbattendo i comignoli.
   «Che posto delizioso,» disse «dobbiamo invitare la Grandine a venirci a
trovare.» Così venne anche la Grandine. Ogni giorno, per tre ore
consecutive, tambureggiò sul tetto del castello finché ruppe quasi tutti i
tegoli, e poi si mise a correre in giro per il giardino con una rapidità
incredibile. Era vestita di grigio, e il suo respiro era come ghiaccio.
   «Non riesco a capire perché la Primavera tarda tanto a venire» diceva il
Gigante Egoista, mentre sedeva alla finestra a guardare il suo giardino
freddo e bianco. «Spero che il tempo cambi presto.»
   Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l'Estate. L'Autunno portò
in ogni giardino frutti dorati, ma al giardino del Gigante non ne portò
neppur uno. «È troppo egoista» disse. Così laggiù regnava sempre
l'Inverno, e il Vento del Nord e la Grandine, e il Gelo, e la Neve
danzavano senza posa tra gli alberi.
   Un mattino il Gigante stava poltrendo in letto quando intese una musica
dolcissima. Suonava così melodiosa alle sue orecchie che pensò fossero i
musicanti del Re che passavano di lì. In realtà non era che un piccolo
fanello che cantava fuor della sua finestra, ma da tanto non udiva più un

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uccello cantare nel suo giardino che gli parve la più meravigliosa musica
del mondo. Poi a un tratto la Grandine smise di ballargli sulla testa, e il
Vento del Nord cessò di mugghiare, e un profumo delizioso gli giunse
dalla finestra spalancata.
   «Credo che la Primavera sia arrivata, finalmente!» I disse il Gigante e
balzò giù dal letto e guardò fuori.
   Che cosa vide?
   Vide uno spettacolo meraviglioso. Da una piccola, breccia nel muro i
bambini erano strisciati in giardino, e ora sedevano sui rami degli alberi.
Su ogni albero c'era un bambino. E gli alberi erano così contenti j di
rivedere i bambini che subito si erano ricoperti di boccioli e ora agitavano
dolcemente le loro braccia sulle teste dei bambini. Gli uccelli volavano
tutt'attorno e cinguettavano felici, e i fiori facevano capolino sul prato e
ridevano. Era una scena deliziosa, solo in un angolo del giardino era
ancora inverno. Era l'angolo estremo, e in esso stava un ragazzino. Era
tanto piccolo che non arrivava a toccare i rami dell'albero, e vi girava
tutt'attorno, piangendo disperatamente. Il povero albero era ancora coperto
di gelo e di neve, e il Vento del Nord gli soffiava e sbuffava sopra.
   «Sali, ragazzino» diceva l'albero, e abbassava il suoi rami verso terra
quanto più poteva, ma il bimbo era troppo piccino.
   Allora, mentre guardava, il Gigante si sentì sciogliere il cuore.
   "Come sono stato egoista!" si disse. "Adesso capisco perché la
Primavera non veniva mai da me. Metterò quel povero bambino in cima
all'albero, e poi abbatterò il muro e d'ora innanzi il mio giardino sarà per
sempre il campo di giochi dei bambini." Era proprio molto dispiaciuto di
quello che aveva fatto.
   Perciò scese abbasso piano piano, aprì il portone senza far rumore e uscì
in giardino, ma quando i bambini lo videro ne ebbero così paura che
scapparono via tutti, e il giardino ripiombò un'altra volta in preda
all'inverno. Soltanto il ragazzino non fuggì, poiché aveva gli occhi
talmente gonfi di lagrime che non vide venire il Gigante. E il Gigante gli si
avvicinò di soppiatto, lo prese dolcemente nella sua grossa mano e lo posò
sull'albero. E subito l'albero si coprì di bocci, e gli uccelli vennero e
presero a cantare tra i rami, e il ragazzino tese le braccia e cinse il collo del
Gigante e lo baciò. E gli altri bambini, quando capirono che il Gigante non
era più cattivo, ritornarono di corsa, e con loro venne la Primavera. «È il
vostro giardino, adesso, bambini!» disse il Gigante, e prese una grande

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scure e abbatté il muro. E quando la gente si recò al mercato, a
mezzogiorno, vide il Gigante che giocava coi bambini nel più bel giardino
che mai fosse esistito.
   Giocarono tutta la giornata, e la sera si recarono dal Gigante a salutarlo.
   «Ma dov'è il vostro piccolo compagno,» chiese loro il Gigante «il
ragazzino che io ho messo sull'albero?» Il Gigante lo amava più di tutti
poiché gli aveva dato un bacio.
   «Non sappiamo,» risposero i bambini «è andato via.»
   «Dovete dirgli di venire senza fallo domani» disse il Gigante. Ma i
bambini gli spiegarono che non sapevano dove abitasse, poiché non lo
avevano mai veduto prima, e il Gigante ne provò una profonda tristezza.
   Ogni pomeriggio, quando la scuola era terminata, i bambini venivano a
giocare col Gigante, ma il ragazzino che il Gigante amava nessuno lo vide
più. Il Gigante era molto affettuoso con tutti gli altri bambini, tuttavia si
struggeva di rimpianto per quel suo primo piccolo amico, e spesso parlava
di lui. «Come mi piacerebbe vederlo!» ripeteva spesso.
   Passarono molti anni: il Gigante era diventato vecchio e debole. Non
aveva più la forza di giocare, perciò rimaneva seduto in un'immensa
poltrona e osservava i bambini intenti ai loro giochi, e ammirava il suo
giardino. «Ho molti fiori bellissimi, adesso,» soleva dire «ma i bambini
sono i fiori più belli.»
   Un mattino d'inverno, mentre si vestiva, diede un'occhiata fuor della
finestra. Ormai non odiava pù l'Inverno, poiché sapeva ch'esso era soltanto
la Primavera addormentata, e che in quel periodo i fiori si riposavano.
   A un tratto si fregò gli occhi per la meraviglia e tornò a guardare e a
riguardare più volte. Era veramente uno spettacolo straordinario.
Nell'angolo più remoto del giardino c'era un albero tutto ricoperto di
squisiti boccioli bianchi. Aveva rami d'oro da cui pendevano frutti
d'argento, e sotto di esso stava il ragazzino ch'egli aveva amato.
   Fuor di sé dalla gioia il Gigante si precipitò abbasso e corse fuori in
giardino. Attraversò il prato a passi rapidi e si avvicinò al bambino, ma
quando gli fu da presso il suo viso si invermigliò di collera ed egli disse:
   «Chi ha osato ferirti?» poiché le palme delle mani del bambino recavano
l'impronta di due chiodi, e il segno di due chiodi era impresso sui suoi
minuscoli piedi.
   «Chi ha osato ferirti?» ripetè il Gigante «dimmelo, che io prenderò la
mia grossa spada e lo ucciderò!»

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«No, non devi,» rispose il bambino «poiché queste sono le ferite
dell'Amore.»
  «Chi sei tu?» domandò il Gigante, e un misterioso timore lo invase, ed
egli si inginocchiò davanti al piccolo bambino.
  E il bambino sorrise al Gigante e gli disse:
  «Una volta tu mi hai lasciato giocare nel tuo giardino, oggi verrai con
me nel mio giardino, che è il Paradiso.»
  E quando i bambini vennero come il solito quel pomeriggio trovarono il
Gigante disteso sotto l'albero, morto, tutto coperto di candidi petali.

                         L'AMICO DEVOTO
   Un mattino il vecchio Topo di fogna cacciò la testa fuor dalla sua tana.
Aveva due occhi vispi e tondi come perline e rigidi baffi grigi, e la sua
coda assomigliava a un lungo pezzo di gomma nera. Gli Anatroccoli
stavano nuotando nello stagno, simili in tutto e per tutto a una frotta di
canarini gialli, e la loro mamma, che era di un bianco candido e aveva due
vere gambe rosse, cercava di insegnargli a stare ritti con la testa nell'acqua.
   «Non potrete mai entrare nella buona società se non imparerete a stare
ritti sulla testa» seguitava a ripetere ai suoi bambini, e di tanto in tanto
mostrava loro come dovevano fare, ma gli Anatroccoli non le davano retta;
erano così giovani che non avevano la minima idea del vantaggio che si
può avere a frequentare la buona società.
   «Che bambini disobbedienti!» gridò il vecchio Topo di fogna.
«Meriterebbero proprio di morire annegati!»
   «Neanche per sogno!» ribatté la Mamma Anatra, «tutti devono imparare,
e bisogna che i genitori si armino di una grande pazienza.»
   «Ah io non so nulla di quel che provano i genitori,» disse il Topo di
fogna «personalmente non sono un tipo adatto a metter su famiglia: infatti
non mi sono mai sposato, e me ne guardo bene dal farlo. L'amore a modo
suo è una bellissima cosa, ma l'amicizia è molto superiore. Francamente
trovo che non esisti niente al mondo che sia più nobile o più prezioso d
un'amicizia devota.»
   «Per favore, vuoi dirmi qual è il tuo punto di vista circa i doveri di un
amico devoto?» gli domandò un Fanello verde, che era rimasto appollaiato
su un salice lì vicino, e aveva inteso la conversazione.
   «Già, anche a me piacerebbe saperlo» disse l'Anatra, e nuotò sino

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all'estremità opposta dello stagno e si mise sulla testa onde dare ai suoi
bambini un buon esempio.
   «Che domanda stupida!» esclamò il Topo di fogna. «Pretenderei che il
mio amico devoto fosse devoto a me, si capisce!»
   «E tu che cosa gli daresti in cambio?» domanda l'Uccellino,
dondolandosi su un ramo argenteo, e battendo le sue minuscole ali.
   «Non ti capisco» rispose il Topo di fogna.
   «Se permetti, ti racconterò una storia in proposito» disse il Fanello.
   «È una storia che riguarda me?» chiese il Topo di fogna. «In questo caso
l'ascolterò volentieri, perché i racconti immaginari mi piacciono
moltissimo.»
   «Be', si può adattarla al caso tuo» replicò il Fanello, e volò giù e
posandosi sulla sponda dello stagno raccontò la storia dell'Amico Devoto.
   «C'era una volta,» incominciò il Fanello «un bravo omino che si
chiamava Hans.»
   «Era una persona distinta?» chiese il Topo di fogna.
   «No,» rispose il Fanello «credo anzi che non fosse affatto distinto,
tranne che per il suo buon cuore e per la sua buffa faccia tonda e sempre di
buon umore. Abitava in una casettina piccina piccina tutto per conto suo, e
ogni giorno lavorava nel suo giardino. In tutta la contrada non esisteva un
giardino bello come il suo. Vi crescevano garofanetti selvatici e
violacciocche, borse di pastore e belle di Francia, rose di Damasco e rose
gialle, crochi color gridellino e oro, viole bianche e porporine, aquilegie e
mantelli di dama; la maggiorana e il basilico selvatico, la primula e il
fiordaliso, l'asfodelo e i chiodi di garofano vi sbocciavano o fiorivano nel
loro giusto ordine a seconda dell'avvicendarsi dei mesi, ogni fiore
prendendo il posto di un altro fiore, cosicché vi erano sempre cose belle da
vedere, e grati profumi da odorare.
   Il piccolo Hans aveva moltissimi amici, ma di tutti il suo amico più
affezionato era il grosso Hugh il Mugnaio. Il ricco Mugnaio infatti era
talmente affezionato al piccolo Hans che non osava passare mai dal
giardino di questo senza sporgersi oltre il muro di cinta e cogliere o un
gran mazzo di fiori, o una manciata di erbe aromatiche, oppure senza
riempirsi le tasche di susine e di ciliege se era la stagione della frutta.
   "I veri amici devono avere tutto in comune" soleva dire il Mugnaio, e il
piccolo Hans faceva cenno di sì col capo e sorrideva, e si sentiva molto
orgoglioso di avere un amico di idee tanto nobili.

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Talvolta, a dire il vero, i vicini trovavano strano che il ricco Mugnaio
non desse mai nulla in cambio al piccolo Hans, benché nel suo mulino
avesse riposti più di cento sacchi di farina, e possedesse sei mucche da
latte, e un grande gregge di pecore lanose, ma Hans non si tormentava mai
il cervello con problemi di questo genere, e nulla gli dava maggior piacere
che ascoltare tutte le cose meravigliose che il Mugnaio soleva narrare
intorno al disinteresse e all'altruismo della vera amicizia.
   Così il piccolo Hans lavorava di lena nel suo giardino. Durante la
primavera, l'estate e l'autunno era felice e contento, ma quando veniva
l'inverno e non aveva né fiori né frutta da portare al mercato, allora
soffriva parecchio per il freddo e la fame, e spesso era costretto ad andare a
letto avendo mangiato per tutta cena soltanto qualche pera secca o un
pugno di noci dure. D'inverno poi era tutto solo poiché il Mugnaio non si
recava mai a fargli visita.
   "È proprio inutile che io vada a trovare il piccolo Hans fin quando dura
la neve," soleva dire il Mugnaio alla moglie "perché quando la gente è nei
guai è molto meglio lasciarla in pace senza seccarla con le visite. Questo
almeno è il mio punto di vista dell'amicizia e sono sicuro di essere nel
giusto. Perciò aspetterò che arrivi la primavera: allora andrò a trovarlo, e
lui sarà in grado di darmi un grosso cesto di primule, e questo gli farà tanto
piacere."
   "Come ti preoccupi per gli altri!" gli rispondeva la moglie, seduta in
un'ampia e comoda poltrona presso il gran fuoco di legna di pino.
"Davvero non fai che pensare al tuo prossimo! È una vera festa sentirti
parlare! Sono convinta che nemmeno il pastore saprebbe dire cose più
belle di te, e sì che abita in una casa di tre piani, e porta al dito mignolo un
anello d'oro!"
   "Ma non potremmo invitare il piccolo Hans qui a casa nostra?" disse un
giorno il figlio minore del Mugnaio. "Se il povero Hans è nei guai io potrei
dargli metà della mia zuppa d'avena, e potrei mostrargli i miei conigli
bianchi."
   "Che ragazzo sciocco, sei!" gridò il Mugnaio. "Non so proprio a che
cosa serva mandarti a scuola! Mi sembra davvero che non t'insegnino un
bel nulla! Perbacco, se il piccolo Hans venisse qui e vedesse il nostro
camino caldo, e la nostra buona cena, e la nostra grossa botte di vino rosso
potrebbe diventare invidioso: ora l'invidia è un difetto orribile che
guasterebbe il carattere di chiunque, mentre io non permetterò mai che il

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carattere di Hans si guasti. Sono il su migliore amico, e avrò
continuamente cura di lui starò bene attento a che non cada in tentazioni di
nessun genere. Del resto, se Hans venisse qui potrebbe chiedermi di dargli
della farina a credito, cosa che no: potrei assolutamente fare, perché la
farina è una cosa e l'amicizia è un'altra e non bisogna confonderle. Per
bacco: sono due parole che si pronunciano in modi completamente
diverso, e significano due cose diversissime! Lo capirebbe chiunque!"
   "Come parli bene!" disse la moglie del Mugnaio versandosi un gran
bicchiere di vino caldo. "Mi sento: tutta piena di sonno: è proprio come
essere in chiesa!"
   "Un sacco di gente agisce bene," replicò il Mugnaio "ma pochissima
parla bene, il che dimostra come parlare sia delle due la cosa assai più
difficile, e la più bella, per giunta!" E lanciò dall'altra parte della tavola
un'occhiataccia severa al suo bambino, il quale provò tanta vergogna di
quel che aveva osato dire, che chinò il mento sul petto e si fece rosso rosso
in viso e si mise a piangere entro la sua tazza del tè. Comunque era tanto
piccolo che dovete scusarlo.»
   «La storia finisce qui?» domandò a questo punto il Topo di fogna.
   «Ma no,» ribatté il Fanello «questo non è che il principio.»
   «Allora tu sei molto indietro coi tempi» osservò il Topo di fogna. «Ogni
cantastorie che si rispetta, oggigiorno, incomincia dalla fine, poi ritorna al
principio e conclude con la metà. Questo è il nuovo metodo. Ho imparato
ogni cosa in proposito l'altro giorno da un critico che passeggiava attorno
allo stagno in compagnia di un giovanotto. Trattò dell'argomento a lungo,
e sono sicuro che doveva aver ragione poiché era calvo e portava un paio
di occhiali scuri, e ogni volta che il giovanotto faceva un'osservazione il
critico rispondeva invariabilmente: "Peuh!". Ma continua il tuo racconto, ti
prego, perché il Mugnaio mi piace immensamente. Ho anch'io una gran
quantità di sentimenti bellissimi, perciò tra me e lui esiste una profonda
affinità.»
   «Dunque,» riprese il Fanello, saltellando ora su una zampetta, ora
sull'altra «non appena l'inverno ebbe fine e le primule incominciarono a
schiudere le loro pallide stelle gialle, il Mugnaio disse alla moglie che
sarebbe andato a far visita al piccolo Hans.
   "Hai proprio un gran buon cuore!" esclamò la moglie. "Tu pensi sempre
agli altri. E non dimenticare di portare con te il grosso cesto per i fiori! "
   Perciò il Mugnaio legò insieme le pale del suo mulino a vento con una

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solida catena di ferro e scese giù per la collina con il paniere sotto braccio.
   "Buon giorno, piccolo Hans" disse il Mugnaio.
   "Buon giorno" rispose Hans appoggiandosi sulla sua vanga, con un
sorriso che gli fendeva la faccia da un orecchio all'altro.
   "Come te la sei passata quest'inverno?" gli chiese il Mugnaio.
   "Oh, ecco," esclamò il piccolo Hans "sei molto buono a domandarmelo,
molto buono davvero! Purtroppo temo di aver passato dei momenti un po'
difficili, ma adesso è venuta la primavera e io sono tanto contento perché i
miei fiori promettono benissimo.”
   "Abbiamo parlato spesso di te, quest'inverno, Hans," disse il Mugnaio "e
ci siamo chiesti tante volte come stavi."
   "Questo è stato veramente molto carino da pari vostra," rispose Hans
"avevo una mezza paura che vi foste dimenticati di me."
   "Hans, mi meraviglio di te!" esclamò il Mugnaio, "L'amicizia non
dimentica mai. Questo è il suo indescrivibile pregio, ma temo tu non
comprenda la poesia della vita. A proposito, come sono belle le tue
primule!"
   "Sì, sono proprio belline davvero," replicò Hans "ed è una vera fortuna
per me averne tante. Ho intenzione di portarle al mercato e di venderle alla
figlia del Borgomastro, così col danaro che ne ricaverò potrò ricomprarmi
la mia carriola.
   "Ricomprarti la tua carriola? Non vorrai mica farmi credere che l'hai
venduta? Che stupidaggine hai commessa!"
   "Ecco, il fatto è," gli spiegò Hans "che sono stato costretto a venderla!
Capisci, l'inverno è stato per me un periodo molto duro, e non avevo
nemmeno soldi a sufficienza per comprarmi il pane. Così dapprincipio ho
venduto i bottoni d'argento del mio vestito della festa, poi ho venduta la
mia catena d'argento, poi ho venduto la mia grossa pipa, e infine ho
venduto la mia carriola. Ma adesso a poco a poco riscatterò tutte le mie
cose."
   "Hans," disse il Mugnaio "ti darò io la mia carriola. Non è in gran buono
stato; per dire la verità ha tutto un fianco che non esiste più, e c'è qualcosa
che non va coi mozzi delle ruote, ma nonostante ciò te la darò lo stesso. Lo
so che è un gesto molto generoso da parte mia, e molta gente mi
giudicherà pazzo a separarmene, ma io non sono come gli altri; io ritengo
che la generosità sia l'essenza dell'amicizia, e d'altronde per me mi sono
già comperato una carriola nuova. Sì, sì, mettiti pure il cuore in pace: ti

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darò la mia carriola."
   "Oh, grazie, come sei generoso!" esclamò il piccolo Hans, e la sua buffa
faccia rotonda luccicò tutta di gioia. "L'aggiusterò facilmente, poiché ho
giusto un'asse di legno in casa!"
   "Asse di legno!" esclamò il Mugnaio. "Ma è proprio quel che mi occorre
per il tetto del mio granaio. Ci si è fatto dentro un gran buco, e il grano mi
si bagnerà tutto se non l'aggiusto al più presto. È una vera fortuna che tu ne
abbia parlato! È proprio vero che una buona azione ne genera sempre
un'altra! Io ti ho dato la mia carriola e adesso tu mi darai la tua asse.!
Naturalmente la carriola vale molto più dell'asse, mal la vera amicizia non
bada mai a queste cose. Ti prego, vammela a prendere subito, così potrò
mettermi a riparare il mio granaio oggi stesso."
   "Certamente!" gridò il piccolo Hans, e corse nellai rimessa e ne tirò fuori
l'asse.
   "Non è un'asse molto grande," disse il Mugnaio dopo averla ben bene
osservata "e ho paura che dopo che avrò aggiustato il tetto del mio granaio
non ne resterà più per rabberciare la carriola, ma naturalmente questo non
è colpa mia. E adesso, dal momento che ti ho dato la mia carriola, non
dubito che vorrai darmi un po' di fiori in cambio. Eccoti il paniere e fa ben
attenzione di riempirlo tutto."
   "Proprio tutto?" domandò il piccolo Hans con un certo rincrescimento,
perché si trattava effettivamente di un paniere di una grandezza
eccezionale, ed egli sapeva che quando lo avesse riempito fino all'orlo,
come voleva il Mugnaio, non gli sarebbero rimasti più altri fiori da portare
al mercato, mentre aveva tanta fretta di riscattare i suoi bottoni d'argento.
   "Be', francamente," rispose il Mugnaio "dal momento che ti ho dato la
mia carriola, non credo sia eccessivo da parte mia chiederti quattro fiori.
Forse sbaglierò ma io ritenevo che l'amicizia, la vera amicizia, fosse del
tutto esente da qualsiasi forma di egoismo."
   "Amico caro, mio migliore amico," esclamò il piccolo Hans "tutti i fiori
del mio giardino sono tuoi. Preferisco avere la tua stima piuttosto che i
miei bottoni d'argento, in qualsiasi momento." E corse a cogliere tutte le
sue primule e ne riempì il paniere del Mugnaio.
   "Arrivederci piccolo Hans" gli disse il Mugnaio, e si avviò su per la
collina con l'asse sulla spalla e il grosso cesto in mano.
   "Arrivederci" rispose il piccolo Hans, e incominciò a vangare
allegramente: era così contento della carriola!

Oscar Wilde                          11       1887 - Il Fantasma Di Canterville
Il giorno seguente era intento a inchiodare lungo la parete del portico dei
rami di caprifoglio, quando intese la voce del Mugnaio che lo chiamava
dalla strada. Perciò si affrettò a scendere dalla scala a pioli su cui era
appollaiato e corse in giardino e si sporse dal muro di cinta.
   Fuori, sulla strada, c'era il Mugnaio con un grosso sacco di farina sul
dorso.
   "Caro piccolo Hans," gli disse il Mugnaio "non ti dispiacerebbe portarmi
questo sacco di farina al mercato?"
   "Oh, mi spiace proprio tanto," disse Hans "ma oggi sono talmente
occupato! Ho da appendere tutti i miei rampicanti, e da rullare tutto il mio
prato."
   "Francamente," ribatté il Mugnaio "trovo che se si pensa che io sto per
darti la mia carriola è veramente scortese da parte tua dirmi di no."
   "Oh, non parlare così," esclamò il piccolo Hans "lo sai bene che non
vorrei essere scortese con te per tutto l'oro del mondo!" E corse in casa a
prendere il suo berretto, e si allontanò faticosamente con il pesante sacco
sulle spalle.
   Era una giornata torrida, e la strada era terribilmente impolverata, e
prima di essere giunto alla sesta pietra miliare il povero Hans si sentì
talmente stanco che dovette sedersi per prender fiato. Comunque riprese
poi ad andare coraggiosamente finché infine arrivò al mercato. Dopo avere
atteso per un certo tempo riuscì a vendere il sacco di farina a un ottimo
prezzo, e subito ritornò a casa, poiché aveva paura che se si fosse fermato
lungo la strada troppo a lungo avrebbe potuto correre il rischio di
imbattersi in qualche banda di malfattori.
   "È stata una giornata francamente molto dura disse tra sé il piccolo Hans
mentre si preparava ad andare a dormire "ma sono contento di non aver
detto di no al Mugnaio, poiché è il mio migliore amico e per giunta mi
darà la sua carriola."
   Il mattino seguente per tempo il Mugnaio venne a ritirare il danaro del
suo sacco di farina, ma il piccolo Hans si era talmente stancato che era
rimasto a letto.
   "Ma lo sai che sei un bel pigrone!" esclamò il Mugnaio. "Francamente
trovo che dal momento che io ti darò la mia carriola tu potresti lavorare di
più. La pigrizia è un peccato gravissimo, e io non permetterò mai e poi mai
che un mio amico sia ozioso o pigro. Non devi spiacerti se ti parlo con
tanta franchezza; naturalmente non mi sognerei di parlarti come ti parlo se

Oscar Wilde                          12       1887 - Il Fantasma Di Canterville
non ti fossi amico, ma a che serve l'amicizia se uno non può dire quel che
pensa? Chiunque è capace di dire cose carine e di cercare di far piacere e
di adulare, ma un amico sincero dice sempre cose sgradevoli e non si
preoccupa di arrecar dolore. Anzi, se è un amico veramente sincero fa
questo volentieri, poiché sa che così facendo agisce bene."
   "Scusami tanto," disse il piccolo Hans fregandosi gli occhi e togliendosi
la berretta da notte "ma ero talmente stanco, che avevo pensato di starmene
in letto ancora un pochino ad ascoltare gli uccelli cantare. Lo sai che
lavoro sempre con maggior gusto ogni qualvolta ascolto il canto degli
uccelli?"
   "Be', mi fa piacere di sentir questo," disse il Mugnaio, dandogli una
pacca sulla schiena, "perché ho proprio bisogno che tu venga su al mulino
non appena sarai vestito ad aggiustare il tetto del mio granaio."
   Il povero piccolo Hans era tutto ansioso di andare ad accudire al suo
giardino, poiché da due giorni i suoi fiori non erano più stati innaffiati, ma
non osò dir di no al Mugnaio; era un così buon amico per lui!
   "Credi che sarebbe scortese da parte mia se ti dicessi che ho da fare?"
domandò con voce timida e sommessa.
   "Be', francamente," replicò il Mugnaio "non penso sia chiederti troppo,
dal momento che ti darò la mia carriola ma naturalmente se rifiuti me ne
andrò e lo aggiusterò da me."
   "Oh, no, no" esclamò il piccolo Hans; e saltò giù dal letto e si vestì e
andò nel granaio del Mugnaio.
   Vi lavorò tutto il giorno, sino all'ora del tramonto, e al tramonto il
Mugnaio venne a vedere a che punto era.
   "Hai finito di aggiustare il buco del tetto, piccolo Hans?" domandò il
Mugnaio con voce gioviale.
   "Sì, ho finito" rispose il piccolo Hans, scendendo dalla scala a pioli.
   "Ah!" fece il Mugnaio. "Non esiste lavoro più gradevole di quello
compiuto per conto d'altri!"
   "Certo è un grande privilegio ascoltarti parlare," rispose il piccolo Hans
sedendosi e asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte "proprio un
gran privilegio! Ho paura però che io non riuscirò mai ad avere belle idee
come te! "
   "Oh, col tempo imparerai anche tu," disse il Mugnaio "ma devi darti da
fare. Per il momento tu possiedi soltanto la pratica dell'amicizia, ma a
lungo andare ne apprenderai pure la teoria."

Oscar Wilde                          13       1887 - Il Fantasma Di Canterville
"Credi davvero che ci riuscirò?" chiese il piccolo Hans.
   "Non ne dubito," gli rispose il Mugnaio "ma ora che mi hai riparato il
tetto, faresti meglio ad andare a casa a riposarti perché voglio che
domattina tu mi conduca le mie pecore su in montagna.”
   Il povero piccolo Hans, nell'udire ciò, non ebbe il coraggio di ribattere
nulla, e l'indomani mattina per tempo il Mugnaio condusse le sue pecore
davanti alla casetta di Hans, e Hans partì con le bestie su per la montagna.
Gli ci volle tutta la giornata, tra andare e tornare; e al ritorno era talmente
stanco che si addormentò sulla seggiola bell'e vestito com'era e non si
svegliò finché non fu pieno giorno.
   "Come me la godrò quest'oggi nel mio giardino!" si disse, e corse subito
a lavorare.
   Ma gira e volta non trovava mai il tempo di poter occuparsi dei suoi
fiori, poiché il suo amico il Mugnaio lo veniva sempre a cercare per fargli
fare lunghe commissioni, o perché lo aiutasse al mulino. A volte il piccolo
Hans si sentiva addirittura disperato, poiché temeva che i suoi fiori
avrebbero finito col pensare che egli li avesse dimenticati, ma si consolava
al pensiero che il Mugnaio era il suo migliore amico. "D'altronde," soleva
dirsi "mi darà la sua carriola, il che è un gesto di pura generosità."
   Così il piccolo Hans lavorava di lena per il Mugnaio, e il Mugnaio gli
teneva lunghi e bellissimi discorsi intorno all'amicizia, discorsi di cui Hans
prendeva appunti nel suo taccuino e che soleva rileggere la notte, poiché
era di temperamento studioso e amante del sapere.
   Ora accadde che una sera il piccolo Hans se ne stava seduto presso il suo
focolare quando intese qualcuno che bussava violentemente alla porta. Era
una notte infernale, e il vento soffiava e ruggiva attorno alla, casa con tanta
furia che a tutta prima pensò fosse la tempesta, ma poi risuonò un secondo
picchio, e infine un terzo più forte degli altri due.
   "Dev'essere qualche povero viandante" si disse il piccolo Hans, e corse
ad aprire.
   Invece era il Mugnaio, che in una mano teneva una lanterna e nell'altra
un grosso bastone.
   "Caro piccolo Hans" gli disse il Mugnaio "mi trovo in un grosso guaio.
Il mio bambino è caduto dalla scala a pioli e si è fatto male e devo andare
dal Dottore, ma il Dottore abita così lontano, ed è una notte col sì brutta
che mi è venuto in mente proprio adesso che sarebbe molto meglio che ci
andassi tu in vece mia. Lo sai che ho intenzione di darti la mia carriola,

Oscar Wilde                           14       1887 - Il Fantasma Di Canterville
perciò è giusto, trovo, che tu faccia qualcosa per me, in cambio!"
   "Certo," esclamò il piccolo Hans "sono anzi onorato che tu sia venuto a
cercarmi: mi metterò in strada subito. Però devi imprestarmi la tua
lanterna, poichè una notte tanto buia che ho paura di cadere nel fosso."
   "Mi spiace molto," gli rispose il Mugnaio "ma questa è la mia lanterna
nuova, e sarebbe per me una gran perdita se le capitasse qualcosa."
   "Be', non importa, farò senza," gridò il piccolo Hans e staccò
dall'attaccapanni il suo pesante mantello di pelliccia e il suo caldo berretto
rosso, e si annodò una sciarpa al collo e si mise in cammino.
   La tempesta fuori era semplicemente paurosa! La notte era talmente nera
che il piccolo Hans riusciva a vederci appena, e il vento soffiava con tanta
violenza che a stento poteva reggersi in piedi. Il piccolo Hans era molto
coraggioso, tuttavia, e dopo aver camminato per quasi tre ore giunse alla
casa del Dottore e bussò all'uscio.
   "Chi è?" gridò il Dottore, affacciandosi alla finestra della sua camera da
letto.
   "Sono il piccolo Hans, Dottore!"
   "Ah! Che cosa vuoi, piccolo Hans?"
   "Il figlio del Mugnaio è caduto dalla scala a pioli e si è fatto male, e il
Mugnaio vuole che lei vada subito da lui."
   "Va bene!" rispose il Dottore e diede ordine che gli sellassero il cavallo,
e si fece portare i suoi stivaloni e la sua lanterna, e scese abbasso e si avviò
in direzione della casa del Mugnaio, col piccolo Hans che gli veniva dietro
balzelloni.
   Ma la tempesta prese a infuriare sempre più minacciosa, e il piccolo
Hans non riusciva a vedere dove andava né a stare a passo col cavallo.
Alla fine smarrì la strada e si perdette nella landa, che era un luogo assai
pericoloso, perché era tutto disseminato di buche profonde, e in una di
queste il povero piccolo Hans cadde e annegò. Il giorno dopo il suo
cadavere fu ritrovata da alcuni caprai che galleggiava in una gran pozza
d'acqua, e costoro lo riportarono alla casetta.
   Tutti andarono al funerale del piccolo Hans, gli volevano tutti bene, e il
Mugnaio funse da capo piagnone.
   "Poiché ero il suo migliore amico," disse il Mugnaio "è più che giusto
che il posto migliore lo abbia io." Perciò marciò in testa alla processione
vestito di un lungo mantello nero e ogni tanto si asciugava gli occhi col
suo fazzolettone da tasca.

Oscar Wilde                           15       1887 - Il Fantasma Di Canterville
"Certo, la morte del Piccolo Hans è una gran perdita per tutti noi"
osservò il Fabbro Ferraio, quando le esequie furono terminate e si
trovarono tutti quanti riuniti comodamente nella locanda intorno a boccali
colmi di vino drogato e un bel piatto di ciambelle! dolci.
   "Per me almeno è sicuramente una gran perdita,” replicò il Mugnaio
"perbacco, praticamente gli avevo ormai regalata la mia carriola, e adesso
non so proprio che farmene. In casa m'ingombra, ed è talmente in cattivo
stato che anche se la vendessi non ne ricaverei nulla. Farò bene attenzione,
d'ora innanzi, a non dar via più niente. Ci si rimette sempre a essere
generosi."»
   «Ebbene?» chiese il Topo di fogna dopo una lunga pausa.
   «Ma, è finita» rispose il Fanello.
   «Ma che cosa è successo del Mugnaio?» disse il Topo di fogna.
   «Oh, proprio non lo so,» replicò il Fanello «e ti assicuro che non me ne
importa.»
   «Come si vede che sei totalmente privo di senso di comprensione!»
osservò il Topo di fogna.
   «Io invece temo che tu non abbia interamente compreso la morale della
storia» ribatté il Fanello.
   «La che cosa?» urlò il Topo di fogna.
   «La morale.»
   «Perché questa storia avrebbe una morale?»
   «Certamente» disse il Fanello.
   «Be', francamente,» gli rispose il Topo di fogna arrabbiatissimo «trovo
che avresti dovuto avvertirmene, prima di incominciare. Poiché in tale
caso puoi star sicuro che non sarei restato finora ad ascoltarti, ma ti avrei
detto "peuh," come il critico. Comunque te lo dico adesso» infatti gridò
"peuh" con quanto fiato aveva in gola, diede un colpo di coda e s'infilò di
nuovo nella sua tana.
   «Che ne pensi del Topo di fogna?» domandò l'Anatra che era
sopraggiunta di lì a pochi minuti pagaiando con le zampe a spatola. «Ha un
sacco di buone qualità, ma per parte mia, dati i miei sentimenti di madre,
non riesco a guardare uno scapolo inveterato senza che gli occhi mi si
velino di lagrime.»
   «Ho una gran paura di averlo seccato» mormorò il Fanello. «Il fatto è
che gli ho raccontata una storia con la morale.»
   «Ah, è sempre una cosa molto pericolosa, raccontare una storia con la

Oscar Wilde                          16       1887 - Il Fantasma Di Canterville
morale!» disse l'Anatra.
 E io sono completamente d'accordo con lei.

      LA SFINGE SENZA SEGRETI ACQUAFORTE
   Sedevo un pomeriggio a un tavolino fuori al Cafè de la Paix, e mi
divertivo a osservare lo sfarzo e lo squallore della vita parigina,
fantasticando, tra una sorsata di vermut e l'altra, sul curioso avvicendarsi di
orgoglio e di povertà che si andava snodando senza fine davanti ai miei
occhi, quando mi intesi chiamare per nome. Mi volsi di scatto e mi trovai
faccia a faccia con lord Murchison. Non ci eravamo più rivisti da quando
avevamo frequentato insieme l'Università, dieci anni prima; perciò fui
felice del caso che me lo faceva incontrare di nuovo, e ci stringemmo
calorosamente la mano. A Oxford eravamo stati molto amici, e in
quell'epoca mi era piaciuto immensamente: talmente bello, talmente
brillante, e così gentiluomo! Dicevamo continuamente che sarebbe stato il
migliore degli uomini, se non avesse avuto il torto di dire sempre la verità;
ma credo che in realtà lo ammiravamo soprattutto proprio per la sua
franchezza. Lo trovai parecchio mutato: sembrava preoccupato, ansioso,
come in dubbio su tutto e su tutti. Intuii che non poteva trattarsi di un
voluto atteggiamento scettico, come è di moda oggigiorno, poiché
Murchison era un conservatore fanatico, e credeva nel Pentateuco con la
stessa fede incrollabile con cui credeva nella Camera dei lord. Ne trassi
quindi la conclusione che doveva esserci di mezzo una donna, e gli chiesi
se non si fosse sposato, per caso.
   «Non conosco ancora abbastanza le donne per sposarmi» mi rispose.
   «Ma, caro Gerald,» ribattei «le donne hanno bisogno di essere amate,
non di essere capite.»
   «Io non sono capace di amare se non posso avere fiducia» disse.
   «Scommetto che nella tua vita c'è un mistero, Gerald! Su, raccontami
tutto!»
   «Andiamo a fare un giro in carrozza» disse. «Qui c'è troppa folla. No,
non quella vettura gialla, un altro colore qualsiasi... ecco quella laggiù
verde cupo va benissimo.» Pochi minuti dopo stavamo trottando lungo il
boulevard in direzione della Madeleine.
   «Dove vuoi che andiamo?» chiesi.
   «Oh, dove vuoi tu... Facciamoci portare al Ristorante del Bois de

Oscar Wilde                           17       1887 - Il Fantasma Di Canterville
Boulogne: ceneremo lì e tu mi racconterai tutte le tue cose.»
   «No, devi raccontare tu per primo. Devi svelarmi il tuo segreto.»
   Per tutta risposta Gerald si tolse di tasca un minuscolo astuccio di
marocchino con un fermaglio d'argento e me lo porse. Lo aprii. Conteneva
un ritratto di donna. Una donna alta e sottile, stranamente romantica, con
due grandi occhi sognanti e i capelli sparsi per le spalle. Aveva l'aspetto di
una clairvoyante (veggente), ed era avvolta in una sontuosa pelliccia.
   «Che cosa pensi di questo viso?» mi chiese Gerald. «Ti sembra
sincero?»
   La studiai attentamente. Mi parve il volto di una creatura che possedesse
un segreto, ma se questo segreto fosse buono o malvagio francamente non
avrei saputo dire. La sua bellezza pareva plasmata da molti misteri: era, in
una parola, una bellezza psicologica, non plastica, e il sorriso appena
percettibile che increspava quelle labbra era troppo delicato per essere
genuinamente dolce.
   «Ebbene,» gridò impaziente il mio amico «che ne pensi dunque?»
   «Mi sembra una Gioconda impellicciata di zibellino» dissi. «Dimmi
qualcosa di lei.»
   «Non ora, dopo cena» mi rispose Gerald e sviò la nostra conversazione
su altri argomenti.
   Dopo che il cameriere ci ebbe portato il caffè e le sigarette gli rammentai
la sua promessa. Si alzò allora da tavola, passeggiò un paio di volte su e
giù per la sala, infine si lasciò cadere in una poltrona e incominciò a
narrarmi la seguente storia:
   «Una sera, erano circa le cinque, me ne andavo per Bond Street. C'era un
ingombro spaventoso di vetture, e il traffico era pressoché interrotto.
Accanto al marciapiede era fermo un calessino giallo che non so più per
quale motivo attrasse la mia attenzione. Proprio mentre vi passavo accanto
si affacciò al finestriino il volto che ti ho mostrato questo pomeriggio. Ne
fui immediatamente affascinato, e non feci che pensarvi tutta la notte e
così tutto il giorno seguente, mentre andavo su e giù per quel dannato
Row, scrutando ogni equipaggio, sperando di veder comparire ad ogni
momento il calessino giallo; ma non mi fu possibile di rintracciare ma
belle inconnue(la mia bella sconosciuta), e finii col convincermi che era
stata soltanto una visione. Circa una settimana più tardi venni invitato dalla
signora de Rastail: il pranzo era stato fissato per le otto, ma alle otto e
mezzo stavamo ancora tutti in salotto, aspettando, quando infine il

Oscar Wilde                          18       1887 - Il Fantasma Di Canterville
domestico aperse la porta e annunciò lady Alroy. Era la donna che andavo
cercando disperatamente. Entrò con estrema lentezza; pareva un raggio di
luna vestito di merletto grigio. Toccò a me, con mia somma gioia, l'onore
di condurla a cena; e dopo che ci fummo seduti dissi, sforzandomi di
assumere un tono indifferente: "Credo di averla intravveduta qualche
tempo fa in Bond Street, lady Alroy". Ella divenne pallidissima e mi
rispose con un filo di voce: "La supplico di non parlare così forte:
qualcuno potrebbe udire". Mi sentii terribilmente infelice: l'inizio era stato
davvero disastroso. Mi buttai subito a capofitto nell'argomento delle
commedie francesi, ma ella parlava pochissimo, sempre con quella sua
voce smorzata, soavemente musicale, quasi temesse che qualcuno la stesse
spiando. Mi innamorai di lei disperatamente, stupidamente, e l'atmosfera
indefinibile di mistero che la circondava eccitò in me una invincibile
curiosità. Mentre era sul punto di andarsene, il che fu poco dopo terminato
il pranzo, le chiesi se mi permetteva di recarmi a ossequiarla a casa sua.
Esitò per un attimo, volse intorno uno sguardo inquieto per accertarsi che
nessuno ci ascoltava, e disse, infine: "Sì, domani alle cinque meno un
quarto". Supplicai la signora de Rastail di dirmi tutto quello che sapeva
della sua misteriosa ospite, ma potei apprendere solo che era vedova e che
possedeva una bellissima casa in Park Lane; e poiché un tremendo
scocciatore afferrò subito lo spunto per attaccare un'interminabile
dissertazione scientifica sulle vedove, esempio inconfutabile, secondo lui,
della sopravvivenza delle più idonee alla condizione matrimoniale, salutai
e me ne tornai a casa.
   Il giorno dopo mi recai all'appuntamento di Park Lane, all'ora spaccata,
ma il maggiordomo mi disse che la signora era uscita proprio in
quell'istante. Me ne andai al club disperato, e molto perplesso, pure, e dopo
lunga riflessione mi decisi a scriverle una lettera, chiedendole se mi
avrebbe permesso di tentare una sorte migliore in un prossimo futuro. Per
vari giorni non ottenni risposta, ma alla fine ricevetti un biglietto in cui mi
diceva che sarebbe stata in casa la domenica successiva alle quattro, e
aggiungeva questo straordinario poscritto: "La supplico di non scrivermi
più: le spiegherò tutto a voce, quando ci vedremo". La domenica
finalmente mi ricevette, e fu semplicemente adorabile; ma nel momento in
cui stavo per accomiatarmi mi pregò se mai avessi avuto occasione di
scriverle di nuovo di indirizzare le mie lettere alla Signora Knox presso la
Libreria Whittaker in Green Street. "Vi sono delle ragioni" soggiunse "che

Oscar Wilde                           19       1887 - Il Fantasma Di Canterville
mi vietano di ricevere lettere in casa mia."
   Mi incontrai molte volte con lei in quel periodo di tempo, ma l'atmosfera
di mistero che la circondava non l'abbandonò mai. A volte pensavo fosse
in balia di un uomo; ma ella era talmente inaccessibile che alla fine dovetti
scartare questa ipotesi. E mi era davvero difficile giungere a una
conclusione qualsiasi, poiché ella era simile a uno di quegli strani cristalli
che si ammirano nei musei, limpidissimi a tratti, a tratti improvvisamente
appannati. Finalmente mi decisi a chiederle di diventare mia moglie: ero
stufo e stanco della continua riservatezza che ella imponeva a tutte le mie
visite e alle poche lettere che ero riuscito a inviarle. Le scrissi all'indirizzo
di Green Street pregandola di ricevermi il lunedì seguente alle sei. Mi
rispose affermativamente, e questo mi innalzò al settimo cielo della
beatitudine. Ero pazzo di lei, nonostante il suo mistero, o, almeno, così la
pensavo allora. Oggi invece capisco che era proprio quel mistero che mi
affascinava. Eppure no: amavo la donna per se stessa, ma il suo mistero mi
tormentava, mi faceva impazzire. Perché mai la sorte mi mise sulle tracce
del suo segreto?»
   «Ah, riuscisti a scoprirlo, dunque?» esclamai.
   «Temo di sì» fu la risposta. «Giudica tu stesso. Venne il lunedì, e mi
recai a colazione da mio zio. Verso le quattro mi trovai a passare nella
Marylebone Road. Come tu sai, mio zio abita a Regent's Park. Volevo
andare a Piccadilly e presi una scorciatoia attraverso un groviglio di
straducole secondarie. A un tratto vidi dinnanzi a me lady Alroy,
fittamente velata, che camminava rapidissimamente. Quando fu giunta
all'ultima casa della viuzza salì gli scalini, trasse dalla borsetta una chiave,
aprì la porta ed entrò. "Ecco svelato il mistero" esclamai tra me, e corsi a
guardare la casa; aveva tutta l'aria di uno stabile di appartamenti ad affitto.
Sulla soglia raccattai un fazzoletto che ella aveva lasciato cadere per caso e
me lo misi in tasca. Poi cominciai a riflettere su quel che dovevo fare, ma
giunsi alla conclusione che non avevo alcun diritto di spiarla, perciò tornai
indietro, presi una carrozza e mi feci portare al club. Alle sei, eccomi a
casa sua. La trovai distesa su un divano, e vestita di un abito da
pomeriggio in tessuto d'argento chiuso da strani fermagli di zirconi ch'ella
portava sempre: era bellissima. "Come sono contenta di vederla" mi disse.
"Non mi sono mossa da casa tutto il pomeriggio."
   La fissai trasecolato e senza proferire parola trassi di tasca il suo
fazzoletto e glielo mostrai. "Lady Alroy questo fazzoletto le è caduto di

Oscar Wilde                            20       1887 - Il Fantasma Di Canterville
borsetta oggi pomeriggio in Cumnor Street" dissi infine con molta calma.
Ella mi guardò terrorizzata, ma non fece alcun tentativo per togliermi il
fazzoletto di mano. "Mi dica, che cosa faceva in Cumnor Street?" incalzai.
"Che diritto ha lei di farmi queste domande?" mi rispose. "Il diritto di un
uomo che l'ama" replicai. "Ero venuto qui oggi per chiederle di essere mia
moglie." Per tutta risposta, si nascose il volto tra le mani e scoppiò in un
torrente di lagrime. "Deve confessarmi la verità proseguii. Allora si alzò e
fissandomi dritto in faccia mi disse: "Lord Murcraison, io non ho nulla da
confessare". "Lei si è recata a un appuntamento galante" gridai "è questo il
suo mistero." La giovane divenne mortalmente pallida e replicò: "Non mi
sono recata a nessun appuntamento". "Non può dunque confessarmi la
verità?" esclamai. "L'ho detta." Era pazzo, frenetico: non so quello che
dissi: certo dovetti dirle delle cose terribili. Finalmente fuggii da casa sua
correndo come un forsennato. Il giorno seguente ella mi scrisse una lettera,
gliela rimandai senza aprirla e partii l'indomani per la Norvegia insieme ad
Alan Corville. In capo a un mese tornai, e la prima cosa chi lessi sul
«Morning Post» fu l'annuncio di morte of lady Alroy.
   Aveva preso un colpo d'aria all'Opera ed era morta in cinque giorni di
congestione polmonare. Mi chiusi in casa e non volli vedere nessuno:
l'avevo amata tanto, oh, quanto l'avevo amata! Dio mio! Ero stato pazzo di
quella donna!»
   «Sei più tornato a quella strada, a quella casa?» domandai.
   «Sì... Un giorno mi recai nella Cumnor Street; non potevo più resistere:
ero torturato dal dubbio. Bussai alla porta, e una donna dall'apparenza più
che rispettabile mi venne ad aprire. Le chiesi se aveva stanze da affittare.
"Ecco, signore," mi rispose "a dire la verità i due salottini sarebbero
affittati, ma siccome sono tre mesi che non vedo più la signora, e la
pigione non è più stata pagata, penso che potrei benissimo affittarli a lei, se
le servono." "È questa la signora?" chiesi mostrandole la fotografia di lady
Alroy. "Proprio lei" rispose la donna. "E quando crede che tornerà,
signore?" "È morta." "Oh, no signore, non mi dica questo, non è possibile.
Era la mia migliore inquilina, mi pagava tre ghinee la settimana
unicamente per starsene ogni tanto seduta nei due salottini." "Si incontrava
con qualcuno, qui da lei?" chiesi. La donna mi assicurò che no, che veniva
sempre lì tutta sola, senza mai vedervi nessuno. "Ma che diamine faceva,
qua?" gridai. "Niente, gliel'ho detto, signore: se ne stava seduta in una
poltrona, quieta quieta, ogni tanto leggeva qualche libro, e di quando in

Oscar Wilde                           21       1887 - Il Fantasma Di Canterville
quando prendeva il tè." Così mi disse la donna, e io non seppi che cosa
replicare: le diedi una sovrana e me ne andai Ora, secondo te, che
significato ha tutta questa storia? Non penserai certo che l'affittacamere mi
abbia detto la verità!»
   «Sì, invece.»
   «Ma allora perché lady Alroy si recava a quei convegni misteriosi?»
   «Mio caro Gerald, lady Alroy era semplicemente una donna che aveva la
mania del mistero. Aveva preso in affitto quelle stanze per il piacere di
recarsi a un appuntamento immaginario, velata, e fantasticando di essere
un'eroina da romanzo. Aveva la passione del segreti, ma non era ella stessa
che una piccola sfinge senza segreti.»
   «Credi proprio che sia così?»
   «Ne sono sicuro.»
   Il mio amico trasse di tasca l'astuccio di marocchino, lo aperse, guardò il
ritratto. «E chi può garantirlo?» mormorò alla fine.

              IL FANTASMA DI CANTERVILLE
               ROMANZA SACRA E PROFANA
                           I
   Quando il signor Hiram B. Otis, ministro degli Stati Uniti, acquistò
Canterville Chase, tutti gli dissero che commetteva una grande
sciocchezza, poiché non vi era dubbio di sorta che l'intera località non
fosse letteralmente infestata dagli spiriti. Lo stesso lord Canterville,
persona scrupolosissima in materia di onore, si era sentito in dovere di
fargli presente la realtà dei fatti, allorché si venne a discutere le condizioni
di vendita.
   «Neppure noi abbiamo avuto più il coraggio di abitarvi,» spiegò lord
Canterville «da quando la mia prozia, la vecchia duchessa di Bolton, si
spaventò in modo tale che le prese un attacco di nervi dal quale non si
riebbe mai completamente, per colpa di due mani scheletriche che le si
posarono sulle spalle mentre si stava vestendo per scendere a pranzo; e mi
sento tenuto a precisarle, mister Otis, che il fantasma è stato veduto da
diversi membri della mia famiglia tuttora viventi, come pure dal Rettore
della parrocchia, il reverendo Augustus Dampier, che è membro del King's
College di Cambridge. Dopo il disgraziato incidente toccato alla duchessa,
nessuna delle domestiche giovani volle più restare al nostro servizio, e

Oscar Wilde                           22       1887 - Il Fantasma Di Canterville
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