Il breve sogno dei signori Spitz. Una famiglia e la sua fabbrica di ceramiche nella Verona del secondo Ottocento - Verona Storia
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Il breve sogno dei signori Spitz. Una famiglia e la sua fabbrica di ceramiche nella Verona del secondo Ottocento ELISA ANTI Questa è una storia che non ha un lieto fine. Raccontarla ci permette però di aprire una ulteriore finestra sul tempo in cui Verona, raccogliendo le grandi sfide della modernità, iniziava a convertirsi all’industria. Un’evoluzione non fa- cile, di cui si sono ricostruiti soprattutto i successi. Ma il progresso, in tutte le sue facce, procede sempre “per tentativi ed errori”: ecco allora che anche un fal- limento diventa una preziosa fonte di conoscenza, per fare luce su fattori e mec- canismi che hanno portato a privilegiare alcune strade a discapito di altre*. * Sono molte le persone che devo ringraziare per il supporto che mi hanno offerto nell’affrontare un tema così sfidante e insolito rispetto a quelli che erano stati finora i miei interessi di ricerca. In primo luogo Andrea Brugnoli, che mi ha incoraggiata a trasformare una ricerca nata per curiosità personale in un vero e proprio saggio. Poi Roberto Mazzei e Chiara Bianchini dell’Archivio di Stato di Verona, per la pazienza con cui mi hanno accompagnato a districarmi tra fonti a me non così familiari. Il personale dell’Archivio Storico del Comune di Verona, per la cortesia e la disponibi- lità. Luigi Zampieri, custode del Cimitero Ebraico di Verona, per l’aiuto nell’identificare le sepol- ture della famiglia Spitz e decifrare le storie raccontate dalle loro lapidi. Il Presidente dell’Asso- ciazione Figli della Shoah di Verona, Roberto Israel, ed Elena Lucchi della Segreteria della Comu- nità Ebraica di Verona per il prezioso supporto nell’accesso ai registri storici. Maria Adelina Zanon dell’Archivio della Camera di Commercio di Verona, per le ricerche condotte nel tentativo di tro- vare atti originali relativi alla fabbrica Spitz. Laura Brazzi del CDEC di Milano e il personale dell’ar- chivio storico del Cimitero Monumentale di Milano per il prezioso aiuto nel tentativo di seguire le tracce meneghine della famiglia. Sigle: ACVr = Archivio del Comune di Verona; ACEVr = Archivio della Comunità Ebraica di Ve- rona; ASVr = Archivio di Stato di Verona. Studi Veronesi. Miscellanea di studi sul territorio veronese. VI, Verona 2021
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Premessa Come spesso accade, lo spunto per questa ricerca nasce da un evento casuale. Per la precisione, dal ritrovamento di tre piatti, recuperati in un polveroso mer- catino del riuso: palesemente ottocenteschi, palesemente italiani, discreta- mente malconci, tanto che chi scrive – collezionista di ceramiche inglesi dell’Otto e del Novecento – stava già passando oltre. È però bastato un occhio al marchio di fabbrica per capire che questi oggetti avevano una storia singolare e quasi sconosciuta ai più, che meritava di essere ricostruita e raccontata. È la storia di una ricca famiglia e del coraggioso quanto infelice tentativo che, negli anni Settanta dell’Ottocento, la porta a installare in Verona una nuova e sfidante attività industriale: una fabbrica di articoli in ceramica, destinati ad ab- bellire le case e le tavole di una borghesia che non poteva ancora permettersi il lusso della porcellana ma non era nemmeno più disposta ad accontentarsi di modesti oggetti in terracotta. Il settore è promettente, come dimostrano le grandi fortune delle aziende in- glesi e francesi del settore. Là, infatti, si sono da tempo diffuse nuove tecnologie in grado di ridurre il peso delle lavorazioni manuali a favore di procedimenti meccanizzati, capaci addirittura di migliorare la qualità del prodotto finale. In Italia, terra di storici distretti produttivi di ceramica artistica1, si guarda però ancora con una certa diffidenza a queste innovazioni tecnologiche, e poche ma- nifatture si sforzano di restare al passo con i tempi2. Proprio per l’esempio inglese e francese e la quasi inesistente concorrenza interna Alberto Spitz, ricco commerciante di origine ebraica giunto a Verona dalla Moravia negli anni Trenta dell’Ottocento, è fiducioso nella buona riuscita dell’impresa e, in società con l’amato figlio Emilio, si lancia coraggiosamente nella nuova attività imprenditoriale. 1 Per le vicende storiche e produttive del distretto ceramico veneto nel XIX secolo si vedano MA- RINI, La manifattura Antonibon, pp. 277-349; MARINI, Le fabbriche minori, pp. 277-349 e 350- 369; soprattutto, La ceramica dell’Ottocento nel Veneto e in Emilia-Romagna, con particolare riferimento al contributo di AUSENDA, La ceramica artistica veneta alle Esposizioni (1851-1900), pp. 25-50. 2 Illuminante in proposito è lo sgomento di fronte alle tecnologie in uso negli altri paesi mani- festato all’esposizione di Londra del 1862 dal direttore tecnico della manifattura di Doccia, Paolo Lorenzini. «Fino a qui – scrive in una lettera indirizzata al marchese Ginori – […] facevamo gli artisti; d’ora in poi non potremmo più farlo: altri tempi, altri costumi». Per fortuna, il marchese Ginori fu sufficientemente lungimirante da accogliere il suggerimento, portando l’azienda «dall’artigianato tradizionale» alle nuove «arti industriali». Il documento è riportato in BUTI, La Manifattura Ginori, p. 24. La vicenda nel suo complesso è ricostruita in PELLEGRINO, L’Italia alle esposizioni universali del XIX secolo. [2]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Alberto e i suoi fratelli Prima di addentrarci nelle vicende dell’opificio Spitz, però, è necessario fare un passo indietro, per conoscere meglio i protagonisti di questa vicenda. Come molte altre famiglie di origine ebraica, anche gli Spitz arrivano a Verona dalle terre più lontane dell’Impero austriaco. Alberto e i suoi fratelli, Saliz e Adolfo, sono infatti originari di Brün, oggi Brno, la città dominata dalla fortezza dello Spielberg. Figli di Vittorio3 e di Maria Maretzchek, i ragazzi Spitz arrivano in città in momenti diversi. Alberto giunge a Verona nel gennaio 1839, appena ventenne4, con l’intento di aprire un magazzino di tessuti. Siamo qui all’interno di un feno- meno economico ben preciso: come annota Maria Luisa Ferrari, l’eliminazione delle barriere commerciali interne, unita all’introduzione del divieto di impor- tazione dagli altri stati stabilito dal Governo Austriaco negli anni Venti dell’Ot- tocento, ebbe infatti come conseguenza un rafforzamento dei rapporti commer- ciali tra Verona e l’Austria. Questo significò l’arrivo in città di numerosi com- mercianti, in gran parte di origine ebraica, per aprire magazzini capaci di rice- vere e distribuire merce direttamente ai clienti italiani senza ricorrere a inter- mediari locali. Nel decennio 1822-1832 almeno una trentina di «negozianti fo- restieri dell’impero austriaco» provenienti da Boemia, Moravia e Carinzia si do- miciliarono in Verona per intraprendere nuove attività, dedicandosi in partico- lare al commercio di «panni, lane, cotoni e telerie». Alberto Spitz era appunto uno di loro5. Il giovane si inserisce rapidamente in città e nella locale Comunità Ebraica, stringendo solide relazioni con le famiglie più in vista. Lo dimostra innanzi tutto il matrimonio della sorella maggiore, Saliz, che arriva a Verona nella tarda pri- mavera del 1841 per andare in sposa al ricco possidente Girolamo Basevi Cer- vetto6. Il 19 dicembre dello stesso anno Alberto sposa invece Diamante Calabi, 3 Indicato volta a volta nei documenti come Vitto, Victor, Vittorio, o Vittore, secondo le diverse grafie. 4 Secondo i registri della Comunità Ebraica, Alberto Spitz, nato a Brün il 30 luglio 1818, arriva a Verona il 1° gennaio 1839 e viene iscritto «dietro presentazione personale». All’anagrafe au- striaca risulta registrato il 1° dicembre dello stesso anno. ACEVr, Registri di famiglia, 20, f. 118; ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 11245. 5 FERRARI, “Quies inquieta”, pp. 146-151. 6 Saliz Spitz – detta anche Sara, o Sali, o Salis, secondo le grafie – nasce a Brün il 13 settembre 1812. Nei registri della Comunità Ebraica di Verona viene iscritta il 16 agosto 1841, circa due mesi dopo il matrimonio con Girolamo Basevi Cervetto, celebrato il 20 giugno; nell’anagrafe austriaca risulta invece registrata l’8 settembre 1841: ACEVr, Registri di famiglia, 20, f. 24; ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 861; ACVr, Anagrafe Austriaca 1856-1871, f. 4490. [3]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI figlia di Aron Vita, commerciante veronese7. L’ultimo ad arrivare a Verona è Ezechia, detto Adolfo, molto più giovane dei precedenti, che raggiunge i fratelli sulle rive dell’Adige nel novembre 18498. Nel 1855 anche Adolfo sposerà una Calabi, precisamente Regina, figlia di uno dei fratelli di Diamante, Benedetto9. Questi matrimoni sono la diretta conseguenza di uno stretto lavoro di rela- zioni intessute dai giovani Spitz, e da Alberto in particolare, all’interno della Co- munità Ebraica veronese. In questo senso, il loro “gancio” principale sembrano essere i Goldschmiedt, una delle famiglie più illustri della Verona del tempo10. Anche i Goldschmiedt erano giunti a Verona relativamente da pochi anni. Nathan e Shlomo Goldschmiedt erano infatti arrivati sulle rive dell’Adige nella primavera del 1814 provenendo dalla città bavarese di Ebelsbach, per raggiun- gere alcuni parenti già da anni nella città scaligera. I due giovani avevano rapi- damente italianizzato i loro nomi in Natan – o Natale, secondo le grafie – e Pa- cifico, aprendo poco dopo – anche loro – un magazzino di tessuti nell’attuale via Leoncino 12-14, a palazzo Sagramoso11. È possibile che le due famiglie fossero già in qualche modo legate, e che siano proprio i Goldschmiedt il motivo per cui i fratelli Spitz scelgono Verona, così come è possibile che la relazione sia nata in seguito all’arrivo in città di Alberto. Comunque siano andate le cose, è di tutta evidenza che si tratta di un rapporto importante, che viene rafforzato anche attraverso legami nuziali. Il marito di Saliz è infatti cognato di Natale Goldschmiedt, che ne ha sposato la sorella, Al- legra Basevi Cervetto (1809-1848). Due anni dopo la morte di quest’ultima, Na- tale prenderà in sposa Giovanna (Anna) Maretzchek (1828-1892), come gli Spitz originaria di Brün e molto probabilmente parente della loro defunta madre, Ma- ria Maretzchek12. Nei primi anni dopo il matrimonio con Diamante e Regina 7 Nata a Verona l’11 giugno 1813, figlia di Aron Vita Calabi, “negoziante”, e di Regina Sulan, sposerà Alberto Spitz il 19 dicembre 1841. 8 Ezechia Adolfo Spitz nasce a Brün il 28 luglio 1828. Viene iscritto nei registri della Comunità Ebraica il 15 marzo 1849, nell’anagrafe austriaca invece il 4 ottobre 1854: ACEVr, Registri di fa- miglia, 20, f.117 e ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 11245. 9 Regina Calabi nasce il 19 maggio 1833 da Benedetto, “negoziante”, e Buona Orefice. Il suo matrimonio con Adolfo Spitz viene celebrato il 7 gennaio 1855. ACEVr, Registri di famiglia, 20, f. 117; ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, ff. 3512 e 11245. 10 LEONI, The Goldschmiedt of Verona. 11 Probabilmente, suggerisce Duccio Leoni, affiancando a questa attività quella del prestito a in- teresse. Ibidem. 12 ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 5718. [4]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Calabi, poi, Alberto e Adolfo abiteranno con le rispettive famiglie in uno stabile di proprietà di Natale, in corrispondenza dell’attuale via Alberto Mario 1013. Da segnalare come questo intrecciarsi di relazioni parentali con famiglie ve- ronesi si interrompa con le nuove generazioni, rappresentate da un lato da Emi- lio e Amalia, figli di Alberto, e dall’altro da Maria, figlia di Adolfo14. Se Amalia lascia Verona per Bologna nel 187015, presumibilmente per contrarre matrimo- nio con il barone napoletano ed eroe di guerra Luigi Vacca di Siviglia16, Emilio resta a Verona e sposa la cugina: un gesto forse dettato da un reciproco senti- mento, o forse suggerito dall’opportunità di non disperdere il patrimonio fami- liare, che era stato in gran parte investito in una attività certamente sfidante, ma anche rischiosa. Dal commercio all’industria Come abbiamo detto, la prima attività esercitata da Alberto Spitz a Verona è il commercio di tessuti. Lo troviamo attivo nel 1849 come socio della ditta “Spitz ed Hellman”, con sede al civico n. 1577, nel rione di San Fermo, corrispondente all’attuale via Leoncino 1117. Non abbiamo particolari informazioni sul suo socio, che potrebbe però essere identificato con quel Massimiliano Helmann, “nego- ziante”, che troviamo censito in quegli anni tanto nell’anagrafe austriaca che nei 13 ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 11245. Per la corrispondenza con la numerazione stra- dale moderna si veda Catastico della città di Verona (1745-1920), p. 92. 14 Emilio Vita Spitz nasce il 3 dicembre 1844, mentre Amalia Marianna il 12 aprile 1846. Maria – detta anche Maris, o Marie, o Mary – nasce il 21 ottobre 1855. Saliz e Girolamo, a quanto consen- tono di capire sia l’anagrafe austriaca che i registri della Comunità Ebraica di Verona, non avranno invece discendenza. 15 Così informano concordemente l’anagrafe austriaca e i registri della Comunità Ebraica: ACVr, Anagrafe Austriaca 1856-1871, f. 1186, e ACEVr, Registro delle Famiglie, n. 20, f. 118. 16 Luigi Vacca di Siviglia fu commendatore, tenente generale dell’esercito italiano e grand’uffi- ciale del Regno, come ricorda la lapide posta sulla sua tomba, presso il Cimitero Monumentale di Verona: «Grand’Ufficiale / Barone don Luigi Vacca di Siviglia / Tenente Generale dell’Esercito / N. a Napoli il 30 mar. 1836 M. a Varese il 2 ott. 1911 / Respinse gli allettamenti della tirannide / per votarsi intiero alla causa italiana / che lo ebbe prode fra i prodi / conseguì la medaglia al valore / e numerose altissime onorificienze / cui la innata modestia gli vietò di far vanto / nella vita fece norma costante / il dovere la viva fede / l’integerrima rettitudine degli avi suoi / ebbe inflessibile il carattere / profonda e inalterata la gentilezza dei costumi / l’angelica bontà del cuore. / Tale l’uomo / che la vedova inconsolabile piange». 17 «Supplemento al Foglio di Verona», n. 41, 5 aprile 1848, dove è detto aver versato 6 lire au- striache quale offerta raccolta dalla Camera di Commercio «per sovvenire i poveri industriali privi di sussistenza». [5]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI registri della Comunità Ebraica Veronese18. Massimiliano, nato nel 1816 a Mo- naco di Baviera, arriva a Verona da Venezia sul finire del 1838, dunque pochi mesi prima di Alberto Spitz. Suggerisce la possibilità di identificarlo con l’altro componente della ditta Spitz ed Hellmann, oltre a professione, età, analoga ori- gine ebraica e provenienza da lontane zone dell’Impero, anche il suo indirizzo: il civico 1597 – attuale Stradone San Fermo 14, ovvero palazzo già Bevilacqua Lazise, ora Rizzardi – coincide infatti, come vedremo a breve, con la successiva collocazione della ditta Spitz. Nel 1853 la ditta Spitz ed Hellmann è inserita tra i “Negozianti all’ingrosso di manifatture e cotonerie” ne L’Indicatore Veronese19, e nel 1854 la troviamo menzionata nello stesso settore in un albo generale delle attività commerciali attive nell’Impero20. Poco dopo Hellmann esce di scena: se è corretta l’identifi- cazione con il Massimiliano Helmann di cui sopra, sappiamo che questi nel 1854 si trasferisce con la famiglia a Vienna21. In ogni caso, nel 1863 la ditta, sempre inserita tra i “Negozianti in cotonerie” nell’annuale Guida di Verona, ha cam- biato nome: ora si chiama “Alberto Spitz e fratelli”, e ha sede al civico 1597 di San Fermo, appunto il vecchio indirizzo di Massimiliano Helmann22. Gli anni passano e le condizioni economiche dei fratelli Spitz continuano a essere floride, come ci testimoniano notizie di varia fonte, che per quanto spo- radiche e non correlate tra loro concorrono a delineare un quadro generale di solidità finanziaria. E se Adolfo tiene tutto sommato un profilo basso23, Alberto, evidentemente più brillante e ambizioso, assume con il tempo un ruolo di cre- scente rilievo in città. Per esempio, nel 1852 è nell’elenco dei negozianti che possono essere eletti membri della Camera Provinciale di Commercio e d’Industria di Verona24. Nel 1856 risulta invece tra quanti hanno sostenuto la stampa del Dizionario Italiano 18 ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 6185, e ACEVr, Registro delle Famiglie, n. 20, f. 77. È detto nato a Monaco di Baviera il 15 agosto 1817, figlio di Isacco e di Carolina Coen, sposato con Carlotta Beaman e padre di Berta e Enrichetta. 19 Indicatore Veronese per l’anno 1853, p. 216. 20 GOTTFRIED-PERNOLD, Handels und Gewerbe-Addressbuch, II, p. 234. 21 Del trasferimento a Vienna dà genericamente conto ACVr, Anagrafe Austriaca 1836-1855, f. 6185; la data di partenza è invece specificata in ACEVr, Registro delle Famiglie, n. 20, f. 77. 22 Guida militare, politica, amministrativa, p. 232. 23 I registri della Comunità Ebraica di Verona ci restituiscono l’immagine di un uomo discreto, pio e devoto, molto attivo all’interno della comunità. Anche la lapide che lo ricorda al Cimitero Ebraico è coerente con questa immagine: «Nella pace del Giusto riposa / Adolfo Spitz / rapito in età di 61 anni / il 25 novembre 1889 / intelligente e onestissimo / cuore aperto a nobili impulsi / la sua vita si compendiò / nell’affetto e nelle cure / alla moglie e alla figlia / che desolate lo pian- gono». 24 Indicatore Veronese per l’anno 1852, p. 79. [6]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI ed Ebraico ad uso delle scuole compilato da Emanuel Recanati25. Nel 1867 lo troviamo tra gli azionisti della sede veronese della Banca del Popolo, assieme a molti altri veronesi di spicco, tra i quali Marcantonio Bentegodi, Camillo Brena, Benedetto Calabi, Francesco Miniscalchi Erizzo, Alessandro Orti Manara, Luigi Trezza e Andrea Wallner26. Lo stesso anno Alberto entra nel Consiglio di Amministrazione della neonata Banca Mutua Popolare di Verona, nucleo originario dell’attuale Banco BPM. Un incarico che, sotto la presidenza di Antonio Radice, condivide con alcuni dei principali esponenti della Verona del tempo, scelti tra nobili, possidenti, com- mercianti e industriali: Carlo Albasini, Pietro Abati, Camillo Brenna, Luigi Ce- sconi, Giulio De Giorgi, Eupilio De Micheli, Israel Forti, Lazzaro Levi, Alessan- dro Orti e Giovanni Voltolini27. Nel 1868 Alberto Spitz risulta infine aver contribuito con una donazione di 20 lire all’istituzione del Consorzio nazionale per l’ammortamento del debito pubblico28. Nel 1870 l’attività di commercio di tessuti è ancora molto florida, come di- mostrano i contenuti di un contenzioso che oppone Alberto e Adolfo a un pro- duttore laniero di Biella: negli atti del processo si parla infatti della ditta Spitz e dei «suoi agenti e rappresentanti»29. Il ruolo del commerciante non è però probabilmente sufficiente ad acconten- tare le ambizioni di Alberto. Affiancato dal prediletto figlio Emilio, che da qual- che anno lavora nell’attività di famiglia30, Alberto vuole prendere parte alla 25 RECANATI, Dizionario Italiano ed Ebraico, II, p 321. 26 Banca del Popolo, Elenco generale degli Azionisti, p. 10; sulla Banca si veda ALVISI, Storia del credito. 27 Sulla nascita della Banca Mutua Popolare di Verona e i suoi primi amministratori si vedano BORELLI, La Banca Mutua Popolare di Verona, alle pp. 63-64, e BALZARINI, La fondazione della Banca Mutua, pp. 64-74. 28 «Consorzio Nazionale. Bollettino del Comitato Centrale», 15 gennaio 1877, p. 122. 29 «Gazzetta dei Tribunali», 22, 1 gennaio 1870, pp. 410-411. 30 Sappiamo che Emilio lavorava con i genitori almeno dal 1865 perché detto “negoziante” nelle liste di leva del Comune di Verona. Lo troviamo qui esentato dietro il pagamento di una tassa di 1.200 fiorini austriaci in quanto “unico” (figlio maschio): ACVr, Lista della classe di età (nati nell’anno 1844) chiamata pel completamento dell’Armata nell’anno 1865, Allegato 2; si tratta di un elenco manoscritto in ordine alfabetico: la posizione di Emilio Spitz è al n. 456. Per inciso, appena un anno più tardi troveremo Emilio volontariamente arruolato come “milite” nella Guar- dia Civica che, nei giorni convulsi della transizione tra Austriaci e Italiani, si occuperà di mante- nere l’ordine in città: La Guardia Civica nel 1866, p. 183. Tratta il tema anche FASANARI, Il Risor- gimento a Verona, pp. 343-347. [7]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI grande avventura dell’industrializzazione31. Per questo sceglie un settore pro- mettente ma fino a quel momento sostanzialmente inedito per Verona, e anche per lui: la ceramica32. Giulio Cesare Messedaglia e l’idea di una Società Ceramica Veronese Perché, tra le diverse attività industriali che avrebbe potuto intraprendere, Al- berto Spitz sceglie proprio la ceramica? La risposta va probabilmente cercata nella convergenza di diversi elementi. Per iniziare, l’indubbia fama italiana in questa tradizione artistica, nota e celebrata in tutta Europa. Poi, la crescente passione per i corredi domestici da parte di una borghesia che trovava nella nuova e più economica produzione industriale la via per soddisfare i propri de- sideri e bisogni: in questo senso, la fortuna delle manifatture inglesi e francesi era di ottimo auspicio33. Infine, il proliferare di attività espositive dove la cera- mica stava raggiungendo un ruolo sempre più di rilievo34. Insomma, aprire una fabbrica di ceramiche voleva dire inserirsi nel solco di una tradizione presti- giosa, intercettare un bisogno crescente e aprirsi a un mercato in espansione. Tutto questo però sarebbe forse rimasto solo un vago pensiero senza il con- tributo di un uomo ardito e visionario di cui non possiamo purtroppo provare il collegamento diretto con Alberto Spitz, ma che ci pare molto plausibilmente l’ispiratore del suo progetto imprenditoriale: Giulio Cesare Messedaglia. 31 Sul lungo e faticoso processo di industrializzazione di Verona si vedano almeno Il canale Ca- muzzoni. Industria e società a Verona, in particolare i contributi di Emilio Franzina e Nadia Oli- vieri; SELVAFOLTA, Verona Ottocento; OLIVIERI, Opifici manifatture industrie; MASCIOLA, L’indu- stria veronese dal 1870 al 2000; FERRARI, “Quies inquieta”. 32 Non hanno trovato riscontro le indicazioni che vorrebbero Alberto Spitz fondatore anche della Vetreria Veneto Trentina sorta a San Giovanni Lupatoto nel 1869, come indicato da Giovanni Za- lin e altri. Si tratta probabilmente di un equivoco nato da un brano della relazione che Giovanni Dal Sie dedica, nel 1877, appunto allo stabilimento lupatotino: qui, parlando della scelta di ricor- rere a materiali locali, si menzionano en passant anche Alberto Spitz e la sua attività. Un cenno abbastanza ambiguo che può in effetti trarre in inganno, facendo ritenere lo Spitz padre della ve- treria. DAL SIE, Stabilimento Vetrario di San Giovanni Lupatoto pp. 6-7. Per l’ipotesi sullo Spitz come fondatore, ZALIN, La società agraria veneta del secondo Ottocento, p. 174. 33 Tale sviluppo è sostenuto dal crescente interesse per il corredo per la casa e la tavola che esplode letteralmente in età vittoriana, con l’invenzione di un pezzo destinato praticamente a ogni pietanza. Il tema è ben illustrato dalle pagine del The Victorian Catalogue (catalogo del 1883 del negoziante londinese Flemming) e del listino prezzi per l’anno 1846 della manifattura Spode, ri- portato in WILKINSON, Spode-Copeland-Spode, pp. 270-275. 34 Nel settembre 1871 si era per esempio inaugurata a Vicenza una grande Esposizione regionale, dove avevano fatto bella mostra di sé i prodotti di diverse aziende del settore ceramico: così AU- SENDA, La ceramica veneta alle Esposizioni, p. 32. [8]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Nato a Legnago nel 1822, figlio dell’avvocato Bartolomeo e cugino dell’eco- nomista Angelo, Giulio Cesare Messedaglia fu esponente di spicco del movi- mento antiaustriaco locale e attivamente partecipe ai moti del 1848/184935. Su- bito dopo l’annessione del Veneto all’Italia, forte della laurea in giurisprudenza conseguita presso l’Università di Padova36 e di uno spirito brillante e innova- tivo37, Messedaglia si lanciò nell’impresa di ipotizzare la nascita di una Società Ceramica Veronese. Il legnaghese – che in tale contesto si presentava come «Rappresentante di varie Case industriali, Commerciali, estere ed italiane in Verona» - elaborò a questo fine quello che oggi chiameremmo un business plan estremamente det- tagliato, prospettando la nascita di un’industria dal luminoso futuro, grazie alla quale ottenere nientemeno che «il rialzamento di ogni classe sociale dalla squal- lida prostrazione in cui geme ed invilisce»38. Il progetto ci è noto nei dettagli grazie a un opuscolo che Messedaglia diede alle stampe nel 1867 e che utilizzò, assieme a inserzioni su diversi giornali del Nord-Est, per promuovere la sua idea39. Nella visione di Messedaglia, la Società Ceramica Veronese avrebbe dovuto rappresentare un’impresa di sicuro successo, garantendo ai suoi soci un investi- mento profittevole: nel prospetto si parla di un guadagno dell’8% sul capitale investito e di un dividendo «non indifferente»40. L’obiettivo dichiarato era quello di emancipare l’Italia dalla necessità di importare terraglie e porcellane straniere, dando vita a un’entità produttiva che potesse concorrere con le mi- gliori manifatture inglesi e francesi. Per quanto riguarda gli Inglesi, in partico- lare, in apertura del suo progetto Messedaglia ricordava come le manifatture d’oltre Manica alimentassero un commercio di circa 61.250.000 franchi l’anno, mentre il comparto francese – che impiegava circa 8.500 operai in 249 fabbri- che –si attestasse sui 15.000.000. 35 MELOTTO, Risorgimento di provincia, pp. 57-60. 36 DEL NEGRO, Il volontariato studentesco padovano, pp. 12 e 21-23. 37 Giulio Cesare Messedaglia fu autore, tra l’altro, di uno Statuto di rappresentanza universale libraria e della lega fra gli autori italiani costituiti per azioni da una società anonima con sede nella Capitale del Regno e di un apprezzato Trattato di contabilità amministrativa, industriale, commerciale, ovvero Regolamento teorico-pratico per scritture comparate o bilancio, edito a Roma nel 1872. 38 MESSEDAGLIA, Progetto e statuto, p.3. 39 Oltre a MESSEDAGLIA, Progetto e statuto, troviamo la notizia pubblicata il 6 settembre 1867 su «Il Tergesto. Giornale Commerciale Finanziario di Trieste» e il 7 settembre 1867 sulla «Gazzetta di Fiume». 40 MESSEDAGLIA, Progetto e statuto, p. 6. [9]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI «In tutta Italia – continuava il proponente – non abbiamo che due fabbriche di porcellane e stoviglie a uso inglese, in Milano una41, l’altra celebratissima di Docia presso Firenze della nobil casa Ginori Lici […], le quali devono però riti- rare i Caolini dall’Inghilterra. Lo stabilimento che si propone a Verona – chio- sava – sarebbe il primo […] in Italia con miniere proprie tanto di caolino che di refrattarie»42. Messedaglia aveva un interesse personale nel progetto: se proponeva alla So- cietà di acquistare le miniere di caolino esistenti in provincia di Vicenza di pro- prietà di Luigi Consolati, di cui magnificava la composizione chimica, non man- cava di aggiungere che per avere la materia prima perfetta sarebbe stato suffi- ciente miscelarvi della terra di Vicenza, «dosandola […] con Carbonato di Calcio o con altre terre esistenti nelle località delle miniere, e di proprietà del Propo- nente»43. Il progetto prevedeva una società completamente autonoma, per la quale ac- quisire la diretta proprietà delle miniere avrebbe avuto una doppia funzione: da un lato, assicurare tutte le forniture necessarie al funzionamento della nascente industria, e dall’altra mettere in ginocchio la concorrenza locale, che sarebbe stata costretta a chiudere, oppure a ricorrere alla neonata società per l’acquisto delle materie prime44. Anche se inizialmente l’opificio sarebbe stato di dimen- sioni modeste, «in brevi anni – è la trionfale conclusione – si formerebbe uno Stabilimento importantissimo»45. La fabbrica avrebbe inizialmente visto il funzionamento di quattro fornaci a due piani46, e sarebbe stata in seguito fornita di un «torchio per litografia […] per i disegni dei trasporti, che verranno eseguiti tanto sulle porcellane, come sulle majoliche»47. La produzione sarebbe stata dapprima orientata su «articoli di consumo, come sarebbero stoviglie per servizi da tavola e da Caffè, lasciando ad altro tempo oggetti di lusso e di maggior costo». La fabbrica avrebbe dovuto avere 41 Il riferimento è presumibilmente alla San Cristoforo, fondata dal nobile e rilevata nel 1842 da Giulio Richard, che ebbe l’intuizione di affiancare alla produzione di alta gamma anche quella di prodotti in terraglia per l’uso quotidiano. Per la Manifattura Ginori si veda alla nota 2. 42 MESSEDAGLIA, Progetto e statuto, p. 4. 43 Ivi, p. 7. 44 Ivi, p. 6. 45 Ivi, p. 5. 46 Ivi, p. 4. 47 Ivi, p. 8. Il riferimento qui è ai macchinari necessari all’esecuzione dei decori con la tecnica del transfer printing, sulla quale torneremo nella nota 90. [10]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI particolare cura nella elaborazione delle paste, caratteristica indispensabile per poter produrre oggetti di alta qualità e dalle forme eleganti48. Il progetto di Messedaglia non trascurava nessun dettaglio. Il proponente aveva già pronto anche il direttore tecnico, un veneziano di cui non viene fatto il nome ma che «conosce perfettamente la natura del Caolino e delle refrattarie del Consolati». Non sarebbe invece stato necessario avere alle dipendenze della fabbrica un chimico, perché una volta elaborata la formula dell’impasto – che avrebbe ovviamente dovuto rimanere segreta – questa non sarebbe più stata modificata49. Quanto alle maestranze, l’organico elaborato da Messedaglia prevedeva un direttore capo, un tecnico per sovrintendere ai lavori, 10 addetti alle fornaci, 14 addetti agli stampi, 5 giornalieri, 5 allievi, 1 modellatore, 1 capo fornaio, 1 capo coloritore per le maioliche e 5 coloritori, tra donne e ragazzi. Le paghe giorna- liere previste andavano dalle 10 lire del direttore capo alla singola lira destinata ai coloritori50. Il personale della fabbrica avrebbe dovuto seguire l’intero processo produt- tivo, dall’approntare le paste al trasportare i pezzi all’asciugatoio, fino a caricare e scaricare gli oggetti dalle fornaci. L’idea era che ogni «artefice lesto» produ- cesse «sette dozzine di tondi al giorno»: in totale, la manifattura avrebbe dun- que prodotto circa un migliaio di pezzi al giorno51. Messedaglia aveva anche individuato il luogo perfetto per installare lo stabi- limento, una proprietà sulle rive dell’Adige situata a Parona, appena a nord della città scaligera. Qui era infatti disponibile un vasto edificio dove collocare il de- posito delle paste, i locali di lavoro, le quattro fornaci e i magazzini. La proprietà disponeva inoltre di un ampio terreno, utile nel caso in cui si fosse reso neces- sario ampliare lo stabilimento. Soprattutto, l’edificio era già provvisto di un mu- lino ad acqua «di tutto diritto proprio», indispensabile per la macinatura dei magri52 e delle vernici, e per attingere l’acqua necessaria alla «levigazione delle argille». Lo stabile prescelto si trovava in posizione estremamente vantaggiosa per il rifornimento dal Trentino della legna per le fornaci e del solfato di calcio 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 8. 50 Ivi, p. 12. 51 Ivi, p. 14. 52 I magri sono materiali, quali silice o sabbia, che si aggiungono alle argille per ridurne l’ec- cessiva plasticità, renderle più porose e rapide ad asciugare e, impedendo l’eccessivo ritiro in fase di cottura, ne innalzano la resistenza al calore. [11]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI per le forme e gli stampi. La prossimità alla ferrovia faceva inoltre immaginare un’agevole distribuzione dei prodotti finiti53. Quanto ai costi, Messedaglia ipotizzava di raccogliere quale capitale sociale circa 200.000 lire attraverso la vendita di altrettante azioni. 145.000 lire sareb- bero state necessarie per avviare lo stabilimento, 15.000 per la gestione delle miniere. L’immobile sarebbe costato 20.000 lire, cui si sarebbero dovute ag- giungere 1.300 lire per la riduzione del sito «a uso di fabbrica» e per l’adegua- mento del mulino all’uso delle macine. Ulteriori 1.000 lire sarebbero state ne- cessarie per acquistare le macine e altre attrezzature tecniche. La costruzione delle quattro fornaci con relative argille refrattarie sarebbe costata altre 5.600 lire, cui andavano aggiunte una prima fornitura di caolino, argille e vernici. In totale, l’allestimento della fabbrica sarebbe venuto a costare più di 40.000 lire, da sommarsi ad altrettante necessarie all’acquisto delle miniere54. Si trattava, come è evidente, di un investimento importante, a fronte di un progetto imprenditoriale che a quanto pare non riuscì a convincere. Anche se probabilmente se ne discusse, se non altro tra gli addetti ai lavori55, la Società Ceramica Veronese – nonostante il pressing di Messedaglia, che cercò di coin- volgere anche il Comune di Verona – non diventò mai realtà. Ci sembra tuttavia molto probabile che sia stato proprio questo progetto l’ispiratore dell’impresa degli Spitz, con cui presenta – come vedremo – molti e significativi punti di con- tatto. Da monastero a fabbrica: il complesso del Redentore Per iniziare, per la sua iniziativa imprenditoriale Alberto Spitz scelse un sito che rievocava in buona parte, per posizione e caratteristiche, quanto ipotizzato da Messedaglia come sede della progettata fabbrica di ceramiche: il complesso edi- lizio dell’ex Redentore, sulla riva sinistra dell’Adige, a pochi passi dal Ponte Pie- tra. 53 Ivi, p. 9. 54 Ivi, p. 12. 55 Lo suggerisce il fatto che la copia a stampa dell’opuscolo conservata presso la Biblioteca della Società Letteraria vi giunga il 14 agosto 1867 quale dono di Giovan Battista Martini, commerciante di terraglie in vicolo Crocioni, come indicato in ACVr, Anagrafe Austriaca 1855-1871, f. 6961. [12]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Già sede di un monastero femminile56, l’immobile era stato avocato al dema- nio dopo la soppressione napoleonica del 180657. Sono proprio i documenti re- lativi alla soppressione prima e alla successiva asta pubblica con cui il complesso venne alienato a restituirci una fotografia degli ambienti che, per quanto presu- mibilmente in parte variata al tempo del subentro nella proprietà degli Spitz, ci dà almeno ragione delle dimensioni e della struttura generale dell’edificio. Se nei documenti del 1806 la descrizione è tutto sommato sintetica58, dettagliatis- sima è quella della perizia annessa all’annuncio d’asta, che ci restituisce l’imma- gine di una struttura tanto ampia quanto parcellizzata al suo interno, coerente- mente – del resto – con l’utilizzo per cui era stata edificata (Appendice, 1)59. Prima della fabbrica Spitz il complesso, identificato dalla particella 311 nel Catasto Austriaco, aveva già ospitato due diverse realtà industriali, entrambe sfortunate. La prima era stata la “Società per la raffineria dei zuccari in Verona” fondata nel 1828/1829 da Carlo Bonomi, milanese, commerciante e poi industriale del settore. Bonomi, di cui erano note le posizioni filo-mazziniane60, aveva acqui- stato il complesso edilizio all’asta pubblica per il tramite di un prestanome, il milanese Nicola Vonwiller61. 56 Sulle vicende storiche del complesso sempre utile BIANCOLINI, Notizie storiche delle Chiese di Verona, I, pp. 371-374 e VI, pp. 130-146. Particolarmente curioso il documento qui riportato alle pp. 145-146 dove le monache lamentavano l’eccessiva prossimità del convento agli edifici adia- centi da cui «ne guardavano sino nelle viscere», e «le sporche parole, e bestemie nefande de’ fac- chini, barcaruoli e zatteri che tutto il giorno dalle rive dell’Adige vicino si sentivano» (ivi, p. 145). Per una sintesi delle vicende storiche del complesso utili anche LENOTTI, Chiese e conventi scom- parsi. La sinistra, pp. 26-28 e ROGNINI, Redentore (via, interrato, regaste), pp. 487-490. 57 Sulla soppressione del monastero, decretata il 2 luglio 1806, si veda BASSO, Il riuso degli edi- fici, alle pp. 225-228. Al tempo nel monastero erano presenti 19 monache e 8 converse. 58 La descrizione – tratta da ASVr, Casatico del 1802 (Antichi Estimi Provvisori 746), Sinistra Adige, Tomo II Rione VII, n. 4163 – è riportata da BASSO, Il riuso degli edifici, p. 226. 59 La perizia è allegata all’atto con cui viene formalizzata l’acquisizione del complesso da parte di Carlo Bonomi: ASVr, Notarile, Notaio Antonio Maboni fu Luigi, n. 11232 (19 febbraio 1829). 60 Sia il titolare che il direttore dello stabilimento, Onofrio Cambiaggio (o Cambiaso), entrarono a far parte dei cosiddetti Masenini, associazione a metà tra il movimento patriottico e la loggia massonica sorta a Verona tra il 1830 e il 1831 con l’intento di preparare il terreno all’auspicata indipendenza del Veneto dall’Austria: FASANARI, Risorgimento a Verona, pp. 129-134, in partico- lare a p. 132, dove addirittura si ipotizza che Bonomi avesse utilizzato lo zuccherificio quale co- pertura della sua attività di diffusione delle idee risorgimentali in Verona. Sul tema si veda anche CIUFFOLETTI-VISCIOLA, Risorgimento, p. 147. 61 Il «Foglio di Verona» del 28 settembre 1827 lo definisce «negoziante di Milano» e lo inserisce tra i forestieri arrivati in città il giorno precedente. Vonwiller apparteneva a una nota famiglia milanese di origine svizzera che espresse commercianti, industriali e banchieri. [13]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI La nuova raffineria (una delle cinque esistenti nel Veneto) fu caratterizzata da un esordio estremamente positivo: sappiamo che poteva contare su macchi- nari molto avanzati, impiegava una settantina di operai e produceva circa 1.750 tonnellate di zucchero l’anno62. Non siamo purtroppo in grado di dire quali e quante modifiche Bonomi avesse apportato agli edifici per operarne la conversione a industria. Sappiamo però che il 10 aprile 1837 lo stabilimento fu devastato da un violento incendio, e solo il pronto intervento dei pompieri e di «numeroso popolo sollecitamente ac- corso sul luogo» consentì di circoscrivere rapidamente le fiamme. I danni fu- rono comunque notevoli: la Compagnia di Assicurazione contro gli Incendj, presso la quale Bonomi aveva previdentemente assicurato sia lo stabile che la merce prodotta, rifuse un danno di ben 28.144,75 lire austriache, senza contare le «generose mancie» distribuite tra quanti si erano distinti nell’operazione di spegnimento63. È probabile, per non dire certo, che dopo un evento di così ampia portata almeno parte del complesso abbia subito interventi di un certo peso: purtroppo però nessuno dei passaggi di proprietà successivi riporta planimetrie o descri- zioni particolareggiate in grado di dettagliarli. Sappiamo solo che la fabbrica aveva sede nella ex chiesa del Redentore, che la ex chiesa di San Faustino era stata ridotta a magazzino, il resto degli immobili presumibilmente destinato ad abitazioni e, forse, a spazi per altre attività “industriali”, intendendo in questo senso non necessariamente fabbriche ma qualunque attività produttiva, anche artigianale e condotta a domicilio64. La fortuna dello Zuccherificio Bonomi purtroppo non durò a lungo. Già a partire dal 1855 lo stabilimento iniziò a dare i primi segnali di crisi, a causa delle imprevedibili fluttuazioni del costo della materia prima, del contrabbando e so- prattutto della inarrestabile concorrenza dello zucchero di barbabietola, pro- dotto in altre regioni dell’Impero austriaco a un prezzo infinitamente più basso. Nel 1859 lo zuccherificio, gestito sin dalla morte di Carlo Bonomi, avvenuta nel 1837, dal figlio Luigi65, cessò la sua attività66. 62 FERRARI, “Quies Inquieta”, pp. 118-121. 63 Così racconta lo stesso Carlo Bonomi in una notizia del 27 aprile 1837 pubblicata su «Il Nuovo Osservatore Veneziano», del 4-6 maggio 1837. 64 FERRARI, “Quies inquieta”, pp. 59-60. 65 Le notizie sono fornite dall’atto di compravendita: ASVr, Notarile, Notaio Luigi Panchera fu Pietro, n. 6023 (17 novembre 1865). 66 Le vicende dello zuccherificio Bonomi sono ricostruire da FERRARI, “Quies inquieta”, pp. 118- 121. Una voce contemporanea è invece quella di Antonio Radice, che ricorda i dazi austriaci come elemento determinante per la chiusura dello stabilimento: si veda alla nota 87. [14]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Luigi morì poco dopo, lasciando la proprietà del complesso edilizio a Giusep- pina Rovelli, sua figliastra prediletta nonché sua erede universale67. Sposata con il noto ingegnere milanese Carlo Cereda, e potendo contare su una eredità deci- samente cospicua68, Giuseppina non aveva evidentemente interesse a mante- nere la proprietà del complesso del Redentore, che il 17 novembre 1865 venne quindi venduto al veronese Giovanni Voltolini69. Definito nell’atto di compra- vendita “possidente”, Voltolini era un personaggio di rilievo: come già ricordato poco sopra, anche lui sarebbe a breve diventato uno dei primi consiglieri della Banca Mutua Popolare di Verona70. A quanto racconta Giulio Camuzzoni, nel 1866 Voltolini installò nel com- plesso dell’ex Redentore uno stabilimento per la lavorazione della lana, che provvide di un motore idraulico innovativo in grado di garantire – almeno nelle intenzioni – una forza costante in cavalli-vapore, non condizionata quindi delle fluttuazioni dovute alla portata variabile dell’Adige. Camuzzoni parla con entu- siasmo di questo sistema pionieristico, che avrebbe potuto consentire di alimen- tare «all’interno di questa nostra città […] delle industrie manifatturiere che prenderebbero la loro forza motrice da motori idraulici da stabilirsi entro od a qualche chilometro dalla città […]. In questo modo – chiosa – si può realmente rendere Verona una città industriale, perciò che la forza disponibile è assai grande, e perché questa la si può ottenere con pochissima spesa» 71. L’innovativo sistema però a quanto pare non funzionò come atteso e ben pre- sto lo stabilimento Voltolini fu costretto a chiudere: come annota Alessandro Sagramoso, fu proprio «la mancanza d’una ben regolata forza motrice […] la causa principale della sua rovina»72. La vicenda ebbe uno strascico giudiziario riguardante proprio il complesso del Redentore. L’imprenditore si era infatti impegnato a saldare quanto pattuito con tre rate annuali di 5.000 fiorini austriaci ciascuna, più gli interessi del 5%. 67 Luigi, unico figlio di Carlo Bonomi, aveva sposato nel 1848 Francesca Garofoletti, vedova di Giovanni Battista Revelli, già madre di tre figli, due femmine e un maschio. Giuseppina, prediletta di Luigi con cui condivideva la passione per l’arte e per la musica, ne divenne erede universale: sulla sua figura RATTI, Del monaco cisterciense don Ermete Bonomi, p. 313. 68 Tra i molti beni ereditati da Giuseppina ricordiamo la villa Bonomi Cereda Gavazzi Aliprandi a Desio e una collezione d’arte poi in parte confluita nelle collezioni della pinacoteca di Brera: Per Brera, p. 38. 69 ASVr, Notarile, Notaio Luigi Panchera fu Pietro, n. 6023 (17 novembre 1865). 70 Su Voltolini come amministratore della neonata Banca Mutua Popolare di Verona si vedano BORELLI, La Banca Mutua Popolare di Verona, p. 71, e BALZARINI, La fondazione della Banca Mutua, pp. 73-74. 71 CAMUZZONI, Sopra l’opportunità di istituire nella nostra provincia, pp. 36-38. 72 SAGRAMOSO, Osservazioni industriali della Provincia di Verona pel triennio 1866, p. 227. [15]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI Le difficoltà incontrate non gli consentirono evidentemente di onorare il debito, e così nell’agosto del 1871 Giuseppina Rovelli Cereda intraprese nei suoi con- fronti un’azione esecutiva che si concluse con la messa all’asta del complesso edilizio. L’asta venne vinta dalla stessa Rovelli, determinata a riprendere pos- sesso degli immobili. Pochi mesi dopo l’ereditiera rivendette il complesso, que- sta volta senza alcuna rateizzazione: l’acquirente era Alberto Spitz che, eviden- temente non troppo preoccupato da quanto accaduto al suo predecessore, scelse proprio il Redentore come sede della sua nuova attività industriale. La compravendita viene formalizzata il 22 gennaio 1872 dinanzi al notaio ve- ronese Luigi Panchera, professionista di fiducia della Rovelli73. La signora non è presente, preferendo farsi rappresentare dal marito, l’ingegner Carlo Cereda. Il prezzo pattuito per la vendita – a fronte di una stima d’asta di quasi 50.000 lire e di un prezzo di aggiudicazione di 17.800 lire – è di 21.000 lire, dunque abbastanza in linea con quanto a suo tempo messo a bilancio nel progetto Mes- sedaglia, con il vantaggio che qui gli edifici sono già stati da tempo adattati a uso di fabbrica. Questa volta non ci sono rate, ma il prezzo viene interamente saldato «colla consegna di tante obbligazioni delle Ferrovie Meridionali al Valore inteso […] a perfetto saldo e pareggio del prezzo medesimo». L’atto comprende una descrizione dell’immobile, purtroppo molto breve e generica, che conferma però come gli ambiti adibiti a industria fossero sostan- zialmente le due ex chiese, il Redentore per la fabbrica vera e propria e San Fau- stino come luogo di deposito74. Una postilla segnala che «il sig. ing. Cereda […] dichiara di non assumere alcuna responsabilità nel diritto di tenere delle ruote idrauliche sul fiume Adige contenuto nella descrizione nel caso che detto diritto venisse contestato dalla Autorità». Non sono invece menzionati nell’atto i diritti per «due spine d’acqua della Fontana Lorì» che comparivano nell’asta vinta dal Bonomi e nella compraven- dita tra Giuseppina Revelli e Giovanni Voltolini75. È tuttavia certo che anch’essi 73 ASVr, Notarile, Notaio Luigi Panchera fu Pietro, n. 14588 (22 gennaio 1872). 74 «Un corpo di fabbricati – recita infatti l’atto notarile – formanti come un unico Isolo, posto in questa città in contrada di Santo Stefano, via Redentore, composto di una casa di civile abitazione con molte altre fabbriche annesse alle due antiche chiese del Redentore e di San Faustino, la prima delle quali ridotta a laboratorio con diritto di tenere delle ruote idrauliche nel fiume Adige, l’altra a uso magazzino, e di altre adiacenze, di un cortile principale d’ingresso e di due secondari interni, e di un tratto di Riva d’Adige a uso di Orticello, il tutto marcato al Civico Numero 4163 e distinto nella Mappa Censuaria di Verona Città col numero 311, della superficie di pertiche metriche 3:20 e colla rendita censuaria di lire 999». 75 ASVr, Notarile, Notaio Luigi Panchera fu Pietro, n. 6023 (17 novembre 1865), c. 1. [16]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI siano compresi nel passaggio di proprietà, come testimonia il fatto che la ditta Spitz recederà da tali diritti solo nel 190376. La Ditta “Ceramica Spitz” di Alberto Spitz e figlio L’opificio Spitz inizia la sua attività nell’ottobre del 187377, anche se formal- mente l’avvio della produzione viene comunicato alla Camera di Commercio solo l’anno successivo e l’atto costitutivo della società viene stipulato addirittura due anni più tardi. La ditta Spitz è un affare che riguarda strettamente padre e figlio, come di- mostrano i due atti notarili riferiti alla proprietà del complesso del Redentore e alla costituzione della società78. Il primo atto è datato 30 dicembre 1875, due giorni prima del matrimonio di Emilio con la cugina Maria. È proprio in vista di questo evento che Alberto dona al figlio la metà “pro indiviso” dell’intero immo- bile, con ogni sua pertinenza e relativo diritto, dichiarando di voler semplice- mente formalizzare una situazione già esistente79. L’atto comprende anche una descrizione dell’immobile analoga a quella in- serita nell’atto di compravendita da Giuseppina Revelli, che ci è utile solo per capire che, a distanza di due anni dall’acquisto, gli Spitz non abitavano nel com- plesso, risultando entrambi residenti in piazza Vittorio Emanuele n. 20, ovvero palazzo Guglienzi Ottoligo nell’attuale Piazza Brà. Il giorno successivo gli Spitz sono di nuovo davanti al notaio per costituire finalmente in modo formale la loro società. Il tempo trascorso viene giustificato come necessaria «epoca d’esperimento», in seguito alla quale i due industriali vengono a riconoscere la rispettiva posizione in quanto soci. «Fin dal gennaio 1874 – recita infatti l’atto – si venne tra i costituenti padre e figlio Spitz attivata in Verona per loro conto una industria per la fabbricazione e spaccio di oggetti in terraglia e stoviglie, quale società in nome collettivo […] sotto la ragione Alberto Spitz e figlio e con la denominazione Ceramica Spitz»80. 76 ACVr, Contratti del repertorio municipale, ser. II, b. 76, n. 6237 (6 aprile 1903): «Alberto Spitz e figli –Dichiarazione di recesso dal diritto d’acqua alla casa di sua proprietà in via Redentore 1 – Fontana Lorì». 77 DE BETTA, Discorso nel giorno della proclamazione, p. 12. 78 Non prende invece in alcun modo parte all’operazione la figlia Amalia, nonostante appaia evi- dente l’importanza della quota di patrimonio paterno investita nell’operazione. 79 ASVr, Notarile, Notaio Illario Longo fu Andrea, n. 3555 (30 dicembre 1875). 80 ASVr, Notarile, Notaio Illario Longo fu Andrea, n. 3556 (31 dicembre 1875). [17]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI L’atto ci informa che la Società era stata denunciata alla Camera Provinciale di Commercio ed Arti di Verona fin dal 4 febbraio 187481, e aveva in seguito ope- rato di fatto, riservandosi di procedere a un vero e proprio atto costitutivo ap- punto al termine di un periodo di avviamento. Ora si stabilisce formalmente che Alberto ed Emilio sono ugualmente com- proprietari della neocostituita Ditta, e che la firma sociale appartiene a en- trambi, che possono apporla in modo indipendente obbligando in ugual modo la Società. Quanto al capitale sociale, Alberto versa 17.065 lire, mentre Emilio contri- buisce con 3.000 lire proprie e con altre 14.065 lire che gli vengono contestual- mente donate dal padre. Avendo pertanto ciascuno dei soci conferito il 50% del capitale sociale, si intende che entrambi partecipino agli utili nella stessa per- centuale, così come agli eventuali danni e al riporto in caso di scioglimento della società. In piccolo, una postilla precisa anche che un eventuale aumento di ca- pitale frutterà a ciascun socio un utile del 6%. Ogni impegno contratto nei mesi precedenti la costituzione formale della Società verrà considerato «contratto per conto ed interesse comune dei soci», motivo per il quale Emilio si riconosce «partecipe degli utili e degli aggravi» anche per il tempo già trascorso. Quanto all’immobile, poiché l’atto del giorno precedente ne aveva già stabi- lito la comproprietà al 50% tra padre e figlio, ecco che ora i due si impegnano a lasciarlo in uso alla società, dalla quale però percepiranno un affitto complessivo annuo di 1.600 lire, che sarà equamente suddiviso tra Alberto e Emilio. In chiusura, l’atto stabilisce la durata della società: 15 anni computabili a par- tire dal 1° gennaio 1876, e dunque con scadenza il 31 dicembre 1890. La società si potrà però tacitamente rinnovare per un altro triennio, e così via finché uno dei soci non ne avrà dato disdetta con almeno undici mesi di anticipo. Quanto all’allestimento della fabbrica e al suo funzionamento, sappiamo dalle ricerche di Nadia Olivieri che i macchinari necessari allo stabilimento Spitz vennero prodotti in città, precisamente dalle officine meccaniche che Luigi Pozzi aveva aperto nel 187082. Edoardo De Betta ci dice inoltre che già nel 1874 lo stabilimento utilizzava un molino dotato di 22 macine necessarie alla lavorazione delle materie prime 81 L’attività era stata registrata con atto n. 7148 notifiche e 135 di protocollo: purtroppo le ricer- che condotte presso gli archivi della Camera di Commercio di Verona non hanno permesso di rintracciarlo. 82 OLIVIERI, Opifici, manifatture, industrie, p. 26 e OLIVIERI, Prima del canale industriale, p. 61. [18]
ELISA ANTI, Il breve sogno dei signori Spitz Studi Veronesi. VI per la produzione della terraglia – marne, quarzo, argilla – e per la realizzazione di vernici e colori per la sua decorazione83. La nascita della Fabbrica di Ceramiche Spitz fu accolta in Verona con entu- siasmo, come testimoniano le parole che Antonio Radice dedica alla nuova atti- vità imprenditoriale nella sua Relazione sull’Industria Veronese del triennio 1872-1874. Radice riserva all’opificio Spitz un lungo tratto del suo discorso, ri- ferendo con dettaglio non solo la situazione presente della fabbrica ma immagi- nando anche le conseguenze positive a lungo termine che potrà avere per la città di Verona84. Radice esordisce ricollegando l’idea di produrre ceramica a un filone di grande tradizione italiana, che da solo gli sembra sufficiente per trarre i migliori auspici sul futuro della fabbrica85. Secondo la sua visione, la nascita dell’opificio Spitz si colloca idealmente in un contesto di rivalsa della tradizione nazionale e sulla scia di imprese moderne già ampiamente fortunate, come appunto la So- cietà Ceramica Richard e la Manifattura di Doccia. Non è tutto. A suo dire, l’impresa degli Spitz offre anche l’opportunità di por- tare ricchezza al territorio veronese e veneto utilizzando materie prima di pro- venienza locale. «Le materie necessarie pella formazione di questi lavori cera- mici – sottolinea infatti Radice – come il quarzo, le marne e le argille sono rac- colte nella nostra provincia, e quelle di complemento come il caolino e le terre refrattarie vengono importate dalla vicina provincia di Vicenza». La manifattura dunque non è provvista, come avrebbe voluto il progetto di Messedaglia, di 83 DE BETTA, Discorso nel giorno della proclamazione, p. 12. 84 RADICE, Relazione sull’industria veronese nel triennio 1872-1873-1874, pp. 35-37. 85 «L’Italia – esordisce infatti – può dirsi il primo paese d’Europa, in cui venne lavorata la maio- lica introdottavi dalle Isole Baleari nel XIV secolo: più che di un lavoro materiale plastico, questi prodotti invogliarono l’arte e servirono ad illustrare sommi artisti come un Luca della Robbia e lo stesso Raffaello non sdegnò di decorare quei piatti e quei vasi col lavoro delle sue mani. Firenze e Faenza furono le prime città d’Italia ove sorsero fabbriche di maioliche con prodotti così eccellenti da essere molto ricercati dall’estero […]. Rimasta in decadenza presso di noi per più secoli questa industria, da qualche tempo con ben riesciti sforzi, l’Italia tende a ridonare al nostro paese almen parte di quelle celebrità e di quei vantaggi procurati dai prodotti di questa industria, e la Lombar- dia emulando con studio e lavoro indefesso i progressi già avverati del Ginori di Firenze e del Farina di Faenza, tiene già in attività di lavoro molte fabbriche condotte da uomini intelligenti come il Richard di Milano ed il Dossena di Lodi, i di cui prodotti cominciano già ad essere ricercati in Irlanda ed in Iscozia. Ogni cuore italiano non immemore delle sventure passate che travaglia- rono tanto la patria nostra, deve aver un palpito di gioia quando si affissa nella nobile gara per riprendere quanto la guerra e le intestine discordie tolsero al nostro paese nei secoli trascorsi ed io credo, o signori, che tutti avrete salutato con tripudio l’apparizione tra noi d’un stabilimento di Ceramica che nel breve corso di pochi mesi offre già dei manufatti molto raccomandabili al Com- mercio ed alla consumazione nazionale». RADICE, Relazione sull’industria veronese nel triennio 1872-1873-1874, pp. pp. 35-36. [19]
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