I CANTI DI PRIMAVERA Fabio Capoccia - al sorriso dolcissimo suo - Fabio Capoccia Official

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al sorriso dolcissimo suo …

Fabio Capoccia

I CANTI DI PRIMAVERA

Parte prima

marzo 2020

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I CANTI DI PRIMAVERA Fabio Capoccia - al sorriso dolcissimo suo - Fabio Capoccia Official
Premessa

 Le due parti de I Canti di primavera raccolgono 45 liriche inedite. I 30 componimenti della prima
sezione sono stati scritti tra il 10 e il 29 marzo 2020, nei giorni più intensi della diffusione del
coronavirus in Italia. Raccontano l’esperienza in parte autobiografica della quarantena a Sorano,
paese di tufo nell’entroterra grossetano. La seconda parte formata dalle restanti 15 liriche indaga
un’altra primavera; lo sguardo anche al di fuori dell’Italia oltre i vincoli temporali del corrente anno.
I versi presentati sono stati composti tra il 2016 e il 2020.
Due appendici fotografiche propongono immagini (foto e dipinti dell’autore) relative alla narrazione.

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                                                                                               2020 marzo

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I CANTI DI PRIMAVERA

La ruggine divora i quadri dei paesani.
Tutti lì appesi, nella regola della morte.
L’appello infinito del giorno rimasto.

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Le bottiglie all’olivi

 Le bottiglie all’olivi
impiccate
fuoriuscite dai feudi disarmati
di resa
e sola
            (pausa)

 Impiccati ai colli e il ventre rappreso
in grumi scuri giù e
sopra liquori.
Agli olivi tesi
fili di baricentri oscuri
colle foglie ai venti
ai crepuscoli buttate, specchi neri
le fiamme bianche sotto e verdi.
Fisse. Come le stelle.
Le cornacchie scacciate e gli uccelli ladri.

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Alle idi di marzo

Il grecale e forse niente più.

 Le ore di prigione s’allungano nella lista e il computo della morte, a sera.
Ogni sera per chi suona questa campana sembra dirti l’etere mediatico
e queste strane api, avvelenate, si chiudono in brividi bluastri ghiacciati.

 Le api, fuori, tessono il ronzìo della loro festa.
E le bestie pure ignare del destino dell’uomo.
L’occhio versa il tributo umido nell’abbraccio mancato
ritrovato nella carezza soletta ai balconi,
occhi bigi di una funerea festa di primavera.
Il grecale suona tra i vetri e scende nei precordi della
dolcezza il ricordo. Sorseggia, ignaro, la bellezza
acerba adesso del senso …
Evapora dalla primavera che incede a passo raso
il frinire del liuto silente della prima coccinella
alla parete bianca, senza nome.

 Alle idi di marzo il silenzio del grecale soffiava
nella mestizia del giorno assolato un silenzio senza nome.

L’ora di libertà

 E’ forse di primavera quel sussulto violaceo che scorsi tra le braccia
l’odoroso inno alla vita ?
Il letargo dei corpi si fa pigolio di un alfabeto scarno.
Quale pena scontavi del delitto di vita imputato
per intorpidire di noia quell’anima giuliva ?
Quale errore cadeva dai pensieri d’immagini dolci
che ti faceva adesso prigioniero dove prigione non c’è
e prigione il corpo e la casa che di due uno
E che di vita amorevole vessillo sono ?

Sulla mulattiera il relitto di un topo:
Sapeva forse esso la sua morte ?

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La festa di San Giuseppe

 Dai balconi colorati di vessilli addobbati
è la festa del Santo di primavera.
Bianchi visi cinerini di speranza gravidi
(di un aborto non voluto!)
Verdi nell’età del divenire
senza scelta che la vita
Rossi accesi uniti il cuore
nel respiro non più affannoso d’autunno scivolato.
Affamati di carezza nell’abbraccio del solco che fu
madre e padre di morte nel solco della vita ancora.

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Canto d’amor cerchiato

 Tubano i colombi feriti dal dardo del nocchiero
(Alcibiade forse tu…)
che alla riva del sole invitava
ai fuochi senza lingue di faville d’amor crepitanti.
La mano del giovanetto come virgulto passata la forbice
che il succo in ottobre toglie alla mano stellata vite
e si accartoccia scinta dal torso vitale il tralcio
così chiudeva di cinque spighe leggere sasso
nelle tasche vuote.
Maciullate d’accidia implacabile d’amoroso dolore.
O musa che la notte in primavera t’aggrada l’eburneo silenzio
della luce della stella che di notte splende la luna,
qual tributo brami per placare il tuo canto di morte ?
Il ventre della giovinetta scosso dalle furie degli inverni
infiniti nell’ora dell’attesa di primavera
attende la spiga già pronta per il sole.
E così gialla la brama che giovane e verde già non vuole.
Abbraccia, o Signore d’Amore, quelle cinque spighe doppiamente
paghe di crescer i dorati spilli nelle dita dell’amata
così ch’essa pure fonde le sue nell’altre e si mescolano tutte
nel canto d’amor cerchiato.

Il volo della rondinella

 Il volo della rondinella al suono del suo canto
tornare novella al canto del tetto dove pose la madre
il canto a schiudere l’abisso della vita.

 Gli alberi delle città occhiati di vetri indiscreti
I nidi gabbiati a voliera volano il canto dei padri
E di tutti uno e tutti di gioia il canto sfondava
il bacio mancato di una primavera che non sa.

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Silloge

 Le dita della Natura inanellate a festa
scivolano il sollazzo di una giornata scura.
I narcisi stellati in fioritura
spengono il colore e la foglia velenosa resta.

 La timida begonia già pronta
nel vermiglio del sonno il ricordo
china le mani alla subìta onta
e le gerbere luminose e il sordo

 tulipano che calice e guglia
si fa folle brama di sapore amoroso
non offendono l’aria salubre d’odoroso
smalto e il vento siderale muglia.

 Dov’è il suono mèlleo dell’iris tricefala?
Dove l’armonia ipnotica di celeste geometria
la camelia il dardo setato ria
del delitto isperato complice la cicala?

 Non Cerere il periglio vinto
l’estate falsa assapora già
E l’umilissima primula langue dipinto
E il gelsomino discinto, albo non già estinto.

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Di bianco, verde, azzurro il cielo a marzo si spaura

 Di bianco, verde, azzurro il cielo a marzo si spaura.
Giura Primavera d’essere sua la veste di natura
d’azzurro fissa, di verde melissa al bianco s’eclissa. Dura
la risposta di Verità che Prosèrpina fissa scura:

 Aura greve di copribocca punto dietro le fosse dell’orecchio
bianco. Verde di camice il dottore veglia il vecchio
col naso d’elefante guarcito alla veglia meccanica dell’apparecchio.
L’azzurro camice di sepoltura è il solo suo specchio.

Sortilegio

 I giardini d’incanto avvampano l’occhio
di meraviglia. Non di vita si narrano
ma d’occhio senza pregio marrano
traditor d’agir, servir avvezzo cocchio.

 E sì fallace sublime inganno cheta
del rumore la voce al cuore ululante
stante lo star in sì piacevol inganno
ferisce in affanno la vita accecante.

 Verdi are e acque lievi e pie, abbagliante
il verde velluto del prato fioccato in danno
creder fingono il pensier senza fallo tremante.
D’amorevol porto il potabil amor disseta.

 E quel fregio che l’anima mia versa al cielo:
Mutilo stilo per osservanza all’umano sorriso
affatto specchiato in volto umano. Irriso
di disumana cosa e di schiera il gelo.

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Per le strade stregate allagate di silenzio

 Per le strade stregate allagate di silenzio
infranta l’aria di dignità e i sudari sparsi
arsi i silenzi d’amore e pii. Nunzio
il giorno di pericolo e crudo al divorar silenzio.

 I volti crescono nelle dita incarnate sulle fronti
lievi di mesto biancore avvinti
le bocche serrate, i sorrisi sfronti.
E di fuggir certi la malattia, d’altra malattia stinti

il cuor, l’anima e la vita in un sol ramo estinti.
Posso io Cuore sopportare di non amare ?
Posso io Anima portare la vita senza amare ?
Posso io Vita preferir vita ma di morte amar i vinti ?

 E l’amor si fa contro natura.
Orrore d’infausto presago di follia mendicante
gli occhi pesti d’inumana specie. Fioritura
secca di verità non vera che vera si fa importante.

Mano che tocchi l’abbraccio sì forte smarrito
Occhio che cieco ti costringe la vita a primavera
Sorriso che cuci le dolci schiere dell’umana felicità ora intimidito
Piede che fuggi piede altro e solo con l’altro tuo tramortito

 Il pensier si finge e inorridito il ciglio.
Strappa la voce la lugubre vendetta di Pietà che tu uomo
strappasti dal cuore, implora d’anima sventrata l’Umiltà. Figlio
che sgozzasti la Bellezza e or sé di te non vuol. E voi stelle domo.

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Nell’ora dopo il vespro

 Nell’ora dopo il vespro
quando i colori si sciolgono e colano
tra le fauci assetate della terra… Stupro
il giorno vinto e la tela scura cola non
di color vinta ma d’altra notte vuota piena
Dal fondo gracchia la rana e la cornacchia nera.

Il cimitero a Sorano

Tornasti con me a Verona. La ricordavi.
Nel grembo già lui, a me fratello.
Lo seppellisti il 3 febbraio 1985.
E accanto ora d’altra tomba Alberto Manzi lo culla.

 Marco, senti ancora la voce dell’Adige che suona rigogliosa ? Nulla
può forse immaginare il canto ch’io ho nella vena dipinto. Giacque
la salma il triste giorno cinerino, nel grembo fratello
nacqui solo. Nel sorriso suo dolcissimo ti vidi il giorno. Stavi

ancora nell’indomita materia d’amor piena.
Arena del nostro dolore. D’amore senza pena.

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Risveglio

 L’aria si fa chiara e le lacrime che la notte
ha lasciato sulla schiena del giorno brillano
gli occhi tristi del passante. Rotte
l’erbe di sì vero singhiozzo scintillano:
Quel pianto per la veglia senza figlio.
Giglio, Silene, Ranuncolo dove i saporiti odori lasciate?
Quale meraviglioso pensier fecondano? Artiglio
d’inumano sospiro la falce, le mani abbandonate…
Appiglio sfocato, sciolto, scivolato via
tra le nari e bocche tappate, non la mia.

Italia

Le cetre appese ai balconi
Le voci che tutte in una suoni …

La mimosa sfiorita

 Il colore stinto la stilla gialla
nei chicchi di sole infusa
tiepida si veste e falla
ormai temp’è confusa.

 Il nettare odoroso di vorace sogno
di primavera sunto era bisogno.
Il biondo fuoco ch’ardeva in fili di faville
minute alette di luminose armille

 non spinse il calor, sparse il fuoco
d’avvampate lingue di mortal bellezza
tra le goti acerbe d’allegrezza.
E qui e lì sputi di verde nato poco.

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La cinciallegra

 E le dita si facevano petali ambrati
E la voce accordava la corolla sciupata
di giovinezza bagnata. Urlava la cinciallegra spensierata
un rumore appuntito sulla stimma neonata.

La fenice

 Fu sposalizio ingrato d’ugual misura
ch’unì il giorno buio alla notte scura.
Non di squame il fuoco di San Giuseppe
pareva cielo gravido. Di spille seppe
mostrar il volto rigato. La festa del tempo usato
correva perduta nel bivacco rubato
dal silenzio strano, dolce nelle strade.
Morì e non ci fu nessuno a pianger per le strade.
Altre nozze, di piacer ornate, vietate !
Italia piumata d’umil gloria eternata
rompi l’uovo d’insolente malanno pieno
Fatti bella di novella luce, mortal fenice dal cener nata.

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Orat te

 Fascia la luna l’occhio di madreperla.
Tra tre giorni sarà nuova ancora…
Le ombre eburnee si vestono d’abiti da sera. Imperla
qua e là quel sole d’eclisse falciato ora
le lacrime aguzze non versate piantate in gola.
Atroce ora, Italia, per la carezza mancata lasciata sola.

 E la civetta strega dal manto dal bianco carezzato
sirena della notte l’occhio non ti tocca…
Non dai pace al dormire senza cura.
E l’allocco senza vista. Due inferni d’accecatura.
Due buche di petrolio vetrate. Un pozzo senza bocca per bocca.
Un lungo mugliare al vento e poi altri, insieme, barbari… suono indiavolato !

Fascia la luna l’occhio di madreperla.
La serpe che muta s’arrende non lascia le lingue affilate ruggir.
La rondine le code tagliate dorme nel guscio incollato al cielo.
Già la melitèa è stesa a terra lacerata. L’aglaia aranciata, le ali abbracciate al cielo.
La gatta dal ventre curvo rompe subito un sussulto. Poi un altro.. un altro.. un altro patir.
Fascia la luna l’occhio di madreperla.

I giorni abbandonati

Suonano ancora i canti di nazione alle finestre ?
Cantano le cetre di nuova parola tarsiate le rosse canestre ?

 I giorni abbandonati. D’amore multati. Un palmo
senza palmo mutilato.
Gòlgota di primavera è questo.
Il conto dei morti alla sera.
Chiuse le chiese di dèi sospesi e i cimiteri senza vivi:
Un silenzio più chiaro di morte.

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La musica

 La musica. La voce alla finestra: l’abbraccio lungo
imbarcato sulle correnti vuote di periferia allungo.
Il cupolone di Pietro, il pomo sfregato per la res bona.
Adversa riversa per i fiumi implacati nella strada : nessuna voce tuona !
Peccato senza nome, peste senza pece sulla pelle
Requiescant senza pace questa notte senza stelle !

Terra mea

 Romíto. Sul clivo d’erba
che terge il passo soletto
l’informità, i giorni senza nome.
Volti umani si seccano
e tu pesco rallegri l’aria malata.
Gli umani volti cedono il rosa assetato
alla primavera d’inverno.
E tu mandorlo intoni un paradigma selvatico
e dolce è il divenire.
Tu ciliegio tardivo già sei benedetto
nella stanza ti prego senza diletto.
Chiusa la mano all’altra.
Le labbra secche si cercano sudate.

 Qual gentil padre che si fa dolce
per i figli senza dire il dolce dire
tal sei tu sole che l’umana vita di te si pasce
e di giorno e di notte.

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La fame

E passarono i giorni. Il popolo non gridava più.
La madre denunciata per vedere gli occhi del figlio.
E passarono le notti. Scoppi di rumori laggiù …
La fame sola rideva magra: pietà sennò l’artiglio !

 Anche le ore erano mature. E di luce vuota di primavera.
Anche il sonno era misto a veglia, nel senso dell’attesa.
E passarono i giorni e il popolo di ferocia invera
fuoco negli occhi grevi d’impunita resa !

Primavera a Sorano

 Il canyon di tufo crinito e l’alloro e il leccio
la ginestra, la quercia … tarsíe di verdi lembi munite.
La piazza Ricci-Busatti, le fontane di leone. Cicaleccio
d’acqua in conchiglie ramate. Gli archi aperti:
Occhi spalancati sul bosco etrusco a primavera. Assordite
le rane nella coltre della sera. Inferti

 i tocchi al vecchio campanile bussano il Masso dei Lorena
di San Nicola la Collegiata, degli Orsini la fortezza.
E non orecchio sente il cammino sul selciato. Rasserena

 quel mare di cielo sopra San Rocco e la Cava.
Rupi di tane, grotte gitane
ai colombi usate un cuore di lava.

Notte di veglia

 Notte di veglia.
La volpe d’amaranto fuggita non trova il passo pestato
fresco. Il verro bruno non fugge il colpo a tranello.
Più il tasso rigato non scivola tra i vecchi sterpi e
l’erbette nuove. Orecchie non al sol di veglia volte
il daino finge. Tinge il sole la collina al capriolo vezzoso.
Orfano di vita, di vita rimasto.
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Il giardino di Dino

 Novantaquattro primavere nel campo.
Il tuono romìto, d’incanto il lampo
chiuso. Le ciglia lasciate giocare al vento.
Le maniche rimboccate, la pelle scura abbruciamento.

 La zappa poggiata al mento. Tra le labbra l’arco
di un sorriso. Lo stesso. Sempre.
Quel giardino d’incanto che mi fa da modello scopre
la bava rosa della canina, il càrneo vezzo del pesco, il parco

 giaciglio di latte al mandorlo. Le spighe di minute lanterne
coronate il biancospino, la dalia crinita, il tarassaco giallo pinto,
l’ortensia saporita, la fresia petulante, il fiordaliso diviso in celesti lucerne.

 E là il cardo di lame imbavagliato. La terra mossa, il solco cinto.
Meraviglioso labirinto di memoria senza fine e gioco per l’immagine.
Viene sempre annunciato dai gatti della figlia. Pagine
di un libro senza epilogo. Dino, di feline guardie recinto !
E la capra più sotto, verso la forra silvana
Un baleno di sorriso l’enigma cucito di lana.

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La luna

Con la mano di bambino
metto la mano nel fuoco tuo gelato, luna !
Gli steli di luce in un attimo:
L’esperienza e l’immagine.

La guerra terza

 Di guerra terza trema la Terra.
Corpo rimane ma spirito non più.
Carcasse di case, gusci secchi di dopoguerra
lasciati sulle strade che d’uomo non vivon più.

 I militari fanno la guardia al nulla
al silenzio macilento, a mantener la pace in guerra.
Il foglio di via, la borsa al mercato, nuovo dopoguerra
di pace senza guerra. La città brulla

 Gli occhi meccanici del cielo a spiar il reo.
La ronda a cercar il fuggitivo
fuori porta senza vero motivo.
Spettri di desiderio s’affacciano al vetro funèreo.

 Solo le bestie non temon ripiego:
Portano il fragile motivo umano per mano.
Nella giornata senza l’altro nessun impiego
sembra accender la fantasia. Invano

 cerca la noia, dardo d’un veleno senza farmaco
uscir di prigionìa. E la realtà finta dagli schermi colorata
non inganna il cuore dolce in primavera. Simulàcro
di reato mai commesso, d’amor dimenticato.

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Pianto etrusco a Sovana

 Pianto etrusco dalle tombe divelto
a San Sebastiano perde la voce. Sull’eremo
e oltre l’erta San Pietro, un sorriso scelto
di strana fioritura tremo.

 Santa Maria, il palazzo Bourbon del Monte
Il camposanto a San Mamiliano di fronte.
Terrore mirifico mi punge di magnifico
rumore l’ombra di un dubbio epigrafico.

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Canto di nuova preghiera

 Lo specchio che ti vedeva bianca in stagion di rossa
fioritura prend’or nuovo vigor in età d’altra natura.
Animose le vie tornano a vestirsi e la primavera
ammicca sotto gli occhi ridenti non già infossa.
Di nuovo l’occhio livido e grumoso stura
Il fresco luminoso occhio spenge la severa
veglia di forzata preghiera. Si gira a riconoscer il viso
della cara presenza e le braccia di quattro un’avviso.
Piacevol tempo di natura rinato, congedo d’amor cessato
non scordar questi giorni infausti d’angustie storditi…
Non quell’atomo di primavera in questi giorni arditi.

La festa di Primavera

 Fanciulli a festa vestiti, di fiori languidi criniti …
Fanciulle tra le mani un groviglio di colori
nella mente fresca invitano d’odori
il canto.
Ambarvali, lupercali… strali rossastri a primavera.
Mia donna, che del cuor di costui fai madonna
L’uomo ti fa festa
servo d’amor resta.

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Prima appendice fotografica

https://www.dropbox.com/sh/zrqdmqr6hmeuvmq/AABhgD82fzssIeT4nYSvMUgha?dl=0

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Parte seconda
     2016 / 2020

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La luce

 Sull’etere di Gennaio passo passo.
Ma la neve è ormai finita e non l’ho veduta.
Sono passato per la scia che ha lasciata
Ghiacciòli spacco dopo due giorni con l’ombrello.
Eppure è vita. E’ vita eccome!
Il sentiero
verso i campi e le vigne. Insomma esiste ora come vero, allora.

Moria

 primo canto di Lesbo

 Chi scrive con la mano unta di incredula
scelta della vita; il padre e la madre
con il pianto evaporato nel ricordo.

 A Moria il giorno è indifferente.
Il pensiero rallenta.
Si nutre di tempo il tempo dell’immobilità.
Il tempo della vita estinto.
Cresce la luna e torna magra
a Moria il tempo pallido dei raggi della luna
schiarisce la fuga del pensiero che
fugge.

 Lesbo che la poetessa ti cantava
dalla spuma tua risorgono i cadaveri
recintati nel sudario dell’onda che ti batteva.

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Youngan

 Youngan era un ragazzo dell’Africa nera.
Nera come il sole d’estate.
Quell’africa solitaria nella solitudine umana
di un cuore.
Nella notte chiara non vedeva gli occhi della notte e
giocava con gli occhi suoi.
Nella notte scura giocava a essere visto dagli occhi della notte.
Era un ragazzo senza nome, del nome della vita.

La gioia di vivere

 A febbraio il dolce sole di maggio
gialleggiava sulla nuca al biancheggiare del suo sole.
Forse un sorriso si celava sulla bilancia del sorriso
tra vespri di primavera
e verdi estati rosse, non mai già.
Forse quel sole giallo si specchiava nell’oro
biancheggiante.
Sulla nuca d’altare l’illibatezza soave e mista di colore
La curiosa gioia di vivere.

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La calenda del marzo

 secondo canto di Lesbo

 La calenda del marzo
Nelle conche degli occhi
Rosse
I bambini giocano
Nella tristezza
Con il fango
Per il freddo
Alla solitudine
Senza amore.

Lesbo ti taglia i polsi con la ruggine trovata.

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Ghuta

 Barada non scivola più per i campi
A Ghuta non scivola più.
Le rive velenose i corpi viola e i lampi
aprono laggiù la schiera rumorosa
A Ghuta i gas e dei lampi.

A Ghuta si dorme con la maschera in bocca
E di notte coprono le macerie i letti stecchiti
E di notte coprono le bocche i padri dei figli con la maschera in bocca.

 Macchiati scivolano i vivi colle unghie infilzate sotto
i capelli per il triste greto.
E Barada macchiato i morti copre e chiude.

 A Ghuta spente le mani le madri e tremanti
tendono quasi sugli steli bianchi dei tristi talami.
A Ghuta le madri imbiancate dalla polvere che ha lasciato il bang
E la destra e la sinistra e tutte e dieci insieme le unghie spingono
più dentro
Il figlio imbiancato dalla polvere del bang.

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Lahore
 sull’attentato suicida del 27 marzo 2016

 Si va a giocare, si va a pensare a giocare
e qualcuno ha deciso di dover morire per farlo
e tanti ci credettero e tanti non tornarono più.

 Si va a Lahore con lo zucchero filato e la luce al neon
della giostra che non gira; s’è fermata e resta lì com’è
perché a Lahore oggi qualcuno ha deciso di poter morire
e tanti l’han dovuto seguire.

 Era festa a Lahore, quella del giorno alla giostra
e le donne portavano in mano le giovani figlie
che ora gridano sulle spalle delle madri
che ora non giocano più sulle labbra dei ragazzi di Lahore.

Qualcuno ha deciso di far la morte e nessuno lo sapeva.
E quella è venuta tra la giovane schiera e se l’è mangiata.
Sazia, lascia negli occhi delle ragazze di Lahore il bacio.
Era notte a Lahore e qualcuno ha deciso per me.

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Idomeni

 due profughi si danno fuoco il 22 marzo 2016

 Si brucia qualcuno a Idomeni
non per il freddo
non per il fuoco
Si brucia per morire a Idomeni.

 Mai più indietro
ma non avanti andare
si può. Restare qui a Idomeni.
Restare qui tra le capanne al vento.

Siamo centocinquanta ma ora più.
Non ancora la fame è sazia
Non più sete ho, per la vita che più non piacque.
E centocinquanta siamo qui.

 Già sui rami la primavera è scesa
e il mare torna la sera
Già altre partenze sono interrotte
e scoppi. Tonfi sui treni sotto la terra.
Già la primavera è scesa.

 A Idomeni brucia il vento
che corre sulla magra scienza a bisogno.
A Idomeni mi lascio scaldare colle mani al cielo
e la bocca storta.

 Ma oggi tonfi e lamenti rotti a terra
spingono e lì per confine io brucio.

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Via di qui

la dolorosa fugga

 Lasciavi
e la Sicilia là.
Sporgeva.
Carezzavi tua la vita nella sua.
E non lo sentivi il freddo
E il mare intorno uguale
Gli altri nella speranza che più non spera.

 Ti seppelliva quel mare uguale
a un altro.
Suo nel ventre tu
col tuo che mai ha.

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Perché piangi?

 La mano alta e lì il feretro
mobile e di pace ora.
Che più non avevi che lei.
Fu lei che è Morte.
I feretri scivolano sulle vostre mani.
Sopra i palmi scivolano verso l’inutile odio.
Che odio qui non può.
Versano fissi gli occhi sotto
e più
La voce si faceva nuova.

La stazione di Trastevere

 Trastevere ingoia la luce.
Una nera con in mano la bottiglia dell’amore
e nell’altra lo scettro della stampella
che affonda ringhiera
Il suono fa sentire regina della pazzia ?
Tre militari cavallerescamente scavalcano le ombre
di passeggeri intorno alle rive gialle del treno;
E si portano in fondo, nel pensiero della veglia.

Dove ora non trova nutrimento più che morte alcuna

 Perché non stai fermo lì?
I passi si fanno più lenti
Lieti di giorno col giorno in faccia
che scola tutta quella che chiami vita
in un giorno, lentamente, fino a questo.

 Sì figlio informe che moriva dove nasceva e succhiava lì
dove ora non trova nutrimento più che morte alcuna.

                                                            30
Perché piangi sulla soglia?

 Questi sono i figli da voi nati
Prole mostruosa che le vostre donne hanno partorito nei pomeriggi
inermi
di tutti i giorni della vostra disumana schiera.

Stabat Mater

 sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini

 Era quella notte quando
da Roma non lontano qualcuno morì.
E lo fece tra l’acqua dolce e salata

quella che si sentiva urlando
Ma la voce che urlava quella notte morì.
E lo fece da sola. Straziata

la carne in bagliori remando
A terra i fari graffiavano la terra. Morì.
E lo fece subito. E si partì. Voltata

 la strada si videro uscire dal lido frenando
i becchi che la carogna lì
sgusciata il segno a giorno va scovata.

 E lo fece da sola. Con la grazia che più non sa
un bisogno di carezza al cuore.

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Napoli

 o’ sciure tremend

 Sul cielo di Santa Caterina i pancali
verdi e blu si tengono giù.
A Formello il castello al diaccio si sfascia
sotto l’occhio vecchio quanto la vita di Napoli.
Inconcepibile per il cuore dell’artefice.
Non rende pietà alla pietà del suo amore.
Si teneva alla vita del Capuano
stretto ferocemente nel giallo di Napoli.
Quel blu si teneva stretto al mare di Napoli.

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Seconda appendice fotografica

https://www.dropbox.com/sh/wgo2jju5s34ao5x/AABxhMX30wAMANH2VYB_hzy4a?dl=0

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Nota biografica

 Specializzato in Filologia Moderna all’università di Siena Capoccia consegue il Diploma di
Archivistica in Vaticano. E’ stato borsista CUC (Centro Universitario Cattolico) . Insegna lettere in
un liceo. E’ autore di mostre pittoriche. Tra i più recenti si ricordano gli allestimenti al museo
diocesano di palazzo Orsini a Pitigliano e l’esposizione al complesso universitario San Niccolò in
Siena.

                                                 *

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Indice

2 Premessa

Parte prima

 4   Le bottiglie all’olivi
 5   Alle idi di marzo
 5   L’ora di libertà
 6   La festa di San Giuseppe
 7   Canto d’amor cerchiato
 7   Il volo della rondinella
 8   Silloge
 9   Di bianco, verde, azzurro il cielo a marzo si spaura
 9   Sortilegio
10   Per le strade stregate allagate di silenzio
11   Nell’ora dopo il vespro
11   Il cimitero a Sorano
12   Risveglio
12   Italia
12   La mimosa sfiorita
13   La cinciallegra
13   La fenice
14   Orat te
14   I giorni abbandonati
15   La musica
15   Terra mea
16   La fame
16   Primavera a Sorano
16   Notte di veglia
17   Il giardino di Dino
18   La luna
18   La guerra terza
19   Pianto etrusco a Sovana
20   Canto di nuova preghiera
20   La festa di primavera

21 I appendice fotografica

Parte seconda

23   La luce
23   Moria primo canto di Lesbo
24   Youngan
24   La gioia di vivere
25   La calenda del marzo secondo canto di Lesbo
26   Ghuta
27   Lahore sull’attentato suicida del 27 marzo 2016
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28   Idomeni due profughi si danno fuoco il 22 marzo 2016
29   Via di qui la dolorosa fugga
30   Perché piangi ?
30   La stazione di Trastevere
30   Dove ora non trova nutrimento più che morte alcuna
31   Perché piangi sulla soglia ?
31   Stabat Mater sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini
32   Napoli o’sciure tremend

33 II appendice fotografica

33 Nota biografica

Indice delle foto e dei dipinti

parte prima

[2] n.1 l’autore 2020
[3] n.2 odusia 2017 olio su tavola 350x250 cm
[4] n.3 campagna intorno a Sorano 2020
[6] n.4 campagna intorno a Sorano 2020
[17] n.5 orto nei pressi di Sorano 2020
[19] n.6 tramonto nei pressi di Sorano 2020

parte seconda

[24]   n.1 el sueño de mi vida (particolare) 2019 olio su tavola 350x250 cm
[25]   n.2 shutin’ (particolare) 2019 olio su tavola 350x250 cm
[26]   n.3 ghouta 2018 olio su tavola 350x250 cm
[27]   n.4 autoritratto 2018 olio su tela 80x60 cm
[29]   n.5 la dolorosa fugga 2018 olio su tavola 350x250 cm
[32]   n.6 Piedigrotta, Napoli 2018
[33]   n.7 tramonto nei pressi di Sorano 2020

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