Gli oceani e i mari, i nostri possibili migliori alleati contro il climate change

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Gli oceani e i mari, i nostri possibili migliori alleati contro il climate change
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     Gli oceani e i mari, i nostri possibili migliori alleati contro
     il climate change
     di Redazione
     15 Febbraio 2021 – 17:55

     Gli oceani e i mari, gli amici dimenticati. Se è vero, come purtroppo è, che il climate
     change rappresenta la più grande sfida che l’umanità è chiamata ad affrontare nei
     prossimi decenni e se è vero, come purtroppo è, che la sua manifestazione più pericolosa e
     percepibile è il riscaldamento globale (global warming), allora c’è un elemento naturale,
     alla base dell’ecosistema planetario, di cui dobbiamo particolarmente preoccuparci: gli
     oceani, le enormi distese marine che coprono i tre quarti della superficie terrestre. Il 97%
     dell’acqua presente sul globo è infatti raccolta negli oceani e nei mari. Insieme, la loro
     superficie è più di 3 volte superiore alla somma di quella di tutti i continenti terrestri e dà
     forma al più grande ecosistema del nostro Pianeta: un patrimonio indispensabile alla vita,
     un sistema che consente di regolare il clima, fornisce circa la metà dell’ossigeno
     necessario alla vita e assorbe circa un terzo del biossido di carbonio (anidride carbonica,
     CO2) in atmosfera. Si capisce allora perché gli oceani, fornendo un servizio incredibile
     all’umanità, possano essere i nostri più grande alleati nella lotta ai cambiamenti climatici.

     Gli oceani termoregolatori e generatori di ossigeno. Quando parliamo di oceani in
     riferimento al cambiamento climatico tendiamo a considerare principalmente l’aspetto
     dell’innalzamento del loro livello a seguito del global warming, con i prevedibili disastri
     conseguenti. Ma in realtà il problema è ancora più grave e complesso perché gli immensi
     oceani sono sia i principali termoregolatori che i maggiori fornitori di ossigeno del nostro
     Pianeta. Più della metà dell’ossigeno che respiriamo arriva infatti dal plancton, il
     popolatissimo bosco microrganico che ricopre la superficie di tutti i bacini idrici del
     pianeta. E buona parte del calore solare trattenuto sulla superficie terrestre grazie
     all’azione dei gas serra viene assorbito dalle acque marine che poi, attraverso la dinamica
     delle correnti (in gergo scientifico definita “nastro trasportatore”, di cui la notissima
     corrente del Golfo è solo una componente) lo distribuisce dai Tropici ai Poli assicurando
     condizioni di clima temperato e vivibilità, altrimenti impossibile, sul nostro Pianeta.

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     I mari sono il polmone blu della Terra
     Oltre la metà dell’ossigeno che respiriamo arriva dunque dal plancton marino. Quello che
     infatti non tutti sanno è che la Terra ha due polmoni. Uno è costituito dalle foreste, il
     secondo dal mare. Le acque superficiali, raggiunte dalla luce del Sole, brulicano di
     microrganismi galleggianti che producono il 50% dell’ossigeno del pianeta grazie,
     analogamente a quanto avviene per le piante terrestri, al processo della fotosintesi
     clorofilliana: per ogni respiro che proviene dal polmone verde, un altro è offerto del
     polmone blu. Al momento sono censite migliaia di specie di microrganismi marini ma
     siamo lontanissimi dall’averne una mappa completa, così come del resto siamo ancora
     quasi agli albori della conoscenza dell’immenso ecosistema oceanico (si stima che tale
     conoscenza non superi ancora il 5%). Un lavoro che probabilmente occuperà i ricercatori
     ancora per molte generazioni poiché si valuta che in esso abiti l’80% delle specie viventi; e
     se ad oggi sono state mappate oltre 230.000 specie marine, ogni anno se ne scoprono
     2.000 nuove.

     Il fitoplancton, generatore primario di ossigeno e nutrimento
     I microrganismi acquiferi sono talmente minuscoli che, pur essendo concentrati in enormi
     quantità, rappresentano meno dell’1% della biomassa globale. Essi costituiscono la base
     della catena alimentare marina e sono l’organismo più abbondante nell’oceano, nell’ordine
     di milioni di organismi per litro di acqua. Il plancton include organismi diversissimi tra di
     loro per natura (vegetale o animale) e dimensione: si va da esseri uni-cellulari osservabili
     solo al microscopio ad animali piuttosto grandi, come le meduse. Ma è quello vegetale
     (chiamato fitoplancton, anche conosciuto come ‘erba dell’oceano’) il protagonista della
     fotosintesi, e quindi dell’assorbimento di anidride carbonica (il 30% di quella in
     atmosfera): questi microscopici organismi utilizzano la luce del sole, l’anidride carbonica e
     le sostanze nutritive che risalgono dalle profondità del mare per crescere e per produrre
     ossigeno. Il carbonio assorbito, a differenza di quanto avviene nelle piante terrestri dove
     rimane a lungo ‘stoccato’ nel legno, resta però nella biomassa del fitoplancton solo per
     poco tempo, perché può prendere rapidamente molte ‘vie’. Una di queste è la catena
     alimentare acquatica. Oltre ad essere un efficacissimo ricettore di carbonio e produttore di
     ossigeno, il fitoplancton alimenta infatti i microrganismi ‘animali’ (zooplancton) dando il
     via alla catena alimentare: questi ultimi nutrono i pesci, da quelli più piccoli a quelli più
     grandi, ma anche mammiferi marini, come le balene, fino ad arrivare ad altri mammiferi,
     come l’uomo, che nell’acqua non vivono ma che si nutrono di prodotti del mare. Dal punto
     di vista della catena alimentare il fitoplancton è pertanto da considerarsi non solo l’innesco
     primario della maggior parte della vita acquatica, ma anche di quella terrestre, se
     consideriamo che i mari forniscono proteine nutritive a quasi 3 miliardi di esseri umani.

     I danni del global warming sull’ecosistema marino
     Su tutto questo perfetto meccanismo fondato sul fitoplancton quale ‘carburante’
     dell’ecosistema marino si abbatte purtroppo il climate change e il riscaldamento globale in
     atto. Il circolo vizioso del continuo incremento della quantità di gas serra e il correlato
     aumento della temperatura finiscono per fare saltare i delicati equilibri del ciclo marino
     del carbonio, in quanto l’emissione di anidride carbonica in atmosfera è talmente elevata
     da non poter essere controbilanciata dalla sua captazione da parte del fitoplancton
     attraverso la fotosintesi. L’aumento di CO2 in atmosfera rende quest’ultima più calda e il
     calore in eccesso si trasmette all’idrosfera inducendo cambiamenti nella circolazione
     acquatica, in particolare in quella verticale, che è indispensabile al plancton vegetale per
     ottenere sostanze minerali dalle profondità dei bacini, da quelli lacustri a quelli oceanici.
     Acqua meno ‘mossa’ equivale a meno nutrimento in superficie e genera dunque meno
     plancton vegetale (secondo uno studio di qualche anno fa della Dalhousie University di

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     Halifax, Canada, pubblicato sulla rivista Nature, esso sta diminuendo già dal secolo scorso
     al ritmo medio annuo dell’1%), quindi minore richiesta di carbonio per la fotosintesi e,
     conseguenza finale, più carbonio in atmosfera. Un circolo vizioso per il quale l’acqua
     diventa sempre più blu, nel senso di più povera di plancton vegetale, il mare sempre più
     povero e l’atmosfera sempre più calda.

     Più acidità delle acque meno vita sotto i mari
     Ma se l’acqua diventa più povera di plancton conseguentemente si presenta anche più
     acida, perché l’anidride carbonica, che in essa si scioglie, viene sempre meno assorbita.
     Noto come “l’altro problema della CO2” , l’acidificazione degli oceani è un processo che si
     è avviato fin dagli albori della rivoluzione industriale (+30% l’incremento di acidità ad oggi
     riscontrato, + 100-150% entro il 2100 in assenza di inversione di rotta) e provoca reazioni
     a catena nella biosfera marina. Questo fenomeno finisce infatti per mettere in pericolo
     tutte le forme viventi che vi abitano e che si sono sviluppate in un ecosistema con
     caratteristiche chimiche più o meno omogenee da migliaia di anni. Ad esempio provocando
     la diminuzione della concentrazione di ‘ioni carbonato’ l’acidificazione dei mari rende
     sempre più problematico per molti organismi acquatici costruire il proprio guscio, o altri
     elementi rigidi indispensabili alla loro vita, tramite il processo biologico di calcificazione.
     Fitoplancton, zooplancton, alghe coralline, coralli, echinodermi (gruppo a cui
     appartengono stelle e ricci di mare) e molluschi si servono di due minerali del carbonato di
     calcio per la costruzione delle proprie parti dure; se l’acqua risulta troppo acida gusci e
     strutture similari si dissolvono o non si formano affatto, pregiudicando le possibilità di
     sopravvivenza di moltissime forme di vita. Basti pensare all’eventuale scomparsa delle
     barriere coralline: significherebbe perdita di habitat e di risorse trofiche per innumerevoli
     specie di pesci e di microrganismi.

     Gli ulteriori danni all’ecosistema marino causati dall’uomo
     Ma come se non si profilassero già abbastanza guai determinati dall’eccesso di carbonio, il
     nostro modello di sviluppo genera disastri aggiuntivi. Attività direttamente riferibili al
     funzionamento dei nostri sistemi di produzione e consumo quali:

     -sovra-sfruttamento della pesca,
     -estrazioni a ritmi progressivamente crescenti dai fondali marini,
     -azioni inquinanti attraverso sversamenti di idrocarburi e sostanze tossiche,
     -deposito di enormi quantità di plastiche che poi non si riescono a gestire e smaltire,

     inducono enormi danni ai fragili ecosistemi marini. Prendiamo ad esempio quest’ultimo
     aspetto: dalla metà del secolo scorso sono stati prodotti 8 miliardi di tonnellate di plastica
     e il 90% non è mai stato riciclato. Oltre 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica
     (equivalente al carico di 1 camion al minuto) finiscono nei nostri oceani ogni anno e, senza
     interventi, questo numero dovrebbe quasi raddoppiare fino a raggiungere i 17 milioni di
     tonnellate entro il 2025. Questa enorme quantità di materiale si è dispersa nell’ambiente,
     nelle discariche o nei fiumi, attraverso i quali è arrivata, e continua ad arrivare, negli
     oceani. E finisce per soffocare forme di vita o direttamente nella pancia dei pesci. Ogni
     tanto ce ne accorgiamo per qualche casualità o per alcuni fatti di cronaca particolarmente
     eclatanti: il capodoglio spiaggiato nella primavera del 2019 in Sardegna aveva la pancia
     piena di plastica a chili.

     L’impegno delle istituzioni internazionali per la salvaguardia degli oceani
     La scienza è chiara: gli oceani stanno affrontando minacce senza precedenti a causa delle
     attività umane. Se vogliamo affrontare le questioni più determinanti del nostro tempo,
     quali il cambiamento climatico, l’insicurezza alimentare, le malattie e le pandemie, la

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     diminuzione della biodiversità, la disuguaglianza economica e persino i conflitti e le lotte,
     dobbiamo agire ora per proteggere lo stato dei nostri oceani. È significativo che le Nazioni
     Unite abbiano dedicato alla questione un Goal specifico e che si sia stata convocata nel
     2017 la prima Ocean Conference planetaria (quella prevista per il 2020 a Lisbona è stata
     rinviata causa Covid) che ha dichiarato gli anni 2021-2030 quale ‘Decennio delle Nazioni
     Unite sulla scienza oceanica per lo sviluppo sostenibile’. Così come è altrettanto rilevante
     che il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) abbia prodotto un
     rapporto speciale dedicato al peggioramento degli oceani e delle calotte di ghiaccio e che
     87 Paesi abbiano firmato l’Agreement on Port State Measures (PSMA), il primo accordo
     internazionale contro la pesca non regolamentata e illegale. Ma un enorme lavoro rimane
     da fare e i Target in cui si articola l’Obiettivo 14 ne forniscono una schematica sintesi:

     -riduzione dell’inquinamento marino,
     -protezione degli ecosistemi marini e costieri,
     -riduzione al minimo dell’acidificazione,
     -fine della pesca illegale e eccessiva,
     -aumento degli investimenti nella conoscenza scientifica e nella tecnologia marina,
     rispetto diritto internazionale che richiede l’uso sicuro e sostenibile dell’oceano e delle sue
     risorse.

     I gravi ritardi dell’Italia per la tutela e la valorizzazione del proprio patrimonio marino
     La recente Relazione sullo stato di attuazione della Strategia per l’ambiente marino
     (Direttiva quadro 2008/56), presentata dalla Commissione europea il 25 giugno 2020,
     evidenzia i ritardi del nostro Paese nella presentazione dei report previsti e la carenza di
     molti dei dati conoscitivi. L’Italia risulta ancora tra gli Stati membri con sensibili
     inadempienze, nonostante la fondamentale importanza ambientale e socio-economica che
     il mare riveste per il nostro Paese. Il rapporto Asvis 2020 segnala che nel corso dell’ultimo
     decennio l’indice composito italiano relativo al Goal 14 mostra un andamento altalenante:
     migliora fino al 2015, grazie alla crescita significativa dell’indicatore relativo alle aree
     marine protette, per poi peggiorare sensibilmente negli ultimi tre anni, a causa
     dell’aumento dell’attività di pesca e del sovrasfruttamento degli stock ittici (90,7% rispetto
     ad una media europea del 38,2%). Qualche nota positiva arriva dall’adozione di alcune
     direttive dell’Unione Europea riguardo la limitazione della commercializzazione di
     determinati prodotti monouso di plastica (per esempio, piatti, posate e cannucce di
     plastica) e riguardo il trattamento degli scarichi delle navi e dei rifiuti negli ambienti
     portuali. Il ritardo dell’Italia è comunque grave, in relazione soprattutto all’elevato
     sviluppo costiero del nostro Paese e al suo ruolo strategico per l’economia (turismo, porti,
     pesca).

     L’iniziativa ‘Plastic Free’ di Coopservice
     Nell’ambito delle procedure e delle metodologie adottate per minimizzare la propria
     impronta ambientale Coopservice ha ottenuto, tra le altre, la certificazione Ecolabel per
     servizio di pulizie a marchio Green Leaf e ha promosso iniziative di sensibilizzazione e
     coinvolgimento di soci e dipendenti nell’adozione di pratiche quotidiane all’interno dei
     luoghi di lavoro. Tra queste il progetto ‘Plastic Free’, una serie di misure per eliminare la
     plastica monouso in 15 delle principali sedi e filiali, come l’eliminazione delle bottigliette
     dai distributori automatici e la sostituzione di tutti i contenitori di plastica monouso (ad
     esempio i bicchierini per le bevande calde) con prodotti in materiale biodegradabile. Per
     facilitare ulteriormente le pratiche di riutilizzo a tutti i lavoratori delle sedi interessate
     sono poi state distribuite borracce personalizzate termiche in acciaio per i propri
     approvvigionamenti di acqua o bevande. Va ricordato inoltre che Coopservice figura tra i

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     firmatari del ‘Manifesto per il nuovo Green Deal’, un documento sottoscritto dai
     rappresentanti delle più importanti aziende e organizzazioni di impresa del Paese per dare
     impulso all’attuazione degli obiettivi definiti dall’European Green Deal e dal Circular
     Economy Action Plan, i programmi per la crescita sostenibile varati recentemente dalla
     Commissione Europea

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