Gigi Proietti al suo pubblico

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Gigi Proietti al suo pubblico
Io sono Babbo Natale: l’atto di addio di
Gigi Proietti al suo pubblico
Nelle sale dallo scorso 3 novembre, esattamente il giorno dopo del primo anniversario della morte
di Gigi Proietti, il film Io sono Babbo Natale rimarrà per sempre legato a questa struggente
malinconia, dal quale è difficile riuscire a scinderla. Al suo fianco c’è Marco Giallini, perfetto nei
panni di questo ladruncolo, che piano piano si redime, credendo nella magia del Natale e alle
assurde verità di un anziano, elegante e distinto signore di nome Nicola, che dice di essere
addirittura Babbo Natale in persona. Ha inizio così una girandola di siparietti, divertenti ma anche
commoventi, tra Proietti e Giallini, attori di grande scuola: un mito vivente il primo, un grande attore
il secondo.

Così la romanità di entrambi riesce a dare calore e familiarità ad una favola natalizia, che rifà tanto
il verso a quelle americane degli anni ’80 e ’90, basata su una trama “magica” ma correlata alla
realtà, con tante buone intenzioni e un buonista messaggio di fondo, che non stona affatto con il
significato del “Natale”.

Giallini è stupendo, lo abbiamo detto e lo ribadiamo, però è il Gigi nazionale che si prende tutta la
scena, con la sua classe, con i suoi tempi recitativi impeccabili, eredità di 60 anni di carriera e figli
di una vecchia scuola recitativa, che non esiste più. Infatti Proietti riesce ad essere perfettamente
credibile nei panni di Babbo Natale, eliminando qualunque artifizio, grazie alla sua capacità di
rendere l’impossibile, possibile. Il film rimane come il canto di addio di uno degli attori italiani più
amati della storia del nostro cinema, d’altronde la sequenza finale, apre uno squarcio assoluto di
poesia e di malinconia, nei quali la lacrimuccia dagli occhi è difficile riuscire a contenerla. Babbo
Natale/Proietti, esce di scena, nell’ultima sequenza del film, quasi rivolgendosi alla telecamera, come
per salutare affettuosamente il suo pubblico. Ed è da pelle d’oca pensare che questo film uscito
postumo si concluda proprio con questo struggente saluto di Gigi.
Gigi Proietti al suo pubblico
Il film venne girato nel dicembre di due anni fa, quando la pandemia da Covid-19 era ancora in
Cina, ma di lì a poco avrebbe invaso l’Europa e il Mondo. Le chiusure delle sale, la susseguente
morte di Gigi Proietti, avvenuta il 2 novembre del 2020, hanno convinto produttore e distributori
a tardare l’uscita della pellicola, intelligentemente non presentandola né sulle piattaforme online, né
fuori stagione. L’uscita, simbolica del 3 novembre restituisce ancora di più il legame profondo che
lega la pellicola a Gigi, sancita dalla dedica finale, a fine film (“A Gigi”), che è il saluto, questa volta,
del pubblico ad un attore, tanto familiare, da essere rimasto nella memoria collettiva; e Io sono
Babbo Natale ci fa sentire la nostalgia di Gigi in ogni inquadratura, in un addio ricco di gratitudine
e di affetto. Perché poi, per quanto ci si possa sforzare di scindere la visione del film, dalla
malinconia dell’ultima apparizione dell’attore romano, l’occhio, la mente e il pensiero rimangono
sempre concentrati sui movimenti (pure agili, bisogna dirlo), sui gesti, sulle parole di Gigi Proietti,
che scaldano il cuore.

E poi c’è quel sorriso, che è sempre quello, efficace e irresistibile, immobile nel tempo e destinato a
restare per sempre fissato nei nostri occhi. Quello di Bruno Fioretti, detto “Mandrake”, che
sfoggia sulle passerelle o all’ippodromo di Tor di Valle, per incantare cavalli e segugi (Febbre da
cavallo). Quel sorriso magico del “Mandrake” del palcoscenico e del grande schermo, che ci saluta
con un filo di commozione nell’ultima scena del film. Quel sorriso un po’ invecchiato, ma che è
sempre quello, rassicurante, umano, illuminante.

Di Gigi rimane tanto, rimangono le sue 40 pellicole, da riscoprire e da ammirare, perché in fondo, a
chi dice che abbia avuto un rapporto controverso con il cinema, gli si può rispondere, che più che
altro Gigi ha saputo creare una carriera artistica poliedrica fatta di tante stagioni luminose, non
abbandonando mai il teatro, che rimane il suo primo amore. Il cinema negli anni ’70, con il premio di
“Personaggio cinematografico dell’anno” conquistato nel 1976, proprio per Febbre da cavallo. E poi
la televisione, come show man degli anni ’80 e primi ’90. E poi le serie e i film tv degli anni ’90 e
2000 (su tutti rimangono il Maresciallo Rocca e Don Filippo Neri di Preferisco il Paradiso).

E poi il grande ritorno al cinema, con il Nastro d’Argento vinto per Febbre da cavallo 2 nel 2003
al quale va aggiunto quello alla carriera del 2018, con alcune interpretazioni rimaste nella memoria,
come quella, parodistica del Conte Duval, in una rivisitazione satirica de La signora delle Camelie,
in Un estate al mare, capolavoro comico di grandissima scuola; oppure il ruolo di Mangiafuoco
nel Pinocchio di Matteo Garrone. Mancava solo il David di Donatello, a coronare la sua carriera
cinematografica. Arrivato forse fuori tempo massimo, quest’anno l’Accademia lo ha insignito del
David di Donatello alla Memoria. Meritatissimo, con una standing-ovation durata svariati minuti.
Il segno dell’affetto immutato del pubblico verso Gigi.

Perché poi rimane, sempre il solito dubbio: “ma i Miti muoiono mai?”.

Io non credo, perché Totò non mi sembra sia mai morto e allora credo proprio
che neanche Gigi morirà davvero mai.

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Non ci resta che il crimine - Il film
Non ci resta che il crimine, di Massimiliano Bruno, uscito in quasi 400 sale (la potenza del
produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), poggia tutta la sua popolarità sul trio di
protagonisti davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi.
Accanto a loro un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della
famigerata Banda della Magliana. Non ci resta che il crimine è un mix volutamente dichiarato tra
Non ci resta che piangere e Smetto quando voglio.
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Non ci resta che il crimine”, con i 4 prtagonisti Alessandro Gassman, Gianmarco Tognazzi,
Edoardo Leo e Marco Giallini vestiti e truccati come i Kiss.

Il titolo è un omaggio all’ironia del primo leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di
uno sfaccendato trio di amici che mostra ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della
Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati, tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente
nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare.

Lo stesso Marco Giallini, ospite d’onore in Sicilia, all’Ortigia Film Festival, aveva raccontato in
anteprima quello che sarà il film e la sua connotazione di omaggio e in se di commedia d’avventura:

 “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci resta che piangere, ma lo abbiamo
ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo. Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano
ai turisti i luoghi della Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno usciamo
da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo in mezzo alla banda vera in un salto temporale curioso da
oggi a quegli anni lì. Ci sarà parecchio da ridere”.

Quello del film in costume, con un cortocircuito spazio-temporale che proietta i nostri “eroi” indietro
nel tempo, in epoche remoto o anche meno remote è una delle più affascinanti tecniche di
suggestione cinematografica e siamo sicuri che questa stessa pellicola avrà la forza per sopravvivere
in mezzo a tante commedie coeve, dove manca quel pizzico di originalità, indispensabile per
emergere.

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I film italiani in sala nel Natale 2018:
commedie, film d’azione e graditi ritorni
Come da tradizione, il periodo di Natale, quello che cinematograficamente va dal 15 novembre al 15
gennaio, è il periodo in cui escono in sala i film potenzialmente di maggior incasso: una vera boccata
di ossigeno sia per gli esercenti che per i produttori cinematografici. Storicamente questi 60 giorni
sono i più prolifici in termini di presenze a meno di qualche exploit particolare di singoli e specifici
film in altri periodi dell’anno. Un Natale che sarà dominato dagli innumerevoli film hollywoodiani,
citiamo su tutti “Il ritorno di Mary Poppins”, una rivisitazione dell’originale film della supertata,
con Emily Blunt e Meryl Streep. Ma anche il nostro cinema ha un po’ di frecce al suo arco, con
gustose commedie, film d’azione e anche alcuni graditi ritorni.

Quest’anno ad aprire la sfida natalizia ci ha pensato il redivivo Leonardo Pieraccioni, che dopo tre
anni dalla sua ultima fatica (il mediocre Il professor Cenerentolo), torna in sala con un film, “Se son
rose…”, che lo riporta quasi alla felice vervè di un tempo. Se son rose… è un film azzeccato, poetico
e inusualmente anche un po’ amaro, un punto di nuovo inizio nella carriera pluriventennale
dell’attore toscano. Non più giovane, scanzonato donnaiolo, un po’ bambino; ma cinquantenne che si
trova a fare i conti con il proprio passato e in fondo anche con il proprio presente. Leonardo è un
uomo di mezz’età ostinatamente single che fa il giornalista di successo sul web occupandosi di alte
tecnologie e ha una figlia di 15 anni, Yolanda, lascito di un matrimonio naufragato. Yolanda è stanca
di vedere il padre nutrirsi di involtini primavera surgelati e crogiolarsi nel suo infantilismo
regressivo, e pensa che la chiave di volta possa essere una relazione stabile. Per metterlo di fronte ai
suoi innumerevoli fallimenti in materia sentimentale Yolanda decide di mandare a tutte le ex di
Leonardo un sms che dice: “Sono cambiato. Riproviamoci!”. E le sue ex rispondono, ognuna secondo
la propria modalità. Come premessa comica è curiosa, e ha il potenziale per una di quelle farse alla
francese cui il cinema d’oltralpe ci ha abituati negli ultimi anni; eppure Pieraccioni sceglie la strada
malinconica unita alla crescita interiore di un personaggio, che forse alla fine sceglie l’amore, quello
nuovo, perché tornare indietro “è soltanto una minestra riscaldata”. Tra i punti di forza del film,
oltre ad una serie di belle e brave attrici (Claudia Pandolfi, Micaela Andreozzi, Gabriella Pession), la
ritrovata vervè vernacolare di Pieraccioni, vero punto di forza del comico. E apre a quella vena
malinconica che, in un paio di occasioni (l’incontro con la fidanzatina del liceo, il dialogo finale con
l’ex moglie), lascia intravedere qualche sprazzo di autenticità autobiografica e un principio di vera
autocritica. La domanda centrale della storia, ovvero “Quando e perché finiscono gli amori?”,
nasconde uno strazio sincero, soprattutto nei confronti di un’unione matrimoniale terminata
nonostante una figlia molto amata. Considerato che il suo nume tutelare dichiarato è Monicelli,
Pieraccioni fa bene ad esplorare il lato amaro del proprio personaggio, smarcandosi dalla melassa,
tipica del suo cinema. Se son rose è la riflessione di un Peter Pan sulle proprie responsabilità nei
fallimenti sentimentali collezionati nel tempo, ma anche sulla fragilità strutturale di una generazione
maschile autocompiaciuta e programmaticamente immatura. Con un po’ di coraggio in più
Pieraccioni potrebbe uscire dalla dimensione fintamente fanciullesca ed entrare con successo in
quella cinico-romantica alla Bill Murray, versione toscana. La strada è tracciata, e non solo la critica,
ma anche il pubblico, dopo anni di mugugni, ha dimostrato gradire questa deriva malinconica e
amara del “nuovo” e cinquantenne Pieraccioni, che piaccia o no, uno dei mostri cinematografici
italiani più importanti degli ultimi trent’anni.

E in tema di ritorni, questo sembra un Natale cinematografico vecchio stile, come se si tornasse
indietro di 13 anni diciamo, a quel 2005 quando la sfida cinematografica natalizia era tra Ti amo in
tutte le lingue del mondo (Pieraccioni) e Natale a Miami (ultimo film insieme della coppia De Sica-
Boldi, prima della chiacchierata rottura). Già perché la notizia cinematograficamente più rilevante
dell’annata venne data a metà giugno: il Corriere della Sera titolò “a dicembre tornano insieme Boldi
e De Sica, dopo 13 anni di lontananza”. Un colpo ad effetto e nostalgico della Medusa del Cavalier
Berlusconi, di sicuro e prevedibile successo. Il ritorno del “vero” cinepanettone si parlò. E invece il
film “Amici come prima”, non è un cinepanettone, sembra più una pochade alla francese, con De
Sica quasi sempre travestito da donna, che deve accudire il suo vecchio amico (Boldi) e proprietario
dell’hotel di cui era direttore, e lo aiuterà a salvare il patrimonio di famiglia. Che l’intenzione di
Amici come prima sia metacinematografica è esplicitamente dichiarato dall’inquadratura finale, una
carrellata all’indietro che denuncia la finzione filmica, con tanto di blooper finali. E non è un caso
che quei blooper documentino il rapporto di amicizia ritrovata fra Massimo Boldi e Christian De Sica
che dà il titolo a questa commedia. Amici come prima porta infatti in dote il loro sodalizio ventennale
e il consolidato contrasto fra la milanesità dell’uno e la romanità dell’altro. Dentro a questa storia c’è
l’affetto che il pubblico ha tributato per decenni al duo, ci sono l’aspettativa per le linguacce di Boldi
e le reazioni fulminee di De Sica (due o tre qui da antologia), c’è la trivialità scatologica e infantile
cui ci hanno abituati decine di cinepanettoni, ci sono i botta-e-risposta dal ritmo comico ben rodato.
E c’è anche una riflessione autobiografica e dolorosa sulla vecchiaia e la paura di essere rottamati.
Non chiamatelo però cinepanettone. Christian De Sica, qui nelle vesti anche di regista e
sceneggiatore, ci tiene infatti a precisare che il film non sarà una serie di gag giustapposte l’una
all’altra, ma le risate saranno al servizio di una trama ben solida, ispirata alla lunga tradizione della
commedia all’italiana. All’inizio il soggetto sarebbe dovuto essere al contrario un film drammatico
ma, un po’ per le richieste della produzione, un po’ per il volere dell’attore di lavorare ancora con
l’amico, il progetto è virato verso un prodotto leggero natalizio.

Il 10 gennaio, infine, prodotto dal vecchio e leggendario Fulvio Lucisano, uscirà l’attesissimo “Non
ci resta che il crimine”, un mix davvero strepitoso, tra Non ci resta che piangere e Smetto quando
voglio. Il titolo è un omaggio all’ironia di Non ci resta che piangere, il crimine invece fa parte del
plot. Alla sua sesta prova dietro la macchina da presa, a due anni da Beata Ignoranza e quattro da
Gli ultimi saranno ultimi, ritroviamo il regista romano Massimiliano Bruno, classe 1970, che negli
anni ci ha abituato a commedie ridanciane con un bel graffio sull’attualità. Come da usanza, nei
grandi film italiani degli ultimi anni, anche Non ci resta che il crimine, si serve di un cast corale di
mattatori di altissimo livello: dal trio Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, a
Edoardo Leo e Ilenia Pastorelli. “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci
resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo” racconta Giallini,
ospite dell’Ortigia Film Festival. “Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i
luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno
usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo catapultati in mezzo alla banda vera, esattamente
nel 1982 (Edoardo Leo interpreterà De Pedis, ndr) in un salto temporale curioso da oggi a quegli
anni lì. Ci sarà parecchio da ridere, ma anche da riflettere”. Un film, insomma, che promette risate e
azione stile Smetto quando voglio, ma anche il fascino misterioso dei viaggi nel tempo in grado di
attirare l’attenzione del pubblico. Un film destinato a rimanere negli annali: c’è da scommetterci!
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