Rivista di Storia e Letteratura Religiosa - G. Cracco, G. Dagron , C. Ossola F. A. Pennacchietti, M. Rosa, B. Stock - IRIS

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Anno LII - 2016 - n. 2

 Rivista di Storia e
Letteratura Religiosa

              diretta da
   G. Cracco, G. Dagron†, C. Ossola
F. A. Pennacchietti, M. Rosa, B. Stock

        Leo S. Olschki Editore
                Firenze
RECENSIONI

J.-M. Spieser, Images du Christ, des catacombes aux lendemains de l’iconoclasme, Genève,
     Droz, 2015, pp. 546, + ill.

      L’Autore, che in questo libro raccoglie il frutto di molti anni di lavori preparatori,
motiva l’esigenza di scrivere un nuovo studio sull’evoluzione delle antiche rappresenta-
zioni di Cristo segnalando l’evidenza che, diversamente da quanto si potrebbe pensare,
l’argomento non è stato fatto oggetto di ricerche recenti, esaustive e approfondite. Nel
volume, che non si presenta come una semplice monografia di storia dell’arte cristiana
antica, Spieser tenta non soltanto di ricostruire la nascita e l’evoluzione delle immagini
cristologiche, ma anche di metterne in luce il contesto sociale, pratico e teologico,
mirando a evidenziare la dinamica e i meccanismi sottostanti a questo lungo processo.
Non si tratta quindi di una mera storia dell’evoluzione delle raffigurazioni di Cristo
dal punto di vista delle forme artistiche, né di una storia della cristologia attraverso
le immagini. Fra le novità più evidenti c’è la sensibilità nel trattare il cristianesimo dei
primi secoli come un sistema religioso in fieri e non come il portatore di una dottrina
conclusa e ben stabilita: appare chiaro lo sforzo di ritrovare nella variegata società cri-
stiana tutti quegli spunti che si sono concretizzati in un atto iconografico.
      Le prime testimonianze sopravvissute dell’immagine di Cristo sono molto rare e
non anteriori al III secolo: la prima imagerie cristiana, sorprendentemente, non si or-
ganizza attorno a lui. L’Autore prende in esame le rappresentazioni esplicite di Cristo
riscontrabili principalmente nell’ambito dell’arte funeraria, dove la figura di Gesù è
tratteggiata all’interno di scene tratte da episodi evangelici spesso di natura miraco-
listica (risurrezione di Lazzaro, moltiplicazione dei pani e dei pesci, incontro con la
samaritana, guarigione del cieco) che non mostrano una particolare cura nella realiz-
zazione tecnica e non attestano un precipuo interesse per la rappresentazione di Cristo,
concentrate piuttosto nel sottolineare la grandezza delle opere di Dio. Particolare at-
tenzione è rivolta alle raffigurazioni della coronazione di spine, che l’Autore ritiene un
caso di iconografia anticamente attestata che non riuscì ad affermarsi.
      Rivolgendosi all’iconografia del Buon Pastore, Spieser può affrontare uno di quei
casi nei quali il Cristo non è raffigurato secondo la carne, ma attraverso un rimando
simbolico non esclusivamente cristiano. Rigettata l’antica opinione storiografica se-
condo cui la figura del Buon Pastore fosse una creazione cristiana che rappresentava
in maniera eccellente la persona di Gesù, l’Autore avanza numerose ragioni, anche
tratte dalla letteratura cristiana contemporanea, che dimostrano l’indipendenza e la
preesistenza dei tratti del Buon Pastore rispetto a quelli di Cristo; il quale, a seconda dei
contesti, poteva essere raffigurato in quei panni o soltanto adombrato, mentre in certi
casi rimaneva del tutto estraneo, almeno fino al IV-V secolo. Si tratta di una tipologia di
immagine “neutra”, diffusa soprattutto fra il 250 e il 320 d.C., che poteva essere acco-
stata o meno alla persona di Gesù, sia dentro sia fuori i contesti cristiani. Essa però, es-
sendo neutra dal punto di vista formale, acquista un senso precipuo attraverso gli occhi
di colui che la guarda: per i non cristiani rimane una semplice immagine bucolica che
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rappresenta un pastore, per i cristiani può assumere un ruolo evocativo che rimanda a
un concetto di salvezza ottenuta attraverso la mediazione del Signore. Soltanto con il
V secolo si assiste a una completa cristianizzazione dell’immagine del Buon Pastore,
arricchita di attributi figurativi essenzialmente cristologici, proprio in un momento in
cui tale modello iconografico si dirigeva verso una lenta decadenza.
      Lo stesso schema mentale sta dietro all’uso dell’immagine di Orfeo in contesti cri-
stiani. Non soltanto un fenomeno di continuità della cultura classica, la figura di Orfeo
è quella di un saggio pagano che avrebbe riconosciuto il monoteismo e, soprattutto,
quella di un portatore di salvezza nella sua veste di vincitore delle tenebre della morte:
una qualità che lo accomuna al pastore e che spiega certe commistioni fra i due perso-
naggi in ambito cristiano (raffigurazioni di Orfeo circondato da pecorelle). In quanto
metafora del Cristo, Orfeo è presentato come colui che ammalia gli animali con il suo
canto, come Gesù diffonde la sua dolce parola fra gli uomini.
      La presenza di tali elementi “neutri” ed evocativi e la loro ricorrenza nell’icono-
grafia sepolcrale cristiana pervade il III secolo e prevale sull’iconografia diretta di Cri-
sto, che compare soltanto ove essa è strettamente necessaria (come, ad esempio, nelle
scene evangeliche).
      Oltre alle raffigurazioni miracolistiche, un altro tema iconografico cristologico dif-
fuso è quello del battesimo. Spieser si sofferma in particolare su alcune caratteristiche
interessanti: il Cristo battezzando raffigurato come un bambino (segno di umiltà e
sottomissione, ma anche simbolo del passaggio dall’infanzia all’età adulta tramite il
battesimo, una sorta di rinascita), la provenienza dell’acqua dall’alto, come se il fiume
Giordano fosse in relazione con i fiumi celesti del paradiso, e la personificazione icono-
grafica del fiume Giordano. L’Autore ritiene che le rappresentazioni del battesimo fra
III e IV secolo siano «un testimone, forse anche più fedele del testo, di esuberanza e del
carattere multiforme di un cristianesimo che non era ancora divenuto ciò che alcuni
autori moderni chiamano la Grande Chiesa» (p. 161).
      Tornando all’argomento del miracolo, le rappresentazioni di questo tema non po-
tevano attingere a schemi e modelli più antichi, che mancavano. L’atto taumaturgico di
Cristo è spesso rappresentato attraverso il tocco con le mani o con un oggetto tenuto
fra le mani; in altri casi, con la sola parola. Numerosi sono i collegamenti che l’Autore
istituisce fra l’iconografia e la letteratura cristiana sul tema del complesso confronto
fra magia e miracolo, senza tralasciare le fonti di natura giuridica e dimostrando come
la veloce decadenza di questo soggetto di rappresentazione vada di pari passo con l’au-
mento delle critiche e delle controversie in merito alla vera natura dell’atto miracoloso.
      Con una sola eccezione, fino alla seconda metà del IV secolo Gesù è sempre rap-
presentato imberbe; inizialmente porta i capelli corti, che in seguito diverranno più
lunghi scendendo fino alla nuca arricciati in boccoli. Un’altra caratteristica delle più
antiche raffigurazioni di Cristo è la giovinezza. Spieser non ritiene che queste tipologie
siano una semplice trasposizione sul Cristo di modelli iconografici preesistenti; ma al
contempo, attraverso uno studio comparativo, giunge a riconoscere le medesime ca-
ratteristiche in altri personaggi inseriti nel contesto delle medesime rappresentazioni:
ciò dimostra che tali qualità non erano percepite come esclusive del Cristo, sebbene
alcuni scritti coevi forniscano descrizioni di un Gesù giovane e di bell’aspetto.
      Per certi versi inaspettata è la presenza di Gesù all’interno di scene tratte dall’Anti-
co Testamento; più comprensibile la sua presenza nelle scene di creazione.
      Dalla seconda metà del IV secolo, contemporaneamente al diminuire della pro-
duzione dei sarcofagi e in genere dell’arte funeraria, si nota un cambiamento: Gesù
RECENSIONI                                                                             351
non è mostrato più soltanto come uomo vissuto sulla terra, con caratteristiche che
rimandano alla sua dimensione storica, ma sempre più nella sua funzione ultraterrena
e con peculiarità che vogliono mettere in luce la sua natura divina. Anche i sarcofagi
che rappresentano scene della passione non mettono tanto in scena le sofferenze pro-
vate da Gesù nelle sue ultime ore di vita, quanto il suo trionfo, al punto di snaturare
certi elementi attribuendo loro un significato nuovo (ad esempio, la corona di spine
si trasforma in una vittoriosa corona di alloro). Quanto più si diffonde un’iconografia
cristologica tesa a sottolineare la sua divinità, tanto più risulta accettabile la compre-
senza di iconografie diverse che rendono conto del suo polimorfismo e che rifuggono
l’idea di realismo. Compaiono tipi iconografici nuovi, come quello della cosiddetta
Traditio legis, quello del Cristo pedagogo, quello del Cristo in trono, che possono essere
intesi come le spie di alcuni cambiamenti. È in quest’epoca che si afferma, ad esem-
pio, la rappresentazione del Cristo barbuto al quale per un certo periodo continua ad
affiancarsi quello imberbe. Probabilmente per differenziare l’immagine del Cristo da
quella delle altre divinità, generalmente rappresentate con barba e in posizione seduta,
inizialmente il Cristo barbuto è raffigurato in piedi. Nel momento in cui si afferma la
figura del Cristo barbuto assiso sul trono, la differenza rispetto ai volti di Zeus, Asclepio
o Serapide risulta quasi nulla.
     Si diffonde, sempre nella seconda metà del IV secolo, la decorazione monumenta-
le, soprattutto absidale. È molto interessante la discussione che l’Autore dedica alle de-
corazioni delle absidi a partire dalla metà del IV secolo, in particolare a quella dell’an-
tica San Pietro a Roma, che non pare essere stata una scena di Traditio legis, come
generalmente si pensa, quanto piuttosto un dipinto del Cristo in trono fra gli apostoli.
     Il tragitto verso la comparsa di un vero e proprio ritratto di Cristo è lungo, e Spie-
ser lo ricostruisce con attenzione. Si impone con forza sempre crescente la necessità di
differenziare i tratti di Gesù da quelli delle divinità pagane: è significativo un episodio
della prima metà del VI secolo, dove Teodoro il Lettore biasima un pittore per aver
raffigurato Cristo con i tratti di Zeus. Nasce l’iconografia del Cristo con capelli corti e
ricciuti: il caso più eclatante è quello dell’imperatore Giustiniano II, che a distanza di
pochi anni fa coniare due tipi di monete con il volto di Cristo, il primo barbuto e con
capelli lunghi, il secondo quasi imberbe e con i capelli corti e ricci.
     Quello che potrebbe essere considerato come il primo esempio compiuto di im-
magine di Cristo che porta con sé lo statuto del ritratto – stabilizzatosi dopo un lungo
cammino che progressivamente ha fatto sparire altri possibili modelli concorrenti – è
una celebre icona costantinopolitana oggi conservata a Santa Caterina del Sinai, arche-
tipo essa stessa o esemplare prossimo a un archetipo, databile alla seconda metà del
VI secolo (forse l’ultimo terzo). Essa raffigura un Cristo con capelli lunghi, separati
al centro da una scriminatura ben marcata e discendenti in modo asimmetrico, con la
mano destra che esce da una piega del mantello e sale al petto in gesto di benedizione.
Questa tipologia con tali caratteristiche assurge a modello e si riscontra anche successi-
vamente su dipinti, mosaici, sculture e monete, lasciando intendere che non si tratta di
accostamenti casuali. All’interno di questo sviluppo, un ruolo non marginale è giocato
anche dalla comparsa delle immagini cosiddette “acheropite” (Mandylion di Edessa,
Camuliana, etc.) le quali, perlomeno per quanto si può capire dalle copie che ci sono
pervenute, in parte condividono e in parte si differenziano da questo incipiente canone
che negli stessi anni si stava progressivamente affermando: ma esse godono di uno
statuto speciale e obbediscono a leggi diverse in quanto si presentano non già come
ritratti, ma come vere impronte del volto di Cristo lasciate sulla stoffa.
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     Con l’invenzione e la definitiva stabilizzazione di un canone ritrattistico per Cri-
sto, impostosi sugli altri (soppiantando, ad esempio, quello del volto con barba corta
e capelli ricci), si conclude la disamina dell’Autore. A quest’altezza ormai il canone
figurativo sembra accolto, riconoscibile anche in presenza di variazioni di dettaglio.
Rimane aperto il discorso sulla possibilità di stabilire un vero e proprio archetipo di
tale iconografia, sia o non sia esso l’icona di Santa Caterina (la distruzione di altri si-
gnificativi esemplari coevi, come il mosaico del crisotriclinio del palazzo imperiale di
Costantinopoli, rende difficile trarre conclusioni). L’affermazione di questo canone
ormai rende Cristo distinguibile dalle divinità pagane (fra l’altro attraverso l’uso di un
abbigliamento romano contemporaneo e la presenza di oggetti come il libro o il ro-
tolo) e al contempo dalla figura del saggio immerso nel mondo civile (attraverso l’uso
dei capelli lunghi, all’epoca disdegnati). Con queste caratteristiche il ritratto di Cristo
si avvia a divenire oggetto delle opposizioni più forti, con l’avvento dell’iconoclastia.
Il volume di Spieser diverrà certamente un’opera di riferimento per comprenderne la
storia; ben meritato è il premio Schlumberger che l’Académie des Inscriptions et Belles-
Lettres ha voluto tributargli per l’anno 2016.
                                                                  Andrea Nicolotti

C. Bino, Il dramma e l’immagine. Teorie cristiane della rappresentazione (secc. II-XI), Firenze,
    Le Lettere, 2015, pp. x-267.

     Delle tre religioni monoteiste, islamismo, ebraismo e cristianesimo solo quest’ul-
tima, ma non in tutte le sue componenti, permette il culto delle immagini. L’islam
prende dall’ebraismo il divieto di rappresentare alcunché. Per entrambe le religioni
Dio è invisibile. Viceversa, nel cristianesimo, Dio, incarnandosi nel Figlio, ha voluto
farsi visibile. Rispetto all’ebraismo, il cristianesimo è primato della vista sull’udito e
dell’immagine sulla parola. Il cristianesimo, però, non poteva accettare le immagini
idolatriche del politeismo pagano. Dovette perciò creare una nuova teoria della rappre-
sentazione, dello sguardo e delle immagini.
     È questo il cuore del denso saggio di Carla Bino, Il dramma e l’immagine. Il plurale
del sottotitolo Teorie cristiane della rappresentazione indica da subito come la questione
della rappresentazione, figurativa e teatrale (il dramma e l’immagine), sia una questio-
ne cruciale nell’ambito del cristianesimo e della cultura occidentale, e sia, a giudicare
dall’iconoclastia islamica e dall’opposto asservimento all’impero delle immagini, di
estrema attualità. Lo studio è diviso in due parti: la prima è dedicata alla fondazione
cristiana del dramma (il teatro e lo spettacolo); la seconda alle immagini sacre, al loro
culto e alla loro funzione.
     La prima parte, articolata in cinque capitoli, presenta le ragioni teologiche che
portarono i Padri della Chiesa a condannare gli spettacoli dell’impero romano, la li-
turgia civile del tempo. L’arco temporale preso in considerazione va dal II al V secolo.
Debitrice del ponderoso studio di Leonardo Lugaresi, Il teatro di Dio. Il problema degli
spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo), Brescia Morcelliana, 2008, la Bino riordina
in modo diverso i discorsi degli spettacoli non più seguendoli per ordine cronologico,
ma riunendoli per temi e problematiche comuni. L’obiettivo è sostenere la teoria per
cui il sistema spettacolare dell’impero romano può essere assunto nella sua triplice
manifestazione di teatro, arena e circo. Le tre macchine dello spettacolo mirano ad una
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