FUTURO APERTO LA GOVERNANCE DEL CORAGGIO PER L'ITALIA CHE VORREMMO - LE TESI DEI GIOVANI IMPRENDITORI

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FUTURO APERTO LA GOVERNANCE DEL CORAGGIO PER L'ITALIA CHE VORREMMO - LE TESI DEI GIOVANI IMPRENDITORI
FUTURO APERTO
LA GOVERNANCE DEL CORAGGIO
 PER L’ITALIA CHE VORREMMO

LE TESI DEI GIOVANI IMPRENDITORI

      Capri, 7 e 8 ottobre 2005
Cari amici,

nel 2005, per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione
industriale, oltre la metà della crescita mondiale arriverà dall’Asia. Siamo
pronti ad accettare un capovolgimento così radicale della geografia della
ricchezza, della produzione, del potere economico?

Il modello di sviluppo dell’Occidente si basa - ancor oggi - sul presupposto
inverso: non tiene conto dei salari cinesi, della creatività indiana, della
capacità di attrarre investimenti dell’Europa dell’Est. E in uno scenario
dominato dalla discontinuità, l’Italia continua a vivere in un “mondo parallelo”
di certezze perdute, forse al di sopra dei propri mezzi.

E’ forte la sensazione che il nostro Paese si possa avvicinare ad un “punto di
non ritorno”: per cause esogene, dal riassestamento della geografia
economica mondiale all’aumento del prezzo del petrolio, ma anche per cause
implicite al nostro sistema.

E’ ancor più forte la sensazione che sia finito il tempo della pluralità di opzioni
sul tappeto, dei bivi o dei trivi da affrontare. L’Italia somiglia oggi ad un aereo
che corre lungo la pista con i motori che perdono potenza, ma ha ormai
superato la V1, la velocità critica. Può solo decollare: l’alternativa, la frenata
in extremis, non è più possibile.

La scelta possibile, oggi, è una sola: puntare sul rilancio. Perché se non
riusciremo ad uscire rapidamente dalla rischiosa miscela costituita da crescita
piatta del Pil, deficit demografico, produzione industriale e produttività in
costante calo dovremo prepararci ad un inevitabile declino economico-sociale
e ad un profilo da player “regionale” sullo scacchiere mondiale.

Ma se nel XXI secolo il sole dello sviluppo sorge a Oriente, non è affatto detto
che debba tramontare ad Occidente.

Il declino economico non è inevitabile: diventa tale quando non ci si accorge
di esso. Ma gli italiani se ne sono accorti. E sono in grado di reagire.

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Le chiavi del futuro: fiducia e famiglia

I sondaggi internazionali fotografano il nostro Paese – ormai da anni – agli
ultimi posti nell’area Ocse per livello di fiducia. Gli italiani non sono persuasi,
in particolare, che il futuro dei figli possa essere migliore della condizione dei
padri.

Ma se la fiducia è il vero motore delle economie avanzate, la responsabilità
più grande del ceto dirigente è quella di generarla. Investendo sulla “felicità”
dei cittadini. E’ la nuova visione di Richard Layard, consulente economico di Tony Blair,
secondo cui accrescere la “felicità” di un popolo è indicatore di pari importanza rispetto al
tradizionale Pil. E tra i sette fattori decisivi per la felicità delle persone, al primo
posto tutte le ricerche internazionali collocano la qualità delle relazioni
familiari.

La solidità della famiglia, dunque, è il motore primo della fiducia e - di
conseguenza - dello sviluppo economico di un Paese. E’ una consapevolezza
ancora poco diffusa in Italia, dove ben poco è stato fatto nell’era del
bipolarismo per difendere e valorizzare la centralità della famiglia.

Riattivare la fiducia dei cittadini e degli imprenditori, costruire nuove certezze,
mettere la famiglia al centro dell’agenda politica: sono le grandi sfide che
attendono nei prossimi anni il ceto dirigente italiano.

Tuttavia ha ormai terminato il suo ciclo vitale la classe dirigente che ha
guidato l’Italia durante il boom degli anni ’60, così come si sono esauriti i
“serbatoi di establishment” cui abbiamo attinto per decenni. Sarebbe
necessario un passaggio del testimone che contempli e trasmetta la
saggezza ed esperienza delle leadership più anziane ad un nuovo ceto
dirigente giovane, diffuso, dotato di capacità di visione.

Ma oggi generare nuovi leader, in Italia, è terribilmente difficile.
Nell’era dell’incertezza, all’Italia non bastano più pochi leader illuminati, non
basta più solo la politica, non basta più solo Roma. Le società complesse
possono essere governate solo da un ceto dirigente diffuso, da una “squadra
di leader” che opera in tutti gli ambiti-guida dello sviluppo economico e
sociale, al centro come sul territorio, capaci di sviluppare sinergie trasversali
e di ri-creare un clima di speranza verso il futuro.

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Il futuro aperto e la responsabilità di scegliere

Se il presente del nostro Paese è incerto, il futuro è aperto.

“Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può
scaturire da uno stesso presente” ha scritto di recente Padoa Schioppa “nonostante
l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le
quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure”.

La Cina è diventata una super-potenza mondiale non oggi ma venticinque
anni fa, quando Deng avviò un intenso piano di riforme economiche, aprendo
l’economia agli investimenti internazionali e liberando lo spirito imprenditoriale
dei cinesi. E nel 2005 il governo di Pechino ha già deciso gli approvvigionamenti di
petrolio e gli investimenti pubblici nell’alta tecnologia che realizzerà nei prossimi trent’anni.

In dieci anni la Finlandia ha raddoppiato il suo Pil, trasformandosi in
laboratorio mondiale di tecnologia, mediante una strategia capace di concentrare
strategie e risorse sull’innovazione tecnologica come driver di sviluppo trasversale per
l’intero sistema-Paese.

Negli ultimi anni, la Francia sta dimostrando che si può creare sviluppo senza
avere grandi margini di manovra sul bilancio pubblico, ma passando dalla
difesa all’attacco: selezionando gli interventi per il rilancio del tessuto
produttivo, promuovendo la natalità e la conciliazione tra maternità e lavoro.

Come cittadini consapevoli, come imprenditori che rischiano sul mercato ogni
giorno, abbiamo il diritto di avere un Paese capace di scegliere e una politica
che si assuma la responsabilità di farlo.

Nella storia d’Italia non esiste, probabilmente, un periodo così ricco di riforme
a favore del mercato come gli ultimi quindici anni: dalle privatizzazioni alle
liberalizzazioni, dalla nascita dell’Antitrust alle Authority di settore, dal testo
unico bancario alla riforma Draghi per la finanza, dal nuovo diritto societario
alle nuove normative sugli appalti, dal pacchetto Treu alla legge Biagi, dalla
riforma Moratti all’avvio della previdenza complementare.

Queste riforme hanno modernizzato l’Italia, con punte di eccellenza
normativa come la legge Draghi.

Ma negli ultimi quindici anni, in realtà, la politica sembra non aver conquistato
gli obiettivi più importanti: aprire l’Italia al mondo - mentre i mercati nazionali
si integravano in un gigantesco spazio unico - liberare un Paese ingessato,
mentre il vento della libertà economica gonfiava le bandiere dell’Asia e
dell’Europa dell’Est.

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“L’emergenza-credibilità”: più maggioritario per un sistema politico più
efficiente

Oggi l’Italia non cresce, vittima di un preoccupante deficit di investimenti
pubblici e privati.

Eppure, la politica italiana appare sempre più immersa nel quotidiano, nella
tattica, nel contingente. Agli occhi dei cittadini si mostra, quasi
esclusivamente, come una parentesi tra un’elezione e l’altra. Disposta ad
ignorare – contemporaneamente – i tempi rapidissimi dell’economia e i tempi
lunghi della costruzione del futuro. Pronta a dividersi su tutto e a demonizzare
pregiudizialmente ogni provvedimento dell’avversario, mentre i fenomeni
complessi delle società avanzate hanno bisogno di soluzioni che travalicano di gran lunga
il perimetro temporale di un Governo o di un Parlamento.

Esiste oggi in Italia una “emergenza-credibilità”, che nasce soprattutto dalla
negativa percezione a livello internazionale di un Paese con elevatissimo
debito pubblico in un contesto di bassa crescita dell’economia, metà del
quale è detenuto fuori dai suoi confini.

Il recente allarme di Standard & Poor’s è la spia di un salto di qualità negativo
nel “rating” attribuito all’Italia da analisti ed operatori finanziari: per la prima
volta nella storia recente viene giudicata insufficiente non una strategia di
politica economica o una manovra finanziaria, ma – a monte –
l’autorevolezza della politica, a causa della sua resistenza nel compiere
scelte di lungo termine.

Emerge un warning verso il futuro del nostro Paese prima ancora che verso il
suo presente. Un Paese – come ha evidenziato Mario Monti – nel quale “la cultura
politica non attribuisce alle visioni in materia economica un ruolo polarizzante” e in cui la
stessa cultura di mercato rischia di fare molti passi indietro.

Il funzionamento del sistema politico dipende dal processo di selezione dei
rappresentanti in Parlamento, dominato oggi dalle scelte di una oligarchia
partitica. Ma dipende, soprattutto, dall’efficacia delle regole elettorali. L’attuale
legge ha mostrato – alla prova dei fatti – alcune imperfezioni, dando vita ad
un sistema maggioritario incompleto che impone alleanze fragili ed esalta il
potere di veto dei partiti marginali.

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D’altro canto, sarebbe pericoloso dimenticare che più di dieci anni di
bipolarismo maggioritario hanno prodotto nella tumultuosa vita politica italiana
due risultati di straordinaria importanza, garantendo finalmente all’elettore la
possibilità effettiva di scelta tra coalizioni alternative e a chi è chiamato a
governare un’ampia maggioranza, come è accaduto per l’attuale esecutivo.

A livello internazionale, studi approfonditi sul periodo 1970-1991 dimostrano che i Paesi
industriali con sistemi elettorali di tipo maggioritario riescono a controllare la spesa sociale
e il debito pubblico molto meglio dei modelli basati su leggi elettorali proporzionali.

Come Giovani Imprenditori siamo fortemente convinti che la transizione da un
sistema bloccato ad un sistema politico efficiente rischierebbe di diventare
infinita, se oggi - a metà del guado - si cambiasse nuovamente la scelta di
fondo del modello elettorale.

Il ritorno al proporzionale sarebbe un inutile e pericoloso salto indietro di dieci
anni. Per rendere efficiente il nostro bipolarismo, invece, crediamo che sia
necessario completare l’approdo verso un sistema compiutamente
maggioritario, con l’obiettivo di ridurre il potere di veto dei partiti che si
collocano alle due estremità dell’arco politico.

Proponiamo, dunque, di eliminare la quota proporzionale della legge
elettorale e di introdurre il meccanismo del doppio turno. In Francia questo
modello ha avuto successo, rendendo efficiente ed efficace un sistema partitico
frammentato com’era quello della Quarta Repubblica, il più simile all’odierna situazione
italiana.

Questa innovazione riteniamo possa garantire maggior stabilità, tutelando al
tempo stesso le identità di partito e le esigenze di governabilità.
Peraltro, un modello simile esiste già nel nostro variegato sistema elettorale
ed ha dato ottimi risultati in termini di efficienza politica. E’ la normativa
elettorale dei Comuni, che ha garantito nell’ultimo decennio governi locali
stabili e ha portato la fiducia dei cittadini nei confronti degli amministratori
territoriali su livelli ben più alti, rispetto a quella nutrita per la politica
nazionale.

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Il deficit di “classe creativa”

“Capitalismo” rischia di non essere più la definizione migliore del modello di
sviluppo del XXI secolo, perché è figlia di un’era in cui il mercato era
dominato dal capitale finanziario: oggi, invece, sono le intelligenze il vero
elemento discriminante della crescita strutturale di un sistema-Paese.

L’Italia non è attrezzata ad affrontare l’era del fattore-uomo. Mentre le
economie avanzate d’Occidente combattono da anni la “guerra della classe
creativa” – tentando di attrarre nei loro territori ingegneri, creativi, tecnici
specializzati – nel nostro Paese le intelligenze appartenenti alle categorie-
chiave per lo sviluppo rappresentano solo il 14% della popolazione lavorativa.
Ma la soglia dello sviluppo è al 30%.

Il nostro sistema produttivo, dunque, rischia di non avere un futuro se l’Italia
non riuscirà – nei prossimi anni – a moltiplicare gli investimenti nella
formazione del capitale umano.

Ma dobbiamo e possiamo evitare questo scenario. Magari seguendo l’esempio degli Stati
Uniti, che hanno appena varato un piano strategico (“high growth job training”) per definire
le soluzioni necessarie ad incrementare le risorse umane qualificate nei settori ad alta
crescita e con forte impatto sull’economia, tra i quali Ict, biotecnologie, sanità, turismo.

Ma c’è un altro dato di fondo del mercato del lavoro italiano che deve farci
riflettere. Oggi gli occupati Usa lavorano il 18% in più di ore degli europei e
dispongono di un 30% in più di Pil pro-capite. “Lavorare tutti, lavorare di più”
dovrà essere, dunque, la strategia leader dei prossimi anni in Europa.
Gli accordi stipulati nel 2004 da Siemens, Daimler-Chrysler e Bosch in Germania e
Francia rappresentano un modello e un “tracciante” che illumina il percorso dei prossimi
anni.

E’ fondamentale, inoltre, utilizzare anche nelle grandi aziende italiane una
rigorosa e pervasiva lotta agli sprechi come leva determinante per l’aumento
della produttività, seguendo la strada imboccata negli ultimi anni dai principali
gruppi mondiali.
Dobbiamo ritrovare la passione per il lavoro, la soddisfazione per un prodotto
ben fatto o per un servizio di qualità, la voglia di contribuire al futuro del
Paese con l’impegno quotidiano.

Ma tutto ciò è possibile solo se il lavoro torna ad essere l’ambito nel quale si
realizza la personalità dell’uomo e si valorizza il suo straordinario ingegno:
creare le condizioni più favorevoli perché ciò accada sarà la grande
responsabilità degli imprenditori italiani nei prossimi anni.

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Uno Stato agile ed efficiente, una legislazione di qualità: solo utopie?

A monte della definizione di qualsiasi strategia politica, la costruzione di una
governance efficace per l’Italia del futuro passa necessariamente per la
creazione di un nuovo rapporto tra pubblico e privato. Si tratta, oggi, di un
rapporto distorto perché fortemente sbilanciato a favore del pubblico, che
continua a gestire direttamente una fetta amplissima della ricchezza
nazionale.

Otto anni fa prese avvio in Italia la “rivoluzione Bassanini”, che segnò una
svolta nei rapporti tra Stato, imprese e cittadini. Ma da allora - nonostante le
lodevoli iniziative di e-government degli ultimi anni e l’abbassamento dell’età
media dei dirigenti pubblici - la crociata per la semplificazione ha perso
slancio, vittima della straordinaria capacità della burocrazia di rigenerarsi.

Un altro fronte di straordinaria importanza è quello della produttività delle
Pubbliche Amministrazioni. Secondo uno studio di McKinsey, basterebbe
aumentare la produttività media della macchina statale dell’1,2 - 1,3% l’anno
per liberare 70 miliardi di euro in 10 anni. Ma mancano nel settore pubblico
italiano standard e strumenti per la misurazione degli obiettivi da raggiungere
e della produttività.

Il problema di fondo è tuttavia il sovra-dimensionamento degli organici.
Sarebbe impensabile, in Italia, adottare provvedimenti come quello che ha portato il
governo britannico a licenziare oltre 100mila dipendenti pubblici.
Ma nei prossimi anni avremo a disposizione una grande opportunità: il
pensionamento della generazione del “baby boom” potrebbe consentire una
riduzione sensibile degli organici pubblici, eliminando le duplicazioni e gli
sprechi.

Verso un federalismo asimmetrico

L’inefficienza del rapporto pubblico-privato rischia di essere ulteriormente
aggravata dal difficile “decollo” del federalismo italiano. Il nuovo assetto dello
Stato è stato concepito infatti in modo affrettato e ideologico, senza studi
adeguati sugli impatti economici e sulle conseguenze nella distribuzione delle risorse tra
centro e Regioni.

La tendenza a spostare poteri e risorse dal centro alla periferia è ampiamente
diffusa oggi a livello internazionale. Ma - in confronto con il resto d’Europa - è
molto spinto in Italia il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni,

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mentre ad esso non corrisponde un trasferimento adeguato di capacità di
spesa. Quello che abbiamo costruito negli ultimi anni è un federalismo
orientato a “scaricare” sui livelli istituzionali più bassi – in particolare sulle
Regioni – la necessità di far quadrare i magri conti del bilancio pubblico.

Ne risulta un modello di governance asimmetrico, in cui le Regioni gestiscono
un pacchetto consistente di competenze per lo sviluppo ma non hanno i soldi
per finanziarle. Per rendere la realtà finanziaria coerente con quella
istituzionale, è fondamentale dotare le Regioni di una capacità di imposizione
tributaria autonoma, che consenta ai governi regionali di assumersi
direttamente la responsabilità delle scelte sul futuro dei propri territori.

Oggi nessuna delle Regioni italiane riesce ad investire più del 5% del proprio
budget a sostegno dello sviluppo economico. E nel Mezzogiorno non si riesce
a superare la risibile soglia del 2%. Ma è questo l’obiettivo di un sistema
federale, in un Paese che deve ritrovare la via dello sviluppo?

Le difficoltà di costruzione del “federalismo italiano” sono, inoltre, la migliore
cartina di tornasole del deficit di sussidiarietà – sia verticale che orizzontale –
che caratterizza il nostro modello di governo.

Oggi l’Italia ha bisogno di più sussidiarietà verticale: il processo di
decentramento dovrebbe premiare il livello di governo capace di rispondere
meglio in ciascun ambito alle esigenze dei cittadini. Ma la riforma federale ha
aumentato i pericoli di sovrapposizione tra le sfere d’intervento dei diversi
livelli istituzionali, mentre dovrebbe rafforzare i luoghi di cooperazione tra gli
attori del governo locale.

Il nostro Paese ha altrettanto bisogno di più sussidiarietà orizzontale, di un
rapporto più moderno tra Stato, società e bisogni. Riconoscendo e valorizzando il
ruolo della società civile e del volontariato, la sua capacità di organizzare attività no profit
fornendo risposte efficaci in molti ambiti alla domanda di servizi dei cittadini.

Il rapporto rendita-profitto: no agli slogan facili

La rendita è sempre esistita in ogni mercato e in ogni era della storia umana:
è inutile e fuorviante, dunque, lanciare una “crociata” contro la rendita e
contro chi riesce a realizzarla, a patto che non violi le leggi.

Il cuore della questione è invece il rapporto tra rendita e profitto: più è ampia
l’area della rendita, meno lo è la ricchezza che nasce da ciò che producono

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imprenditori e lavoratori. La prevalenza della rendita è dunque la vera
anomalia italiana, perché da una parte segnala che il sistema di mercato è
inefficiente, dall’altra che il nostro Paese rinuncia ogni anno ad una parte di
sviluppo a favore della rendita.

E’ necessario ri-calibrare le attuali aliquote del nostro sistema fiscale a favore
del profitto, livellando la tassazione della rendita alla media europea. Si tratta,
però, di un’operazione da compiere con molta prudenza, evitando di farsi
prendere la mano dagli slogan facili. Come ha acutamente osservato
Alessandro Penati, aumentare in modo deciso la tassazione sui redditi da
capitale delle persone fisiche equivarrebbe a dar vita ad una “caccia alle
streghe”, perché mancherebbe il bersaglio delle rendite speculative per
trasformarsi in una stangata generalizzata sul forte risparmio delle famiglie
italiane.

Il coraggio di liberare energie: la scossa necessaria per l’Italia

La sesta potenza economica del mondo è soltanto al 26esimo posto
nell’Indice di libertà economica 2005, stilato da Wall Street Journal e Heritage
Foundation.

L’Italia è vittima soprattutto dell’incapacità di imboccare con decisione la
strada delle liberalizzazioni: la mancata realizzazione della riforma del
commercio al dettaglio, ad esempio, costa al nostro Paese – ogni anno – tra
0,5 e 1,5 punti di Pil.

Eppure la sensazione comune dei vantaggi delle liberalizzazioni – dalle tariffe più basse al
minor prelievo fiscale – è molto bassa. Al contrario, è forte e immediata la percezione delle
conseguenze della liberalizzazione da parte delle categorie organizzate che ne
subirebbero gli effetti negativi e rilevante quindi la loro capacità di mobilitazione in senso
contrario.

La concorrenza non è certo la ricetta della felicità in tutti i settori: può fallire in
alcuni ambiti, nei quali è necessario produrre “valore sociale”. Ma come ha
denunciato il rapporto Ocse 2005, in Italia ampie aree nel settore dei servizi
sono ancora al riparo dal vento benefico della concorrenza.

Le libere professioni restano quasi del tutto al di fuori della normativa antitrust, mentre
l’apertura del commercio al dettaglio di fronte alla grande distribuzione è ostacolata dalle
autorità locali, spesso condizionate da interessi economici locali. E resistenze di uguale
natura frenano da un decennio la liberalizzazione dei servizi pubblici locali.

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Le conseguenze negative per l’economia italiana sono molto consistenti:
l’assetto attuale non incentiva l’innovazione gestionale e tecnologica e
scarica costi eccessivi sull’industria manifatturiera e sulle imprese esposte
alla concorrenza internazionale.

La chiave di volta è rilanciare - come ha fatto fin dall’inizio del suo mandato il
Presidente Montezemolo - una mobilitazione delle forze produttive del Paese
a favore della concorrenza.

Il futuro del sistema imprenditoriale: la nuova vocazione italiana nel
mondo

Negli ultimi vent’anni, mentre la nuova rivoluzione industriale e tecnologica
scompaginava la mappa globale delle produzioni e delle competenze, la
specializzazione produttiva italiana rimaneva sostanzialmente inalterata.

Il sistema-Italia ha continuato a interpretare nel mondo il suo ruolo più
tradizionale. La forza del made in Italy si è concentrata, dunque, sulla moda e
sull’alimentare: sistemi produttivi molto importanti per ricchezza prodotta e
occupazione, ma caratterizzati da scarsa crescita a livello internazionale, da
una bassa intensità tecnologica e da un ridotto effetto moltiplicatore sullo
sviluppo economico del Paese.

Tessile, abbigliamento e alimentare rappresentano ben l’11,5% della ricchezza creata sul
pianeta, ma generano poca innovazione tecnologica capace di influenzare altri settori. Nel
mercato dell’iper-competizione globale, infatti, sono altri i settori trainanti. Microelettronica,
spazio, difesa e sicurezza pesano a livello mondiale l’1,7% del Pil ma producono ricadute
positive su oltre il 50% della ricchezza mondiale.

Come Giovani Imprenditori crediamo che il sistema-Italia non sia entrato in
una fase di distruzione dell’industria manifatturiera. Si tratta piuttosto – come
direbbe Schumpeter – di un momento di “distruzione creatrice”, di profonda e
radicale trasformazione in cui il mercato tende a operare una selezione
“darwiniana” delle imprese e il nostro tessuto produttivo fatica a trovare una
nuova vocazione nel mondo.

Colta di sorpresa dalla nuova rivoluzione industriale esplosa ad Est, l’Italia
non può inseguire modelli di crescita che non le appartengono. Non può più
competere sul costo del lavoro, né soltanto su quella straordinaria flessibilità
e su quell’innata capacità di innovazione che ne avevano fatto nei decenni la
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“Cina d’Europa”. Non può più affidarsi alla capacità di driver di ricerca e
sviluppo tecnologico delle grandi aziende, né puntare esclusivamente su
moda e turismo.

Il sistema-Italia può e deve, piuttosto, scoprire la sua “vocazione” nel mondo
globale, cercando di riempire di nuovi contenuti produttivi il “made in Italy”. In
questa direzione, il piano triennale presentato di recente dal ministro Scajola
rappresenta un segnale molto positivo, perché finalmente individua una
nuova “visione” del ruolo della produzione italiana nel mondo e - dopo almeno
un decennio di pericoloso oblìo - rimette la politica industriale al centro della
politica economica del nostro Paese.

Come Giovani Imprenditori siamo convinti che il nostro Paese possa
diventare il “laboratorio creativo” del pianeta - nel quale vengono ideati e
progettati i prodotti di successo delle principali aziende del mondo - grazie
alla straordinaria forza del brand Italia. “L’Italian concept” potrebbe
rappresentare la nuova vocazione dell’industria nazionale nel mercato
globale: del resto, “il Paese delle idee” è il significato dell’ideogramma che
nella lingua cinese rappresenta l’Italia.

Nell’economia della conoscenza l’Italia può diventare il Paese
dell’immateriale, capace di vendere nel mondo ciò che gli altri non hanno:
creatività, tradizione, qualità, fantasia, emozioni. A condizione, però, che il
piano Scajola sia tradotto – prima della fine della legislatura – in strategie
politiche e finanziamenti adeguati.

Il boom delle economie asiatiche, infine, offre al nostro sistema produttivo
una straordinaria occasione di rilancio. E’ la “rivoluzione silenziosa” delle rotte del
commercio internazionale, che negli ultimi anni hanno riscoperto la centralità del canale di
Suez e del Mediterraneo come porte d’ingresso in Europa dei prodotti del Far East.

L’Italia potrebbe diventare nei prossimi anni – attraverso i suoi porti – il luogo
d’arrivo e in parte di “ultima lavorazione” dei prodotti asiatici destinati ai
mercati d’Europa: ciò creerebbe sviluppo imprenditoriale e posti di lavoro di
qualità, non “aggredibili” dalla concorrenza internazionale. Ma per cogliere
questa storica occasione è necessario moltiplicare gli investimenti sulle
piattaforme logistiche italiane, per difendere il vantaggio competitivo offerto dalla
nostra posizione geografica dalla concorrenza di Spagna e Grecia.

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Il Mezzogiorno e la mancanza del “software dello sviluppo”

In un Mediterraneo tornato protagonista del commercio mondiale, il
Mezzogiorno potrebbe rappresentare la punta avanzata d’Europa verso le
nuove frontiere dello sviluppo.

E’ compito di un ceto dirigente responsabile evitare la retorica del “fallimento”
del Mezzogiorno e della sua classe dirigente. Bisogna dire chiaramente
all’opinione pubblica e al Paese, infatti, che il Sud non è all’anno zero, ma in
esso operano imprese e imprenditori che costituiscono una risorsa strategica
per l’economia nazionale.

“Non aspettatevi aiuti dagli altri” canta il coro dell’Adelchi. Lo abbiamo
predicato per decenni - in Italia ma soprattutto qui al Sud - chiedendo ai
giovani di rifiutare la comoda e miope logica dell’assistenzialismo e della
clientela per tuffarsi nel mare aperto del mercato, del merito, del rischio. Oggi
quest’affermazione di principio è una straordinaria realtà, come dimostra il
boom fatto registrare nell’ultimo decennio dall’imprenditoria giovanile nei
territori del Mezzogiorno.

Il “fai da te”, tuttavia, è condizione necessaria ma non sufficiente a rilanciare
un territorio che deve recuperare secoli di abbandono.

La prima vera infrastruttura per il rilancio del Mezzogiorno è una lotta seria,
radicale e visibile alla criminalità: si tratta della leva decisiva per recuperare la
reputazione perduta. Il grado di controllo del territorio è il discrimine
fondamentale che consente oggi di distinguere i tanti Sud esistenti. Nella
consapevolezza che non basta combattere il grande crimine: per rendere un
ambiente socialmente sano ed economicamente attrattivo bisogna colpire
radicalmente la micro-criminalità, perché è il suo dilagare che, da una parte,
costituisce l’ambiente favorevole al grande crimine e, dall’altra, determina nei
cittadini la perdita di fiducia nello Stato e nella forza positiva del controllo
sociale.

Ciò che oggi manca davvero al Mezzogiorno e ne frena fortemente lo
sviluppo è il “software” dello sviluppo: un’elite politica locale in grado di
guidare la crescita economica e l’innovazione sociale, la trasparenza dei
mercati e dei rapporti pubblico-privato, la sicurezza.

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Nel Mezzogiorno non mancano i fattori produttivi, manca una “good
governance”. Nell’era del mercato globale, dunque, il Sud non ha più bisogno
di interventi straordinari, ma ha bisogno di un impegno politico e di risorse
economiche e umane concentrate sulle attività ordinarie di uno Stato.

Con il progressivo venir meno dei fondi strutturali, rischia di sparire nei
prossimi anni quella che è stata fino ad oggi la principale leva economica di
modernizzazione dell’economia meridionale.

L’unica alternativa è l’afflusso di capitali stranieri e italiani nelle aree del Sud.
Ma per attrarli è decisiva la leva fiscale. E’ assolutamente necessario,
dunque, che il governo italiano si impegni in sede europea a negoziare un
trattamento fiscale vantaggioso per chi investe nel Mezzogiorno, come primo
step di un alleggerimento del fisco da estendere a livello nazionale.

Non si può dimenticare, infine, la “vocazione naturale” del Mezzogiorno verso
il turismo. Dobbiamo “industrializzare” le nostre attività, trasferendo in questo
ambito le nostre capacità imprenditoriali per trasformare il Sud d’Italia nella
nuova Florida.

Una Finanziaria d’equilibrio

In momenti di crisi è responsabilità del ceto dirigente dare l’esempio,
mostrando stringente coerenza tra regole imposte agli altri e comportamenti
praticati. E’ quindi un segnale di grande valore etico la riduzione - prevista
nella Finanziaria 2006 - delle spese delle principali istituzioni del Paese, nel
momento in cui lo stato dei conti pubblici vincola a politiche di rigore.
Dobbiamo renderne merito a tutti coloro i quali hanno compiuto questo
illuminante gesto, a partire dal Presidente della Repubblica.

Nel complesso, la Finanziaria annunciata dal governo soddisfa l’esigenza
fondamentale di riportare l’Italia nell’alveo degli impegni europei. Non rilancerà
la competitività del sistema-Italia e il volume degli investimenti pubblici e privati, ma
sarebbe stato assai difficile farlo nel rispetto dei vincoli di bilancio.

E’ una Finanziaria d’equilibrio, che sembra non indulgere in soluzioni
miracolistiche ma affronta la realtà con pragmatismo, compiendo scelte
rilevanti nella direzione giusta.

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Non si traduce in realtà l’impegno a ridurre l’Irap: il mondo delle imprese sarà
costretto ad attendere, probabilmente, l’intervento “salvifico” della Corte di
Giustizia europea. Ma è sicuramente positivo l’intervento di riduzione del
costo del lavoro delle imprese, che apre la strada alla soluzione di una vera e
propria “anomalia italiana” e segnala un’attenzione nuova al mondo della
produzione, così come del resto le misure fiscali che rendono più conveniente
il rapporto tra Università e imprese.

Accogliamo con favore anche l’aumento dei finanziamenti previsti per
interventi a favore delle famiglie e la previsione degli incentivi alla natalità,
che come Giovani Imprenditori abbiamo ripetutamente chiesto negli scorsi
anni per scongiurare il declino demografico ed economico della “piramide
rovesciata”.

Rimangono in ombra il Mezzogiorno - che avrebbe bisogno di un fisco
differenziato da negoziare in sede europea - e le Regioni, la cui dotazione
finanziaria viene ridotta, a fronte delle consistenti competenze istituzionali in
materia di sviluppo previste dal titolo V.

L’Italia nel mondo: “l’asse mediterraneo”

Nei prossimi vent’anni, il futuro dell’Italia si gioca sullo scacchiere Sud.
Mediterraneo, Medio Oriente, Balcani: sono queste le aree nelle quali l’Italia
può aspirare ad assumere nei prossimi anni un ruolo da protagonista
assoluto. Per questi Paesi l’Italia può essere ponte di dialogo religioso e
integrazione culturale, modello di sviluppo per il decollo del sistema
imprenditoriale, punto di riferimento geo-politico nei rapporti con l’Occidente
avanzato.

Finora i sistemi economici della riva Sud del Mediterraneo – tranne Israele –
non mostrano segnali apprezzabili di sviluppo. Il loro decollo potrà avvenire
solo se i Paesi del Sud avvieranno un programma coraggioso di riforme, sulla
scia di quanto hanno saputo fare quelli dell’Est europeo, guardando ai vicini
europei.

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Che ciò avvenga è interesse dell’Europa e dell’intero mondo avanzato. La
battaglia globale contro il terrorismo, infatti, non si può combattere con i soli
mezzi militari. Dobbiamo accogliere e rilanciare il recente appello del Re di
Giordania Abdallah II: è necessario una straordinaria mobilitazione morale,
intellettuale e sociale dell’Occidente per respingere il tentativo degli estremisti
islamici di creare artificialmente uno “scontro di civiltà” e di religioni, dal quale
usciremmo irrimediabilmente perdenti.

Il Mediterraneo è l’unica rotta possibile per l’Italia se vuole mantenere un
ruolo da player globale, in un mondo che si muove verso un assetto tri-polare
- Stati Uniti, Europa, Cina-India-Giappone – in cui l’Europa rischia di
rappresentare il pilastro di gran lunga più debole. In questo nuovo
“condominio planetario”, l’asse atlantico perderà gradualmente la sua
importanza strategica e non potrà, dunque, rimanere la bussola esclusiva
della politica estera italiana.

L’Italia dovrà compiere una sorta di “ritorno al futuro”: riscoprendo e
rinnovando la sua decennale capacità di intervento e di mediazione tra Nord
e Sud, Est e Ovest del mondo, costruendo una leadership che si fondi su un
solido “asse mediterraneo”.

Tre strategie culturali per un nuovo modello di governance

Ma il vero discrimine tra declino e rilancio, nei prossimi anni, consisterà nella
capacità di incanalare energie sulla strada dello sviluppo. E’ necessario
riscoprire il nostro “patriottismo economico”, chiamando tutti coloro i quali
svolgono responsabilità di vertice nella politica, nelle imprese, nella società
ad una mobilitazione per il futuro dell’Italia.

Chiediamo dunque alla politica di costruire per l’Italia dei prossimi anni un
nuovo modello di governance, capace di superare i vincoli dello scontro
ideologico e delle tattiche politiche.

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Un modello fondato su tre strategie “culturali”:

  • Il coraggio di scegliere, in un Paese abituato da troppo tempo a non
    farlo e nel quale il ceto dirigente sembra non avere la forza per
    compiere scelte coraggiose. Occorre, dunque, promuovere una nuova
    forma di etica, rispetto alla quale misurare proposte e azioni di chi ha
    responsabilità di vertice: l’etica generazionale. Non deve essere più
    consentito ad alcuno di scaricare sul futuro, sulle nuove generazioni il
    costo delle mancate scelte dell’oggi, com’è accaduto negli ultimi
    trent’anni.

  • Riscoprire la cittadinanza, per trasformare in soggetto attivo e
    consapevole un’opinione pubblica che oggi sembra apatica e
    disinformata. Si avverte nettamente nel nostro Paese la mancanza di
    un’opinione pubblica reattiva - in grado di orientare le scelte di policy –
    e di un diffuso senso civico. Senza un’opinione pubblica consapevole,
    non può dispiegare i suoi benefici effetti il principio dell’accountability
    e quello tra elettori ed eletti diventa un rapporto sovrano-suddito.

  • Evitare la “trappola del consenso”, che Anna Maria Artoni aveva già
    denunciato un anno fa da questo stesso palco. E’ la trappola che nasce
    dal corto-circuito elettorale italiano: un’elezione all’anno e ben sei
    sistemi elettorali diversi. Tutto ciò determina un dominio costante delle
    politiche di breve termine sulle strategie di lungo respiro, più difficili da
    comunicare e valorizzare in termini elettorali.

  Ma per poter invocare con autorevolezza e credibilità una “svolta” della
  politica, è necessario prima dare il “buon esempio”.

  Questa convinzione nasce dalla nostra visione di fondo della “governance”
  di un Paese: l’esistenza nelle società avanzate di un ceto dirigente diffuso,
  in cui le associazioni di rappresentanza delle imprese non possono
  limitarsi a delegare alla politica le scelte strategiche del futuro, ma devono
  assumersi con coraggio le proprie responsabilità di “punta avanzata” del
  Paese.

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Un’agenda “vincolante” per il futuro del Paese

Sui temi strategici per il futuro del Paese chiediamo alle forze politiche di
accantonare la “cultura dell’appartenenza”. Come è stato fatto ad esempio
nella Germania pre-elettorale, in cui si è registrata una mobilitazione
congiunta di governo e opposizione per debellare la piaga della
disoccupazione.

Chiediamo - a chi avrà la responsabilità di governare il Paese nei
prossimi anni - cinque scelte strategiche: un’agenda “vincolante”
per il futuro, a prescindere dal colore politico della coalizione al
potere. Sono scelte decisive e non rinviabili, senza le quali l’Italia non
potrà avere un futuro di sviluppo. Dovrebbero formare un patrimonio
comune alle due coalizioni, una “zona franca” rispetto allo scontro
mediatico e parlamentare.

Al tempo stesso offriamo all’Italia cinque impegni come imprenditori,
come Giovani Imprenditori. Nella consapevolezza che l’impresa è oggi il
motore primo dello sviluppo economico e del dinamismo sociale, il
generatore di futuro e di speranza per milioni di giovani, il vessillo dell’Italia
che vuole competere sul mercato globale.

A chi ha la responsabilità di guidare il Paese e a chi si candida a farlo in un
futuro prossimo, chiediamo:

   • Rigore nella tutela dei conti pubblici. La solidità dei conti pubblici
     è un “bene primario”, da cui dipende sia la credibilità internazionale
     del Paese che la possibilità di promuoverne lo sviluppo. Per
     garantirla, è necessario adottare una politica fiscale improntata alla
     trasparenza e alla coerenza, che eviti il ricorso ai condoni e alle una-
     tantum . Nella consapevolezza che il ripetersi dei condoni non aiuta la diffusione
      del senso di legalità e rischia di rendere conveniente la sottrazione di ricchezza
      all’erario, incoraggiando “l’evasione fiscale programmata”.

   • Il valore del lavoro al centro della politica economica. Incentivare
     la produzione, il profitto e la retribuzione deve diventare la strategia
     di fondo della politica economica italiana, esaltando il lavoro come
     cardine dell’economia e della società. Un fisco che incentivi le
     imprese che investono, innovano, internazionalizzano e una radicale
     riduzione del cuneo contributivo e fiscale sono misure decisive per il
     rilancio del sistema-Italia.

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• Più concorrenza per liberare le energie private del Paese.
       L’obiettivo può essere raggiunto aprendo alla concorrenza i settori
       ancora chiusi, soprattutto a livello locale, e combattendo tradizionali
       “rendite di posizione” come le pensioni di anzianità.

     • Un nuovo ruolo delle Pubbliche Amministrazioni nazionali e
       regionali, che devono diventare “generatori di crescita”: per
       raggiungere questo ambizioso obiettivo è necessario puntare sulla
       lotta agli sprechi, sull’efficienza di risultato, sulla misurazione e
       sull’incentivazione della produttività e – in ultima analisi – sulla
       soddisfazione del cittadino-cliente.

     • La “rivoluzione del merito” nel settore dell’education. Dobbiamo
       abbandonare l’idea che la formazione sia un “bene pubblico” da
       elargire a tutti in egual misura, a prescindere dalle attitudini e dalle
       capacità. La ricerca del merito deve diventare l’idea-leader degli
       assetti formativi e degli investimenti nel settore. Ciò si traduce in una
       scuola più severa, che formi gli allievi sulla base di valori come
       l’impegno e la competizione, e in un’Università “libera” di selezionare
       le eccellenze tra studenti e docenti.

I cinque impegni dei Giovani Imprenditori

Meno di cinquant’anni fa un’Italia piccola e fragile – provata dalla guerra e
dalla povertà – dava vita al periodo di rilancio e di sviluppo più intenso e
appassionante della storia unitaria.

In molti, oggi, paragonano la crisi italiana dei primi anni Duemila a quella del
dopoguerra. La reazione di allora trasformò l’Italia agricola e rurale in una
delle più importanti potenze industriali al mondo, grazie all’esplosione di una
straordinaria voglia di fare impresa e di coltivare il “sogno italiano”.

Di fronte alle tremende sfide del mercato globale, la nostra generazione di
imprenditori è animata da quello stesso spirito che consentì ai nostri padri di
dar vita al “miracolo” italiano, al nostro boom economico e sociale.

La “Generazione Sviluppo” è pronta ad innovare, internazionalizzare, far
crescere le nostre aziende. E – al tempo stesso – a farsi carico di una
responsabilità in più: dare il “buon esempio” al Paese, per riattivare la fiducia
nel nostro futuro e nelle straordinarie potenzialità dell’Italia e degli italiani.

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Come Giovani Imprenditori ci impegnamo a promuovere:

   • Il coraggio e la cultura del rischio: continueremo a investire nelle
     nostre aziende, senza “fughe” verso la rendita speculativa, perché
     siamo convinti che la produzione sia l’unica ricchezza in grado di
     garantire un futuro di stabilità, sviluppo, coesione sociale al Paese.

   • L’etica della trasparenza: combatteremo la lotta all’evasione e al
     sommerso anche all’interno del mondo imprenditoriale, accantonando
     le comode pratiche del passato e facendo conto sulla capacità dello
     Stato di incentivare la legalità.

   • Il valore economico e sociale della reputazione: distingueremo con
     nettezza di comportamenti tra chi produce profitto e benessere nel
     rispetto formale e sostanziale delle regole, e chi agisce sfruttando le
     “zone grigie” della normativa e del mercato;

   • Una governance aziendale nel segno dell’accountability, per
     trasformare le nostre imprese in “case di vetro” in cui i lavoratori
     possano condividere valori e obiettivi di fondo.

   • Una crescita delle nostre imprese fondata sulla centralità
     dell’Italia: nonostante il forte gap di competitività del contesto e dei
     fattori produttivi rispetto a molte altre aree del mondo, vogliamo
     continuare a fare impresa nei nostri territori e nelle nostre comunità,
     cercando di valorizzare la qualità in un mercato globale che sembra
     premiare la quantità.

La scommessa della governance: l’Italia che vorremmo

Investire in Italia, credere nel futuro dei nostri territori significa scommettere
su un futuro “non lineare” del nostro Paese, diverso dalla semplice proiezione
del presente.

E’ una scommessa difficile. La società italiana sembra aver perso la sua
spinta propulsiva e affonda in un pericoloso individualismo, che sconta la
mancanza di un destino collettivo.

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Ma la convivenza sociale ha bisogno, anzitutto, di principi morali chiari, di
distinguere il bene dal male, di rigore con se stessi e con gli altri. Eppure,
oggi meno del cinquanta per cento degli italiani giudica importante
l’osservanza delle regole e - tra i giovani - quelli che credono al rispetto delle
norme sono in netta minoranza.

Un Paese senza la percezione delle regole - del dovere e dell’utilità di
rispettarle - non può promuovere la concorrenza, il libero mercato e il merito.
In altri termini, non ha futuro.

Tuttavia, se il presente sembra lasciarci nudi rispetto alle certezze del XX
secolo, non può privarci del futuro. Al pessimismo dell’intelligenza preferiamo
l’ottimismo della volontà.

Come Giovani Imprenditori non vogliamo essere “la Patria del diritto…. e del
rovescio”, come diceva Flaiano. Vogliamo un Paese nel quale rispettare le
regole sia un investimento e violarle una perdita. E’ questa la prima decisiva
riforma per rilanciare l’Italia.

Il nostro futuro è aperto. Non siamo destinati al declino: ricostruire il “sogno
italiano” è possibile.

A patto, però, di abbandonare culture e comportamenti di un passato che non
tornerà. Adottando l’unico modello vincente nella guida delle società
complesse: la “governance” e le sue difficili regole del gioco.

E’ un modello fondato su un rapporto nuovo tra impresa e politica. Come
imprenditori, non possiamo più limitarci a chiedere senza impegnarci a dare.
Non possiamo più invocare sacrifici, rigore e coraggio senza praticarli.

Dobbiamo condividere decisioni e assumere responsabilità, oltre i recinti delle
nostre aziende. Perché, per la prima volta, il futuro dell’Italia sarà generato
dalla forza delle nostre scelte.

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