Free. Come l'mp3 ha conquistato il mondo

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Free. Come l’mp3 ha conquistato il mondo

Ho sotterrato il mio ipod in un punto imprecisato dei Pirenei meridionali, il 3 luglio 2010. Conteneva
più di 90.000 mp3. L’ho sotterrato insieme ad altri oggetti portati da altri amici lassù in una valigia
di pelle marrone, una personale capsula del tempo sotterrata per ricordare il luogo dove si era
fermato 70 anni prima Walter Benjamin nella sua fuga dalla Francia di Vichy. Volevamo ricordare il
Benjamin profugo, che portava con sé una sola valigia. Ognuno di noi infilò nella capsula del tempo
un oggetto che avrebbe voluto portare con sé se fosse stato costretto a scappare e lasciare la propria
casa. La sera prima suonammo un concerto (un violoncello) nel prato dove presumevamo avesse
dormito Benjamin la sua penultima notte di vita. Per rovinare l’aura del concerto, lo trasmettemmo
anche in diretta streaming, grazie a Radio Papesse.

Se il mio vecchio ipod sia ancora lì, lo scoprirò solo nel 2030, quando tornerò coi miei amici lassù a
riaprire la capsula. Per ricordare l’autore de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica sotterrare un ipod mi sembrava la scelta più appropriata, all’epoca. Mi costò separarmi da
quell’oggetto a me molto caro, ma ormai non scaricavo più gli mp3, iniziavo ad ascoltare sempre più
musica in streaming e l’ipod non era più così utile.
Nel 2010, per me stava tramontando l’epoca degli mp3. Eppure l’mp3 è stata la parola che più ha
segnato i consumi culturali di chi è cresciuto tra gli anni novanta e i duemila. L’mp3 ha segnato
un’epoca e una generazione, perché, suo malgrado, e contrariamente a quanto desideravano i suoi
inventori, per anni è stato sinonimo di pirateria musicale, da napster a Pirate Bay.

Ha ragione Stephen Witt, giovane e brillante autore del libro Free. Cosa succede quando un’intera
generazione commette lo stesso crimine? (Einaudi, 2016 – Traduzione di Vincenzo Latronico) quando
afferma che “la pirateria musicale divenne negli anni novanta ciò che la sperimentazione con le
droghe era stata negli anni Sessanta: qualcosa che spinse un’intera generazione a ignorare sia le
norme sociali sia le leggi vigenti, senza curarsi delle conseguenze” (p. 111). L’mp3 aveva sostituito
l’LSD come sostanza per lo sballo dei giovani universitari degli anni novanta e primi duemila. Per
anni, come l’autore del libro, ho ammassato hard disk pieni di musica di ogni tipo, senza quasi mai
riascoltarla. Witt scrive: “Ci ho messo diciassette anni ad ammassare tutti quei file, ma l’ascesa del
cloud computing ha reso i miei sforzi completamente inutili. I miei istinti di accumulatore stavano
scemando, i miei archivi richiedevano sempre più attenzioni. Alla fine ho ceduto, mi sono abbonato a
Spotify e ho accettato la realtà: quella che ritenevo la mia biblioteca personale era solo un mucchio
di ferraglia destinata a smagnetizzarsi” (p. 308-309).

Ora che l’mp3 sta lentamente uscendo di scena come artefatto culturale (come ricorda un bellissimo
articolo di Jonathan Sterne) in grado di segnare le due decadi a cavallo tra ventesimo e ventunesimo
secolo, esce un’inchiesta giornalistica che ne ricostruisce minuziosamente la storia, il libro, appunto,
di Witt.

Ma l’obiettivo di questo articolo non è recensire il libro, è invece prendere il caso, così dettagliato
nel libro, della parabola evolutiva dell’mp3 e usarlo come caso da manuale su quali sono i fattori che
influiscono sulla diffusione di un’innovazione tecnologica all’interno della società.

Il libro di Witt può essere infatti letto come una storia sui processi di innovazione tecnologica e sulle
sue conseguenze culturali.

Karlheinz Brandenburg, è il padre intellettuale dell’mp3, eppure nessuno ricorda il suo nome e c’è
stato un momento, tra il 1990 e il 1995, in cui la sua invenzione stava per essere completamente
accantonata. L’mp3 poteva essere uno dei tanti dead media della storia.

Nel 1990 il comitato Mpeg lo aveva affondato, giudicandolo troppo complesso. “La morte dell’mp3 fu
annunciata in una sala conferenze a Erlangen, in Germania, nella primavera del 1995” (p. 8).

I consorzi pubblici e privati europei che legiferavano sugli standard di compressione dei segnali
digitali delle telecomunicazioni subivano le pressioni degli interessi politici di grandi aziende
commerciali (leggi Philips) che puntavano ad altri formati da loro sviluppati e l’mp3, nonostante
fosse la soluzione tecnologica più elegante ed avanzata al problema della perdita di qualità nella
compressione digitale di un segnale audio, aveva perso tutte le grandi gare sui nuovi standard di
trasmissione digitale indetti tra il 1990 e il 1995. L’istituto Fraunhofer, un centro di ricerca pubblico
finanziato dalle tasse dei cittadini tedeschi, che aveva finanziato la ricerca sulla psicoacustica del
gruppo di Brandenburg fin dagli albori, stava per chiudere i rubinetti.

L’mp3 rischiava di diventare il nuovo betamax. Un mix di interessi politici e commerciali stava per
fare fuori un’invenzione tecnologica tra le più importanti della fine del secolo.

La storia si ripeteva, di nuovo. Brandenburg sembrava essere il nuovo Armstrong, l’inventore della
trasmissione in modulazione di frequenza (FM), che, nonostante una manifesta superiorità sulla
tecnologia precedente (AM), venne per anni ostacolata dagli interessi commerciali di David Sarnoff e
della sua RCA. Sarnoff e la RCA avevano paura che l’FM potesse incrinare gli equilibri del mercato
radiofonico americano dell’epoca, caratterizzato, dopo la razionalizzazione delle frequenze operata
dal Radio Act del 1927, da un oligopolio di pochi grandi network: NBC (di proprietà della RCA) e
CBS. La RCA all’epoca era anche tra i maggiori produttori di apparecchi riceventi e in un primo
momento si rifiutò di immettere sul mercato ricevitori FM: senza ricevitori non esistevano
ascoltatori. Il fallimento iniziale dell’FM fu favorito anche dal regolatore, la FCC (Federal
Communication Commition), che per i primi sei anni dall’invenzione dell’FM ne vietò l’uso per fini
commerciali. La tecnologia sopravvisse grazie agli sforzi di Armstrong nella sua divulgazione e prese
piede all’inizio solo in ambiti di ricerca e comunitari: la prima radio in FM fu quella della Columbia
University, alla quale seguirono altre stazioni no profit.

La RCA stava investendo su un’altra tecnologia, verso la quale voleva convogliare l’attenzione dei
propri investitori, la televisione, e non voleva che si aprisse un altro mercato che non avrebbe potuto
controllare. Nel 1945 la FCC modificò di nuovo le regole per la trasmissione in FM, depotenziandone
i presupposti e limitando la potenza e l’indipendenza dei nuovi attori, trasformando di fatto l’FM in
una AM con l’aggiunta della trasmissione in stereofonia. Sarnoff e la RCA adottarono finalmente
l’FM all’interno dei propri televisori, rinnegando però che la paternità dell’invenzione spettasse a
Armstrong. I due finirono in causa e Armstrong, come è noto, sovraccarico di spese legali e
dispiaceri, si suicidò nel 1954. Nel 1940 Armstrong aveva previsto che l’FM avrebbe sostituito l’AM
nel giro di cinque anni ma non fu così: nonostante l’evidente superiorità tecnologica dell’FM, ci
vollero più di trent’anni (1979) prima che le radio in FM sorpassassero quelle in AM in termini di
ascolti negli Stati Uniti e solo dalla metà degli anni settanta in poi la maggioranza delle autoradio
vendute sul mercato americano avrebbe incluso sia la ricezione delle radio FM che di quelle AM.

Così come Armstrong aveva previsto che l’FM avrebbe sostituito velocemente l’AM, sbagliando,
anche Brandenburg, aveva ingenuamente previsto una celere sostituzione del CD da parte dell’mp3.
Brandenburg ragionava da ingegnere: l’mp3 era un formato molto più efficiente dei suoi avversari e
avrebbe dovuto avere per questo gioco facile, perché la sua superiorità era “evidente”.

Entrambi non avevano fatto i conti né con l’ecosistema mediale in cui erano inserite le loro
invenzioni né con l’economia politica sulla quale si basavano questi ecosistemi.

Queste due vicende, prese insieme, ci raccontano molto di quali siano i fattori che influenzano il
cammino di un’innovazione. L’innovazione non si impone da sola, non si auto avvera, come invece
credono i suoi progettisti e di solito, non prende mai la strada immaginata da essi.

I media digitali portano con sé una cultura emergente che non si impone in maniera lineare e la cui
penetrazione è difficilmente prevedibile. La sostituzione di tecnologie consolidate con tecnologie
“migliori” è un processo complesso, spesso frenato, più che favorito, da interessi economici
contrastanti, istituzioni politiche che preferiscono difendere lo status quo e contesti sociali non
immediatamente ricettivi.

Il passo dell’innovazione – più radicale o più gattopardesca (cambiare tutto per non cambiare niente)
– non è inscritto nelle tecnologie, ma negli assetti politico-sociali ed economici delle società che le
adottano.

L’mp3, dopo dieci anni di ostacoli e bastoni fra le ruote, prese improvvisamente piede, in maniera
completamente inattesa, per ragioni che non dipendevano da decisioni istituzionali o grandi piani
commerciali. Accadde, sostiene Witt, che tra il 1997 e il 1998, si diffuse via Internet, molto
rapidamente, un software libero in grado di riprodurre facilmente la musica mp3: Winamp, inventato
da un 19enne americano, Justin Frankel. Frankel si era limitato a “fotocopiare” il codice del software
inventato da Bernard Grill – un collaboratore di Brandenburg che aveva passato 12 dei suoi 38 anni
a fare ricerca ed era stato il primo a scrivere il codice di un software in grado di riprodurre un file
mp3 – aggiungendo una funzione per creare le playlist, ed era nato Winamp (che nel 1999 avrebbe
poi rivenduto ad Aol per 53 milioni di dollari).

Grazie a Winamp era diventato facilissimo ascoltare musica in mp3 dal computer. Ma da dove veniva
quella musica?

Era tutta, o quasi, musica “piratata”. Witt ricostruisce la composizione delle prime tribù di pirati
online fino ad arrivare ad intervistare il “paziente zero” della pirateria musicale americana, Dell
Glover, un innocuo impiegato di una fabbrica di compact disc dell’etichetta americana Polygram, che
dal 1995 in poi trafugò da quell’impianto i master dei cd in uscita degli artisti pop più famosi del
mondo, dando inizio alla loro “riproducibilità” incontrollata.
Pirati, Winamp, e successivamente napster e tutti i suoi nipoti, sono stati gli attori che hanno salvato
mp3 dal cimitero.

Nel 1999, la Fraunhofer, dopo essere stata sul punto di chiudere la divisione ricerca sull’mp3 e
mandarlo in pensione, incassava più di 100 milioni di dollari in licenze d’uso dell’mp3 e lo avrebbe
fatto per almeno un altro decennio.

L’mp3 quindi, non aveva vinto per la superiorità, manifesta, della tecnologia tedesca, come voleva
far credere la propaganda dell’ufficio stampa della Fraunhofer, piuttosto si era imposto – questa è la
ricostruzione di Witt – grazie a Napster e ai pirati che avevano iniziato a convertire musica in
formato mp3 da far circolare su internet.

L’mp3 era il formato che meglio si adattava all’architettura dell’Internet di fine millennio e alle
subculture (così le chiama Witt, parlando anche di “scene”, come se si trattasse di scene di nuovi
artisti underground) che stavano nascendo intorno ad esso. Era la disponibilità enorme di file mp3
inizialmente fatti circolare dalle diverse “scene” in gara tra loro per essere i primi a “firmare” le
“release” degli album piratati, ad aver prodotto la necessità di lettori mp3 e software di riproduzione
di mp3, che alla fine iniziarono a generare il flusso di cassa destinato alla Fraunhofer. I pionieri della
psicoacustica, chiusi nei loro laboratori per un buon decennio, dovevano “ringraziare” una
generazione di smanettoni dei college americani se la loro invenzione era finita nei computer di
milioni di persone e aveva creato un nuovo mercato.

Il resto della storia è abbastanza noto e la vicenda è un po’ più complessa di così, perché gli attori in
gioco sono stati molteplici, come viene ben descritto dalla ricostruzione storica del libro, che
assegna un ruolo da protagonista anche alle case discografiche americane, in particolare a un
vecchio dirigente dell’industria musicale, Doug Morris.

Il difetto del libro, se ce ne fosse uno, è quello semmai di concentrare, per fini narrativi, la propria
attenzione su 3 personaggi principali: Brandenburg, lo scienziato; Dell Glover, il pirata; Doug
Morris, il discografico, come se da soli, questi tre attori, abbiano deciso le sorti dell’industria
musicale degli ultimi vent’anni. Non è così, la semplificazione giornalistica di Witt serve a rendere il
racconto avvincente come la trama di un film ma non rischia di far perdere di vista il quadro
generale: Brandenburg, Glover e Morris erano attori che agivano all’interno di un campo di forze
contrapposte: i centri di ricerca che progettano le tecnologie, le aziende che hanno interessi
commerciali nel diffondere o nell’abbandonare queste tecnologie, e la massa di persone che
decidono di adottarle per consumare contenuti mediali.

Ognuna di queste tre forze ha una propria economia morale, direbbe Henry Jenkins, di solito in
conflitto tra loro, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti tecnologici che mandano in crisi
l’equilibrio tra economie morali differenti raggiunto nelle fasi precedenti. L’economia morale è un
concetto originariamente coniato dallo storico inglese E. P. Thompson in L’economia morale delle
classi popolari inglesi nel secolo XVIII, per spiegare i motivi che portarono alle rivolte contro i
rincari del prezzo del pane. Thompson usava il termine per descrivere le norme sociali e la
comprensione reciproca che permetteva a due parti sociali di fare affari tra loro.

Da una parte c’erano i contadini inglesi del ‘700, che giudicavano giusto che il prezzo del pane fosse
controllato e calmierato, come sempre era stato, per permettere a tutti di accedere a questa risorsa,
e dall’altra c’era la classe emergente di capitalisti che voleva esporre il prezzo del pane alle
oscillazioni del libero mercato. Entrambe le parti consideravano moralmente giuste le proprie
motivazioni e quindi i moti popolari erano la conseguenza dello scontro tra queste due diverse
economie morali. Così come i contadini si opponevano all’ideologia dei capitalisti considerando
ingiusto il rialzo dei prezzi, i giovani pirati musicali degli anni ’90 consideravano legittimo
scambiarsi mp3 gratuitamente, musica che non avrebbero mai potuto permettersi in quelle quantità,
e che serviva a cementare le relazioni sociali con i propri pari attraverso la condivisione di beni
simbolici.

Henry Jenkins, in Spreadable media sostiene che “file sharing e pirateria costituiscono due opposti
sistemi morali”: il primo considera legittimo lo scambio gratuito di mp3, il secondo invece desidera
sottolineare il danno economico provocato da questa pratica. La percezione che la propria economia
morale era stata violata, spinse i contadini inglesi a ribellarsi contro gli aumenti del prezzo del pane,
così come la stessa percezione spinse l’industria discografica americana a portare in tribunale un
temibile pirata informatico, Brianna LaHara, una dodicenne che viveva in una casa popolare di New
York, chiedendole un risarcimento di migliaia di dollari.

Il declino e poi l’improvvisa ascesa dell’mp3 come standard del consumo di musica digitale per tutta
la prima decade del ventunesimo secolo è la conseguenza di un conflitto agonistico tra queste tre
diverse economie morali, quelle dei pirati (organizzati e non), quelle dell’industria discografica e
quelle della ricerca e sviluppo di artefatti.

Chi si schiera con i diritti degli artisti e dell’industria discografica sosterrà che l’mp3 e i suoi
“untori” hanno fortemente contribuito a distruggere il mercato musicale globale, chi invece si
schiera nel campo dei pirati sosterrà che è grazie a loro se è finalmente accaduta la digitalizzazione
del consumo musicale che oggi ha portato a piattaforme commerciali come Spotify. Forse
quest’ultima parte è verosimile, se, ancora nel 1997, all’alba dell’internet commerciale, l’industria
musicale americana aveva rifiutato di fare accordi con Brandenburg perché “non considerava
strategica la digitalizzazione della musica”. Evidentemente nessuna delle forze in gioco in questa
particolare storia ha tutta la ragione dalla sua.

A me premeva solo dimostrare, attraverso questo caso esemplare, che l’innovazione non è un pranzo
di gala, è piuttosto un campo di battaglia dove si scontrano poteri asimmetricamente distribuiti, che
possono favorire o ostacolare la diffusione della novità.

Nel frattempo, ora che non sono più lo studente universitario che accumulava bulimicamente
quantità industriali di mp3 (piratati e non) nel proprio ipod e possiedo un abbonamento family a un
servizio di streaming musicale, ho una nostalgia fortissima per napster, torrent, eMule, kazaa. E
anche delle cassettine C90.
Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, ogni generazione finisce per provare
nostalgia del metodo di riproduzione con cui è cresciuto durante la propria giovinezza.

Immagine di copertina: ph. di Alice Moore da Unsplash
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