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Divina Commedia
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La Comedìa, o Commedia, conosciuta soprattutto come
                                                                              Divina Commedia
Divina Commedia,[1] è un poema allegorico-didascalico[2] di
Dante Alighieri, scritto in terzine incatenate di endecasillabi        Titolo originale Comedìa
(poi chiamate per antonomasia terzine dantesche) in lingua                   Altri titoli Commedia
volgare fiorentina.[3]

L'opera non esiste nella sua forma originale: essendo stata
prodotta prima della diffusione della stampa in Europa,
veniva scritta e ricopiata a mano; tra tutti i manoscritti giunti a
noi oggigiorno non esistono due versioni uguali, come per
tutti i testi antichi, i casi di diversificazione sono tantissimi e
variano da semplici modifiche ortografiche, (diritta via o
diricta via) fino all'uso di versi simili, ma diversi, o parole
completamente differenti che danno anche significati diversi,
ad esempio il ruscello che esce dalle sorgenti di acqua
bollente ...esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici
che fu analizzato e commentato con il presupposto che ci
fossero delle donne peccatrici, forse prostitute (?), lasciando
molti dubbi, ma con un significato completamente stravolto
rispetto al più ragionevole pettinatrici o pettatrici o pectatrici
cioè le operaie che lavoravano la cardatura e la pettinatura
                                                                       Frontespizio dell'edizione giolitina, la
dell lino nelle acque termali[4].
                                                                        prima intitolata La Divina Comedia
Il titolo originale, con cui lo stesso autore designa il suo                           (1555)
poema, fu Comedia (probabilmente pronunciata con accento                        Autore Dante Alighieri
tonico sulla i); e così è intitolata anche l'editio princeps del
                                                                       1ª ed. originale 1321
1472. L'aggettivo «Divina» le fu attribuito dal Boccaccio nel
Trattatello in laude di Dante, scritto fra il 1357 e il 1362 e         Editio princeps 11 aprile 1472
stampato nel 1477. Ma è nella prestigiosa edizione giolitina, a                 Genere poema
cura di Ludovico Dolce e stampata da Gabriele Giolito de'
                                                                          Sottogenere allegorico-
Ferrari nel 1555, che la Commedia di Dante viene per la
prima volta intitolata come da allora fu sempre conosciuta,                           didascalico
ovvero "La Divina Comedia".                                           Lingua originale toscano, fiorentino
                                                                                       letterario (antico
Composta secondo i critici tra il 1304/07 e il 1321, anni del
                                                                                       italiano) volgare
suo esilio in Lunigiana e Romagna,[5] la Commedia è il
capolavoro di Dante ed è universalmente ritenuta una delle                Protagonisti Dante Alighieri
più grandi opere della letteratura di tutti i tempi,[6] nonché una    Altri personaggi Virgilio, Beatrice,
delle più importanti testimonianze della civiltà medievale,                            san Bernardo,
tanto da essere conosciuta e studiata in tutto il mondo. Si
                                                                                       Stazio, santa Lucia,
narra, inoltre, di stranieri che imparano l'italiano al solo scopo
                                                                                       Lucifero
di leggerne il testo nella sua lingua originale.
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Il poema è diviso in tre parti, chiamate «cantiche» (Inferno,
Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali composta da 33 canti
(tranne l'Inferno, che contiene un ulteriore canto proemiale) formati
da un numero variabile di versi, fra 115 e 160, strutturati in terzine.
Il poeta narra di un viaggio immaginario, ovvero di un Itinerarium
mentis in Deum,[7] attraverso i tre regni ultraterreni che lo condurrà
fino alla visione della Trinità. La sua rappresentazione immaginaria
e allegorica dell'oltretomba cristiano è un culmine della visione
medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica. È stato
                                                                          Dante e Beatrice sulle rive del Lete
notato come tutte e tre le cantiche terminino con la parola «stelle»
                                                                          (1889), opera del pittore venezuelano
(Inferno: "E quindi uscimmo a riveder le stelle"; Purgatorio: "Puro
                                                                          Cristóbal Rojas
e disposto a salir a le stelle"; Paradiso: "L'amor che move il sole e
l'altre stelle").

L'opera ebbe subito uno straordinario successo e contribuì in maniera determinante al processo di
consolidamento del dialetto toscano come lingua italiana. Il testo, del quale non si possiede l'autografo, fu
infatti copiato sin dai primissimi anni della sua diffusione e fino all'avvento della stampa in un ampio
numero di manoscritti. Parallelamente si diffuse la pratica della chiosa e del commento al testo (si calcolano
circa sessanta commenti e tra le 100 000 e le 200 000 pagine),[8] dando vita a una tradizione di letture e di
studi danteschi mai interrotta: si parla così di "secolare commento". La vastità delle testimonianze
manoscritte della Commedia ha comportato un'oggettiva difficoltà nella definizione del testo: nella seconda
metà del Novecento l'edizione di riferimento è stata quella realizzata da Giorgio Petrocchi per la Società
Dantesca Italiana.[9] Più di recente due diverse edizioni critiche sono state curate da Antonio Lanza[10] e
Federico Sanguineti.[11] A partire dal 2018, una nuova edizione critica basata sul codice Laurenziano Pluteo
XL 12, definito «il più antico codice di sicura fiorentinità», è stata curata da Federico Sanguineti ed Eloisia
Mandola.[12]

La Commedia, pur proseguendo molti dei modi caratteristici della letteratura e dello stile medievali
(ispirazione religiosa, scopo didascalico e morale, linguaggio e stile basati sulla percezione visiva e
immediata delle cose), è profondamente innovativa poiché, come è stato rilevato in particolare negli studi di
Erich Auerbach, tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, espressa anche con l'uso di
neologismi creati da Dante come «insusarsi», «inluiarsi» e «inleiarsi».[13]

È una delle letture obbligate del sistema scolastico italiano.

 Indice
 Titolo
 Argomento
    Inferno
    Purgatorio
    Paradiso
 Data di composizione
 Struttura
     Struttura cosmologica
     Struttura dottrinale
     Cronologia
 Tematiche e contenuti
    Scienza e tecnologia nella Divina Commedia
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Le tre guide
Modelli e fonti
   Lingua
   Stile
   Studi e fonti
   Filosofia islamica
   Attualità della Divina Commedia
Storia della critica
    Tradizione manoscritta e proposte di edizioni critiche
Prime edizioni a stampa
    Le edizioni a stampa del Quattrocento (incunaboli)
    Le edizioni a stampa del Cinquecento (cinquecentine)
Edizioni moderne
    L'edizione Petrocchi
    Le ultime edizioni
Traduzioni
    Traduzioni in latino
    Traduzioni in inglese
    Traduzioni in francese
    Traduzioni in spagnolo
    Traduzioni in tedesco
    Traduzioni in altre lingue
La Divina Commedia nell'arte
    Trasposizioni cinematografiche (lista parziale)
    Musica
    Pittura
    Scultura
    Altro
    Televisione
    Teatro
    Videogiochi
    Nel fumetto
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni

Titolo
Probabilmente il titolo originale dell'opera fu Commedia, o Comedìa, dal greco κωμῳδία (kōmōdía,
composto di κώμη, villaggio, e ᾠδή, canto; letteralmente canto del villaggio). È infatti così che Dante
stesso chiama la sua opera (Inferno XVI, 128; XXI, 2). Nell'Epistola XIII (la cui paternità dantesca non è
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del tutto certa), indirizzata a Cangrande della Scala, Dante ribadisce in latino il titolo dell'opera: Incipit
Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus ("Incomincia la Commedia di Dante Alighieri,
fiorentino di nascita, non di costumi").[14]

                                                         In essa vengono addotti due motivi per spiegare il titolo
                                                         conferito: uno di carattere letterario, secondo cui col
                                                         nome di commedia era usanza definire un genere
                                                         letterario che, da un inizio difficoltoso per il
                                                         protagonista, si conclude con un lieto fine, e uno
                                                         stilistico. Infatti lo stile nonostante sia sublime, tratta
                                                         anche tematiche turpi tipiche di uno stile umile, secondo
                                                         l'ottica cristiana di accogliere anche gli aspetti più bassi
                                                         del reale, pur di raggiungere il cuore di tutta l'umanità.
                                                         Nel poema infatti si ritrovano entrambi questi aspetti:
                                                         dalla "selva oscura", allegoria dello smarrimento del
                                                         poeta, si passa alla redenzione finale, alla visione di Dio
                                                         nel Paradiso; e in secondo luogo, i versi sono scritti in
                                                         volgare e non in latino che, sebbene esistesse già una
Esemplare dell'edizione giolitina de La Divina           ricca tradizione letteraria in lingua del sì, continuava ad
Comedia del 1555 appartenuto a Galileo Galilei,          essere considerata la lingua per eccellenza della cultura.
donatogli da don Orazio Morandi (1570-1630)
abate di Santa Prassede, con dedica ms. al      L'aggettivo "divina", riferito alla Commedia per via dei
verso della carta bianca di guardia: «Al molto  temi riguardanti il divino, fu usato per la prima volta da
                                                Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante,
Ill.re S.r mio oss.mo / Il Sig.r Galileo Galilei // di
                                                scritto circa quarant'anni dopo il periodo in cui si pensa
s.ta Prassedia 1624 / Obbligatiss.o Serv.re / Don
Orazio Morandi» (Collezione Livio Ambrogio).    sia stato terminato il poema dantesco. La locuzione
                                                Divina Commedia, però, divenne comune solo dalla
                                                metà del Cinquecento in poi, da quando Ludovico
Dolce, nella sua edizione del 1555, stampata a Venezia da Gabriel Giolito de' Ferrari, riprese nel titolo
l'attributo datole dal Boccaccio.

Il nome "Commedia" (nella forma comedìa) appare solo due volte all'interno del poema, mentre nel
Paradiso Dante lo definisce "poema sacro". Dante non rinnega il titolo Commedia, anche perché, data la
lunghezza dell'opera, le cantiche o i singoli canti vennero pubblicati volta per volta, e l'autore non aveva la
possibilità di revisionare ciò che già era stato reso pubblico. Il termine "Commedia" dovette sembrare
riduttivo a Dante nel momento in cui componeva il Paradiso, in cui lo stile, ma anche la sintassi, sono
profondamente cambiati rispetto ai canti che compongono l'Inferno; infatti nell'ultimo canto, il sostantivo
Commedia viene sostituito da poema sacro. Il discorso sulle palinodie, ovvero le correzioni che Dante fa
all'interno della sua opera, contraddicendo se stesso ma anche le sue fonti, è molto più vasto ed esteso.

Nelle ultime edizioni, a partire da quella di Petrocchi (1966-67) fino a quelle di Lanza (1995), di Sanguineti
(2001) e di Inglese (2016), si assiste all'abbandono dell'attributo Divina nel titolo, dopo quattro secoli di
tradizione editoriale.

Argomento

      «Nel mezzo del cammin di nostra vita
      mi ritrovai per una selva oscura,
      ché la diritta via era smarrita.

      Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
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esta selva selvaggia e aspra e forte,
      che nel pensier rinova la paura!

      Tant'è amara che poco è più morte;
      ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
      dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

      Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
      tant'era pien di sonno a quel punto
      che la verace via abbandonai.

      Dante Alighieri, Inferno, I, vv. 1-12»

                                                            Dante e il suo poema, affresco di Domenico di
L'Inferno, la prima delle tre cantiche, si apre con un      Michelino nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore,
Canto introduttivo (che serve da proemio all'intera         Firenze (1465)
opera), nel quale il poeta Dante Alighieri racconta in
prima persona del suo smarrimento spirituale e
dell’incontro con Virgilio, che lo condurrà poi ad intraprendere il viaggio ultraterreno raccontato
magistralmente nelle tre cantiche. Dante si ritrae, infatti, "in una selva oscura", allegoria del peccato, nella
quale era giunto avendo smarrito la "retta via", la via della virtù, e giunto alla fine della valle (“valle” come
“selva oscura” sono allegorie entrambe dell’abisso della perdizione morale ed intellettuale) scorge un colle
illuminato dal sole "vestito già dei raggi del pianeta/che mena dritto altrui per ogne calle".

Dante descrive con una similitudine il suo stato d’animo, come quello di chi salvatosi dai flutti giunge a riva
e si volge indietro a scrutare le acque pericolose alle quali è appena scampato, così l’animo del poeta si
volge a “rimirar lo passo” che non può essere superato da persona vivente. Ma ecco che, dopo essersi
riposato e poi incamminato lungo la spiaggia deserta verso il colle, mentre si appresta ad affrontare la salita
"quasi al cominciar de l'erta" gli si parano davanti, in sequenza, una lince (lonza) dal pelo maculato, un
leone e una lupa. Le tre fiere sono il simbolo, rispettivamente, di lussuria, superbia e cupidigia. La lince gli
sbarra il cammino, impedendogli di avanzare e quasi forzandolo a tornare sui suoi passi "‘mpediva tanto il
mio cammino/ch'i' fui per ritornar più volte vòlto", il leone pareva andargli incontro fiero, affamato e
ruggente, mentre la lupa, ultima delle tre fiere a pararglisi davanti, incede verso il poeta, respingendolo
indietro, verso l’abisso dal quale Dante sta tentando di allontanarsi. Ed ecco che, mentre Dante rovina
indietro in “basso loco”, gli appare alla vista “chi per lungo silenzio parea fioco”, qualcuno la cui immagine
era resa più flebile dal lungo silenzio, cioè morto da lunghissimo tempo. Dante invoca aiuto "«Miserere di
me», gridai a lui" pur non riuscendo a distinguere se ciò che scorge è una persona o un’ombra.

L’anima di Virgilio risponde "non omo, omo già fui" e si presenta dichiarando le sue origini mantovane, il
tempo in cui visse e le sue opere, si che Dante lo riconosce. Trovandosi di fronte a cotanto personaggio
Dante, con una punta di vergogna, dichiarandosi suo discepolo e dichiarando l’opera sua figlia dell’opera
Virgiliana chiede aiuto per sfuggire alla lupa "la bestia per cu’ io mi volsi". Importante sottolineare che
l’atteggiamento di Dante nei confronti di Virgilio non è di deferenza ma di ammirazione vera, Dante ha
esplorato e conosce a menadito l’opera Virgiliana e la stessa Divina Commedia vi si ispira e ne attinge
direttamente. Virgilio redarguisce Dante riguardo alla strada che ha imboccato, che non è quella giusta "a te
convien tenere altro viaggio", si sofferma sulla natura mortifera e malvagia della "bestia" che gli sbarra il
cammino e accenna una profezia sibillina circa il "Veltro" che ricaccerà la lupa nell'inferno dal quale
proviene. Profezia che trova riscontro in altre profezie complementari molto più avanti nell'opera enunciate
da Beatrice (Purgatorio XXXIII 34-45) e da San Pietro (Paradiso XXVII 55-63), mentre sul Veltro,
indubbiamente figura della provvidenza, innumerevoli teorie sono state proposte per identificarlo con un
personaggio storico definito (Cristo, Cangrande, Dante stesso, ecc.).
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Infine Virgilio comunica al poeta smarrito che per il suo bene ("per lo tuo me’ " – dove “me’” sta per
meglio) Dante dovrà seguirlo e Virgilio gli farà da guida “per loco eterno”, prima nell’inferno "ove udirai
le disperate strida", poi in purgatorio "e vederai color che son contenti/nel foco, perché speran di
venire/quando che sia alle beate genti", ma non in paradiso. Essendo un’anima del limbo a Virgilio non è
permesso di ascendere fino a quelle altezze, un’anima più pura lo condurrà nell'ultima parte del viaggio
"anima fia a ciò più di me degna:/con lei ti lascerò nel mio partire" e quell’anima pura è, ovviamente,
Beatrice, sostituita da San Bernardo al termine del viaggio, in paradiso (Paradiso XXXI 105). Il gioco è
fatto, Dante in nome di Dio e per salvarsi dalla misera condizione morale e intellettuale nella quale si trova
"a ciò ch'io fugga questo male e peggio" prega Virgilio di condurlo nei luoghi ultraterreni che gli ha appena
descritto "che tu mi meni là dov' or dicesti". L’ultimo verso non ha bisogno di commenti, è chiarissimo, e ci
spalanca le porte dell’opera intera: Allor si mosse, e io li tenni dietro.

Inferno

                                         Il vero e proprio viaggio attraverso l'Inferno ha inizio nel Canto III
                                         (nel precedente Dante esprime i suoi dubbi e le sue paure a Virgilio
                                         riguardo al viaggio che stanno per compiere e l'azione si svolge
                                         sulla Terra presso la selva). Dante e Virgilio si trovano sotto la città
                                         di Gerusalemme, davanti alla grande porta su cui sono impressi i
                                         versi celeberrimi che aprono questo canto. L'ultimo di quei versi:
                                         "Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate", incute nuovi dubbi e
                                         nuovo timore in Dante, ma il suo maestro e guida gli sorride e lo
 Sandro Botticelli, La voragine          prende per mano perché ormai bisogna andare avanti. In questo
 infernale - Disegni per la Divina       luogo senza tempo e senza luce, l'Antinferno, stazionano per
 Commedia                                sempre gli ignavi, ossia quelli che in vita non vollero prendere
                                         posizioni, ed ora sono ritenuti indegni sia di premio (Paradiso) che
                                         di castigo (Inferno) perché il primo sarebbe macchiato della loro
presenza e nel secondo sarebbero un motivo di possibile vanto. La loro punizione consiste nel correre nudi
dietro a una bandiera senza stemma ed essere perennemente punti da vespe e da mosconi; poco più in là,
sulla riva dell'Acheronte (il primo fiume infernale), stanno provvisoriamente le anime che devono
raggiungere l'altra riva, in attesa che Caronte, il primo guardiano infernale, le spinga nella sua barca e le
traghetti di là.

L'inferno dantesco è immaginato come una serie di anelli numerati, sempre più stretti, che si succedono in
sequenza e formano un tronco di cono rovesciato; l'estremità più stretta si trova in corrispondenza del centro
della Terra ed è interamente occupata da Lucifero che, muovendo le sue enormi ali, produce un vento
gelido: è il ghiaccio la massima pena. In questo Inferno, ad ogni peccato corrisponde un cerchio, ed ogni
cerchio successivo è più profondo del precedente e più vicino a Lucifero; più grave è il peccato, maggiore
sarà il numero del cerchio.

Al di là dell'Acheronte si trova il primo cerchio, il Limbo. Qui stanno le anime dei puri che non ricevettero
il battesimo e che però vissero nel bene; vi si trovano anche — in un luogo a parte dominato da un "nobile
castello" — gli antichi "spiriti magni" che compirono grandi opere a vantaggio del genere umano (Virgilio
stesso è tra loro). Oltre il Limbo, Dante e il suo maestro entrano nell'Inferno vero e proprio. All'ingresso sta
Minosse, il secondo guardiano infernale che, da giudice giusto quale fu, indica in quale cerchio infernale
ogni anima dovrà scontare la sua pena, avvolgendo la coda tante volte quanti cerchi l'anima dovrà scendere.
Superato Minosse, i due si ritrovano nel secondo cerchio, dove sono puniti i lussuriosi: tra essi le anime di
Semiramide, Cleopatra, Elena di Troia ed Achille. Celebri i versi del quinto canto su Paolo e Francesca[15]
che raccontano la loro storia e passione amorosa. Ai lussuriosi, travolti dal vento, succedono nel terzo
cerchio i golosi; questi sono immersi in un fango puzzolente, sotto una pioggia senza tregua, e vengono
morsi e graffiati da Cerbero, terzo guardiano infernale; dopo di loro, nel quarto cerchio, presidiato da
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Plutone, stanno gli avari e i prodighi, divisi in due schiere destinate
a scontrarsi per l'eternità mentre fanno rotolare massi di pietra lungo
la circonferenza del cerchio.

Dante e Virgilio giungono poi al quinto cerchio, davanti allo Stige
(il secondo fiume infernale), nelle fangose acque del quale sono
puniti iracondi e accidiosi, e qui i protagonisti hanno un alterco con
Filippo Argenti; i due Poeti vengono traghettati sulla riva opposta
dalla barca di Flegias, quinto guardiano infernale. Lì, sull'altra
sponda, sorge la Città di Dite, in cui sono puniti i peccatori
consapevoli del loro peccare. Davanti alla porta chiusa della città, i
due sono bloccati dai demoni e dalle Erinni; entreranno solo grazie
all'intervento dell'Arcangelo Michele, e vedranno come sono puniti
coloro "che l'anima col corpo morta fanno", cioè gli epicurei e gli
eretici in generale: essi si trovano all'interno di grandi sarcofaghi
infuocati; tra gli eretici incontrano il ghibellino Farinata degli
                                                                                 Giovanni Stradano (1523-1605):
Uberti, uno dei più famosi personaggi dell'Inferno dantesco.
                                                                                 Inferno, mappa
Assieme a lui è presente Cavalcante dei Cavalcanti, padre di
Guido, amico di Dante.

Oltre la città, il poeta e la sua guida scendono verso il settimo cerchio lungo uno scosceso burrone (burrato),
alla fine del quale si trova il terzo fiume infernale, il Flegetonte, un fiume di sangue bollente presidiato dai
Centauri. Questo fiume costituisce il primo dei tre gironi in cui è diviso il VII cerchio. Vi sono puniti i
violenti contro il prossimo; tra essi il Minotauro, ucciso da Teseo con l'aiuto di Arianna. Oltre il fiume,
sull'altra sponda è il secondo girone, (che Dante e Virgilio raggiungono grazie all'aiuto del centauro Nesso);
qui stanno i violenti contro sé stessi, i suicidi, trasformati in arbusti secchi, feriti e straziati per l'eternità dalle
Arpie (tra loro troviamo Pier della Vigna); nel secondo girone stanno anche gli scialacquatori, inseguiti e
sbranati da cagne. L'ultimo girone, il terzo, è una landa infuocata, ed ospita i violenti contro Dio nella
Parola, nella Natura e nell'Arte, ossia i bestemmiatori (Capaneo), i sodomiti (tra cui Brunetto Latini,
maestro di Dante, quando il poeta era giovane) e gli usurai. A quest'ultimo girone Dante dedicherà molti
versi dal Canto XIV al Canto XVII.

Alla fine del VII cerchio, Dante e Virgilio scendono per un burrone (ripa discoscesa) in groppa a Gerione,
il mostro infernale dal volto umano, zampe leonine, corpo di serpente e coda di scorpione. Così
raggiungono l'VIII cerchio chiamato Malebolge, dove sono puniti i traditori in chi non si fida. L'ottavo
cerchio è diviso in dieci bolge; ogni bolgia è un fossato a forma di cerchio. I cerchi sono concentrici, scavati
nella roccia e digradanti verso il basso, alla base di essi si apre il Pozzo dei Giganti. Nelle bolge sono puniti,
nell'ordine, ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti
— tra cui Ulisse e Diomede, i seminatori di discordia (Maometto) e i falsari. Infine i due accedono al IX ed
ultimo cerchio, dove sono puniti i traditori in chi si fida.

Questo cerchio è diviso in quattro zone, coperte dalle acque gelate di Cocito. Nella prima zona, chiamata
Caina (dal nome di Caino, che uccise il fratello Abele), sono puniti i traditori dei parenti; nella seconda,
Antenora (dal nome Antenore, il troiano che consegnò il Palladio ai nemici greci), stanno i peccatori come
lui, traditori della patria; nella terza, Tolomea (dal nome del re Tolomeo XIII, che al tempo di Cesare fece
uccidere il suo ospite Pompeo), si trovano i traditori degli ospiti; infine nella quarta, Giudecca (dal nome di
Giuda Iscariota, che tradì Gesù), sono puniti i traditori dei benefattori. Nell'Antenora Dante incontra il
Conte Ugolino della Gherardesca che narra della sua segregazione nella Torre della Muda con i figli e la
loro morte per fame voluta dall'Arcivescovo Ruggieri. Ugolino appare nell'Inferno sia come un dannato che
come un demone vendicatore, che rode per l'eternità il capo del suo aguzzino. Nell'ultima zona si trovano i
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tre grandi traditori: Cassio, Bruto (che complottarono contro Cesare) e Giuda Iscariota; la loro pena consiste
nell'essere maciullati dalle tre bocche di Lucifero, che qui ha la sua dimora. Giuda si trova nella bocca
centrale, a suggello della maggiore gravità del proprio tradimento.

Scendendo lungo il suo corpo peloso, Dante e Virgilio raggiungono una grotta e scendono alcune scale.
Dante è stupito: non vede più la schiena di Lucifero e Virgilio gli spiega che ora si trovano nell'Emisfero
Australe. Attraversano quindi la natural burella, il canale che li condurrà alla spiaggia del Purgatorio, alla
base della quale usciranno poco dopo "a riveder le stelle".

Purgatorio

                                            Usciti dall'Inferno attraverso la natural burella, Dante e Virgilio si
                                            ritrovano nell'emisfero australe terrestre (che si credeva interamente
                                            ricoperto d'acqua), dove, in mezzo al mare, s'innalza la montagna
                                            del Purgatorio, creata con la terra che avanzò dallo scavo del
                                            baratro dell'Inferno, quando Lucifero fu buttato fuori dal Paradiso
                                            dopo la rivolta contro Dio. Usciti dal cunicolo, i due giungono su
                                            una spiaggia, dove incontrano Catone Uticense, che svolge il
                                            compito di guardiano del Purgatorio. Dovendo cominciare a salire
                                            la ripida montagna, che si dimostra impossibile da scalare, tanto è
                                            ripida, Dante chiede ad alcune anime quale sia il varco più vicino;
                                            sono questi la prima schiera dei negligenti, i morti scomunicati, che
                                            hanno dimora nell'antipurgatorio. Nella I schiera di negligenti
                                            dell'antipurgatorio Dante incontra Manfredi di Sicilia. Assieme a
                                            coloro che tardarono a pentirsi per pigrizia, ai morti per violenza e
                                            ai principi negligenti, infatti, essi attendono il tempo di
                                            purificazione necessario a permettere loro di accedere al Purgatorio
 Il primo canto del Purgatorio illustrato   vero e proprio. All'ingresso della valletta dove si trovano i principi
 da Gustave Doré                            negligenti, Dante, su indicazione di Virgilio, chiede indicazioni ad
                                            un'anima che si rivela essere una sorta di guardiano della valletta, il
                                            concittadino di Virgilio Sordello, che sarà la guida dei due fino alla
porta del Purgatorio.

Giunti alla fine dell'Antipurgatorio, superata una valletta fiorita, i due varcano la porta del Purgatorio;
questa è custodita da un angelo recante in mano una spada fiammeggiante, che sembra avere vita propria, e
preceduta da tre gradini, il primo di marmo bianco, il secondo di una pietra scura e il terzo in porfido rosso.
L'angelo, seduto sulla soglia di diamante e appoggiando i piedi sul gradino rosso, incide sette "P" sulla
fronte di Dante, poi apre loro la porta tramite due chiavi (una d'argento e una d'oro) che aveva ricevuto da
San Pietro; quindi i due poeti si addentrano nel secondo regno.

Il Purgatorio è diviso in sette 'cornici', dove le anime scontano la loro inclinazione al peccato per purificarsi
prima di accedere al Paradiso. Al contrario dell'Inferno, dove i peccati si aggravavano maggiore era il
numero del cerchio, qui alla base della montagna, nella prima cornice, stanno coloro che si sono macchiati
delle colpe più gravi, mentre alla sommità, vicino al Paradiso terrestre, i peccatori più lievi. Le anime non
vengono punite in eterno, e per una sola colpa, come nel primo regno, ma scontano una pena pari ai peccati
commessi durante la vita.

Nella prima cornice, Dante e Virgilio incontrano i superbi, nella seconda gli invidiosi, nella terza gli
iracondi, nella quarta gli accidiosi, nella quinta gli avari e i prodighi. In questa cornice ai due viaggiatori si
unisce l'anima di Stazio dopo un terremoto e un canto Gloria in excelsis Deo (Dante riteneva Stazio
convertito al cristianesimo); questi si era macchiato in vita di eccessiva prodigalità: proprio in quel momento
egli, che dopo cinquecento anni di espiazione in quella cornice aveva sentito il desiderio di assurgere al
Paradiso, si offre di accompagnare i due fino alla sommità del monte, attraverso le cornici sesta, dove
espiano le loro colpe i golosi che appaiono magrissimi, e settima, dove stanno i lussuriosi avvolti dalle
fiamme. Dante ritiene che Stazio si sia convertito grazie a Virgilio e alle sue opere, che hanno aperto gli
occhi al poeta latino: egli, infatti, grazie all'Eneide e alle Bucoliche ha capito l'importanza della fede
cristiana e l'errore del vizio della prodigalità: come un lampadoforo, Virgilio ha fatto luce a Stazio
rimanendo però al buio; fuor di metafora, Virgilio è stato un profeta inconsapevole: ha portato Stazio alla
fede ma lui, avendo fatto in tempo solo ad intravederla, non ha potuto salvarsi, ed è costretto a soggiornare
per l'eternità nel Limbo. Ascesi alla settima cornice, i tre devono attraversare un muro di fuoco, oltre il
quale si diparte una scala, che dà accesso al Paradiso terrestre. Paura di Dante e conforto da parte di
Virgilio. Giunti qui, il luogo dove per poco dimorarono Adamo ed Eva prima del peccato, Virgilio e Dante
si devono congedare, poiché il poeta latino non è degno di guidare il toscano fin nel Paradiso, e sarà
Beatrice a farlo.

Quindi Dante s'imbatte in Matelda, la personificazione della felicità perfetta, precedente al peccato
originale, che gli mostra i due fiumi Lete, che fa dimenticare i peccati, ed Eunoè, che restituisce la memoria
del bene compiuto, e si offre di condurlo all'incontro con Beatrice, che avverrà poco dopo. Beatrice
rimprovera duramente Dante e dopo si offre di farsi vedere senza il velo: Dante durante i rimproveri cerca
di scorgere il suo vecchio maestro Virgilio che ormai non c'è più. Dopo avere bevuto prima le acque del
Lete e poi dell'Eunoè, infine, Dante segue Beatrice verso il terzo ed ultimo regno: il Paradiso.

Paradiso

Libero da tutti i peccati, adesso Dante può ascendere al Paradiso e, accanto a Beatrice, vi accede volando
ad altissima velocità. Egli sente tutta la difficoltà di raccontare questo trasumanare, andare cioè al di là delle
proprie condizioni terrene, ma confida nell'aiuto dello Spirito Santo (il buon Apollo) e nel fatto che il suo
sforzo descrittivo sarà continuato da altri nel tempo (Poca favilla gran fiamma seconda... canto I, 34).

Il Paradiso è composto da nove cieli concentrici, al cui centro sta la
Terra; in ognuno di questi cieli, dove risiede un pianeta diverso,
stanno i beati, più vicini a Dio a seconda del loro grado di
beatitudine. In verità, Dante capirà in seguito che le anime del
Paradiso si trovano tutte nell'Empireo, a contemplare Dio, e
vengono incontro a lui nei vari cieli secondo il loro grado di
beatitudine, per l'amore che nutrono per lui e spiegare i vari misteri
sacri. Inoltre, nessun'anima desidera una condizione migliore di
quella che già ha, poiché la carità non permette di desiderare altro
se non quello che si ha, e non possono far altro che volere ciò che      Philipp Veit (1793-1887): San
Dio vuole ("in sua volontade è nostra pace", dice Piccarda); Dio, al     Bernardo di Chiaravalle
momento della nascita, ha donato secondo criteri inconoscibili ad
ogni anima una certa quantità di grazia, ed è in proporzione a
questa che esse godono diversi livelli di beatitudine. Prima di raggiungere il primo cielo i due attraversano
la Sfera di Fuoco.

Nel primo cielo, quello della Luna, stanno coloro che mancarono ai voti fatti (Angeli); nel secondo, il cielo
di Mercurio, risiedono coloro che in Terra fecero del bene per ottenere gloria e fama, non indirizzandosi al
bene divino (Arcangeli); nel terzo cielo, quello di Venere, stanno le anime degli spiriti amanti (Principati);
nel quarto, il cielo del Sole, gli spiriti sapienti (Potestà); nel quinto, il cielo di Marte, gli spiriti militanti dei
combattenti per la fede (Virtù); e nel sesto, il cielo di Giove, gli spiriti governanti giusti (Dominazioni)

Giunti al settimo cielo, quello di Saturno dove risiedono gli "spiriti contemplativi" (Troni), Beatrice non
sorride più, come invece aveva fatto finora; il suo sorriso, infatti, da qui in poi, a causa della vicinanza a
Dio, sarebbe per Dante insopportabile alla vista, tanto luminoso risulterebbe. In questo cielo risiedono gli
spiriti contemplativi, e da qui Beatrice innalza Dante fino al cielo
delle Stelle fisse, dove non sono più ripartiti i beati, ma nel quale si
trovano le anime trionfanti, che cantano le lodi di Cristo e della
Vergine Maria, che qui Dante riesce a vedere; da questo cielo,
inoltre, il poeta osserva il mondo sotto di sé, i sette pianeti e i loro
moti e la Terra, piccola e misera in confronto alla grandezza di Dio
(Cherubini). Prima di proseguire Dante deve sostenere una sorta di
"esame" in Fede, Speranza, Carità, da parte di tre esaminatori
particolari: San Pietro, San Giacomo e San Giovanni. Quindi, dopo
un ultimo sguardo al pianeta, Dante e Beatrice assurgono al nono
cielo, il Primo mobile o Cristallino, il cielo più esterno, origine del
movimento e del tempo universale (Serafini).

In questo luogo, sollevato lo sguardo, Dante vede un punto
                                                                           Dante e Beatrice rivolti verso
luminosissimo, contornato da nove cerchi di fuoco, vorticanti
                                                                           l'Empireo (Gustave Doré)
attorno ad esso; il punto, spiega Beatrice, è Dio, e attorno a lui
stanno i nove cori angelici, divisi per quantità di virtù. Superato
l'ultimo cielo, i due accedono all'Empireo, dove si trova la rosa dei beati, una struttura a forma di anfiteatro,
sul gradino più alto della quale sta la Vergine Maria. Qui, nell'immensa moltitudine dei beati, risiedono i più
grandi santi e le più importanti figure delle Sacre Scritture, come Sant'Agostino, San Benedetto, San
Francesco, e inoltre Eva, Rachele, Sara e Rebecca.

Da qui Dante osserva finalmente la luce di Dio, grazie all'intercessione di Maria alla quale San Bernardo
(guida di Dante per l'ultima parte del viaggio) aveva chiesto aiuto perché Dante potesse vedere Dio e
sostenere la visione del divino, penetrandola con lo sguardo fino a congiungersi con Lui, e vedendo così la
perfetta unione di tutte le realtà, la spiegazione del tutto nella sua grandezza. Nel punto più centrale di
questa grande luce, Dante vede tre cerchi, le tre persone della Trinità, il secondo del quale ha immagine
umana, segno della natura umana, e divina allo stesso tempo, di Cristo. Quando egli tenta di penetrare
ancor più quel mistero il suo intelletto viene meno, ma in un excessus mentis[16] la sua anima è presa da
un'illuminazione e si placa, realizzata dall'armonia che gli dona la visione di Dio, de l'amor che move il sole
e l'altre stelle.

Data di composizione

      «[...] Caron, non ti crucciare:
      Vuolsi così colà dove si puote
      ciò che si vuole, e più non dimandare.»

      (Inf. III 95-96)

Non conosciamo con esattezza in che periodo Dante scrisse ciascuna delle cantiche della Commedia: gli
studiosi hanno formulato ipotesi anche contrastanti in base a prove e indizi talvolta discordanti. In linea di
massima la critica odierna colloca:

    L'inizio della stesura dell'Inferno nel biennio 1304-05 oppure in quello 1306-07, in ogni caso
    dopo l'esilio (1302) mentre il poeta si trovava in Lunigiana. Salvo l'eccezione del riferimento
    al papato di Clemente V (1305-14), spesso indicato come un possibile ritocco post-
    conclusione, non vi si trovano accenni a fatti successi dopo il 1309. Al 1317 risale la prima
    menzione in un documento (un registro di atti bolognese, sulla cui copertina era trascritta
    un'intera terzina dell'Inferno, i versi 95-96 del Canto III, con il celebre "Vuolsi così colà dove
    si puote..."), mentre i manoscritti più antichi che ci sono pervenuti risalgono al 1330 circa,
    una decina di anni dopo la morte di Dante.
La scrittura del Purgatorio secondo alcuni si accavallò
    con l'ultima parte dell'Inferno e in ogni caso non contiene
    riferimenti a fatti accaduti dopo il 1313. Tracce della sua
    diffusione si riscontrano già nel 1315-16.
    Il Paradiso viene collocato tra il 1316 e il 1321, data
    della morte del poeta.

Non ci è pervenuta alcuna firma autografa di Dante, ma sono
conservati tre manoscritti della Commedia copiati integralmente da
Giovanni Boccaccio, il quale non si servì di una fonte originaria,
ma di manoscritti a loro volta copiati. Si deve anche immaginare
che Dante si spostò molto in vita per via dell'esilio, quindi non poté
portarsi dietro molte carte: probabilmente, pertanto, i manoscritti
originali si dispersero sin dalle prime diffusioni.

Struttura                                                                  Caronte, illustrazione di Gustave
                                                                           Doré.

La Divina Commedia è composta da tre cantiche che comprendono
un totale di cento canti: la prima cantica (Inferno) è di 34 canti (33
hanno argomento l'Inferno; uno, il primo, è proemio all'opera intera), le altre due cantiche, Purgatorio e
Paradiso, sono di 33 canti ciascuna. Il primo canto dell'Inferno viene considerato un prologo a tutta l'opera:
in questo modo si ha un canto iniziale più 33 canti per ciascuna cantica. Come si può notare, l'opera è
impostata sulla simbologia cristiana del numero 3 (Padre, Figlio e Spirito Santo, ovvero la Trinità) e dei suoi
multipli, dell'1 (Dio unico) e del 100 (totalità di Dio).

Tutti i canti sono scritti in terzine incatenate[17] di versi endecasillabi. La lunghezza di ogni canto va da un
minimo di 115 versi ad un massimo di 160; l'intera opera conta complessivamente 14 233 versi. La Divina
Commedia è dunque superiore in lunghezza sia all'Eneide virgiliana (9 896 esametri), sia all'Odissea
omerica (12 100 esametri), ma più breve dell'Iliade omerica (15 683 esametri). In ogni caso, se altre opere,
anche molto più lunghe, sono state composte dalla tradizione e dai vari poeti che nel tempo le hanno
ampliate ed arricchite, la Divina Commedia è un'opera straordinaria perché frutto dell'intelletto di un solo
uomo, autore di tutti e 14 233 i versi.

La Commedia è anche una drammatizzazione della teologia cristiana medievale, arricchita da una
straordinaria creatività immaginativa. La struttura ha tra i suoi modelli un resoconto arabo del mi'raj,
l'ascensione al cielo di Maometto, la cui traduzione latina nota in Europa come Liber Scalae Machometi
venne fatta nel 1264 da Bonaventura da Siena, un dotto con cui collaborò per un certo tempo Brunetto
Latini, uno dei maestri di Dante.[18][19]

Struttura cosmologica

La struttura testuale della Commedia coincide esattamente con la rappresentazione cosmologica
dell'immaginario medievale.[20] Il viaggio all'Inferno e nel monte del Purgatorio rappresentano infatti
l'attraversamento dell'intero pianeta, concepito come una sfera, dalle sue profondità alle regioni più elevate;
mentre il Paradiso è una rappresentazione simbolico-visuale del cosmo tolemaico.

L'Inferno era rappresentato all'epoca di Dante come una cavità di forma conica interna alla Terra, allora
concepita come divisa in due emisferi, uno di terre e l'altro di acque. La caverna infernale era nata dal
ritrarsi delle terre inorridite al contatto con il corpo maledetto di Lucifero e delle sue schiere, cadute dal
cielo dopo la ribellione a Dio. La voragine infernale aveva il suo ingresso esattamente sotto Gerusalemme,
collocata al centro della semisfera occupata dalle terre emerse, ovvero dal continente euroasiatico. Agli
antipodi di Gerusalemme, e quindi al centro della semisfera acquea, si ergeva l'isola montagnosa del
Purgatorio, composta appunto dalle terre fuoriuscite dal cuore del mondo all'epoca della ribellione degli
angeli. In cima al Purgatorio, Dante colloca il Paradiso terrestre del racconto biblico, il luogo terrestre più
vicino al cielo. Come si vede, Dante riprende dalla concezione tolemaica l'idea di una Terra sferica, ma le
sovrappone un universo sostanzialmente pre-tolemaico, privo di simmetria sferica. Alla sfericità della Terra,
infatti, non corrisponde una simmetria generale nella distribuzione delle terre emerse e della presenza
umana; le direzioni passanti per il centro della Terra non sono equivalenti: quella che passa per
Gerusalemme e per la montagna del Purgatorio ha un ruolo privilegiato, il che richiama le concezioni della
Grecia arcaica, ad esempio di Anassimandro.

Il Paradiso è strutturato secondo la rappresentazione cosmologica nata all'epoca ellenistica con gli scritti di
Tolomeo, e risistemata dai teologici cristiani secondo le esigenze della nuova religione. Nel suo rapimento
celeste dietro l'anima di Beatrice, Dante attraversa dunque i nove cieli del cosmo astronomico-teologico, al
di sopra dei quali si distende il Pleroma infinito (Empireo) in cui ha sede la Rosa dei Beati, posti a diretto
contatto con la visione di Dio. Ai nove cieli corrispondono nell'Empireo i nove cori angelici che, col loro
movimento circolare intorno all'immagine di Dio, provocano il relativo movimento rotatorio del cielo a cui
ciascuno di essi è preposto - questo secondo la dottrina dell'Atto Puro o Primo Mobile desunta dalla
Metafisica di Aristotele.

La struttura cosmologica della Commedia è strettamente connessa alla struttura dottrinale del poema, per
cui la collocazione dei tre regni, e, al loro interno, l'ordine delle anime (ovvero delle pene e delle grazie),
corrisponde a precisi intendimenti di ordine morale e teologico.

In particolare, la topografia dell'Inferno comprende i seguenti
luoghi:

    Un ampio vestibolo o Antinferno, dove vengono puniti
    coloro che nessuno vuole, né Dio né il demonio: gli
    ignavi.
    Il fiume Acheronte, che separa il vestibolo dall'Inferno
    vero e proprio.
    Una prima sezione costituita dal Limbo, immerso in una
    tenebra perenne.
    Una serie di cerchi meno scoscesi in cui patiscono i
    peccatori incontinenti.
    La città infuocata di Dite, le cui mura circondano la
    voragine finale.
    Il cerchio dei violenti in cui scorre il fiume sanguigno del
    Flegetonte.                                                              Dante e Virgilio all'Inferno, dipinto di
                                                                             William-Adolphe Bouguereau (1850)
    Un burrone scosceso, che dà all'ottavo cerchio,
    chiamato Malebolge: il cerchio dei fraudolenti.
    Il pozzo dei Giganti.
    Il lago ghiacciato di Cocito, dove sono immersi i traditori.

La topografia del Purgatorio è invece così strutturata: un Antipurgatorio, costituito da una spiaggia, su cui
vengono traghettate le anime dall'angelo nocchiero che le preleva alla foce del Tevere, e da una valletta
fiorita; specularmente all'Inferno, in essa attendono di iniziare la loro purificazione i negligenti, i tardi cioè a
pentirsi. Il purgatorio vero e proprio è un monte scosceso, formato da ampi dirupi e cerchi rocciosi, a
ciascuno dei quali è preposto un angelo guardiano. Sulla cima del monte c'è il Paradiso terrestre, che ha
l'aspetto di una foresta rigogliosa, popolata di figure allegoriche.
I nove cieli del Paradiso sono i sette del sistema tolemaico - Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove,
Saturno - più il cielo delle Stelle fisse e del Primo Mobile.

Struttura dottrinale

La struttura dottrinale coincide con l'impianto teologico-filosofico proprio della poetica di Dante. La
complessità degli schemi adottati dal poeta richiede che la materia venga trattata in apposite voci di
approfondimento.

    Struttura dell'Inferno
    Struttura del Purgatorio
    Struttura del Paradiso

Cronologia

Le date in cui Dante fa svolgere l'azione della Commedia si ricavano dalle indicazioni disseminate in
diversi passi del poema.

Il riferimento principale è Inferno XXI, 112-114: in quel momento sono le sette del mattino del sabato santo
del 1300, 9 aprile[21] o, secondo altri commentatori, del 26 marzo del 1300.[22] L'anno è confermato da
Purgatorio II, 98-99, che fa riferimento al Giubileo in corso. Tenendo questo punto fermo, in base agli altri
riferimenti si ottiene che:

    alla mattina dell'8 aprile (venerdì santo) o del 25 marzo, Dante esce dalla "selva oscura" e
    inizia la salita del colle, ma viene messo in fuga dalle tre fiere e incontra Virgilio.
    Al tramonto, Dante e Virgilio iniziano la visita dell'Inferno, che dura circa 24 ore[23] e termina
    quindi al tramonto del 9 aprile o del 26 marzo. Nel superare il centro della Terra, però, i due
    poeti passano al "fuso orario" del Purgatorio (12 ore di differenza da Gerusalemme[24] e 9
    ore dall'Italia), per cui è mattina quando essi intraprendono la risalita, che occupa tutto il
    giorno successivo.
    All'alba del 10 aprile (domenica di Pasqua) o del 27 marzo, Dante e Virgilio iniziano la visita
    del Purgatorio, che dura tre giorni e tre notti:[25] all'alba del quarto giorno, 13 aprile o 30
    marzo, Dante entra nel Paradiso Terrestre e vi trascorre la mattina, durante la quale lo
    raggiunge Beatrice.
    A mezzogiorno, Dante e Beatrice salgono in cielo. Da qui in avanti non vi sono più
    indicazioni di tempo, salvo che nel cielo delle stelle fisse trascorrono circa sei ore (Paradiso
    XXVII, 79-81). Considerando un tempo simile anche per gli altri cieli, si ottiene che la visita
    del Paradiso duri due-tre giorni. L'azione terminerebbe di conseguenza il 15 aprile o il 1º
    aprile.

Quindi con un tempo totale stimato in sette giorni di viaggio.

Tematiche e contenuti
    Personale universale (redenzione dell'umanità).
    Autobiografico: redenzione dell'anima del poeta dopo il periodo di traviamento (selva
    oscura).
    Redenzione politica: l'umanità con la guida della ragione (Virgilio) e dell'impero raggiunge
    la felicità naturale (Paradiso terrestre = giustizia e pace).
Redenzione religiosa: con la guida della Teologia (Beatrice) e della fede (San Bernardo) si
    arriva alla felicità ultraterrena (Paradiso).

Nella Divina Commedia, Dante si prefigge il ruolo di poeta vate in quanto universalizza il proprio viaggio
verso la purificazione, per tutti gli uomini. Leggendo, infatti, la Divina Commedia ogni uomo ripercorre il
viaggio dantesco purificandosi anch'esso dai sette vizi capitali.

Dante rappresenta cielo e terra, ma la terra trova nel poema una rappresentazione nuova, una profonda
comprensione della realtà umana. In Dante è presente un modo nuovo e disincantato di percepire la storia: il
racconto storico abbraccia il corso dei secoli con la storia dell'Impero romano e cristiano, delle lotte
fiorentine tra guelfi bianchi e neri, una larga considerazione prospettica della storia della Chiesa e della
storia contemporanea del papato.

L'osservazione della natura è accurata e armoniosa, accentuata nel suo valore prospettico, ricca e
determinata. Le note geografiche[26] e visive si succedono.

Il paragone è lo strumento con cui il poeta ritrae il reale mediante un intreccio di notazioni varie e reali. La
natura dantesca scaturisce sempre da un riferimento personale ed è, non di rado, attratta nell'orbita
drammatica della rappresentazione. Tutto in Dante ha un valore soggettivo, il poema non è solo la storia
dell'anima cristiana che si volge a Dio, ma anche la vicenda personale di Dante, inestricabilmente
intrecciata agli avvenimenti che narra. Dante è sempre attore e giudice.

Il poeta ci presenta l'uomo nella sua complessità e ne mostra il rapporto con Dio, alla luce della tradizione
ebraico-cristiana la quale si innestava su quella classica, greca e latina.[27]

La profezia religiosa e politica si sviluppa su un terreno di esperienze personali, dichiaratamente espresse, e
di aspirazioni precise. Dante sovrappone la profezia ai fatti concreti e non li dimentica, né insegue sogni
vaghi e irrealizzabili di rinnovamento come i profeti medievali, infatti il suo vagheggiamento di un
rinnovamento religioso, morale e politico ha obiettivi ben precisi: una ritrovata moralità della Chiesa, la
restaurazione dell'Impero, la fine delle lotte civili nelle città.

L'allegoria e la concezione figurale sono il fondamento del poema ed il segno più scoperto del suo
medievalismo; il mondo è raffigurato suddiviso: da un lato la realtà storica e concreta, dall'altro il
sopramondo, ossia il significato della realtà storica trasferita sul piano morale e su quello ultraterreno. Il
costante riferimento al sopramondo attesta la subordinazione medievale di ogni realtà a un fine morale e
religioso. Siffatta subordinazione è rigida e imperante e nell'assoluto valore dell'allegoria, nella fedeltà ai
modi e allo stile ereditati dalla letteratura precedente è il medievalismo di Dante.

I sesti canti del poema sono di contenuto politico, secondo una visione che si amplia da Firenze (Ciacco,
Inferno), all'Italia (Sordello da Goito, Purgatorio), all'impero (Giustiniano I, Paradiso). Nell'Inferno è
presente un dialogo fra Dante e Ciacco in cui viene condannata la decadenza morale e civile di Firenze
("superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c'hanno i cuori accesi"; Inf. VI, vv. 74-75). Nel Purgatorio
è Dante stesso che affronta la tematica politica. Il poeta, in veste di autore, in una digressione deplora gli
imperatori germanici suoi contemporanei poiché non si occupano più del "giardino dell'impero" ("giardin
de lo imperio"; Purg. VI, v. 105), cioè dell'Italia ("Che val perché ti racconciasse il freno / Iustinïano, se la
sella è vòta?"; Purg. VI, vv. 88-89). La scelta del numero 6 non è casuale, perché 6 è multiplo del 3,
numero centrale nella Commedia. I tre testi contengono una profezia (VI Inferno), un compianto (VI
Purgatorio) e una narrazione (VI Paradiso). In tutti e tre i canti l'intento del poeta è sempre lo stesso:
criticare le divisioni politiche che minano la solidità dell'Impero creato da Dio unico ed indivisibile.

Nel Paradiso la tematica è quella della legittimità dell'impero universale, istituzione voluta dalla
Provvidenza, garante di pace e di giustizia, ed è affidata all'imperatore bizantino Giustiniano, personaggio
fondamentale della storia antica, colui che aveva riordinato le leggi romane (Corpus iuris civilis)
consentendo la loro trasmissione alle epoche successive. Quindi sia i guelfi, simpatizzanti per la monarchia
francese (i gigli gialli; Par. VI, v. 100), opponendosi all'impero, sia i ghibellini, che strumentalizzano il
pubblico segno per interessi privati e particolari, sono in errore ed ostacolano i disegni della Provvidenza. Il
pensiero politico del poeta ruota perciò attorno alle istituzioni del Papato e dell'Impero e alle loro funzioni,
motivi già trattati nel Convivio e nel De Monarchia.[28]

Dal punto di vista filosofico Aristotele è "il maestro di color che sanno" (Inferno, IV,131), il cui pensiero,
ripreso e interpretato in chiave cristiana da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, è fondamentale nella
filosofia dantesca. "Un peso maggiore sulla base dottrinale della Commedia lo assume il neoplatonismo,
soprattutto perché in esso, soprattutto ad opera dei Padri della Chiesa alessandrini (per esempio Origene, III
secolo) e dello stesso Pseudo-Dionigi l'Areopagita (V secolo) si fusero concezioni cristiane e platoniche
sulla base di un criterio sincretistico. A questo proposito va notato che la disposizione e la struttura stessa di
Inferno e Paradiso risentono in modo determinante delle dottrine neoplatoniche: Satana è collocato nel
punto del cosmo più lontano da Dio ed è caratterizzato dalla brutalità meccanica tipica delle creature che
costituiscono l'ultimo gradino della scala degli esseri, in cui prevale la materia.

Quanto al criterio complementare, fatto proprio da figure fondamentali come sant'Agostino che considera
l'influsso divino in termini di irradiazione di luce, esso è assunto da Dante come grande sistema di
collegamento della terza cantica, accogliendo le suggestioni che erano venute dalla metafisica della luce,
elaborata in particolare dalla Scuola di Chartres (XII secolo) e dal teologo inglese Roberto Grossatesta (XIII
secolo) nonché da san Tommaso e san Bonaventura.

Per quanto riguarda l'ordine delle gerarchie angeliche, Dante abbandona la proposta di Gregorio Magno
(VI secolo), le cui dottrine aveva utilizzato nella sistemazione delle pene purgatoriali, per passare alla
Gerarchia celeste dello Pseudo-Dionigi a conferma dell'importanza strutturale della cultura neoplatonica
della Commedia.[29][30][31]

Un tema ricorrente nella Commedia è la profezia.[32][33] Il profetismo era largamente diffuso ai tempi del
poeta, come del resto lo fu durante tutto il Medioevo ed era caratterizzato da un'attesa escatologica. Inoltre
nel 1300 papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo, segno di una volontà di rinnovamento spirituale.
Nel XII secolo, in un clima di rinnovamento spirituale, il profetismo si sviluppò in due principali direzioni:
una, legata ad un diretto contatto con Dio da ricondurre alla monaca benedettina Ildegarda di Bingen ed alle
sue "visioni"; l'altra, che ebbe il suo maggior esponente in san Bernardo di Chiaravalle, avente come base
l'esame della complessa realtà del proprio tempo con il fine di apportarvi miglioramenti dettati dalla
carità.[34] "Ad alimentare questo clima di attesa e di speranze contribuì inoltre il commento all'Apocalisse
del francescano Pietro di Giovanni Olivi (Pierre Olieu, 1248-1298), le cui idee Dante conobbe
frequentando a Firenze la scuola conventuale francescana di Santa Croce, dove conobbe anche uno dei
suoi più ferventi discepoli, Ubertino da Casale (1259 - 1330 circa). Proprio nel 1300 Dante colloca il suo
viaggio nell'oltretomba, non a caso strutturato in forma di visione, attraverso cui denunciare agli uomini i
mali del mondo e della Chiesa e indicandone allo stesso tempo i correttivi, mostrando a tutti gli uomini
quale fosse la giusta strada da percorrere per il rinnovamento dello spirito.

Il profetismo della Commedia, oltre che richiamarsi in generale alla Bibbia ha radici nel gioachimismo, col
quale condivide la visione di una profonda decadenza dei valori e della corruzione della Chiesa, identificata
con la prostituta dell'Apocalisse di Giovanni (Purg. XXXII, 160), e l'esigenza di combatterle nella speranza
di un rinnovamento. Garanzia di tale speranza sono la gravità del dolore sopportato da coloro che sono
rimasti fedeli a Cristo e la promessa di Cristo stesso di non abbandonarli, nonché la certezza, basata
sull'Apocalisse di Giovanni, della sconfitta finale dei malvagi. Dante ritiene infatti non lontana la fine dei
tempi: Vedi nostra città quant'ella gira;/vedi li nostri scanni sì ripieni,/che poca gente più ci si disira (Par.
XXX 130 - 132). Come Gioacchino da Fiore e la linea spirituale del francescanesimo, anche Dante, nel suo
messaggio profetico, prospetta "l'ideale di una Chiesa povera e aderente ai princìpi evangelici, che dopo
Cristo è stato sostenuto solo da San Francesco, ritenuto per questo da Dante un secondo Cristo (v. Paradiso
XI), iniziatore di una svolta decisiva nella storia cristiana. Mentre però il gioachimismo identificava
nell'Ordine francescano l'artefice del processo di redenzione, Dante se ne distacca, escludendo che il
rinnovamento potesse scaturire dall'interno della Chiesa. Egli basa invece il proprio messaggio profetico sul
veltro (Inferno I, 101), ossia un riformatore laico voluto da Dio (identificabile con l'imperatore), unica forza
in grado di realizzare il piano provvidenziale svelato a Dante nell'oltretomba".[35] In varie occasioni alcuni
personaggi incontrati da Dante durante il suo viaggio oltremondano, grazie alla loro capacità di prevedere il
futuro, preannunciano al poeta il suo esilio. Dopo Ciacco (Inferno, VI, vv. 58-75), il primo che pronuncia
contro Dante "parole gravi" è Farinata degli Uberti (Inferno X, 79 e ss.); seguono Brunetto Latini (Inferno
XV, 61-72); Vanni Fucci (Inferno XXIV, 140-151);Corrado Malaspina (Purgatorio VIII, 133-139); Oderisi
da Gubbio (Purgatorio XI, 139-141); Bonagiunta Orbicciani (Purgatorio, XXIV, 43-48); Forese Donati
(Purgatorio XXIV, 88-90) e infine Cacciaguida nel Paradiso (canto XVII).

Il ricorso alla profezia consente a Dante-personaggio (agens) anche di anticipare narrativamente la
drammatica evoluzione che il Dante scrittore (auctor) vede dispiegarsi sotto i suoi occhi. Nella Commedia
sono dunque disseminate molte profezie post-eventum, che riguardano fatti della biografia dell'autore
(l'esilio) o collettivi (per esempio il trasferimento della sede papale ad Avignone ad opera di Papa Clemente
V sotto la pressione dei sovrani di Francia). Tuttavia il messaggio di Dante riguarda anche un misterioso
piano provvidenziale, personificato dall'enigmatico veltro, che interverrebbe a punire i responsabili della
corruzione morale, come la curia papale e il re di Francia.[36][37] I vari commenti sull'Apocalisse fioriti nel
Medioevo influirono notevolmente sull'atteggiamento profetico di Dante nel suo poema. La prima linea di
sviluppo di tali commenti è molto attenta all'interpretazione letterale del testo e mira ad un'interpretazione in
senso morale (san Girolamo, Beda il Venerabile, Riccardo di San Vittore, Alberto Magno). La seconda
linea si basa su un'interpretazione allegorica e tende a vedere rappresentata nel testo apocalittico una
successione storica delle vicende della Chiesa. Questa linea interpretativa ha i suoi maggiori esponenti in
Gioacchino da Fiore e Pietro di Giovanni Olivi, i cui commenti probabilmente influenzarono molto Dante.
Dante si riferisce a san Giovanni e all'Apocalisse di Giovanni nell'Inferno (XIX, 106-111) e nel Paradiso
(XXXII, 127-128). Nella processione mistica del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXIX) vari elementi sono
ripresi dal testo di san Giovanni (i sette candelabri, i ventiquattro seniori, i quattro animali, il drago, ecc.) ed
il libro dell'Apocalisse di Giovanni viene rappresentato simbolicamente come un vecchio solo, che avanza
dormendo, con la faccia arguta (Purgatorio, XXIX, 143-144).[38]

Un'altra tematica frequentemente rintracciabile nel poema è il valore-simbolo del numero. Secondo la
Bibbia, Dio ha organizzato il cosmo secondo criteri armonici: "tu hai tutto disposto con misura, calcolo e
peso" (Sapienza 11, 21). I Padri della Chiesa avevano dedicato grande attenzione alla numerologia, come
attestano le opere Libro dei numeri di Isidoro di Siviglia e il libro XV (De Numero) dell'enciclopedia di
Rabano Mauro. Dante aveva già sperimentato il simbolismo del nove, multiplo del tre simbolo della Trinità,
nella Vita Nuova, dove lo applica a Beatrice: i due si incontrano la prima volta a nove anni, Beatrice
rivolgerà il suo primo saluto all'ora nona, ecc.
Nella Commedia i canti sono 100 numero perfetto poiché rappresenta il 10 (moltiplicato per se stesso)
denotante compiutezza. Dieci sono Le zone dell'Inferno (nove più l'antinferno); dieci le zone del Purgatorio
(antipurgatorio, formato da spiaggia più primi due balzi, poi le sette cornici ed infine il paradiso terrestre);
dieci sono le zone del Paradiso (sette cieli planetari, cielo delle stelle fisse, Primo Mobile, Empireo). Il
numero simbolico trinitario 3 si trova nel numero delle cantiche, nei versi in terzine, nelle tre guide (Publio
Virgilio Marone, Beatrice, San Bernardo) oltre che nelle tre facce di Lucifero, nelle tre fiere del primo canto
dell'Inferno, nei tre gradini della porta del Purgatorio. Tre sono i gruppi di peccatori nell'Inferno
(incontinenti, violenti, fraudolenti); nel Purgatorio le anime sono divise fra coloro che indirizzarono il loro
amore su un oggetto sbagliato, quelli che furono poco solleciti al bene e quelli che amarono troppo i beni
mondani; nel Paradiso i beati sono divisi fra gli spiriti che furono dediti alla ricerca della gloria terrena, gli
spiriti attivi e gli spiriti contemplativi. Per quanto concerne il 9, i cerchi dell'Inferno sono nove, le cornici
del Purgatorio 7 a cui si devono aggiungere Antipurgatorio e Paradiso Terrestre; 9 sono poi le sfere dei cieli
(il decimo, l'Empireo, non è un luogo fisico).
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