DELL'ISLAM di F.f - sollevazione

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DELL'ISLAM di F.f - sollevazione
ERDOGAN:   L’ULTIMO                                 LEONE
DELL’ISLAM di F.f.

Riceviamo e pubblichiamo

Il nuovo ottomanesimo nella nuova fase strategica

Cercheremo di inquadrare le due grandi linee strategiche
dell’erdoganismo senza trascendere nell’antierdoganismo ma
tanto meno nel filoerdoganismo; la nostra prioritaria volontà
è quella di superare la classica interpretazione della
Sinistra radicale, laicista, progressista e globalistica, che
fa di Erdogan un campione del fascismo in salsa islamica.
Tenteremo di separare il giusto dall’errato, in base a una
concezione     dottrinaria     anzitutto    antiglobalista,
antiscientista e antilaicista. Il miglior modo per non
comprendere la cosiddetta “Turchia nera”, la Turchia profonda,
è proprio quella di leggerla con la lente deformante del
globalismo laicista di sinistra.
DELL'ISLAM di F.f - sollevazione
Va premesso che la Sinistra rivoluzionaria turca, nelle sue
varie fazioni, ha sempre sostenuto esplicitamente il “Derin
Devlet”, lo Stato profondo kemalista e globalista e ha
rappresentato il kemalismo come un evento storico progressivo
nella storia della Turchia moderna.

Questo è     sostanzialmente avvenuto anche in piena guerra
fredda; i    neokemalisti della NATO erano giudicati, mutadis
mutandis,    come qui i vecchi partigiani giudicavano i nuovi
quadri del   PCI, “compagni che sbagliano”.

Il giudizio di consistenti componenti della Sinistra
rivoluzionaria curda verso il kemalismo non poteva essere e
non può essere, evidentemente, dello stesso tono, in quanto
Kemal e i suoi sterminarono quando poterono i curdi, in
omaggio ad un nazionalismo regionale anti-imperiale, di radice
alevita, che praticava senza scrupoli la pulizia etnica.

Ma, si tenga bene in mente, la Sinistra radicale curda
contesta il kemalismo su base etnica, non sul piano della
visione del mondo, che fu di fatto la medesima tra
progressisti curdi e progressisti rivoluzionari kemalisti.
Cosa fu in sostanza il kemalismo? Fu il “risorgimento” turco.
Disse Dostoevski che il cavourismo laicista e machiavellico,
creando con il supporto strategico franco-inglese, la piccola
Nazione italiana subalterna all’Occidente protestante e
massonico, annientò l’italianismo universale che aveva in Roma
eterna il proprio centro. Fu la morte dell’Italia, secondo il
grande pensatore russo.

Kemal Ataturk fu in sintesi il Cavour turco: come
quest’ultimo, utilitarista puro, fu un eterodosso religioso,
Kemal e i suoi radicalizzarono l’eterodossia alevita,
trasformandola in teologia politica laicista, tentando
astrattamente di cancellare secoli di pratica imperiale
ottomana.

E’ ora fondamentale comprendere una cosa. Il kemalismo lesse
la storia ottomana come una parodia. L’ottomanesimo non si
identificava affatto con l’Islam, come Kemal volle far
credere.

L’ideologia kemalista descrisse l’impero come una sorta di
versione premoderna dell’Arabia Saudita, ma ciò non stava né
in cielo né in terra. Sin dalle origini gli ottomani si
consideravano una potenza europea, il periodo teocratico fu
infatti una breve fase nella storia ottomana. Gli ottomani si
occidentalizzarono al punto che, alla fine dell’800, sotto
‘Abd ul-Hamid II, l’impero garantì istruzione alle donne, si
dotò di tribunali laici e insegnò ai sudditi, tra i quali il
giovane Ataturk, a tenere la religione fuori dalla vita
pubblica.

Il kemalismo fu così, a differenza di quanto la Sinistra
rivoluzionaria turca e il globalismo occidentale sostengono,
un fenomeno di continuità storica e politica con
l’ottomanesimo, in un contesto globale in cui si affermava ad
Oriente quasi ovunque l’ateismo di stato, ad Occidente il
laicismo scientifico agnostico e nichilista.

Ad Ataturk interessava abbattere, come detto, la cultura
imperiale, affermando un nazionalismo panturanico; ma la
visione del mondo di Ataturk era il laicismo progressista,
neo-illuminista, come è tipico delle élite globaliste. La
generazione islamica, che darà vita all’AKP, fu duramente
perseguitata nel regime kemalista o neokemalista, la religione
era illuministicamente degradata a “affare privato”.

L’astuzia da politico decisionista di Erdogan, dopo un lungo e
faticoso cammino, porta prima alla delegittimazione politica
dei militari mercenari dello Stato Profondo e della NATO, poi
a una politica democratica di massa fondata sulla re-
islamizzazione strategica della società. Il “nuovo Sultano”
recupera dell’ottomanesimo quei momenti storici, rarissimi, in
cui l’Islam fu centrale. Il suo è però più un “nuovo
ottomanesimo” che un mero neo-ottomanesimo, come abbiamo già
cercato di spiegare.

Vladimir Putin, Mahmoud Ahmadinejad e Erdogan sono gli unici
statisti che hanno opposto, e stanno opponendo, una convinta
Ideocrazia conservatrice al globalismo progressista-nichilista
e laicista controideocratico.

Rimane il grande punto interrogativo sul primo ministro
israeliano Bibi Netanyahu, che sembra veramente rivoltarsi
ogni giorno di più al Deep State. Ma, arrivando al punto, è
veramente Recep Tayyip Erdogan un fascista islamico?
Formalmente sì, si colloca oggettivamente, usando parametri
storici italiani, tra una DC di destra ultraconservatrice
antiprogressista e in parte antiliberale (Pella, Andreotti,
Tambroni, De Carolis) fondata sulla volontà di rappresentare
il ceto medio e un fascismo di stato vero e proprio.

Erdogan ricerca un consenso attivo di massa, mobilita la
gioventù, il suo Partito Giustizia e Sviluppo è un movimento
di giovani ragazzi e giovani ragazze quotidianamente presenti
sulle piazze della provincia e delle metropoli, negli ultimi
anni tra i milioni di nuovi iscritti all’AKP il 65% tra questi
ha meno di 25 anni.

Il “nuovo Sultano” ha i suoi guerrieri e i suoi potenziali
martiri sul campo, pronti a entrare in azione. La base sociale
erdoganista è rappresentata dalla piccola e media impresa e da
quella sterminata “Turchia nera“ in perenne lotta con la
“Turchia bianca” dell’elite globalista e occidentalista.

Sostanzialmente, però, il mito politico dell’erdoganismo
diverge enormemente dal fascismo storico e anche da possibili
soluzione integraliste religiose come il franchismo spagnolo o
come il fascismo romeno ortodosso degli anni ‘30. Il mito
politico di Erdogan è la pura trascendenza senza alcuna
macchia di eretica immanenza.

“Una Turchia che marcia sulla via di Allah è una Turchia che
non ha ostacoli sulla via dell’ascesa mondiale”, è il leiv
motiv dell’erdoganismo di stato. Più Bin Laden che Mussolini.

Inoltre, ogni nostro giudizio sarebbe fuori luogo, o astratto,
verso questo statista di razza che nel giro di pochi anni ha
dotato la Turchia di un peso strategico che compete con quello
di Usa, Cina, Russia. E’ oggi, di certo, uno stretto alleato
di Angela Merkel.

Ma sino a pochi anni fa era alleato di Obama, in funzione
antirussa. Avremmo poi veduto come si sarebbe concluso quel
rapporto. Devoto sommamente alla pura trascendenza
muhammadiana, è anche maestro di Realpolitik come quasi nessun
altro nel contesto attuale.

Lo si chiami però come vorrebbe essere chiamato, per onestà,
anche qualora si sia suoi avversari: un piccolo e leale leone
dell’Islam.

L’erdoganismo ha mostrato, nei fatti, che la re-islamizzazione
dal basso è più forte e affascinante, per milioni e milioni di
giovani, di ogni nichilismo progressista e globalista. Di
questo dobbiamo dare a Erdogan il merito storico. Se sul piano
dei valori è di certo un conservatore o controrivoluzionario
su quello politico è un rivoluzionario puro.

ERDOGAN E IL MITO DELLA
POLITICA   NEO-OTTOMANA di
Marwan Kabalan
La gran parte delle élite occidentali, europee anzitutto, non
esitano a bollare la politica estera turca come “espansionismo
neo-ottomano”.

Condannano quindi come “provocazione bellicista” l’invio, il
21 luglio scorso, di 18 navi militari ai confini delle acque
territoriali greche (isola di Kastellorizo) per proteggere un
sottomarino per l’esplorazione di idrocarburi.

Dimenticano di ricordare che la Turchia venne esclusa nel 2019
dal patto sul Mediterraneo orientale siglato da Egitto,
Grecia, Cipro, Israele, Italia, Giordania e Autorità
Palestinese.

«Contrariamente a quanto credono molti osservatori, la
politica estera turca non è espansionistica, ma difensiva e
pragmatica»

Negli ultimi anni, la politica estera sempre più assertiva
della Turchia si è fatta sentire in tutto il suo vicinato. A
luglio, in seguito agli scontri tra l’Azerbaigian e l’Armenia
nel Nagorno-Karabakh, Ankara ha lanciato esercitazioni
militari con l’esercito azero, chiarendo che era dalla parte
del suo alleato.

A maggio, il sostegno militare turco ha aiutato il governo di
accordo nazionale (GNA) riconosciuto a livello internazionale
a Tripoli ad espellere le forze del comandante militare
rinnegato Khalifa Haftar, sostenuto da Russia, Egitto e
Emirati Arabi Uniti, dalla maggior parte della Libia
occidentale.

A febbraio, l’intervento militare della Turchia ha interrotto
un tentativo del regime siriano e dei suoi alleati iraniani di
prendere il controllo dell’ultima roccaforte dell’opposizione
nella provincia siriana di Idlib e ha costretto Mosca a
onorare l’accordo sulla zona di de-escalation dell’escalation
del 2018.

In effetti, oggi la politica estera turca sta influenzando i
Balcani occidentali e il Caucaso fino al Golfo e fino al Corno
d’Africa. Ciò ha portato alcuni analisti occidentali a
qualificare le politiche turche come ambizioni “neo-ottomane”
per l’egemonia regionale.

Ma al di là dei gesti retorici e simbolici, la politica estera
turca appare di natura molto difensiva ed è determinata da tre
considerazioni principali: stabilità interna e integrità
territoriale; tenere testa alla minaccia dei rivali regionali
che puntano a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti in
Medio Oriente; e indipendenza energetica.

Difendendo la stabilità interna

Osservando gli sviluppi della politica turca è evidente la
rottura netta rispetto rispetto ai primi anni del governo del
Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP). Questa ruotava
attorno alla dottrina “zero problemi con i vicini”, sviluppata
dall’allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu. Questa
dottrina è stata eclissata dagli eventi della “Primavera
araba” e dal vuoto lasciato dal ritiro degli Stati Uniti
dall’Iraq nel 2011.

La fretta delle diverse potenze regionali per condizionare
l’esito delle rivolte arabe del 2010-2011 e l’interesse in
calo di Washington per la regione, hanno costretto la Turchia
a riconsiderare il suo approccio regionale. Il conflitto del
2015 con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che ha
guidato una rivolta armata contro il regime turco che durae
oltre 40 anni, infine il fallito tentativo di colpo di stato
del luglio 2016, hanno solo rafforzato il nuovo approccio
turco, poiché la leadership di Ankara è diventata sempre più
preoccupata per minacce alla stabilità interna.

Nel 2017, la costituzione turca è stata modificata così da
attribuire alla presidenza ampi poteri nel campo della
politica estera e di sicurezza, il che ha consentito al
presidente Erdogan di perseguire una strategia regionale più
assertiva.

Il primo grande cambiamento nella politica è avvenuto nel
dossier sulla Siria. Nel 2016 Ankara si era resa conto di aver
perso l’opportunità di determinare l’esito del conflitto
siriano. Sebbene abbia un confine di 900 km con la Siria, era
chiaro come Erdogan non fosse riuscito a raggiungere nessuno
dei suoi obiettivi politici chiave nella guerra civile
siriana: rimuovere il regime di Bashar al-Assad e installare
un governo amico a Damasco.

Al contrario, Russia e Iran, che non condividono i confini con
la Siria, hanno avuto più successo nel garantire i loro
interessi nel paese colpito dalla guerra. Sono riusciti a
salvare il regime di Assad dal collasso e a porre fine
all’avanzata dell’opposizione sostenuta dalla Turchia.

A seguito dell’intervento militare russo del settembre 2015 a
sostegno del regime di Assad, la capacità della Turchia di
influenzare il corso del conflitto è stata ridotta al minimo.
Il sostegno degli Stati Uniti alle curde Unità di protezione
popolare (YPG), un ramo siriano del PKK, nella lotta contro lo
Stato Islamico (ISIS) ha spaventato il governo turco e lo ha
costretto a ripensare la sua politica sulla Siria.

Di conseguenza, Ankara si è attestata su un obiettivo più
modesto: impedire la creazione di un’enclave curda dominata
dal PKK lungo il confine meridionale, che potrebbe
destabilizzare le regioni curde della Turchia. Ankara ha poi
ammorbidito la sua posizione anti-Assad per ottenere
l’approvazione della Russia per il suo intervento militare nel
nord e nord-ovest della Siria (la provincia di Idlib).

Pertanto, gli interessi turchi in Siria si sono limitati alle
aree adiacenti ai suoi confini e non sono più interessati al
futuro del regime di Damasco. Contenere l’effetto
destabilizzante del conflitto siriano sul proprio territorio è
così diventata la principale preoccupazione di Ankara.

Minacce regionali e indipendenza energetica

Un importante motore della politica estera turca è anche la
sicurezza energetica, che a sua volta è intrecciata con varie
minacce provenienti dai rivali regionali. Attualmente la
Russia e l’Iran forniscono circa l’80% del fabbisogno
energetico della Turchia. La sua rivalità con entrambi mette
Ankara in una posizione delicata.

Questo è il motivo per cui negli ultimi anni ha perseguito la
diversificazione delle forniture energetiche e aumentato i
suoi sforzi nell’esplorazione energetica nelle acque
adiacenti, compreso il Mar Mediterraneo. Ciò ha influito
direttamente sulla sua politica nei confronti della Libia.

Quando è scoppiata la seconda guerra civile libica nel 2014,
con Haftar che cercava di unire la Libia sotto il suo governo,
la Turchia non sembrava interessata a svolgere un ruolo
importante nel conflitto libico. La sua attenzione si
concentrava sulla Siria della porta accanto e su altre minacce
immediate. Il sostegno turco al GNA di Tripoli era limitato al
supporto diplomatico e mediatico.

L’istituzione dell’East Med Gas Forum (EMGF) all’inizio del
2019 da parte di Egitto, Grecia, Cipro, Israele, Italia,
Giordania e Autorità Palestinese (AP) ha aumentato il senso di
insicurezza della Turchia, poiché è stata esclusa da questo
accordo regionale per trasformare il Mediterraneo orientale in
un importante hub energetico.

Fu allora che la Libia era diventata, per la Turchia,
un’opportunità per contrastare gli sforzi tesi ad isolarla.
Anche la crescente ostilità da parte dell’Egitto e degli
Emirati Arabi Uniti ha accelerato questo cambiamento di
politica.

Nel novembre 2019, il governo turco ha firmato un accordo con
il GNA di Tripoli sulle giurisdizioni marittime nel
Mediterraneo, che ha modificato radicalmente i confini delle
zone economiche esclusive nel Mediterraneo orientale,
segnalando l’intenzione della Turchia di bloccare qualsiasi
progetto di esportazione di energia in Europa senza il suo
consenso. Quindi, la sopravvivenza del GNA a Tripoli divenne
un interesse centrale della Turchia. Quando Haftar ha
rinnovato la sua offensiva su Tripoli all’inizio di
quest’anno, la Turchia ha sostenuto il GNA, cambiando la
dinamica del conflitto libico.

La rivalità regionale con gli Emirati Arabi Uniti, che la
Turchia sospetta di essere coinvolta nel tentativo di colpo di
stato del 2016 e nel sostenere le YPG e il PKK, l’ha spinta
anche nel 2017 per contrastare il blocco contro il Qatar, suo
principale alleato arabo e fornitore di gas sempre più
importante.

Il governo turco ha interpretato la politica aggressiva da
parte degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita, del
Bahrain e dell’Egitto come un tentativo di effettuare un
cambio di regime a Doha, una sorta di seguito al tentativo di
colpo di stato in Turchia.

Dal 2011, Abu Dhabi, insieme ai suoi alleati a Riyadh, ha
cercato di minare l’ascesa di forze di ispirazione islamista
in tutto il mondo arabo con cui Ankara aveva trovato un
terreno comune. Sono stati proprio gli Emirati Arabi Uniti,
nel 2013 a sostenere e orchestrare il colpo di stato militare
contro il presidente democraticamente eletto dell’Egitto
Mohamed Morsi.

Dopo il fallimento del tentativo di colpo di stato in Turchia,
gli Emirati Arabi Uniti hanno esortato l’Arabia Saudita e
altri alleati regionali a porre sotto attacco il Qatar.
Sostenendo il Qatar, la Turchia difendeva se stessa e
rafforzava la sua posizione nei confronti dei suoi rivali. Il
parlamento turco si è affrettato a ratificare l’accordo
militare con Doha e le truppe sono state inviate nel paese
alleato per scoraggiare una possibile azione militare saudita-
emiratina.

Quindi, dietro quella che sembra essere una politica estera
turca aggressiva si cela un pragmatismo difensivo piuttosto
che l’ambizione di ripristinare la gloria ottomana. In
effetti, nella maggior parte delle sue iniziative di
proiezione regionale, la mano della Turchia è stata forzata da
circostanze esterne, piuttosto che da una spinta
espansionistica. Questa è una delle tante conseguenze del
cambio deciso dagli Stati Uniti di tirarsi fuori dal Medio
Oriente.

Fonte: al Jazeera
Traduziuone a cura di SOLLEVAZIONE
KURDISTAN:                   CHI           LA              FA
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