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Dante Alighieri
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Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di
                                                                          Dante Alighieri
Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome
Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 21 maggio e il
21 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14
settembre[1][2][3] 1321), è stato un poeta, scrittore e politico
italiano. Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo
Alighieri, è un ipocoristico di Durante[4]; nei documenti era
seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de
Alagheriis, mentre la variante "Alighieri" si affermò solo con
l'avvento di Boccaccio.

È considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è
dovuta alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come
Divina Commedia e universalmente considerata la più grande
opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori
della letteratura mondiale.[5] Espressione della cultura
medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la
Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana,
che si concreta nel toccare i drammi dei dannati, le pene           Sandro Botticelli, Dante Alighieri,
purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire    tempera su tela, 1495, Ginevra,
al lettore uno spaccato di morale ed etica.                               collezione privata

Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò
                                                                    Priore del Comune di Firenze
all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la
letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura     Durata mandato 15 giugno 1300 –
occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo                             15 agosto 1300
Poeta" o, per antonomasia, il "Poeta".[6] Dante, le cui spoglie
si trovano presso la tomba a Ravenna costruita nel 1780 da         Membro del Consiglio dei Cento
Camillo Morigia, è diventato uno dei simboli dell'Italia nel
                                                                   Durata mandato maggio 1296 –
mondo, grazie al nome del principale ente della diffusione
della lingua italiana, la Società Dante Alighieri,[7] mentre gli                  settembre 1296
studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società
dantesca.                                                                     Dati generali
                                                                      Professione scrittore, politico

Indice
Biografia
   Le origini
        La data di nascita e il mito di Boccaccio
        La famiglia paterna e materna
   La formazione intellettuale
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I primi studi e Brunetto Latini
        Lo studio della filosofia
        I presunti legami con Bologna e Parigi
        La lirica volgare. Dante e l'incontro con
        Cavalcanti
    Il matrimonio con Gemma Donati
    Impegni politici e militari
         Lo scontro con Bonifacio VIII (1300)
    L'inizio dell'esilio (1301-1304)
         Carlo di Valois e la caduta dei bianchi
         I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra
         (1304)
    La prima fase dell'esilio (1304-1310)
         Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina
    La discesa di Arrigo VII (1310-1313)
         Il Ghibellin fuggiasco
    Gli ultimi anni
         Il soggiorno veronese (1313-1318)
         Il soggiorno ravennate (1318-1321)
    La morte e i funerali
Le spoglie mortali
    Le "tombe" di Dante
    Le travagliate vicende dei resti
    Il vero volto di Dante
Il pensiero
     Il ruolo del volgare e l'ottica "civile" della
     letteratura
     La poetica
          Il «plurilinguismo» dantesco
          Lo Stilnovismo dantesco: tra biografismo e
          spiritualizzazione
          Beatrice e la «donna angelo»
          Dalle rime «amorose» a quelle «petrose»
     Le fonti e i modelli letterari
          Dante e il mondo classico
          L'iconografia medievale
          Dante tra cristianesimo e Islam
     Il ruolo della filosofia nella produzione dantesca
          Aristotele nella produzione poetica
          Aristotele nella produzione socio-politica
          L'esoterismo dantesco
          L'eresia dantesca
Opere
   Il Fiore e Detto d'Amore
   Le Rime
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Vita Nova
     Convivio
     De vulgari eloquentia
     De Monarchia
     Commedia
     Le Epistole e l'Epistola XIII a Cangrande della
     Scala
     Egloghe
     La Quaestio de aqua et terra
La fortuna in Italia e nel mondo
    In Italia
    Nel mondo
Dante nella cultura di massa
Note
Bibliografia
Discografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni

Biografia

Le origini

La data di nascita e il mito di Boccaccio

La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche
se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è
ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella
Vita Nova e nella cantica dell'Inferno, che comincia con il
celeberrimo verso Nel mezzo del cammin di nostra vita. Poiché la
metà della vita dell'uomo è, per Dante, il trentacinquesimo anno di
vita[8][9] e poiché il viaggio immaginario avviene nel 1300, si
risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei
critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante,    Casa di Dante a Firenze
lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nella sua Nova
Cronica, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di
Firenze in età di circa 56 anni»[10]: una prova che confermerebbe tale idea. Alcuni versi del Paradiso ci
dicono inoltre che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e
il 21 giugno[11].

Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266,
di Sabato santo[12]. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne
cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di
un parente ghibellino[13]. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Giovanni Boccaccio ne Il
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Trattatello in laude di Dante riguardo alla nascita del poeta: secondo Boccaccio, la madre di Dante, poco
prima di darlo alla luce, ebbe una visione e sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto
prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito e di vedere il bimbo tendere
la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone[14][15].

La famiglia paterna e materna

Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria
importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina che, negli ultimi
due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché
Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi
Romani,[16] il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo
Cacciaguida degli Elisei[17], fiorentino vissuto intorno al 1100 e
cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado
III[18].

Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la
famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia
della moglie di Cacciaguida)[18] passò da uno status nobiliare            Luca Signorelli, Dante, affresco,
meritocratico[19] a uno borghese agiato, ma meno prestigioso sul          1499-1502, particolare tratto dalle
piano sociale[20]. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, era infatti    Storie degli ultimi giorni, cappella di
un popolano e un popolano sposò la sorella di Dante[15]. Il figlio di     San Brizio, Duomo di Orvieto
Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di
Bellincione, svolgeva la professione di compsor (cambiavalute),
con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia[21][22]. Grazie alla scoperta di due
pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, però, si viene a sapere che il padre di Dante
avrebbe fatto anche l'usuraio (dando adito alla tenzone tra l'Alighieri e l'amico Forese Donati[23]), traendo
degli arricchimenti tramite la sua posizione di procuratore giudiziale presso il tribunale di Firenze[24]. Era
inoltre un guelfo, ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di
Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso[15].

La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati, figlia di Durante Scolaro[25][26] e appartenente a
un'importante famiglia ghibellina locale[15]. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che
di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni e
Alighiero presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278[27], con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo
matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana) e forse anche – ma potrebbe essere stata anche
figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino
Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi[27]. Si ritiene che a lei alluda Dante in Vita nuova (Vita
nova) XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade
congiunta»[27].

La formazione intellettuale

I primi studi e Brunetto Latini

Della formazione di Dante non si conosce molto. Con ogni probabilità seguì l'iter educativo proprio
dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor
puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo
studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale[28][29]: aritmetica, geometria, musica,
astronomia da un lato (quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (trivio). Come si può dedurre
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da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del
sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto
la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone
e di Virgilio da un lato e del latino medievale dall'altro (Arrigo da
Settimello, in particolare)[30].

L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti
"informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati
ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti
stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e
letterarie dei rispettivi Paesi d'origine[30]. Dante ebbe la fortuna di    Codice miniato raffigurante Brunetto
incontrare, negli anni ottanta, il politico ed erudito fiorentino Ser      Latini, Biblioteca Medicea-
Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come          Laurenziana, Plut. 42.19, Brunetto
ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico .         [31]   Latino, Il Tesoro, fol. 72, secoli XIII-
L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata            XIV
oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni[32] prima, e di
Giorgio Inglese poi[33]. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono
di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante,
da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto
ricevuto:

      «[...] e or m'accora,
      la cara e buona imagine paterna
      di voi quando nel mondo ad ora ad ora
      m'insegnavate come l'uom s'etterna [...]»

      (Inferno, Canto XV, vv. 82-85)

Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso
"civico"[28][34], nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo
anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il
messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione
toscana dell'opera realizzata da Bono Giamboni[35].

Lo studio della filosofia

      «E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si
      dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li
      filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la
      sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.»

      (Convivio, 12 7)

Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295)[36],
cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa
Maria Novella e dai francescani di Santa Croce; se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da
Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a
Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami)[37] il
Filosofo per eccellenza della cultura medievale[38]. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si
opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità
«polifonica dell'aristotelismo»[39].
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I presunti legami con Bologna e Parigi

Alcuni critici ritengono che Dante abbia soggiornato a Bologna[40].
Anche Giulio Ferroni ritiene certa la presenza di Dante nella città
felsinea: «Un memoriale bolognese del notaio Enrichetto delle
Querce attesta (in una forma linguistica locale) il sonetto Non mi
poriano già mai fare ammenda: la circostanza viene considerata
indizio pressoché certo di una presenza di Dante a Bologna
anteriore a questa data»[41]. Entrambi ritengono che Dante abbia
studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in
proposito[42].

Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra
l'estate del 1286 e quella del 1287, dove conobbe Bartolomeo da
                                                                           Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da
Bologna[43], alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in
                                                                           destra: Cavalcanti, Dante,
parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece
                                                                           Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia
parecchi dubbi: in un passo del Paradiso, (Che, leggendo nel Vico
                                                                           e Guittone d'Arezzo), pittura a olio,
de li Strami, silogizzò invidïosi veri)[44], Dante alluderebbe alla Rue    1544, conservata presso il
du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha         Minneapolis Institute of Art,
fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente                    Minneapolis. Considerato uno dei
congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il     maggiori lirici volgari del XIII secolo,
1309 e il 1310[45][46].                                                    Cavalcanti fu la guida e il primo
                                                                           interlocutore poetico di Dante,
                                                                           quest'ultimo poco più giovane di lui.
La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti

Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria
ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni sessanta del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi
della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò
le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo
da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche
verso la politica e l'impegno civile. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali
esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro
Davanzati[47], il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a
Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso
nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica
più dolce e soave: il dolce stil novo.

Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur
tenue)[48] sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta[49], sia con quella più schiettamente
occitana[50]. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito
dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti[51].

Il matrimonio con Gemma Donati

Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer
Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285[28][52]. Contrarre matrimoni in età
così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che
richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati –
era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo
schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri.
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Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta
propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani[53]. Dante non scrisse infatti un solo verso alla moglie,
mentre di costei non ci sono pervenute notizie sull'effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio.
Comunque sia, l'unione generò due figli e una figlia: Jacopo, Pietro, Antonia e un possibile quarto,
Giovanni[52][54]. Dei tre certi, Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in
quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di
Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna[52].

Impegni politici e militari

Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come
cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava
conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di
Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16
agosto 1289)[28]. Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte
della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò
(figlio di Carlo II d'Angiò) che nel frattempo si trovava a
Firenze[56]. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni
1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel
1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano
Della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e
permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica,
                                                                               Giovanni Villani, Corso Donati fa
purché iscritti a un'Arte. Dante, in quanto nobile, fu escluso dalla
                                                                               liberare dei prigionieri, in Cronaca,
politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono
                                                                               XIV secolo. Corso Donati, esponente
promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di
                                                                               di punta dei Neri, fu acerrimo nemico
rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti[28].
                                                                               di Dante, il quale lancerà contro di lui
Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali[57].
                                                                               violenti attacchi nei suoi scritti[55].

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i
verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso
altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre
1295 all'aprile 1296[58]; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per
l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il
ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del
Consiglio dei Cento[58]. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San
Gimignano[59]. Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra
il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello
invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi[60].
La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica
nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu)[60], generò una
guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi[58].

Lo scontro con Bonifacio VIII (1300)

Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto[58][61]. Nonostante
l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa
Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con
l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito
per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri)[62], Dante riuscì ad
ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui
furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di
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quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti[63] che di lì a poco
morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni
sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione
inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria,
il posto destinato al loro confino)[64], ma fece rischiare un colpo di
Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del
cardinale d'Acquasparta[64]. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi
fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la
diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita
inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo
stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il
governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese
di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece
parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi[64],
mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale
cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze[64].
Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come               Arnolfo di Cambio, statua di
nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale              Bonifacio VIII, 1298 ca, conservato
d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di                   presso il Museo dell'Opera del
distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui           Duomo, Firenze
faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso
Minerbetti e da Corazza da Signa[62].

L'inizio dell'esilio (1301-1304)

Carlo di Valois e la caduta dei bianchi

Dante si trovava quindi a Roma[66], sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di
Valois, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di
mano. Il 9 novembre 1301 i conquistatori imposero come podestà Cante Gabrielli da Gubbio[67], il quale
apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e quindi diede inizio a una politica di sistematica
persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro
uccisione o nell'espulsione da Firenze. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10
marzo 1302[58], che colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi, il poeta fu condannato,
in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria.

      «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique
      pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa,
      interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si
      prende, al rogo, così che muoia”»

      (Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302[68])

I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304)

Dopo i falliti tentati colpi di mano del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò
insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era
rifugiato)[69], un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze,
Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia di
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Castel Pulciano. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del
1304, del cardinale Niccolò da Prato[70], legato pontificio di papa
Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze)[71], il
20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località
a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo
attacco militare contro i neri[72]. Dante, ritenendo corretto aspettare
un momento politicamente più favorevole, si schierò contro
l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più
intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento;
pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le
distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di
Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento
uomini fra ghibellini e bianchi[72]. Il messaggio profetico ci arriva
da Cacciaguida:

      «Di sua bestialitate il suo processo
      farà la prova; sì ch'a te fia bello                                  Tommaso da Modena, Benedetto XI,
      averti fatta parte per te stesso.»                                   affresco, anni '50 del XIV secolo,
                                                                           Sala del Capitolo, Seminario di
      (Paradiso XVII, vv. 67-69)                                           Treviso. Il beato papa Boccasini,
                                                                           trevigiano, nel suo breve pontificato
                                                                           cercò di riportare la pace all'interno di
La prima fase dell'esilio (1304-1310)                                      Firenze, inviando il cardinale Niccolò
                                                                           da Prato come paciere. È l'unico
                                                                           pontefice su cui Dante non proferì
Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina
                                                                           alcuna condanna, ma neanche verso
                                                                           il quale manifestò pieno
Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e
                                                                           apprezzamento, tanto da non
famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno
                                                                           comparire nella Commedia[65].
forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a
Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca
Trevigiana[45] presso Gherardo III da Camino[73]. Da qui, Dante fu
chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di
Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo
nome)[74], col quale il poeta entrò forse in contatto grazie all'amico
comune, il poeta Cino da Pistoia[75]. In Lunigiana (regione in cui
giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di
negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i
Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da
Camilla (1297 – 1307)[76]. In qualità di procuratore plenipotenziario
dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di      Il castello-palazzo vescovile di
Castelnuovo del 6 ottobre del 1306[46][76], successo che gli fece          Castelnuovo dove Dante nel 1306
guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità     pacificò i rapporti tra i Marchesi
malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al            Malaspina e i Vescovi-Conti di Luni
termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado
Malaspina il Giovane l'elogio del casato[77]:

      «[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin
      dispregia.»

      (Pg VIII, vv. 127-132)
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Nel 1307[78], dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite dei conti
Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno[46].

La discesa di Arrigo VII (1310-1313)

Il Ghibellin fuggiasco

Il soggiorno nel casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il
1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e
poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il
soggiorno transalpino come già precedentemente esposto. Dante,
molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310[79], dove ebbe
la notizia, nel mese di ottobre[46], della discesa in Italia del nuovo
imperatore Arrigo VII. Dante guardò a quella spedizione con                Monumento a Dante Alighieri a
grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine             Villafranca in Lunigiana presso la
                                                                           tomba sacello dei Malaspina
dell'anarchia politica italiana[80], ma anche la concreta possibilità di
rientrare finalmente a Firenze[46]. Infatti l'imperatore fu salutato dai
ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che
spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana
capeggiata dagli Scaligeri di Verona[81]. Dante, che tra il 1308 e il
1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte
simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini
il 31 marzo del 1311[46] e giungendo, sulla base di quanto affermato
nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore
stesso in un colloquio privato[82]. Non sorprende, pertanto, che Ugo
Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino:

      «E tu prima, Firenze, udivi il carme
      Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.»

      (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173-174)
                                                                           François-Xavier Fabre, Ritratto di
Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24
                                                                       Ugo Foscolo, pittura, 1813,
agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare,                  Biblioteca Nazionale Centrale di
improvvisamente, a Buonconvento[83]. Se già la morte violenta di       Firenze
Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di
Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi
neri)[78], aveva fatto crollare le speranze di Dante, la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai
tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze[78].

Gli ultimi anni

Il soggiorno veronese (1313-1318)

All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a
risiedere presso la sua corte di Verona[46]. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città
veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari
danteschi e poi nella Vita di Dante[84] ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e
il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di
Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304,
Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore,
Alboino, non era in buoni rapporti col poeta[85]. Alla morte di
Alboino, nel 1312, divenne suo successore il fratello Cangrande[86],
tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di
Dante[86]. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé
l'esule fiorentino e i suoi figli, dando loro sicurezza e protezione dai
vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i
due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso –
composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il
suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo
Cacciaguida:

      «Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello
      sarà la cortesia del gran Lombardo
      che 'n su la scala porta il santo uccello;                           Cangrande della Scala, in un ritratto
      ch'in te avrà sì benigno riguardo,                                   immaginario del XVII secolo.
                                                                           Abilissimo politico e grande
      che del fare e del chieder, tra voi due,
                                                                           condottiero, Cangrande fu mecenate
      fia primo quel che tra l'altri è più tardo
                                                                           della cultura e dei letterati in
      [...]                                                                particolare, stringendo amicizia con
                                                                           Dante.
      Le sue magnificenze conosciute
      saranno ancora, sì che' suoi nemici
      non ne potran tener le lingue mute.
      A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
      per lui fia trasmutata molta gente,
      cambiando condizion ricchi e mendici;»

      (Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90)

Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta
probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore
Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il
suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il
1316[87].

Il soggiorno ravennate (1318-1321)

Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la
corte di Guido Novello da Polenta. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di
Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre
ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore[88]; altri pongono le cause in
una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i
quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale[89]. Tuttavia, i rapporti con Verona non
cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per
discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina[90].
Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella
città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario
frequentato dai figli Pietro e Jacopo[91][92] e da alcuni giovani
letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini[93].
Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie
politiche[94], come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la
città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi
continui alle sue navi da parte delle galee ravennati[95] e il doge,
infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello;
questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per
                                                                          Andrea Pierini, Dante legge la Divina
fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui
                                                                          Commedia alla corte di Guido
davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché
                                                                          Novello, 1850, dipinto a olio, Palazzo
Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta
                                                                          Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze
come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto
Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori
di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per
comporre le divergenze in campo[96].

La morte e i funerali

L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno
dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio[78]. Le febbri
portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il
14 settembre 1321[78][97]. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore
(oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli[98]. La morte
improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia
nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte[99].

Le spoglie mortali

Le "tombe" di Dante

Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella
chiesa ove si tennero i funerali[100]. Quando la città di Ravenna
passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo
Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro
Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che
ornasse la tomba del poeta[100]. Ritornata la città, al principio del
XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le
sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel
corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi
per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro
versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le
Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati,
entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla[101].
Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu
rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa,      La tomba di Dante a Ravenna,
                                                                          realizzata da Camillo Morigia
cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel
1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile[100].

Le travagliate vicende dei resti

I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la
sua morte, quando l'autore della Commedia fu "riscoperto" dai suoi concittadini grazie alla propaganda
operata da Boccaccio[102]. Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso
(già nel 1429 il Comune richiese ai Da Polenta la restituzione dei resti[103]), i ravennati volevano che
rimanessero nel luogo dove il poeta morì[104], ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo
che avevano dispregiato in vita. Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze
(rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII)[104], i frati francescani[105] tolsero
le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto[104] e rendendo poi,
di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio. Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli
ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i
resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell'attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte[104]. Le
spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in
occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola
cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677)[104], le quali
riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante. Effettivamente, all'interno della cassetta fu
ritrovato uno scheletro pressoché integro[106]; si provvide allora a riaprire l'urna nel tempietto del Morigia,
che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi[107], che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta
murata, certificandone l'effettiva autenticità[107]. La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in
un'urna di cristallo e quindi ritumulata all'interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da
un cofano di piombo. Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova l'epigrafe in versi latini dettati
da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357[108]:

      (LA)                                                  (IT)

      «Iura Monarchiae, Superos Flegetonta,                 «I diritti della monarchia, gli dei superni e
      lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata             la palude del Flegetonte visitando cantai
      quousque. Sed quia pars cessit melioribus             finché volle il destino. Poiché però l'anima
      hospita castris Auctoremque suum petiit               andò ospite in luoghi migliori, ed ancor
      feliciter astris, H ic clauditur D antes, patriis     più beata raggiunse tra le stelle il suo
      exterris ab oris, Quem genuit parvi Florentia         Creatore, qui sta racchiuso Dante, esule
      mater amoris.»                                        dalla patria terra, che generò Firenze,
                                                            madre di poco amore.»

      (Epigrafe)

Il vero volto di Dante

Come si può ben vedere dai vari dipinti a lui dedicati, il volto del poeta era assai spigoloso, con la faccia
torva e col celeberrimo naso aquilino, come figura nel dipinto di Botticelli posto nella sezione introduttiva.
Fu Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, a fornire questa descrizione fisica:

      «Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura [...] Il suo volto fu lungo, e il naso
      aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era
      quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi,
      e sempre nella faccia malinconico e pensoso.»
(Trattatello in laude di Dante, XX )

Gli studi compiuti dagli antropologi, però, smentirono gran parte
della letteratura artistica dantesca nel corso dei secoli. Nel 1921, in
occasione del seicentenario della morte di Dante, l'antropologo
dell'Università di Bologna Fabio Frassetto fu autorizzato dalle
autorità a studiare il cranio del poeta, risultato mancante della
mandibola[110]. Nonostante i mezzi dell'epoca e un risultato di
indagine non pienamente soddisfacente, Frassetto può già dedurre
che il volto "psicologico" tramandatoci nel corso dei secoli non
corrisponde a quello "fisico". Difatti nel 2007, grazie a una squadra
guidata da Giorgio Gruppioni, antropologo sempre dell'Università
di Bologna, si riuscì a realizzare un volto i cui tratti somatici
corrisponderebbero al 95% a quello reale[110]. Partendo dal cranio
                                                                             Il più antico ritratto documentato di
ricostruito da Frassetto, il volto reale di Dante è risultato (grazie al
                                                                             Dante Alighieri conosciuto, Palazzo
contributo del biologo dell'Università di Pisa Francesco Mallegni e          dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze.
dello scultore Gabriele Mallegni)[111] sicuramente non bello, ma             Databile intorno al 1336-1337,
privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti di età             l'affresco è di scuola giottesca[109]
rinascimentale e molto più vicino a quello, risalente pochi anni             ed è il ritratto iconografico del poeta
dopo la morte del poeta, di scuola giottesca.                                più vicino a quello ricostruito nel
                                                                             2007.
Il pensiero

Il ruolo del volgare e l'ottica "civile" della
letteratura

Il ruolo della lingua volgare, definita da Dante nel De Vulgari come
Hec est nostra vera prima locutio[112] («il nostro primo vero
linguaggio», nella traduzione italiana)[113], fu fondamentale per lo
sviluppo del suo programma letterario. Con Dante, infatti, il volgare
assunse lo stato di lingua colta e letteraria, grazie alla ferrea volontà,
da parte del poeta fiorentino, di trovare un veicolo linguistico
comune tra gli italiani, perlomeno tra i governanti[114]. Egli, nei
primi passi del De Vulgari, esporrà chiaramente la sua predilezione
per la lingua colloquiale e materna rispetto a quella latina, finta e
artificiale:

      (LA)                               (IT)

      «Harum quoque duarum               «La più nobile di queste
      nobilior est vulgaris: tum         due lingue è il volgare,
      quia prima fuit humano             sia perché fu la prima a
      generi usitata; tum quia           essere usata dal genere             Andrea del Castagno, Dante
      totus       orbis      ipsa        umano, sia perché tutto             Alighieri, ne Ciclo degli uomini e
      perfruitur,     licet     in       il mondo ne fruisce (pur            donne illustri, affresco, tra il 1448 e il
      diversas prolationes et            nelle    diversità    di            1451, Galleria degli Uffizi, Firenze
      vocabula sit divisa; tum           pronuncia       e     di
      quia naturalis est nobis,          vocabolario     che   la
      cum illa potius artificialis
      existat.»
dividono), sia perché ci
                                        è naturale, mentre l’altra
                                        è piuttosto artificiale.»

      (De Vulgari Eloquentia I, 1,4)

Proposito della produzione letteraria volgare dantesca è infatti quella di essere fruibile da parte del pubblico
dei lettori, cercando di abbattere il muro tra i ceti colti (abituati a interagire fra di loro in latino) e quelli più
popolari, affinché anche questi ultimi potessero apprendere contenuti filosofici e morali fino ad allora
relegati nell'ambiente accademico. Si ha quindi una visione della letteratura intesa come strumento al
servizio della società, come verrà esposto programmaticamente nel Convivio:

      «E io adunque... a' piedi di coloro che seggiono [nella mensa dei dotti] ricolgo di quello
      che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la
      dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso,
      non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già
      è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.»

      (Convivio, I, 10)

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune delle sue opere possono avere influito
notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui
parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di
Albertano da Brescia[115].

La poetica

Il «plurilinguismo» dantesco

Con questa felice espressione, il critico letterario Gianfranco Contini ha individuato la straordinaria
versatilità di Dante, all'interno delle Rime, nel saper usare più registri linguistici con disinvoltura e grazia
armonica[116]. Come già esposto prima, Dante manifesta un'aperta curiosità per la struttura "genetica" della
lingua materna degli italiani, concentrandosi sulle espressioni dell'eloquio quotidiano, sui motti e battute più
o meno raffinate. Questa tendenza a inquadrare la ricchezza testuale della lingua materna spinge il letterato
fiorentino a realizzare un affresco variopinto finora mai creato nella lirica volgare italiana, come esposto
lucidamente da Giulio Ferroni:

      «Rispetto alla produzione poetica del volgare italiano della seconda metà del secolo
      XIII, la Commedia amplia notevolmente gli orizzonti sintattici e lessicali: la varietà
      stilistica... crea una variazione di registri, attingendo sia alla lingua bassa sia a quella
      nobile. Dante trae spunti dalla letteratura latina... o da quella in volgare, ma nello stesso
      tempo ha uno spiccato interesse per il linguaggio parlato, colloquiale, anche nelle
      forme più vivaci, aggressive e popolaresche.»

      (Ferroni, p. 28)

Come rimarca Guglielmo Barucci: «Non siamo dunque di fronte [nelle Rime] a una progressiva evoluzione
dello stile di Dante, ma alla compresenza – anche nello stesso periodo – di forme e stili diversi»[117]. La
capacità con cui Dante passa, all'interno delle Rime, dalle tematiche amorose a quelle politiche, da quelle
morali a quelle burlesche, troverà il supremo raffinamento
all'interno della Commedia, riuscendo a calibrare la tripartizione
stilistica denominata Rota Vergilii, secondo la quale a un
determinato argomento deve corrispondere un determinato registro
stilistico[118]. Nella Commedia, in cui le tre cantiche corrispondono
ai tre stili "umile", "mezzano" e "sublime", la rigida tripartizione
teorica scema davanti alle esigenze narrative dello scrittore, per cui
all'interno dell'Inferno (che dovrebbe corrispondere allo stile più
basso), troviamo passi e luoghi di altissima levatura stilistica e
drammatica, quali l'incontro con Francesca da Rimini e Ulisse. Il
plurilinguismo, secondo un'analisi più strettamente lessicale, risente
anch'esso dei numerosi idiomi di cui era infarcita la lingua letteraria
dell'epoca: vi si trovano infatti latinismi, gallicismi e, ovviamente,
volgare fiorentino[119].

Lo Stilnovismo dantesco: tra biografismo e
                                                                          Raffaello Sanzio, Disputa del
spiritualizzazione
                                                                          Sacramento, dettaglio raffigurante
Dante ebbe un ruolo fondamentale nel far approdare la lirica              Dante, 1509-1510 ca, Stanza della
volgare a nuove conquiste, non soltanto dal punto di vista tecnico-       Segnatura, Palazzo Pontificio,
                                                                          Vaticano. Raffaello inserisce Dante
linguistico, ma anche da quello prettamente contenutistico. La
                                                                          tra teologi e dottori della Chiesa, in
spiritualizzazione della figura dell'amata Beatrice e l'impianto
                                                                          quanto il poeta fiorentino era ritenuto
vagamente storico in cui la vicenda amorosa è inserita,
                                                                          filosofo e teologo di chiara fama per
determinarono la nascita di tratti del tutto particolari all'interno dello
                                                                          le opere da lui lasciate in materia
stilnovismo[120]. La presenza della figura idealizzata della donna
                                                                          religiosa.
amata (la cosiddetta donna angelo) è un topos ricorrente in Lapo
Gianni, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia, ma in Dante assume
una dimensione più storicizzata di quella degli altri rimatori[121]. La produzione dantesca, per la sua
profondità filosofica può essere confrontata soltanto con quella del maestro Cavalcanti, rispetto alla quale la
divergenza consiste nella differente concezione dell'amore. Se Beatrice è l'angelo che opera la conversione
spirituale di Dante sulla Terra e che gli dona la beatitudine celeste[122], la donna amata da Cavalcanti è
invece foriera di sofferenza, dolore che allontanerà progressivamente l'uomo da quella catarsi divina
teorizzata dall'Alighieri[123]. Altro traguardo raggiunto da Dante è l'aver saputo far emergere l'introspezione
psicologica e l'autobiografismo: praticamente ignoti al Medioevo, queste due dimensioni guardano già al
Petrarca e, più lontano ancora, alla letteratura umanistica. Dante così è il primo, tra i letterati italiani, a
"scomporsi" tra il sé inteso come personaggio e l'altro io inteso come narratore delle proprie vicende. Così
Contini, riprendendo il filo tracciato dallo studioso statunitense Charles Singleton, parla dell'operazione
poetica e narrativa dantesca:

      «Va citato a titolo d'onor l'italianista americano Charles Singleton, che in un suo saggio
      penetrante... ha notato come nell'io di Dante... convergano l'uomo in generale, soggetto
      del vivere e dell'agire, e l'individuo storico, titolare di un'esperienza determinata hic et
      nunc, in un certo spazio e in un certo tempo; Io trascendentale (con la maiuscola),
      diremmo oggi, e io (con la minuscola) esistenziale.»

      (Gianfranco Contini, Un'idea di Dante, pp. 34-35)

Beatrice e la «donna angelo»
«L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha
      tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più
      nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale
      celeste che a realtà distinta e che procura effetti proprii. Uno sguardo, un saluto è tutta
      la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non
      ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un
      sospiro.»

      (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano, Napoli 1890, p. 59. )
                                                                                Henry Holiday, Dante incontra
Così De Sanctis, padre della storiografia letteraria italiana, scrisse          Beatrice al ponte Santa Trinita,
                                                                                dipinto a olio, 1883, Walker Art
sulla donna amata dal poeta, Beatrice. Benché si cerchi tutt'oggi di
                                                                                Gallery, Liverpool
comprendere in che cosa consistesse realmente, per Dante, l'amore
nei confronti di Beatrice Portinari (presunta identificazione storica
della Beatrice della Vita Nova), si può solo concludere con certezza
l'importanza che tale amore ebbe per la cultura letteraria italiana. È nel nome di questo amore che Dante ha
dato la sua impronta al Dolce stil novo, aprendo la sua "seconda fase poetica" (in cui manifesta la sua piena
originalità rispetto ai modelli passati)[124] e conducendo i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore in
un modo mai così enfatizzato prima. L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca
mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione del suo manifesto poetico, nuova
concezione dell'amor cortese sublimato dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi
arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi) e, pertanto,
privata degli elementi sensuali e carnali tipici della lirica provenzale. Tale formulazione poetica, culminata
con la poesia della lode[125], approderà, dopo la morte della Beatrice "terrena", alla ricerca filosofica prima
(la Donna pietosa) e a quella teologica poi (l'apparizione in sogno di Beatrice che spinge Dante a ritornare
a lei dopo il traviamento filosofico, critica che si farà più dura in Purgatorio, XXX)[126]. Tale
allegorizzazione dell'amata, intesa come veicolo di salvezza, segna definitivamente il distacco dalla tematica
amorosa e spinge Dante verso la vera sapienza, cioè luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel
Paradiso. Beatrice si conferma, pertanto, in quel ruolo salvifico tipico degli angeli, che reca non solo
all'amato, ma a tutti gli uomini quella beatitudine di cui si accennava prima[127].

Mantenendo una funzione allegorica, Dante frappone un valore numerologico alla figura di Beatrice. È
infatti all'età di nove anni che la incontra per la prima volta, poi nell'ora nona avviene un successivo
incontro. Di lei dirà pure: «non soffre di stare in un altro numero se non nel nove». Dante fa morire
Beatrice il 9 giugno (pur essendo in realtà l'8) scrivendo su di essa: «lo perfetto numero era compiuto».[128]

Dalle rime «amorose» a quelle «petrose»

Dopo la fine dell'esperienza amorosa, Dante si concentrò sempre più su una poesia caratterizzata dalla
riflessione filosofico-politica, che assumerà tratti duri e sofferenti nelle rime della seconda metà degli anni
novanta, chiamate anche rime «petrose», in quanto incentrate sulla figura di una certa «donna petra»,
completamente antitetica alle "donne che avete intelletto d'Amore"[129]. Infatti, come riportano Salvatore
Guglielmino e Hermann Grosser, la poesia dantesca perse quella dolcezza e leggiadria propria della lirica
della Vita nova, per assumere connotati aspri e difficili:

      «... l'esperienza delle rime petrose, che si riallacciano all'esperienza del trobar clus
      [poetare difficile] di Arnaut Daniel, costituisce un fondamentale esercizio di stile aspro
      (di contro a quello dolce dello stilnovismo).»

      (Guglielmino-Grosser, p. 151)
Le fonti e i modelli letterari

Dante e il mondo classico

Dante ebbe un profondo amore nei confronti dell'antichità classica
e della sua cultura: ne sono prova la devozione per Virgilio,
l'altissimo rispetto per Cesare e per le numerose fonti greche e latine
da lui usate per la costruzione del mondo immaginario della
Commedia (e di cui la citazione de «li spiriti magni» in If IV sono
un riferimento esplicito degli autori su cui si poggiava la cultura
dantesca)[130]. Nella Commedia, il poeta glorifica l'élite morale e
intellettuale del mondo antico nel Limbo, luogo piacevole e ameno
alle porte dell'Inferno dove i giusti morti senza battesimo vivono,
senza però non provare dolore per la mancata beatitudine[131]. Al
contrario di quanto faranno Petrarca e Boccaccio, Dante si dimostrò
un uomo ancora legato appieno alla visione medievale che l'uomo
aveva della civiltà greca e latina, poiché inquadrava quest'ultima
all'interno della storia della salvezza propugnata dal cristianesimo,        Rafael Flores, Dante y Virgilio
certezza basata sulla dottrina medievale dell'esegesi detta dei              visitando el Infierno, pittura a olio,
quattro sensi (letterale, simbolico, allegorico e anagogico) con cui si      1855, Museo nacional de arte, Città
cercava di individuare il messaggio cristiano negli autori                   del Messico
antichi[132]. Virgilio è visto da Dante non nella sua dimensione
storica e culturale di intellettuale latino dell'età augustea, quanto in
quella profetico-soteriologica[133]: fu lui, infatti, a predire la nascita
di Gesù Cristo nella IV Egloga delle Bucoliche e così fu glorificato
dai cristiani medievali[134]. Oltre a questa dimensione mitica della
figura di Virgilio, Dante guardò a lui come supremo modello
letterario e morale, come evidenziato nel proemio del Poema:

      «O de li altri poeti onore e lume,
      vagliami 'l lungo studio e l' grande amore
      che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
                                                                             Gustave Doré, Lucifero, 1861-1868.
      Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
                                                                             L'incisione dell'artista francese
      tu se' solo colui da cu' io tolsi
                                                                             riprende la descrizione fatta dal
      lo bello stilo che m'ha fatto onore.»
                                                                             poeta in If XXXIV, la quale a sua
      (Inferno, If I, 82-87)                                                 volta era tratta da un affresco
                                                                             presente nel Battistero di San
                                                                             Giovanni.
L'iconografia medievale

Dante fu influenzato moltissimo dal mondo che lo circondava, traendo spunto sia dalla dimensione artistica
in senso stretto (busti, bassorilievi e affreschi presenti nelle chiese), sia da quanto poteva vedere nella sua
vita quotidiana. Barbara Reynolds riporta di come

      «Dante [fosse] aduso a casi di tortura, morte di stenti, omicidio, tradimento, adulterio,
      sodomia e bestialità. Immagini del male si trovavano illustrate ovunque. La cupola del
      [battistero di San Giovanni Battista], ad esempio, era decorata a mosaici...ove si
      trovavano raffigurati l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il giudizio universale e, di
      particolare rilevanza nella Commedia, una grottesca immagine di Satana [...] I diavoli e
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