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Dante Alighieri Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Dante Alighieri Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre[1][2][3] 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano. Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, è un ipocoristico di Durante[4]; nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheriis, mentre la variante "Alighieri" si affermò solo con l'avvento di Boccaccio. È considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è dovuta alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia e universalmente considerata la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale.[5] Espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana, che si concreta nel toccare i drammi dei dannati, le pene Sandro Botticelli, Dante Alighieri, purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire tempera su tela, 1495, Ginevra, al lettore uno spaccato di morale ed etica. collezione privata Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò Priore del Comune di Firenze all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura Durata mandato 15 giugno 1300 – occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo 15 agosto 1300 Poeta" o, per antonomasia, il "Poeta".[6] Dante, le cui spoglie si trovano presso la tomba a Ravenna costruita nel 1780 da Membro del Consiglio dei Cento Camillo Morigia, è diventato uno dei simboli dell'Italia nel Durata mandato maggio 1296 – mondo, grazie al nome del principale ente della diffusione della lingua italiana, la Società Dante Alighieri,[7] mentre gli settembre 1296 studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società dantesca. Dati generali Professione scrittore, politico Indice Biografia Le origini La data di nascita e il mito di Boccaccio La famiglia paterna e materna La formazione intellettuale
I primi studi e Brunetto Latini Lo studio della filosofia I presunti legami con Bologna e Parigi La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti Il matrimonio con Gemma Donati Impegni politici e militari Lo scontro con Bonifacio VIII (1300) L'inizio dell'esilio (1301-1304) Carlo di Valois e la caduta dei bianchi I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304) La prima fase dell'esilio (1304-1310) Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina La discesa di Arrigo VII (1310-1313) Il Ghibellin fuggiasco Gli ultimi anni Il soggiorno veronese (1313-1318) Il soggiorno ravennate (1318-1321) La morte e i funerali Le spoglie mortali Le "tombe" di Dante Le travagliate vicende dei resti Il vero volto di Dante Il pensiero Il ruolo del volgare e l'ottica "civile" della letteratura La poetica Il «plurilinguismo» dantesco Lo Stilnovismo dantesco: tra biografismo e spiritualizzazione Beatrice e la «donna angelo» Dalle rime «amorose» a quelle «petrose» Le fonti e i modelli letterari Dante e il mondo classico L'iconografia medievale Dante tra cristianesimo e Islam Il ruolo della filosofia nella produzione dantesca Aristotele nella produzione poetica Aristotele nella produzione socio-politica L'esoterismo dantesco L'eresia dantesca Opere Il Fiore e Detto d'Amore Le Rime
Vita Nova Convivio De vulgari eloquentia De Monarchia Commedia Le Epistole e l'Epistola XIII a Cangrande della Scala Egloghe La Quaestio de aqua et terra La fortuna in Italia e nel mondo In Italia Nel mondo Dante nella cultura di massa Note Bibliografia Discografia Voci correlate Altri progetti Collegamenti esterni Biografia Le origini La data di nascita e il mito di Boccaccio La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell'Inferno, che comincia con il celeberrimo verso Nel mezzo del cammin di nostra vita. Poiché la metà della vita dell'uomo è, per Dante, il trentacinquesimo anno di vita[8][9] e poiché il viaggio immaginario avviene nel 1300, si risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante, Casa di Dante a Firenze lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nella sua Nova Cronica, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di Firenze in età di circa 56 anni»[10]: una prova che confermerebbe tale idea. Alcuni versi del Paradiso ci dicono inoltre che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno[11]. Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, di Sabato santo[12]. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino[13]. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Giovanni Boccaccio ne Il
Trattatello in laude di Dante riguardo alla nascita del poeta: secondo Boccaccio, la madre di Dante, poco prima di darlo alla luce, ebbe una visione e sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone[14][15]. La famiglia paterna e materna Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina che, negli ultimi due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani,[16] il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei[17], fiorentino vissuto intorno al 1100 e cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado III[18]. Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia della moglie di Cacciaguida)[18] passò da uno status nobiliare Luca Signorelli, Dante, affresco, meritocratico[19] a uno borghese agiato, ma meno prestigioso sul 1499-1502, particolare tratto dalle piano sociale[20]. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, era infatti Storie degli ultimi giorni, cappella di un popolano e un popolano sposò la sorella di Dante[15]. Il figlio di San Brizio, Duomo di Orvieto Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la professione di compsor (cambiavalute), con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia[21][22]. Grazie alla scoperta di due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, però, si viene a sapere che il padre di Dante avrebbe fatto anche l'usuraio (dando adito alla tenzone tra l'Alighieri e l'amico Forese Donati[23]), traendo degli arricchimenti tramite la sua posizione di procuratore giudiziale presso il tribunale di Firenze[24]. Era inoltre un guelfo, ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso[15]. La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati, figlia di Durante Scolaro[25][26] e appartenente a un'importante famiglia ghibellina locale[15]. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni e Alighiero presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278[27], con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana) e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi[27]. Si ritiene che a lei alluda Dante in Vita nuova (Vita nova) XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta»[27]. La formazione intellettuale I primi studi e Brunetto Latini Della formazione di Dante non si conosce molto. Con ogni probabilità seguì l'iter educativo proprio dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale[28][29]: aritmetica, geometria, musica, astronomia da un lato (quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (trivio). Come si può dedurre
da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone e di Virgilio da un lato e del latino medievale dall'altro (Arrigo da Settimello, in particolare)[30]. L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti "informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e letterarie dei rispettivi Paesi d'origine[30]. Dante ebbe la fortuna di Codice miniato raffigurante Brunetto incontrare, negli anni ottanta, il politico ed erudito fiorentino Ser Latini, Biblioteca Medicea- Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come Laurenziana, Plut. 42.19, Brunetto ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico . [31] Latino, Il Tesoro, fol. 72, secoli XIII- L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata XIV oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni[32] prima, e di Giorgio Inglese poi[33]. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante, da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto ricevuto: «[...] e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna [...]» (Inferno, Canto XV, vv. 82-85) Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso "civico"[28][34], nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione toscana dell'opera realizzata da Bono Giamboni[35]. Lo studio della filosofia «E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.» (Convivio, 12 7) Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295)[36], cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce; se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami)[37] il Filosofo per eccellenza della cultura medievale[38]. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità «polifonica dell'aristotelismo»[39].
I presunti legami con Bologna e Parigi Alcuni critici ritengono che Dante abbia soggiornato a Bologna[40]. Anche Giulio Ferroni ritiene certa la presenza di Dante nella città felsinea: «Un memoriale bolognese del notaio Enrichetto delle Querce attesta (in una forma linguistica locale) il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda: la circostanza viene considerata indizio pressoché certo di una presenza di Dante a Bologna anteriore a questa data»[41]. Entrambi ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in proposito[42]. Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra l'estate del 1286 e quella del 1287, dove conobbe Bartolomeo da Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da Bologna[43], alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in destra: Cavalcanti, Dante, parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia parecchi dubbi: in un passo del Paradiso, (Che, leggendo nel Vico e Guittone d'Arezzo), pittura a olio, de li Strami, silogizzò invidïosi veri)[44], Dante alluderebbe alla Rue 1544, conservata presso il du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha Minneapolis Institute of Art, fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente Minneapolis. Considerato uno dei congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il maggiori lirici volgari del XIII secolo, 1309 e il 1310[45][46]. Cavalcanti fu la guida e il primo interlocutore poetico di Dante, quest'ultimo poco più giovane di lui. La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni sessanta del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche verso la politica e l'impegno civile. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro Davanzati[47], il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica più dolce e soave: il dolce stil novo. Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur tenue)[48] sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta[49], sia con quella più schiettamente occitana[50]. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti[51]. Il matrimonio con Gemma Donati Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285[28][52]. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri.
Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani[53]. Dante non scrisse infatti un solo verso alla moglie, mentre di costei non ci sono pervenute notizie sull'effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio. Comunque sia, l'unione generò due figli e una figlia: Jacopo, Pietro, Antonia e un possibile quarto, Giovanni[52][54]. Dei tre certi, Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna[52]. Impegni politici e militari Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289)[28]. Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) che nel frattempo si trovava a Firenze[56]. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, Giovanni Villani, Corso Donati fa purché iscritti a un'Arte. Dante, in quanto nobile, fu escluso dalla liberare dei prigionieri, in Cronaca, politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono XIV secolo. Corso Donati, esponente promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di di punta dei Neri, fu acerrimo nemico rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti[28]. di Dante, il quale lancerà contro di lui Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali[57]. violenti attacchi nei suoi scritti[55]. L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296[58]; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento[58]. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano[59]. Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi[60]. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu)[60], generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi[58]. Lo scontro con Bonifacio VIII (1300) Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto[58][61]. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri)[62], Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di
quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti[63] che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino)[64], ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale d'Acquasparta[64]. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi[64], mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze[64]. Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come Arnolfo di Cambio, statua di nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale Bonifacio VIII, 1298 ca, conservato d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di presso il Museo dell'Opera del distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui Duomo, Firenze faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa[62]. L'inizio dell'esilio (1301-1304) Carlo di Valois e la caduta dei bianchi Dante si trovava quindi a Roma[66], sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 i conquistatori imposero come podestà Cante Gabrielli da Gubbio[67], il quale apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e quindi diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302[58], che colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi, il poeta fu condannato, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria. «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”» (Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302[68]) I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304) Dopo i falliti tentati colpi di mano del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato)[69], un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia di
Castel Pulciano. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato[70], legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze)[71], il 20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i neri[72]. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi[72]. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida: «Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch'a te fia bello Tommaso da Modena, Benedetto XI, averti fatta parte per te stesso.» affresco, anni '50 del XIV secolo, Sala del Capitolo, Seminario di (Paradiso XVII, vv. 67-69) Treviso. Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di La prima fase dell'esilio (1304-1310) Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e apprezzamento, tanto da non famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno comparire nella Commedia[65]. forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana[45] presso Gherardo III da Camino[73]. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome)[74], col quale il poeta entrò forse in contatto grazie all'amico comune, il poeta Cino da Pistoia[75]. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297 – 1307)[76]. In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Il castello-palazzo vescovile di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306[46][76], successo che gli fece Castelnuovo dove Dante nel 1306 guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità pacificò i rapporti tra i Marchesi malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al Malaspina e i Vescovi-Conti di Luni termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato[77]: «[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.» (Pg VIII, vv. 127-132)
Nel 1307[78], dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite dei conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno[46]. La discesa di Arrigo VII (1310-1313) Il Ghibellin fuggiasco Il soggiorno nel casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il 1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310[79], dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre[46], della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII. Dante guardò a quella spedizione con Monumento a Dante Alighieri a grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine Villafranca in Lunigiana presso la tomba sacello dei Malaspina dell'anarchia politica italiana[80], ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze[46]. Infatti l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona[81]. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311[46] e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato[82]. Non sorprende, pertanto, che Ugo Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino: «E tu prima, Firenze, udivi il carme Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.» (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173-174) François-Xavier Fabre, Ritratto di Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24 Ugo Foscolo, pittura, 1813, agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, Biblioteca Nazionale Centrale di improvvisamente, a Buonconvento[83]. Se già la morte violenta di Firenze Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri)[78], aveva fatto crollare le speranze di Dante, la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze[78]. Gli ultimi anni Il soggiorno veronese (1313-1318) All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona[46]. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante[84] ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e
il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta[85]. Alla morte di Alboino, nel 1312, divenne suo successore il fratello Cangrande[86], tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante[86]. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida: «Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che 'n su la scala porta il santo uccello; Cangrande della Scala, in un ritratto ch'in te avrà sì benigno riguardo, immaginario del XVII secolo. Abilissimo politico e grande che del fare e del chieder, tra voi due, condottiero, Cangrande fu mecenate fia primo quel che tra l'altri è più tardo della cultura e dei letterati in [...] particolare, stringendo amicizia con Dante. Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che' suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici;» (Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90) Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il 1316[87]. Il soggiorno ravennate (1318-1321) Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore[88]; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale[89]. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina[90].
Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo[91][92] e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini[93]. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche[94], come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati[95] e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per Andrea Pierini, Dante legge la Divina fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui Commedia alla corte di Guido davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Novello, 1850, dipinto a olio, Palazzo Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo[96]. La morte e i funerali L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio[78]. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321[78][97]. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli[98]. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte[99]. Le spoglie mortali Le "tombe" di Dante Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali[100]. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta[100]. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla[101]. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, La tomba di Dante a Ravenna, realizzata da Camillo Morigia
cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile[100]. Le travagliate vicende dei resti I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la sua morte, quando l'autore della Commedia fu "riscoperto" dai suoi concittadini grazie alla propaganda operata da Boccaccio[102]. Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso (già nel 1429 il Comune richiese ai Da Polenta la restituzione dei resti[103]), i ravennati volevano che rimanessero nel luogo dove il poeta morì[104], ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo che avevano dispregiato in vita. Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze (rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII)[104], i frati francescani[105] tolsero le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto[104] e rendendo poi, di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio. Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell'attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte[104]. Le spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677)[104], le quali riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante. Effettivamente, all'interno della cassetta fu ritrovato uno scheletro pressoché integro[106]; si provvide allora a riaprire l'urna nel tempietto del Morigia, che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi[107], che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta murata, certificandone l'effettiva autenticità[107]. La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in un'urna di cristallo e quindi ritumulata all'interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo. Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357[108]: (LA) (IT) «Iura Monarchiae, Superos Flegetonta, «I diritti della monarchia, gli dei superni e lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata la palude del Flegetonte visitando cantai quousque. Sed quia pars cessit melioribus finché volle il destino. Poiché però l'anima hospita castris Auctoremque suum petiit andò ospite in luoghi migliori, ed ancor feliciter astris, H ic clauditur D antes, patriis più beata raggiunse tra le stelle il suo exterris ab oris, Quem genuit parvi Florentia Creatore, qui sta racchiuso Dante, esule mater amoris.» dalla patria terra, che generò Firenze, madre di poco amore.» (Epigrafe) Il vero volto di Dante Come si può ben vedere dai vari dipinti a lui dedicati, il volto del poeta era assai spigoloso, con la faccia torva e col celeberrimo naso aquilino, come figura nel dipinto di Botticelli posto nella sezione introduttiva. Fu Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, a fornire questa descrizione fisica: «Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura [...] Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.»
(Trattatello in laude di Dante, XX ) Gli studi compiuti dagli antropologi, però, smentirono gran parte della letteratura artistica dantesca nel corso dei secoli. Nel 1921, in occasione del seicentenario della morte di Dante, l'antropologo dell'Università di Bologna Fabio Frassetto fu autorizzato dalle autorità a studiare il cranio del poeta, risultato mancante della mandibola[110]. Nonostante i mezzi dell'epoca e un risultato di indagine non pienamente soddisfacente, Frassetto può già dedurre che il volto "psicologico" tramandatoci nel corso dei secoli non corrisponde a quello "fisico". Difatti nel 2007, grazie a una squadra guidata da Giorgio Gruppioni, antropologo sempre dell'Università di Bologna, si riuscì a realizzare un volto i cui tratti somatici corrisponderebbero al 95% a quello reale[110]. Partendo dal cranio Il più antico ritratto documentato di ricostruito da Frassetto, il volto reale di Dante è risultato (grazie al Dante Alighieri conosciuto, Palazzo contributo del biologo dell'Università di Pisa Francesco Mallegni e dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze. dello scultore Gabriele Mallegni)[111] sicuramente non bello, ma Databile intorno al 1336-1337, privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti di età l'affresco è di scuola giottesca[109] rinascimentale e molto più vicino a quello, risalente pochi anni ed è il ritratto iconografico del poeta dopo la morte del poeta, di scuola giottesca. più vicino a quello ricostruito nel 2007. Il pensiero Il ruolo del volgare e l'ottica "civile" della letteratura Il ruolo della lingua volgare, definita da Dante nel De Vulgari come Hec est nostra vera prima locutio[112] («il nostro primo vero linguaggio», nella traduzione italiana)[113], fu fondamentale per lo sviluppo del suo programma letterario. Con Dante, infatti, il volgare assunse lo stato di lingua colta e letteraria, grazie alla ferrea volontà, da parte del poeta fiorentino, di trovare un veicolo linguistico comune tra gli italiani, perlomeno tra i governanti[114]. Egli, nei primi passi del De Vulgari, esporrà chiaramente la sua predilezione per la lingua colloquiale e materna rispetto a quella latina, finta e artificiale: (LA) (IT) «Harum quoque duarum «La più nobile di queste nobilior est vulgaris: tum due lingue è il volgare, quia prima fuit humano sia perché fu la prima a generi usitata; tum quia essere usata dal genere Andrea del Castagno, Dante totus orbis ipsa umano, sia perché tutto Alighieri, ne Ciclo degli uomini e perfruitur, licet in il mondo ne fruisce (pur donne illustri, affresco, tra il 1448 e il diversas prolationes et nelle diversità di 1451, Galleria degli Uffizi, Firenze vocabula sit divisa; tum pronuncia e di quia naturalis est nobis, vocabolario che la cum illa potius artificialis existat.»
dividono), sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale.» (De Vulgari Eloquentia I, 1,4) Proposito della produzione letteraria volgare dantesca è infatti quella di essere fruibile da parte del pubblico dei lettori, cercando di abbattere il muro tra i ceti colti (abituati a interagire fra di loro in latino) e quelli più popolari, affinché anche questi ultimi potessero apprendere contenuti filosofici e morali fino ad allora relegati nell'ambiente accademico. Si ha quindi una visione della letteratura intesa come strumento al servizio della società, come verrà esposto programmaticamente nel Convivio: «E io adunque... a' piedi di coloro che seggiono [nella mensa dei dotti] ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.» (Convivio, I, 10) Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune delle sue opere possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di Albertano da Brescia[115]. La poetica Il «plurilinguismo» dantesco Con questa felice espressione, il critico letterario Gianfranco Contini ha individuato la straordinaria versatilità di Dante, all'interno delle Rime, nel saper usare più registri linguistici con disinvoltura e grazia armonica[116]. Come già esposto prima, Dante manifesta un'aperta curiosità per la struttura "genetica" della lingua materna degli italiani, concentrandosi sulle espressioni dell'eloquio quotidiano, sui motti e battute più o meno raffinate. Questa tendenza a inquadrare la ricchezza testuale della lingua materna spinge il letterato fiorentino a realizzare un affresco variopinto finora mai creato nella lirica volgare italiana, come esposto lucidamente da Giulio Ferroni: «Rispetto alla produzione poetica del volgare italiano della seconda metà del secolo XIII, la Commedia amplia notevolmente gli orizzonti sintattici e lessicali: la varietà stilistica... crea una variazione di registri, attingendo sia alla lingua bassa sia a quella nobile. Dante trae spunti dalla letteratura latina... o da quella in volgare, ma nello stesso tempo ha uno spiccato interesse per il linguaggio parlato, colloquiale, anche nelle forme più vivaci, aggressive e popolaresche.» (Ferroni, p. 28) Come rimarca Guglielmo Barucci: «Non siamo dunque di fronte [nelle Rime] a una progressiva evoluzione dello stile di Dante, ma alla compresenza – anche nello stesso periodo – di forme e stili diversi»[117]. La capacità con cui Dante passa, all'interno delle Rime, dalle tematiche amorose a quelle politiche, da quelle
morali a quelle burlesche, troverà il supremo raffinamento all'interno della Commedia, riuscendo a calibrare la tripartizione stilistica denominata Rota Vergilii, secondo la quale a un determinato argomento deve corrispondere un determinato registro stilistico[118]. Nella Commedia, in cui le tre cantiche corrispondono ai tre stili "umile", "mezzano" e "sublime", la rigida tripartizione teorica scema davanti alle esigenze narrative dello scrittore, per cui all'interno dell'Inferno (che dovrebbe corrispondere allo stile più basso), troviamo passi e luoghi di altissima levatura stilistica e drammatica, quali l'incontro con Francesca da Rimini e Ulisse. Il plurilinguismo, secondo un'analisi più strettamente lessicale, risente anch'esso dei numerosi idiomi di cui era infarcita la lingua letteraria dell'epoca: vi si trovano infatti latinismi, gallicismi e, ovviamente, volgare fiorentino[119]. Lo Stilnovismo dantesco: tra biografismo e Raffaello Sanzio, Disputa del spiritualizzazione Sacramento, dettaglio raffigurante Dante ebbe un ruolo fondamentale nel far approdare la lirica Dante, 1509-1510 ca, Stanza della volgare a nuove conquiste, non soltanto dal punto di vista tecnico- Segnatura, Palazzo Pontificio, Vaticano. Raffaello inserisce Dante linguistico, ma anche da quello prettamente contenutistico. La tra teologi e dottori della Chiesa, in spiritualizzazione della figura dell'amata Beatrice e l'impianto quanto il poeta fiorentino era ritenuto vagamente storico in cui la vicenda amorosa è inserita, filosofo e teologo di chiara fama per determinarono la nascita di tratti del tutto particolari all'interno dello le opere da lui lasciate in materia stilnovismo[120]. La presenza della figura idealizzata della donna religiosa. amata (la cosiddetta donna angelo) è un topos ricorrente in Lapo Gianni, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia, ma in Dante assume una dimensione più storicizzata di quella degli altri rimatori[121]. La produzione dantesca, per la sua profondità filosofica può essere confrontata soltanto con quella del maestro Cavalcanti, rispetto alla quale la divergenza consiste nella differente concezione dell'amore. Se Beatrice è l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla Terra e che gli dona la beatitudine celeste[122], la donna amata da Cavalcanti è invece foriera di sofferenza, dolore che allontanerà progressivamente l'uomo da quella catarsi divina teorizzata dall'Alighieri[123]. Altro traguardo raggiunto da Dante è l'aver saputo far emergere l'introspezione psicologica e l'autobiografismo: praticamente ignoti al Medioevo, queste due dimensioni guardano già al Petrarca e, più lontano ancora, alla letteratura umanistica. Dante così è il primo, tra i letterati italiani, a "scomporsi" tra il sé inteso come personaggio e l'altro io inteso come narratore delle proprie vicende. Così Contini, riprendendo il filo tracciato dallo studioso statunitense Charles Singleton, parla dell'operazione poetica e narrativa dantesca: «Va citato a titolo d'onor l'italianista americano Charles Singleton, che in un suo saggio penetrante... ha notato come nell'io di Dante... convergano l'uomo in generale, soggetto del vivere e dell'agire, e l'individuo storico, titolare di un'esperienza determinata hic et nunc, in un certo spazio e in un certo tempo; Io trascendentale (con la maiuscola), diremmo oggi, e io (con la minuscola) esistenziale.» (Gianfranco Contini, Un'idea di Dante, pp. 34-35) Beatrice e la «donna angelo»
«L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste che a realtà distinta e che procura effetti proprii. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro.» (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano, Napoli 1890, p. 59. ) Henry Holiday, Dante incontra Così De Sanctis, padre della storiografia letteraria italiana, scrisse Beatrice al ponte Santa Trinita, dipinto a olio, 1883, Walker Art sulla donna amata dal poeta, Beatrice. Benché si cerchi tutt'oggi di Gallery, Liverpool comprendere in che cosa consistesse realmente, per Dante, l'amore nei confronti di Beatrice Portinari (presunta identificazione storica della Beatrice della Vita Nova), si può solo concludere con certezza l'importanza che tale amore ebbe per la cultura letteraria italiana. È nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo, aprendo la sua "seconda fase poetica" (in cui manifesta la sua piena originalità rispetto ai modelli passati)[124] e conducendo i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore in un modo mai così enfatizzato prima. L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione del suo manifesto poetico, nuova concezione dell'amor cortese sublimato dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi) e, pertanto, privata degli elementi sensuali e carnali tipici della lirica provenzale. Tale formulazione poetica, culminata con la poesia della lode[125], approderà, dopo la morte della Beatrice "terrena", alla ricerca filosofica prima (la Donna pietosa) e a quella teologica poi (l'apparizione in sogno di Beatrice che spinge Dante a ritornare a lei dopo il traviamento filosofico, critica che si farà più dura in Purgatorio, XXX)[126]. Tale allegorizzazione dell'amata, intesa come veicolo di salvezza, segna definitivamente il distacco dalla tematica amorosa e spinge Dante verso la vera sapienza, cioè luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso. Beatrice si conferma, pertanto, in quel ruolo salvifico tipico degli angeli, che reca non solo all'amato, ma a tutti gli uomini quella beatitudine di cui si accennava prima[127]. Mantenendo una funzione allegorica, Dante frappone un valore numerologico alla figura di Beatrice. È infatti all'età di nove anni che la incontra per la prima volta, poi nell'ora nona avviene un successivo incontro. Di lei dirà pure: «non soffre di stare in un altro numero se non nel nove». Dante fa morire Beatrice il 9 giugno (pur essendo in realtà l'8) scrivendo su di essa: «lo perfetto numero era compiuto».[128] Dalle rime «amorose» a quelle «petrose» Dopo la fine dell'esperienza amorosa, Dante si concentrò sempre più su una poesia caratterizzata dalla riflessione filosofico-politica, che assumerà tratti duri e sofferenti nelle rime della seconda metà degli anni novanta, chiamate anche rime «petrose», in quanto incentrate sulla figura di una certa «donna petra», completamente antitetica alle "donne che avete intelletto d'Amore"[129]. Infatti, come riportano Salvatore Guglielmino e Hermann Grosser, la poesia dantesca perse quella dolcezza e leggiadria propria della lirica della Vita nova, per assumere connotati aspri e difficili: «... l'esperienza delle rime petrose, che si riallacciano all'esperienza del trobar clus [poetare difficile] di Arnaut Daniel, costituisce un fondamentale esercizio di stile aspro (di contro a quello dolce dello stilnovismo).» (Guglielmino-Grosser, p. 151)
Le fonti e i modelli letterari Dante e il mondo classico Dante ebbe un profondo amore nei confronti dell'antichità classica e della sua cultura: ne sono prova la devozione per Virgilio, l'altissimo rispetto per Cesare e per le numerose fonti greche e latine da lui usate per la costruzione del mondo immaginario della Commedia (e di cui la citazione de «li spiriti magni» in If IV sono un riferimento esplicito degli autori su cui si poggiava la cultura dantesca)[130]. Nella Commedia, il poeta glorifica l'élite morale e intellettuale del mondo antico nel Limbo, luogo piacevole e ameno alle porte dell'Inferno dove i giusti morti senza battesimo vivono, senza però non provare dolore per la mancata beatitudine[131]. Al contrario di quanto faranno Petrarca e Boccaccio, Dante si dimostrò un uomo ancora legato appieno alla visione medievale che l'uomo aveva della civiltà greca e latina, poiché inquadrava quest'ultima all'interno della storia della salvezza propugnata dal cristianesimo, Rafael Flores, Dante y Virgilio certezza basata sulla dottrina medievale dell'esegesi detta dei visitando el Infierno, pittura a olio, quattro sensi (letterale, simbolico, allegorico e anagogico) con cui si 1855, Museo nacional de arte, Città cercava di individuare il messaggio cristiano negli autori del Messico antichi[132]. Virgilio è visto da Dante non nella sua dimensione storica e culturale di intellettuale latino dell'età augustea, quanto in quella profetico-soteriologica[133]: fu lui, infatti, a predire la nascita di Gesù Cristo nella IV Egloga delle Bucoliche e così fu glorificato dai cristiani medievali[134]. Oltre a questa dimensione mitica della figura di Virgilio, Dante guardò a lui come supremo modello letterario e morale, come evidenziato nel proemio del Poema: «O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e l' grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Gustave Doré, Lucifero, 1861-1868. Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, L'incisione dell'artista francese tu se' solo colui da cu' io tolsi riprende la descrizione fatta dal lo bello stilo che m'ha fatto onore.» poeta in If XXXIV, la quale a sua (Inferno, If I, 82-87) volta era tratta da un affresco presente nel Battistero di San Giovanni. L'iconografia medievale Dante fu influenzato moltissimo dal mondo che lo circondava, traendo spunto sia dalla dimensione artistica in senso stretto (busti, bassorilievi e affreschi presenti nelle chiese), sia da quanto poteva vedere nella sua vita quotidiana. Barbara Reynolds riporta di come «Dante [fosse] aduso a casi di tortura, morte di stenti, omicidio, tradimento, adulterio, sodomia e bestialità. Immagini del male si trovavano illustrate ovunque. La cupola del [battistero di San Giovanni Battista], ad esempio, era decorata a mosaici...ove si trovavano raffigurati l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il giudizio universale e, di particolare rilevanza nella Commedia, una grottesca immagine di Satana [...] I diavoli e
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