Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici e narrativi in Elsa Morante e Lalla Romano

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Antonella Iacobbe

                      Dalla fantasia alla coscienza:
      percorsi poetici e narrativi in Elsa Morante e Lalla Romano
                                         di Antonella Iacobbe

       I decenni che vanno dalla fine del secolo XIX agli inizi del XX segnano la
fine di un’epoca e pongono i presupposti della storia e della civiltà successiva. Si va
verso un lento e progressivo miglioramento generale del tenore di vita, ma contem-
poraneamente risulta accentuato, nella vita politica e sociale, il peso delle masse
popolari, ormai organizzate intorno ai partiti che ne esprimono le esigenze.
       La crisi del positivismo determina un ritorno allo spiritualismo che riafferma
il valore della spiritualità umana.
       Ritorna il bisogno di abbandonare l’osservazione della realtà esterna per ca-
larsi nell’anima umana, scavando ancora una volta nei sentimenti.
       Una delle componenti più profondamente sconvolgenti della cultura
novecentesca è, senza dubbio, la psicanalisi, soprattutto per le conseguenze che il
suo influsso ha provocato nella letteratura e nelle arti.
       Il Novecento è il secolo che vede il maggior numero di scrittrici, di poetesse,
di donne che si sono distinte nel favorire l’emancipazione femminile.
       Il nostro scopo sarà quello di evidenziare le costanti che connotano e diffe-
renziano le scritture femminili, senza separarle dal contesto della tradizione del
Novecento.
       Si possono distinguere tre generazioni di donne. “La prima – aperta dal nome
di Matilde Serao e conclusa da quello di Benedetta – è una generazione che si forma
nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando al modello di donna nuo-
va, promosso dalla cultura moderata e progressiva di fine secolo, si contrappone il
processo di auto-modellazione espresso dal movimento emancipazionista italiano.
       Le contrapposizioni di modelli […] attraversano notevolmente gli immagi-
nari delle donne, al di là delle posizioni da loro pubblicamente assunte: esterne ai
luoghi istituzionali della politica e della cultura (come Deledda, o Aleramo) o inter-
ne ad essi (come Neera, o Ada Negri)” . 1
       La prima generazione è caratterizzata da scrittrici autodidatte, mentre nella
seconda generazione sparisce la forma domestica dell’autodidattismo e la dimen-

   1
     Marina ZANCAN, Le scrittrici e i loro testi, in Memoria del ‘900 letterario: scritture, immagini, voci, su
http//crilet.let/uniroma1/mostra900/apertura.htm.

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sione di vita interna si mescola con scelte o vicende politiche (Ginzburg, Masino,
Viganò), a differenza della prima generazione, dove la donna intellettuale era ben
lontana dalla vita politica. Le due generazioni sono accomunate da una costante: il
narrare di sé.
        Le opere di queste donne si intrecciano con opere della terza generazione,
scritture di donne che dagli anni Sessanta arrivano al tempo presente, protese verso
il futuro; fra queste ricordiamo: Margherita Guidacci, Amelia Rosselli, Alda Merini,
Angela Bianchini, Dacia Maraini, Ginevra Bompiani, Patrizia Cavalli, Teresa Di
Lascia.
        Fra le donne di seconda generazione è doveroso ricordare Elsa Morante.
        Si rivelò tra il 1935 e il 1940, scrivendo eleganti cronache di costume per
riviste culturali. Da quell’esercizio giornalistico nacque il primo volume di raccon-
ti, Il gioco segreto (1941), in cui è raccolta una piccola parte della vasta produzione
narrativa destinata ai giornali. In quello stesso anno pubblicò la favola Le bellissime
avventure di Caterì dalla trecciolina (1941).
        L’opera che la impose alla critica fu Menzogna e sortilegio (1948).
        L’autrice narra in prima persona la storia della propria famiglia. Attraverso la
narrazione allucinata di una giovane donna, sempre rinchiusa nella sua stanza, si ha
la ricostruzione della decadenza di una famiglia gentilizia del Sud.
        Si tratta di un corpus in cui è possibile rintracciare le trame di un romanzo
personale all’interno del quale la scrittrice ri-scrive, ri-leggendole, le tappe della sua
vita e della sua famiglia, offrendo un autoritratto affidato alla pagina scritta che è
‘specchio’ in cui guardare il proprio passato, riattraversando la storia della propria
esistenza, con una autobiografia.2
        La storia ha inizio con il matrimonio di Cesira, nonna di Elisa (la narratrice),
con Teodoro Massia, discendente di una ricca casata aristocratica presso cui Cesira
lavorava come istitutrice.
        La Morante vuole che il romanzo familiare di Elisa3 contenga tutto ciò che
era stata la sostanza del romanzo dell’Ottocento. Già nel titolo del primo capitolo
(Una sepolta viva e una donna perduta), Menzogna e sortilegio sembra voglia pre-
sentarsi come un romanzo d’appendice, un romanzo d’amore. Al tempo stesso però,
pensando a L’Orlando furioso e al Don Chisciotte, scrive, ignorando tutte le scoper-
te del romanzo ottocentesco (il colpo di scena, le sorprese, il montaggio, la funzio-
ne del “destino”, ecc.) con lo stile tipico della favola. L’originalità di quest’opera sta
nell’essere un romanzo dell’Ottocento che, con tono fiabesco, mette in scena quan-
to di meno fiabesco e romanzesco offrì la civiltà del Novecento: rifiutare di vivere
“la sorte assegnatale in questa vita” per vivere in compagnia della menzogna coper-
ta di verità.

  2
      Cfr. Andrea BATTISTINI, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, il Mulino, 1990.
  3
      Cfr. Lucio LUGNANI, Per Elisa: studi su Menzogna e sortilegio, Pisa, Nistri-Lischi, 1990.

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        Ogni pagina è intrisa di ambiguità a tal punto che si giunge alla fine del ro-
manzo col dubbio se Elisa si sia davvero liberata dall’unica eredità lasciatele dai
suoi, la menzogna. Infatti, Elisa, malata di menzogna, sceglie la scrittura come stru-
mento capace di liberarla dalla foresta di mostri che popolano la sua infanzia.
        Elsa Morante, rifacendosi a Freud, trova nella scrittura la strada per trasfor-
mare la “foresta dei sogni” di paure e misteri che fin dall’infanzia l’ossessionava, in
un romanzo che appare distante dall’autobiografismo tradizionale.
        Dunque, Menzogna e sortilegio – come la stessa autrice dichiarò – racconta il
passaggio dalla fantasia alla coscienza, dalla giovinezza alla maturità, “esperienza
fondamentale e tragica”.
        La Morante iniziò questo romanzo nel 1943, interrompendone la stesura per
seguire il marito, Moravia, indiziato di antifascismo, sulle montagne di Fondi, in
Ciociaria. Fu un periodo difficile, vissuto tra stenti e privazioni; ma destinato a
produrre due opere letterarie di grande importanza nel panorama letterario italiano
del secondo Novecento: Moravia scrisse La ciociara (1957) ed Elsa Morante il suo
romanzo più celebre e discusso, La storia (1974).
        Quest’opera racconta le vicissitudini belliche dell’Italia e del mondo nel pe-
riodo che va dal 1941 al 1947, riflesse nel piccolo mondo di una famigliola romana,
formata da una donna spaurita e immatura, da un ragazzetto, da un bambino. Ecco
che siamo immersi nella Roma distrutta dalla guerra e poi in cammino verso un’in-
certa ricostruzione.
        La Morante scrive il romanzo La storia con l’intento di illustrarci come ven-
gono vissuti gli eventi storici dalla gente comune, evidenziando infine una critica
alla Storia, mostro che divora la vita delle persone che sono costrette a subirla senza
saperne il perché.
        Con Menzogna e sortilegio, la Morante vince il “Premio Viareggio”; nel 1957
esce il romanzo L’isola di Arturo, con il quale vince il “Premio Strega”.
        Questo romanzo narra la storia della difficile maturazione di un ragazzo che
vive come segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, all’ombra del
grande penitenziario. Tutti i personaggi di questo romanzo sono oggettivamente e
minuziosamente descritti e rappresentati; ma tutto al tempo stesso sfuma nella fa-
vola e nell’allegoria: tutto è poeticamente trasfigurato.
        La quotidiana realtà si trasforma nel mondo atemporale4 e magico del mito,
Arturo, il fanciullo – eroe dal nome di stella, rievoca la propria infanzia e la propria
adolescenza; si affrontano le fondamentali tappe di quel difficile percorso che con-
duce alla “malefica e meravigliosa” isola dell’infanzia, alla coscienza di sé e del mi-
stero della vita adulta.
        Per il fanciullo eroe, Arturo, diventare adulto equivale ad abbandonare Pro-
cida, la solare felice isola dell’infanzia, l’isola delle “Certezze” assolute, lo spazio

  4
      Cfr. Stefania LUCAMANTE, Elsa Morante e l’eredità proustiana, Fiesole, Cadmo, 1998.

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chiuso e senza tempo, su cui viaggia “sospesa nell’aria” l’arcana divinità della ma-
dre perduta. La scoperta della realtà e della vita ha fatalmente inizio con l’arrivo a
Procida della giovanissima sposa del padre, Nunziatina, figura di madre-amante-
bambina, definita dalla critica “una delle immagini più vive e sorprendenti del no-
stro romanzo contemporaneo”.
        Il racconto è articolato secondo una ricca suddivisione in titoli.
        Il titolo del romanzo, L’isola di Arturo, ci delinea subito, con precisione, lo
spazio della storia; il sottotitolo iniziale, Re e stella del cielo, rimanda a due cose
normalmente considerate importanti, o elevate e preziose. È il protagonista stesso a
raccontare la storia. Il lettore entra bruscamente nell’argomento, incontrando il
personaggio del romanzo, senza sapere quale sarà il soggetto della storia. Per cono-
scere il personaggio, dovrà ascoltare il racconto.
        L’isola di Arturo, secondo Donatella Ravanello,5 funge da trait d’union fra
Menzogna e sortilegio e la Storia.
        Si nota come, in questo romanzo, la Morante abbia tentato di sostituire la
ragione (intesa come realtà razionalmente e scientificamente) alla follia, che però si
dimostra insufficiente ad arrivare alla vera conoscenza.
        Qui l’io narrante si sdoppia: l’Elisa di Menzogna e sortilegio la troviamo sia
in Arturo che in Nunziata.
        Nunziata servirà ad Arturo per arrivare alla verità, cioè capire che la sua vita
è stata caratterizzata da solitudine e mancanza di affetti, e per demistificare la figura
del padre, che Arturo ha sempre visto come un eroe, per staccarsi da lui e capire che
tipo di persona misera e infelice sia in realtà.
        Per comprendere fino in fondo tutte queste cose è necessario che Arturo
vada via da Procida, l’isola in cui vive e che per lui rappresenta un ostacolo per il
raggiungimento della verità: verità cui non arriverà mai completamente proprio
perché, per intraprendere la strada della ragione, si è privato del grande potere delle
follie. Per questo, la Morante, in La Storia, abbandonò la ragione per tornare ad
esplorare il territorio della follia.
        Nel 1976 inizia la stesura del suo ultimo romanzo Aracoeli, che porterà a
termine e pubblicherà solamente nel 1982, essendosi fratturata il femore nel 1980.
In questo romanzo, l’autrice delinea, con penetrazione psicologica, il ritratto di un
personaggio ‘diverso’, che cerca di ri-costruire l’amata figura materna perduta e
irraggiungibile.
        I modelli espliciti della Morante sono i grandi romanzieri russi e francesi
dell’Ottocento, da un lato, e i poeti Saba e Penna dall’altro.
        La Morante utilizza, nel suo scrivere, una struttura classica, e in tutti i suoi
romanzi si assiste al trionfo delle forze della fantasia.

   5
     Donatella RAVANELLO, Scrittura e follia nei romanzi di Elsa Morante, Venezia, Marsilio Editore, 1980, pp.
46, 93 e 95-97.

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        Per questo il suo romanzo più difficile, La storia, presenta forti discontinuità
stilistiche fra zone in cui l’ispirazione lirica è più libera e zone invece in cui predo-
mina un “neorealismo” di maniera che vuole ricondurre l’opera e il suo contenuto
nell’alveo delle tensioni sociali reali e concrete. Lo stile, anche se intarsiato con
termini dialettali, rimane raffinato e fastoso.
        Sogno, mito, favola, ragione e dura “realtà” sono ancora gli elementi costitutivi
delle opere di Lalla Romano, scrittrice di seconda generazione.
        Con sensibilità squisitamente femminile, priva di ogni sentimentalismo, ri-
trae il quotidiano, sempre relazionata all’universale, al “privato”, così da produrre
una scrittura autobiografica.
        “Scrivere vuol dire scrivere di sé, in modo più o meno dichiarato [...], scrivere
per me è stato anche il tramite per entrare nelle vite degli altri”, così affermava Lalla
Romano.
        Fondamentale appare ciò che Carla Locatelli definisce il Playing House: os-
sia il “gioco di mettere su casa”, di auto-esplorazione autobiografica, la costruzione
del sé, la ricostruzione della vita.6
        Lo scrivere di sé rappresenta “l’allegoria degli sforzi problematici compiuti
dallo scrittore auto-riflessivo per colmare la distanza tra passato e presente, tra se
stesso e la rappresentazione testuale di sè”.7
        Con Lalla Romano non si può parlare di puro autobiografismo, inteso come
indugio al personale ed ostentazione del privato con abbandoni prolissi e personali,
ma attraverso il “sé” ella ha una maggiore consapevolezza e comprensione dell’uni-
verso, dell’umanità.
        Poetessa, narratrice, traduttrice, pittrice e critica d’arte, anche appassionata
di fotografia, si fece conoscere in campo letterario con raccolte di poesie come
Fiore, L’autunno, Giovane è il tempo, e con racconti come Maria, Tetto Murato,
L’uomo che parlava solo, La penombra che abbiamo attraversato, Le parole tra
noi leggere, alcuni dei quali ebbero il riconoscimento di un premio letterario come
il “Premio Veillon”, il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Strega”. Scrisse an-
che prose liriche come Le metamorfosi, opere in prosa come Una giovinezza in-
ventata, Inseparabile, Un sogno del Nord, un poemetto autobiografico nel ’91,
Le lune di Havar e, suoi più recenti lavori, Un caso di coscienza del ’92 e Ho
sognato l’ospedale del ‘95.
        Le metamorfosi, pubblicate nel 1951, segnano il passaggio dalla poesia alla
prosa. Divisa in cinque parti, quest’opera narra i sogni di cinque personaggi legati

   6
     Carla LOCATELLI, Passaggi obbligati: la differenza (auto) biografica come politica co(n)testuale, in Co(n)texts:
implicazioni testuali, a cura di Carla Locatelli, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2000, pp. 151-
196. Cfr. anche Jerome BRUNER, The Autobiographical Process, in AA.VV., The culture of Autobiography.
Constructions of Self-Representation, Stanford, Stanford UP, 1993); qui sostiene che “l’autobiografia è costru-
zione di una vita attraverso la costruzione del testo”.
   7
     Paul JAY, L’auto-rappresentazione, in Teorie moderne dell’autobiografia, Bari, Edizioni Graphis, 1996, p. 101.

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tra loro da vincoli di parentela, vicini all’autrice, ma mai nominati e, per tanto,
difficilmente riconoscibili. Qui, delle vicende oniriche diventano materiale lettera-
rio; sogno, mito, favola e realtà si mescolano sfumando i loro confini. Ma la narra-
tiva di Lalla Romano ebbe effettivo inizio con le opere: Maria e Tetto murato, ri-
spettivamente del ’53 e del ’57; siamo già in clima di Neorealismo. Nel primo, poco
considerato dalla critica, l’autrice, improntata da un fervente realismo, descrive il
mondo contadino in via di estinzione, dando grande importanza al Tempo e alla
Storia. È la vicenda vera di un’umile contadina, alter ego dell’autrice, realmente
conosciuta, che, pur lasciando la terra per andare a servizio presso una famiglia,
non dimentica mai le sue leggi di onore e dedizione.
        Nel secondo ecco che prende forma la tematica tanto cara a Lalla Roma-
no: l’indagine nella memoria.8 “I miei libri sono basati parecchio sulla memoria,
ma penso si debba distinguere tra due tipi di memorie: la memoria nel senso
grande, che è ricchezza per l’umanità, e i ricordi personali, che hanno una loro
dignità ma non sono niente, sono aneddoti, pettegolezzi [...] Adesso prolifera-
no libri di memorie che raccontano fatterelli, ma questo non ha niente a che fare
con la vera memoria”; dalle parole della scrittrice si comprende che tutta la sua
narrazione si basa sulla memoria, affidando alla scrittura il compito di “evoca-
zione”.
        In questa opera, sullo sfondo di una vicenda storica, si narra la storia di due
coppie di sfollati (Paolo, gravemente malato d’asma, e sua moglie Ada, e Stefano,
spesso assente per lavoro, e la moglie Giulia) che, durante l’occupazione tedesca, si
rifugiano in un casale, il tetto murato, in una località di campagna del cuneese. L’anor-
malità della situazione, i disagi, gli ostacoli, la malattia di Paolo e le premure della
moglie, daranno origine ad un profondo legame spirituale tra le due coppie, crean-
do una seconda vita simile a quella principale alla quale, però, alla fine della guerra,
i quattro personaggi ritorneranno.
        In Le parole tra noi leggere, con la quale vinse il “Premio Strega”, Lalla
Romano ci racconta il proprio rapporto di madre con il figlio. Attraverso ricordi,
appunti, materiale autentico, delinea la biografia del figlio, la sua crescita ed an-
che il progressivo allontanamento dalla madre che arriva, infine, a riconoscerne
l’estraneità. Solo nella fiction del romanzo, attraverso il processo di identificazio-
ne/distanza tra la propria vita e quella vissuta nella scrittura da un sé fittizio, Lalla
Romano riesce a portare a galla, rievocandoli, rimembrandoli, ri-creandoli e ri-
vivendoli, i conflitti inconfessabili e laceranti del passato, senza il rischio di rima-
nerne schiacciata.
        Priva di sentimentalismi, Una giovinezza inventata, del 1979, capolavoro
dell’autrice, ripercorre e ri-costruisce la personale giovinezza dell’autrice vissuta
negli anni Venti, divisa fra gli studi, l’esistenza borghese, l’amore e i disagi della
condizione femminile del tempo. Non vi è una ricerca malinconica del passato, la

  8
      Cfr. Flavia BRIZIO, La scrittura e la memoria: Lalla Romano, Milano, Selene, 1993.

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recherche del tempo perduto e la memoria del passato sono guardati con gli occhi
della maturità e dell’esperienza senile.
        L’opera della Romano che presenta una rilettura dell’infanzia con un riferi-
mento diretto a Proust è La penombra che abbiamo attraversato; “itinerario me-
moriale” intorno ai luoghi della sua infanzia con impressioni, ricordi, sensazioni
infantili che vengono riscoperti e rivissuti da una sensibilità adulta, con un assiduo
passaggio tra passato e presente. La prospettiva del passato infantile e la prospettiva
del presente si incrociano e sfumano i loro confini; il tutto reso maggiormente da
un’alternanza dei piani discorsivi che la Romano riesce ad alternare seguendo sem-
pre come norma il tempo. La distinzione dei piani temporali aiuta a rappresentare
un cambiamento di atteggiamento verso il mondo: dal mondo fiabesco della bam-
bina, si passa verso una presa di coscienza realistica. La narratrice, situata nella real-
tà, è spinta dalla nostalgia a recuperare qualche eco della sua infanzia, e a riviverla.
La conquista della realtà da parte della bambina, proprio come per Arturo in L’isola
di Arturo della Morante, porta al dimensionamento (riscontrato ora dall’adulta) di
persone e immagini che le furono care. In questo modo, con rammarico, scompare
il mondo creato dalla fragile immaginazione di bambina.
        La mescolanza di fiaba, realtà, lo spazio dell’invenzione, il mondo delle coin-
cidenze fatali, che si allontanano dalle esperienze consuete e della norma sono ele-
menti che caratterizzano le due autrici in questione.
        In questo contributo ci si è soffermati su due scrittrici con comune inclina-
zione anche al fantastico; ma l’esperienza del fantastico, mescolato al realismo, è
comune a molte scrittrici di fine Ottocento e Novecento.
        Nel racconto fantastico, l’azione avviene per errore, per caso o per sbaglio
ma, dietro, c’è sempre la logica del personaggio o del narratore; di qui scaturisce la
verosimiglianza.
        In queste scrittrici la componente fantastica e surreale non si configura come
pura evasione o sogno, ma quasi sempre come aspetto intrinseco della realtà, una
sorta di sostanza interna alle cose.
        A volte, ci si nasconde dentro la propria fantasia, creando così realtà sogget-
tive, immateriali e immaginarie.
        La vita reale risulta difficile, un inferno da cui solo si può evadere in un altro
mondo, fatto di visioni, sogno, incredulità, in un altro mondo in cui non esiste
ancora il dolore che può diventare sopportabile, a differenza del mondo reale che
non può essere sopportato. Attesa e speranza, sogno e, infine, sempre abbandono e
dolore sono gli elementi costitutivi delle opere di queste scrittrici. La memoria e il
tempo sono motivi sempre ricorrenti: il tempo è quello “interiore” e psicologico
della coscienza che nulla “condivide” con il tempo della scienza, inteso come arido
susseguirsi di attimi; la memoria non è solo un “mezzo” per ricordare ma anche lo
strumento di una imprevista “riconquista” di verità rimosse e obliate.
        Differenti sono le “soluzioni” linguistiche e le tematiche delle opere delle
scrittrici in esame, ma, il tempo, la memoria, la funzione “ricostruttiva” del ricordo
sono elementi che le accomunano. Le cose si liberano dalla schiavitù del senso codi-

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ficato per accogliere i plurimi messaggi di un’altra esistenza; c’è la scoperta di un
nuovo mondo, demolendo le illusorie certezze precedenti, costruendo nuove cor-
rispondenze tra i protagonisti e il mondo.
       Altro tema spesso presente è la solitudine, intesa proustianamente come do-
loroso mezzo di affinamento spirituale, di “maturazione”. Così si riconosce la
profonda sensibilità di due scrittrici che hanno saputo “darsi” senza riserve, con
profonda sensibilità ed umanità.

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