COVID-19 e principio di precauzione: il webinar con Andrea Rotella

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COVID-19   e   principio di
precauzione: il webinar con
Andrea Rotella
Fin dalle prime fasi della pandemia di COVID-19, la comunità
scientifica ha considerato il droplet quale principale veicolo
di trasmissione del virus SARS-CoV-2 responsabile
dell’infezione, pur non escludendo la possibilità che il
contagio avvenisse anche mediante altre vie di trasmissione
come aerosol, oro-fecale, fomiti. Ma in quali casi è possibile
e lecito limitare le decisioni e le conseguenti azioni alle
sole situazioni in cui la scienza fornisce prove e certezze e
quando, piuttosto, occorrerebbe agire in modo deciso e,
persino, apparentemente “eccessivo”, dando risposte forti a
segnali deboli, pur in assenza di conferme? In altre parole,
in una condizione di rischio sistemico, quale quella di una
pandemia, è necessario sempre e solo agire sulla base di
evidenze o è indispensabile adottare un approccio non
esclusivamente basato sulla “prevenzione” e “protezione” ma
anche sulla “precauzione”?

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A questa ed altre domande risponde l’ing. Andrea Rotella nel
corso del webseminar organizzato da Wolters Kluwer che sì
terrà il 17 marzo 2021, in cui illustra il principio di
precauzione e analizza un modello di calcolo del rischio di
trasmissione aerogena.

Di seguito una prima brillante riflessione sul tema del
principio di precauzione.

Saresti disposto a farti un giro di roulette russa in cambio
di una vincita che ti cambierebbe la vita? Ovviamente il
problema è se dopo la giocata ci sarà ancora una vita da
cambiare e, infatti, non trovo mai nessuno disposto a giocare.
Nemmeno quando chiedo: «E se giocassimo con una pistola
caricata con un unico proiettile in un caricatore di 100
colpi?». A quanto pare i miei conoscenti soffrono di una certa
avversione al rischio di uscire dal pool genetico, anche
quando in cambio il premio potrebbe essere consistente.

Credo, in verità, che questa idiosincrasia sia piuttosto
diffusa nella popolazione, tanto che giocare alla roulette
russa non compare tra le prime 100 professioni più popolari
del mondo del lavoro, nonostante i lauti guadagni. E questo è
anche dovuto al fatto che, all’aumentare del numero di
giocate, la probabilità di evento avverso tende a 1. È
pertanto probabile che i bravi giocatori di roulette russa si
siano estinti proprio per la loro bravura al gioco, ovvero per
essere riuscita a sfangarla n volte (ma non n+1). E questo è
talmente vero, lampante e ovvio anche per chi non ha un
dottorato in statistica che, in genere, la stragrande
maggioranza degli individui rifiuta anche di premere per una
volta sola il grilletto. L’analisi costi-benefici pende
invariabilmente dalla parte del costo potenziale.

Un approccio basato sul principio
di precauzione
Questo è vero intrinsecamente per gli individui, ma su scala
globale abbiamo dovuto sviluppare un approccio leggermente
differente che abbiamo chiamato «principio di precauzione». In
sostanza, in tutti quei casi in cui un elemento ha il
potenziale di generare un danno che possa determinare
l’estinzione, un danno ecologico irreversibile, anche se vi
fosse una probabilità bassa e anche se i costi fossero
elevati, il principio di precauzione impone di evitare a tutti
i costi l’esposizione al rischio. Generalmente, anzi, non
possiamo nemmeno dire di conoscere con esattezza le
probabilità che il danno si presenti (come è invece il caso
della roulette russa), ma se essa è maggiore di zero, di
fronte alle possibili e gravissime conseguenze dovremo agire
comunque. Di fronte alla sola possibilità di un cambiamento
climatico irreversibile del pianeta, non c’è alcuna analisi
costi-benefici da condurre per azzerare le emissioni di
anidride carbonica perché:

     nell’ipotesi in cui ci fossimo sbagliati, avremmo agito
     sostenendo costi elevati con conseguenti, possibili
     danni economici collaterali e benefici pressoché nulli,
     ma saremmo ancora qui a leggere articoli sul principio
     di precauzione;

     qualora non agissimo, avremo un’economia in ottima
     salute ma potrebbe essere l’unica cosa sana rimasta sul
     pianeta.

Nonostante possa sembrare un principio di assoluto buon senso,
la sua applicazione è spesso osteggiata e l’invocazione alla
sua applicazione spesso fraintesa.

Partiamo da quest’ultima. L’applicazione del principio di
precauzione deve essere riservata solo a situazioni rientranti
nel dominio dei danni sistemici e irreversibili. Dire che non
si debba procedere all’introduzione della tecnologia 5G ne è
un’applicazione indebita. Si tratta di un’innovazione
introdotta su larga scala di cui non si conoscono gli effetti
a lungo termine. È questo un problema concreto che determina
una giusta preoccupazione. Per nessuna ragione possono essere
sottovalutate possibili conseguenze per la salute e
l’introduzione di questa tecnologia dovrebbe avvenire con
cautela, osservando e dandosi tempo per osservare eventuali
effetti sulla salute o sull’ambiente. Tuttavia, i campi
elettromagnetici seguono leggi fisiche note. La loro
interazione con sistemi complessi non è altrettanto nota con
la medesima precisione, ma anche in questo caso esiste una
linea di demarcazione (magari non nettissima ma c’è) tra
possibili scenari e scenari impossibili. Soprattutto, le
antenne si possono spegnere. In caso di necessità, dove
insorgessero le prime evidenze di danni collaterali non
gestibili, sarebbe possibile intervenire per contenere i
danni.

La  possibilità   di   danno                            nel
principio di precauzione
Si noti che si mette in conto la possibilità di danno: nessuno
esclude che alcuni o molti individui, ad esempio, possano
essere danneggiati dal 5G. Semplicemente, questo non impedisce
di procedere, in quanto il danno non sarebbe sistemico e
irreversibile. Ribadisco: ciò non toglie debba avvenire con
tutte le precauzioni e le tempistiche del caso. Il rischio può
essere gestito. Il principio di precauzione, al contrario, non
prevede alcuna gestione del rischio: l’evento deve essere
scongiurato, costi quel che costi.

Coloro che, al contrario, si oppongono all’applicazione del
principio di precauzione, generalmente affermano che sostenere
costi immensi o rinunciare a benefici giganteschi senza avere
alcuna certezza che altrimenti accadrebbe una catastrofe sia
un atteggiamento paranoico.

Ricordando qual è il campo di applicazione del principio di
precauzione, almeno un paio di obiezioni possono essere
opposte a questo ragionamento:

     assenza di prove non è prova di assenza: ritornando
     all’esempio della roulette russa, quanti deciderebbero
     di giocare se trovassero una pistola su un tavolo e un
     biglietto con su scritto: «Questa pistola è scarica. Se
     premi il grilletto puntandotela alla testa, la tua vita
     potrebbe cambiare». A parte l’uso del condizionale
     riferito alla futura vincita (generalmente nemmeno
     quelli che spingono per rinunciare all’applicazione del
     principio di precauzione sono in grado di darci certezze
     sugli effettivi benefici), quanti deciderebbero di
giocare, senza avere alcuna prova della veridicità
     dell’affermazione: «questa pistola è scarica»?

     Onere della prova: in questi casi, data la posta in
     gioco, non devo essere io a fornire la prova
     dell’esistenza del danno. Chi si oppone al principio di
     precauzione, piuttosto, lui sì che deve fornire la prova
     dell’assenza del danno al punto da farci rischiare un
     impatto sistemico e irreversibile. Se vuoi convincermi a
     giocare alla roulette russa, non puoi premere il
     grilletto puntando la pistola in alto e poi dire:
     «Visto? Non è successo niente…».

Covid-19 e principio di precauzione
Ovviamente quella della roulette russa è una falsa
similitudine, utile a portare avanti il ragionamento ma sulla
quale non si applica il principio di precauzione vero e
proprio. Al contrario, una pandemia è esattamente una di
quelle circostanze per le quali il principio di precauzione è
stato introdotto: un approccio che consenta ai decisori di
prendere la decisione giusta in condizioni di incertezza in
presenza di rischi sistemici e irreversibili.

E così, non posso condividere l’altrettanto falsa similitudine
dello tsunami, più volte citata da decisori e dai loro
consulenti scientifici per spiegare come mai fossimo stati
travolti dalla diffusione del contagio in modo così devastante
esattamente un anno fa. In caso di terremoto di magnitudo
almeno pari al 7° grado della scala Richter nel Pacifico, dopo
mezzora parte un allarme rivolto a tutte le aree raggiungibili
da uno tsunami entro 3 ore e si attivano le procedure per
l’evacuazione. Il punto è che l’allerta parte ancor prima che
ci siano le prove di uno tsunami, sulla base del principio che
l’assenza di prove non è prova di assenza, e intervenire solo
quando si abbia la certezza del rischio potrebbe rendere
l’intervento inefficace.
La consapevolezza del rischio e la
tempestività di azione
La consapevolezza del rischio è fondamentale in questi casi:
in altre parole, bisogna crederci e agire di conseguenza. Non
a parole, ma nei fatti.

Il mondo intero ha ricevuto l’allarme di un possibile tsunami
il 31 dicembre 2019. Obiettivamente i sintomi della nuova
malattia potevano essere confusi con quelli di un normale
decorso influenzale, ma il problema vero è non aver agito con
la dovuta decisione ancor prima della diagnosi del primo caso
di Codogno. Di fatto non abbiamo davvero creduto che potesse
essere un problema che avrebbe potuto travolgerci con la
violenza e la rapidità a cui abbiamo assistito. E infatti la
definizione di “caso sospetto di COVID-19” nel nostro Paese
includeva i criteri epidemiologici di qualcuno che fosse stato
in Cina o fosse stato in contatto con persone provenienti
dalla Cina prima che, in presenza di sintomi, fosse richiesta
l’esecuzione di un test molecolare. E questo ha scoraggiato il
testing su tutti i casi di polmonite di cui i medici di base
avevano notizia o che giungevano in ospedale.

La giovane anestesista che ha richiesto il test PCR per il
giovane di Codogno lo ha fatto sotto la propria
responsabilità, violando le procedure. Fino a quel momento è
come se ci fossimo accontentati di fare i controlli
antiterrorismo in aeroporto solo ai passeggeri musulmani,
perché «tutti i terroristi sono musulmani».

E questo è esattamente il punto: in presenza di rischi di
questa portata, non si fanno controlli antiterrorismo perché
si sospetta che ci sia un terrorista tra i passeggeri
dell’aereo, ma perché non si può escludere che ci sia un
terrorista tra i passeggeri.
In presenza di rischi sistemici che
possono determinare il collasso, le
misure non sono mai “eccessive”
Del resto, sarebbe sembrato assurdo e ingiustificabile
adottare misure eccessive e sproporzionate come testare
chiunque si presentasse in ospedale con dati sintomi,
piuttosto che fare controlli rigorosi alle frontiere
dell’Unione europea quando ancora del virus e della pandemia
si sapeva poco o nulla. Ma di fronte a rischi sistemici che
possono determinare il collasso e di cui si sa poco o nulla,
le misure non sono mai “eccessive”, quanto piuttosto
proporzionate ad una minaccia sconosciuta: l’analisi costi-
benefici non può essere applicata e nessuno dovrebbe mai
criticare le decisioni prese se conformi al principio di
precauzione. Se difatti non accadesse nulla, il rischio è che
qualcuno possa affermare che l’intervento è stato inutile,
costui confondendo l’effetto (l’assenza di danno) con la causa
(le misure adottate). Le misure non sono inutili perché non è
successo nulla. Piuttosto non è successo nulla perché le
misure erano utili.

Fase 2, mascherine e trasmissione
aerogena del virus
Ulteriori considerazioni possono essere fatte per non aver
promosso con la necessaria forza all’inizio della Fase 2
l’impiego delle mascherine e di non stare considerando con la
dovuta precauzione l’effetto della trasmissione aerogena
(aerosol e droplet nuclei), costantemente ribadendo che non ci
sono prove che confermino l’utilità delle mascherine o che la
trasmissione da aerosol possa essere una via efficace di
contagio. Al solito, il punto non è cosa accadrebbe se le
mascherine fossero inutili o se la trasmissione avvenisse
esclusivamente tramite droplet, ma quali conseguenze avrebbe
(ha avuto) non agire in queste direzioni dal punto di vista
della diffusione della pandemia.

Fase 3 e varianti del virus
Al momento, il semplice allarme della presenza di varianti del
virus dovrebbe imporci di rivedere l’intero sistema di difese,
agendo sulle scuole e sui trasporti, in particolare, fino a
quando non avremo una mappa precisa della loro diffusione,
piuttosto che aspettare che la curva dei contagi salga per
agire in seguito. Inoltre, nonostante, dopo un anno, l’area
della nostra conoscenza del virus si sia ampliata
notevolmente, la presenza stessa di queste varianti è la
prova, semmai ce ne fosse bisogno, che non si possono
escludere ulteriori mutazioni e che queste possono essere
molto più contagiose e letali del virus che abbiamo sinora
conosciuto. Né possiamo escludere che una di queste possa,
addirittura, rendere inefficaci i vaccini che attualmente
rappresentano la via rapida di uscita da questa pandemia.

L’imperativo rigoroso è vaccinare rapidamente tutta la
popolazione prima che ulteriori varianti del virus possano
rimettere in discussione quello che oggi conosciamo e
affossare le speranze. Whatever it takes.

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