EPISTEMOLOGIA DELLA MATEMATICA - Complementi alle lezioni di Giuseppe Gentile Il formalismo e le altre risposte alla crisi dei fondamenti ...

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Giuseppe Gentile

     Complementi alle lezioni di

EPISTEMOLOGIA DELLA MATEMATICA

      Il formalismo e le altre risposte
          alla crisi dei fondamenti

       Dipartimento di Matematica
          Università di Messina
2                                        Giuseppe Gentile

                                      AVVERTENZA

Il presente lavoro costituisce una prima stesura di una parte del Corso di Epistemologia della
Matematica destinato agli studenti dei corsi SISSIS e del corso di laurea specialistica in Matematica
dell’Università di Messina. Per tale motivo alcune sezioni di questo stesso testo risultano mancanti
o incomplete e si potranno altresì riscontrare incongruenza e ripetizioni.
La parte del corso qui contenuta riguarda il formalismo e le altre correnti di pensiero che hanno
cercato di dare risposte alla crisi dei fondamenti di fine ‘800 e si pone come complemento del Corso
di Epistemologia della Matematica del Prof. Renato Migliorato.

Questo teso può essere liberamente scaricato, per solo uso personale, dal sito:
                                        ww2.unime.it/alefzero
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pubblicato in tutto o in parte senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Epistemologia della Matematica                                                  3

§1. Il problema dei fondamenti

Per descrivere quali sono le questioni ed il punto di vista della moderna epistemologia della
matematica, cominceremo col dire che il problema che deve affrontare chi voglia occuparsi di
filosofia della matematica si scinde inevitabilmente in due grandi sottoproblemi, tra loro
complementari, che potremmo chiamare, in prima approssimazione, problema delle applicazioni e
problema dei fondamenti. La riflessione filosofica ha avuto negli ultimi tempi un maggiore spazio
all’interno della matematica e oggi possiamo dire che sono sempre di più i matematici che hanno
preso coscienza che il lavoro “tecnico” deve andare di pari passo con un lavoro di riflessione che
accompagni il matematico nella sua quotidiana attività. A questo punto è quasi d’obbligo chiarire la
differenza tra lavoro tecnico e riflessione su tale attività; una risposta, se non rigorosa, quantomeno
operativa è stata data da Kreisel che così si esprime: “tale distinzione è illustrata da problemi del
tipo: Che cosa è X? L’analisi è tecnica se risposta è data in termini dell’argomento considerato, cioè
se X è definito in termini di nozioni primitive già adoperate […]. È invece un’analisi dei
fondamenti se la definizione è data in termini di nuove nozioni primitive non ancora adoperate”1. È
chiaro che si tratta di una distinzione operativa, perché essa dipende dallo stato attuale delle
conoscenze matematiche; ma c’è di più di tale cruda distinzione: l’atteggiamento di chi fa un lavoro
tecnico è più rivolto ai risultati, mentre quello di chi lavora sui fondamenti è più rivolto alla
precisazione di alcune nozioni-base; quindi, mentre la ricerca sui fondamenti cerca di formulare e
giustificare quei principi-base che la pratica accetta ed usa, il lavoro tecnico si occupa
semplicemente della deduzione di nuovi risultati dai principi stabiliti; in altre parole, mentre il
lavoro tecnico mira all’estensione delle conseguenze derivanti da un numero limitato di assiomi e di
nozioni-base, quello sui fondamenti si preoccupa di approfondirne la comprensione teorica
attraverso una più chiara precisazione dei concetti fondamentali. Tra le varie questioni che fanno
capo al problema dei fondamenti, un posto di particolare rilievo assume quella relativa alla natura
stessa del sapere matematico. Volendo fare una prima classificazione, possiamo dire che due sono
state le concezioni finora proponibili: una che potremmo dire contenutistica ed una che potremmo
chiamare formalistica. Secondo la prima, la matematica ha un suo significato autonomo, cioè è un
discorso che verte intorno a delle entità e quindi essa può e deve essere considerata una scienza;
secondo la concezione formalistica, la matematica è da considerarsi un linguaggio, non un discorso
su delle entità, ma uno schema di discorso che trova di volta in volta una particolare realizzazione.
Tale distinzione, che sarà meglio chiarita in seguito, fu messa in luce dalla crisi dei fondamenti
seguita alla scoperta delle antinomie all’interno della teoria degli insiemi; in quel momento il
mondo matematico si rivolse verso i fondamenti, cercando di penetrare più a fondo quelle nozioni,
apparentemente innocue, ma dagli effetti devastanti. Fu proprio nel tentativo di fornire una risposta
soddisfacente a tale problematica che alcuni atteggiamenti ed alcune idee, riguardanti l’attività
matematica, si vennero precisando e trovarono una loro sistematizzazione2.
La crisi a cui si accenna è quella scoppiata fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ed è sulle
motivazioni che portarono alla sua nascita e sui vari tentativi che da più parti e in più direzioni sono
stati fatti nel cercare di superarla che saranno dedicate principalmente queste note. Inizieremo
facendo una panoramica sulla posizione formalista, sulla sua origine, la sua evoluzione e la sua fine
(almeno nel contesto hilbertiano) decretata dai due teoremi di Gödel. Passeremo dopo a descrivere
le concezioni platoniste e quelle contenutistiche usando come parametro, per meglio mettere in
evidenza le loro diverse posizioni, la teoria cantoriana degli insiemi; infine andremo a
particolarizzare le concezioni contenutistiche, spiegando la differenza fra il predicativismo ed
l’intuizionismo.

1
  G. Kreisel, Mathematical Logic: What is done for the Phylosophy of Mathematics?, in Bertrand Russell, Philosopher
of the Century (R. Schoenman, editor), Allen and Unwin, London, 1967, pagg. 304-305.
2
  Si veda su tali questioni si veda ad esempio C. CELLUCCI, La filosofia della matematica, Laterza, 1967, pagg. 9-71.
4                                                Giuseppe Gentile

§2. Il formalismo

Apriamo la discussione con la descrizione delle posizioni formaliste della matematica che,
storicamente, hanno avuto il loro primo promotore in David Hilbert che, nel discorso di apertura del
2° Congresso Internazionale di Matematica tenutosi a Parigi nel 1900, dichiarò quali fossero,
secondo lui, i problemi (esattamente 23) la cui soluzione avrebbe fatto avanzare lo stato delle
conoscenze matematiche. Quello di cui qui ci occuperemo è il secondo di tali problemi e riguarda,
come vedremo, proprio i fondamenti; prima di analizzare tale problema, apriamo una parentesi
parlando delle geometrie non-euclidee, per il fatto che il loro manifestarsi può risultare un comodo
esempio per capire meglio la visione hilbertiana di cui vogliamo occuparci.

§2.1. Le geometrie non-euclidee: dagli oggetti alle relazioni fra di essi

Quello che in questo paragrafo si vuole evidenziare è il profondo cambiamento che nel corso dei
secoli è avvenuto nell’approccio verso quelli che sono gli “oggetti” della matematica. Sarebbe
intanto necessario capire quali sono tali oggetti; infatti, in una teoria che si rispetti, bisogna
innanzitutto precisare di cosa quella teoria si occupa.
Per meglio capire tale processo di cambiamento prenderemo spunto, ripercorrendola per grandi
linee, dalla storia del famoso 5° Postulato di Euclide. Tale postulato, nella sua forma originale,
afferma che:

                   “Se due rette tagliate da una trasversale formano, da una stessa parte,
                                  angoli la cui somma è minore di due retti,
                             allora le due rette si incontrano da quella parte”.

Sin dall’antichità, tale postulato apparve poco “evidente” per via della sua non costruttività, che lo
differenziava notevolmente dagli altri quattro. Fu per tale motivo che, per circa due millenni, i
matematici cercarono una dimostrazione di tale postulato, facendo uso solo dei primi quattro. In
termini moderni, la questione può porsi nel seguente modo: il 5° Postulato di Euclide è
indipendente o no dagli altri quattro? I risultati che alcuni matematici ottennero furono però solo
enunciati equivalenti di tale postulato; fra questi va ricordato quello che è noto come Postulato delle
parallele:

                     “Dati una retta ed un punto fuori di essa esiste un’unica parallela
                                alla retta data passante per il punto dato”.

Fra i tentativi di dimostrare tale postulato, ci soffermeremo adesso a valutare più in dettaglio quello
operato da Gerolamo Saccheri, un matematico italiano vissuto dal 1667 al 1733. L’idea di Saccheri
era quella di assumere come vera la negazione del 5° Postulato, nutrendo la speranza che questa
assunzione portasse a una contraddizione. L’idea era davvero illuminante e, in termini moderni,
potremmo dire si trattasse di una dimostrazione per assurdo. A dire il vero, Saccheri credette anche
di essere riuscito ad arrivare ad una contraddizione, ma (ed è proprio questo il punto cruciale) su
cosa tale contraddizione era fondata? In un caso (quello in cui di rette parallele non ce ne sono)
Saccheri trova una contraddizione, ma questa è basata sull’assumere anche il postulato dell’infinità
della retta. Il caso che però qui più ci interessa è quello in cui Saccheri assume che di rette parallele
ce ne sia più d’una; egli dimostra l’esistenza di rette che, seppur non parallele, non hanno alcun
punto in comune e ciò, come Saccheri dice, “è contrario alla natura della retta”3. Come si vede, la
contraddizione non scaturisce dall’interno della teoria stessa, ma nasce dall’esterno, non deriva da
un assurdo logico, ma trova la sua giustificazione nella natura della retta.

3
    G. SACCHERI, Euclides ab omni naevo vindicatus, Proposizione XXXIII.
Epistemologia della Matematica                                       5

È questo, forse, l’ultimo serio tentativo di dimostrare il 5° Postulato; infatti già lo stesso Gauss
cominciò a concepire l’idea che tale postulato fosse indipendente dagli altri, ossia che la geometria
ottenuta con la sua negazione (detta appunto geometria non euclidea) non avesse in sé niente di
contraddittorio. Ciò che è cambiato è il punto di vista: non si guarda più agli “oggetti” matematici
come aventi una “natura in sé”, ma la loro natura è fornita dal rapporto che ognuno di essi ha con
gli altri. Un esempio che serva a chiarire tale concetto è senz’altro il modello di piano iperbolico
(non euclideo) fornito da Klein, matematico tedesco vissuto dal 1849 al 1925. Nel modello di Klein
si considera, in un piano proiettivo, una conica non degenere a punti reali (possiamo, per semplicità,
considerare un’ellisse); ora, si chiami piano la regione di piano interna alla conica, si chiami punto
un punto interno alla conica, si chiami retta una corda della conica (esclusi gli estremi), si chiami
uguaglianza un’omografia del piano proiettivo che muti la conica in sé. Nel piano fittizio, costituito
dai punti interni alla conica, si assuma come distanza di due punti A e B il numero ρ log (PQAB),
essendo P e Q gli estremi della corda individuata da A e B, (PQAB) il birapporto dei quattro punti e
ρ una costante, reale e non nulla. Quello che si è costruito è un modello, cioè degli enti chiamati
punti, rette, piano, uguaglianza, distanza. Orbene, si può vedere che questi enti soddisfano a tutti i
postulati euclidei, tranne che al quinto.
Quello che ora ci interessa dedurre da tale modello è molto semplice; Saccheri, in tale modello
avrebbe visto solo uno conica, alcuni punti e delle corde: sicuramente non avrebbe potuto dare il
nome di retta ad una corda di un’ellisse che è limitata e che quindi non può essere una retta che, per
“natura”, è illimitata! Ciò che invece, nel modello di Klein, dà diritto ad un ente di essere chiamato
“retta” non è più la “natura”, assegnata dall’esterno, ma le relazioni che tale ente ha con gli altri enti
interni al modello stesso, cioè gli enti chiamati “punti”, l’ente chiamato “piano” e gli altri enti
chiamati “rette”. In altre parole, è scomparsa la retta per “natura”, ma è lecito chiamare retta
qualunque ente purché sia in una ben determinata “relazione” con gli altri enti; di conseguenza si è
spostata l’attenzione dall’oggetto all’ambiente in cui esso si trova.
Questa idea di definire un ente tramite le relazioni che si possono stabilire con altri enti è ormai di
uso comune e, a volte, la usiamo quasi senza accorgercene. Quando definiamo, ad esempio, cosa è
un gruppo, diciamo che esso è una struttura algebrica con una operazione binaria interna (1) i cui
elementi godono della proprietà associativa, (2) in cui esiste un elemento neutro e (3) in cui ogni
elemento ha un inverso. Soffermiamoci sulla proprietà associativa: essa non dice nulla sulla
“natura” degli elementi che di essa godono, dice solo che in un gruppo essi sono in una ben
determinata “relazione”. È chiaro che questo modo di procedere e di definire consente di dare il
nome di gruppo a strutture talmente lontane da quelle tradizionalmente considerate dalla
matematica che, a prima vista, non dovrebbero avere niente in comune con esse; ma, se una sera
dovesse capitare di invitare 4 amici a cena, l’insieme formato da tutti i modi in cui potremmo
occupare i posti a tavola (con l’usuale composizione) sarebbe, a norma di definizione, un gruppo!
Ciò che ormai appare sempre più chiaro è che la matematica non dipende in alcuna maniera dal
particolare significato che può assumere un termine contenuto in un postulato; è chiaro che un
termine può assumere di volta in volta un significato diverso e anzi è su questo che si basa la scelta
di assumere un assioma piuttosto che un altro, ed è questo che rende più facile la scoperta e la
comprensione di un teorema; ma tale assunzione non può (e non deve) influire sul processo di
deduzione; in altre parole, il significato di un termine è senz’altro presente nella mente del
matematico, nel momento in cui egli assume un certo gruppo di assiomi, ma dopo tale momento
egli deve spogliare ogni termine del suo significato originario per potergli far assumere ogni
possibile significato. Ecco perché la matematica occupa un posto di predominanza rispetto alle altre
scienze: il matematico mette in moto un processo deduttivo partendo dalle ipotesi da cui è partito,
mentre lo scienziato usa la matematica per studiare un oggetto particolare.
È ora, forse, più chiaro cosa debba intendersi per “oggetto matematico”: esso è un qualunque
termine che si trovi in un postulato ed è definito “implicitamente” dal postulato stesso, poiché esso
lo mette il “relazione” con altri “oggetti matematici”. Si vede chiaramente come il punto di vista è
6                                           Giuseppe Gentile

completamente cambiato: un oggetto ora non ha una propria natura, ma è definito dalle relazioni
che esso ha con gli altri oggetti.
Come conseguenza di tale visione, l’indagine del matematico non deve essere rivolta a sapere se i
postulati che egli ammette o le deduzioni che da essi trae sono veri o falsi, ma se tali deduzioni sono
conclusioni logiche delle ipotesi da cui è partito; infatti parlare di verità avrebbe senso se gli oggetti
della matematica avessero una loro natura; ma, nel momento in cui tale natura scompare, non ha più
senso porsi il problema se tale natura è vera o falsa. Le geometrie non euclidee offrono, da questo
punto di vista, un valido supporto esemplificativo: gli assiomi che le definiscono furono considerati
fin dall’inizio falsi “rispetto allo spazio fisico” e pertanto difficilmente veri “riguardo a qualsiasi
altra cosa”; fu solo dopo Gauss che l’attenzione si spostò da questa ricerca di verità, alla ricerca di
una loro coerenza “intrinseca”, cioè al problema di stabilire se essi potessero portare o meno a
contraddizioni interne alla teoria stessa. I postulati della geometria di Riemann sono (molto
probabilmente!) non veri rispetto allo spazio dell’esperienza ordinaria; ma, l’aver costruito un
modello (basato sulla geometria euclidea) in cui essi valgono, ne dimostra la coerenza (almeno
rispetto alla geometria euclidea), nel senso che se quest’ultima è coerente, allora sarà coerente
anche quella di Riemann. Si parla, in tal senso, di coerenza relativa, nel senso che la coerenza della
geometria non-euclidea si basa sulla coerenza della geometria euclidea; il problema della coerenza
assoluta, cioè di stabilire se una teoria è coerente “in sé” verrà affrontato nel paragrafo dedicato al
formalismo ed al Teorema di Gödel
Tutto ciò che fin qui è stato detto chiarisce il significato del famoso epigramma di Russell:

                    “La matematica è quella scienza in cui non sappiamo di cosa
                        stiamo parlando o se ciò che stiamo dicendo è vero”.

Tale punto di vista era destinato a sconvolgere quelle che erano state le convinzioni di tutti i
matematici fino a quell’epoca; l’affermazione che la matematica doveva cercare una coerenza e una
giustificazione in sé, che con le geometrie non euclidee aveva trovato il suo primo e più importante
esempio, era destinata a cambiare non solo le idee prettamente matematiche, ma anche quelle del
pensiero comune. Il fatto che non esiste una retta per “natura”, cioè che non esiste una retta (ed una
verità) “assoluta”, apre la strada alla possibilità di avere tante rette (e tante verità) “relative”. Si può
così dire che dal quel momento in Matematica è finita la dittatura ed ha preso piede la democrazia.

§2.2. Il formalismo e i due Teoremi di Gödel

Quando si affrontano problematiche relative al formalismo ed alla critica che ad esso è seguita, le
parole che appaiono più spesso sono “verità” e “dimostrabilità”: questi termini, che nella vita
comune vengono facilmente differenziati, hanno trovato nella matematica una certa resistenza verso
tale distinzione, proprio perché la matematica è ritenuta attività molto diversa da quella quotidiana;
il merito di Gödel è stato l’aver intuito e poi dimostrato che in effetti tra “verità” e “dimostrabilità”
c’è un abisso che non può essere colmato.
Come abbiamo avuto modo di vedere, un grosso scossone al ruolo ed al significato dell’attività
matematica fu dato dalla scoperta delle geometrie non-euclidee; difatti la dimostrazione che tali tipi
di geometria, seppur lontane dalle più immediate percezioni fisiche, fossero ammissibili perché
internamente coerenti, portò due contributi notevoli: il primo è che è possibile dimostrare
l’impossibilità di dimostrare; la seconda è che c’è un netto distacco tra ciò che è “vero” e ciò che è
“coerente”.
A questo punto però si apriva una problematica che, prima di allora, non aveva ragion d’essere:
infatti, prima della scoperta delle geometrie non-euclidee, la coerenza della geometria (l’unica,
quella euclidea) poggiava sulla presunta “rappresentazione” della realtà e quindi, essendo specchio
del reale, la geometria doveva essere necessariamente coerente; ora, la coerenza di queste nuove
geometrie su cosa poteva poggiarsi dal momento che esse sembravano così lontane dal mondo
Epistemologia della Matematica                                                   7

esterno? In altre parole, se prima era la “realtà” a fare da garante, chi era adesso a garantire per le
nuove geometrie?
In tale direzione, sono state avanzate fondamentalmente due ipotesi risolutive: una è quella di
costruire un “modello” della teoria, l’altra è quella di fondare la matematica su idee chiare, semplici
e precise.
La prima di tali soluzioni, in effetti, ha ottenuto dei risultati, ma soltanto parziali poiché il trovare
un modello4 di una teoria all’interno di un’altra non fornisce una prova “assoluta” di coerenza, ma
sposta solo il problema dalla coerenza di una teoria alla coerenza di un’altra.
Quando si parla della seconda soluzione ci si riferisce principalmente alle idee di Frege e Russell5, i
quali volevano ridurre la matematica alla logica, fondando la prima su concetti logici molto
semplici: l’idea sembrava funzionare, fin quando la scoperta delle antinomie all’interno della teoria
non gettò nello sconcerto la comunità matematica6.
In tale situazione è chiaro come potesse diventare sempre più pressante la necessità di dimostrare in
qualche modo che una certa teoria fosse effettivamente coerente; ma stavolta era necessaria una
dimostrazione assoluta di coerenza, almeno per l’aritmetica che, in quel momento storico, faceva da
fondamento all’intero edificio matematico: è questo, in breve, l’allarme lanciato da Hilbert agli inizi
del XX secolo e che diede origine al suo Programma.
L’idea hilbertiana era che la causa della presenza delle antinomie risiedesse nel loro contenuto
semantico7; la proposta avanzata da Hilbert era dunque quella di creare una cornice priva di
significato in cui i simboli (puramente sintattici) potessero essere manipolati tramite regole
predeterminate: quello che viene oggi detto sistema formale8. Vediamo di chiarire meglio questo
concetto; un sistema formale è un complesso di simboli (l’alfabeto) e di regole che consentono di
passare da una stringa di simboli ad un’altra (regole d’inferenza); alcune di tali stringhe vengono
poste all’inizio del sistema (assiomi) ed a questo punto compito del matematico è quello di mettere
in moto le regole d’inferenza per dedurre, a partire dagli assiomi, nuove stringhe del sistema stesso
(teoremi)9.
Se ora al sistema formale associamo un dizionario che possa dare un significato ad ogni simbolo
(significato che di volta in volta può cambiare a seconda della teoria matematica che al sistema

4
  Come abbiamo avuto già modo di vedere, è possibile trovare un modello della geometria non-euclidea all’interno di
quella euclidea e quindi far dipendere la coerenza della prima dalla coerenza della seconda; a sua volta, la geometria
euclidea può essere fondata, tramite il sistema di coordinate cartesiane, sulla teoria dei numeri reali e così si sposta il
problema alla coerenza dei numeri reali; ancora, attraverso l’assiomatica di Dedekind, si può fondare la teoria dei
numeri reali su quella dei numeri naturali. Si parla in tal senso di “riduzionismo”, intendendo appunto il fondare, tramite
un modello, una teoria su di un’altra, facendo così dipendere la coerenza della prima dalla coerenza della seconda.
5
  Le idee di Frege e Russell furono messe in pratica fondando l’aritmetica (che in quel momento reggeva tutto l’edificio
matematico) sul concetto (logico) di insieme; avveniva così una ulteriore riduzione, ma stavolta tale processo aveva
delle ripercussioni più profonde facendo diventare la matematica una parte della logica e capovolgendo di fatto il
predominio che storicamente aveva visto le due discipline con i ruoli esattamente invertiti.
6
  Fra le antinomie è il caso di ricordarne almeno due:
• Antinomia dell’insieme universo. Sia U l’insieme di tutti gli insiemi (detto appunto insieme universo); U deve
     quindi avere cardinalità non inferiore a qualunque altro insieme, cioè |U| ≥ |X|, ∀ insieme X; ma per il Teorema di
     Cantor, ogni insieme ha cardinalità strettamente inferiore a quella del suo insieme delle parti, cioè |U| < |P(U)|, che,
     insieme alla precedente disuguaglianza, porta all’assurdo.
• Antinomia di Russell Ci sono insiemi che non appartengono a se stessi (l’insieme di tutti gli uomini non è un
     uomo) ed insiemi che appartengono a se stessi (l’insieme dei concetti è un concetto). Sia dunque A = {X : X ∉ X}.
     Ci si chiede se A ∈ A o no. Se A ∈ A allora, per come è definito A, si deduce che A ∉ A; viceversa da A ∉ A, si
     deduce che A ∈ A. In ogni caso si arriva ad un assurdo.
7
  La Semantica è quella parte della Scienza del linguaggio che riguarda il rapporto tra i segni e i rispettivi significati;
possiamo identificare, quindi, la Semantica con la “Scienza dei significati”; accanto alla Semantica possiamo
considerare la Sintattica, che possiamo considerare come quella parte della Scienza del linguaggio che si occupa della
manipolazione dei segni linguistici, ma prescindendo dai loro possibili significati.
8
  Per approfondimenti sui sistemi formali e le teorie del primo ordine, si veda il relativo articolo che si trova tra i
materiali didattici all’indirizzo ww2.unime.it/alefzero.
9
  Anche gli assiomi sono considerati teoremi.
8                                               Giuseppe Gentile

vogliamo associare), possiamo dare una “interpretazione” al sistema formale10: in questo modo un
teorema del sistema formale si interpreta come un’asserzione vera della teoria associata a tale
sistema.

Cerchiamo di chiarire tutto ciò con un esempio11:
Il sistema formale che andiamo a definire è costituito da un alfabeto con tre simboli:

                                                       pg–

da uno “schema” di assiomi:

                    x p – g x – è un assioma ogni qual volta x è composto da soli –

e da una regola d’inferenza:

        Siano x, y, z stringhe di soli – . Se x p y q z è teorema allora x p y – g z – è teorema.

Ora, ad esempio, la stringa – – p – g – – – è un assioma (con x = – –) e, usando la regola
d’inferenza, la stringa – – p – – g – – – – è un teorema. Allo stesso modo si possono dedurre
formalmente altri stringhe usando la regola d’inferenza sopra definita. Come si può vedere il
meccanismo con cui si possono derivare i teoremi è del tutto formale, agendo sui simboli con una
regola d’inferenza ben precisa.
Domandiamoci adesso se esiste una interpretazione di tale sistema (ricordando che tale fatto è del
tutto superfluo per il sistema formale, come si può vedere dal fatto che i teoremi devono essere
dedotti solo tramite la regola d’inferenza); per il sistema appena descritto la risposta è affermativa
(ma potrebbe benissimo non essercene nessuna); interpretiamo i simboli nel modo seguente:

                                                 –   ↔            1
                                                 ––  ↔            2
                                                 ––– ↔            3
                                                     …
                                                 p   ↔            +
                                                 g   ↔            =

Gli assiomi, nell’interpretazione fatta, si leggono:

                                                   x + 1 = x+1

mentre la regola d’inferenza si legge:

                                     Se x + y = z allora x + y + 1 = z + 1.

È così che, a questo punto, i teoremi del sistema formale si interpretano in asserzioni vere fatte sui
numeri naturali.

Torniamo adesso al Programma di Hilbert; oltre alla già descritta richiesta di una dimostrazione
assoluta di coerenza dell’aritmetica, la speranza del matematico tedesco era di trovare un sistema
10
   Sottolineiamo che il sistema formale non necessita di una interpretazione per la sua definizione, ma solo che è
possibile, se lo si vuole dotare di un “significato”, assegnare ad un sistema formale un “dizionario” che consenta di
stabilire delle corrispondenze fra il sistema formale ed una sua possibile interpretazione.
11
   Vedi D. R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, pagg. 50–59.
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che formalizzasse l’aritmetica e che si comportasse come una sorta di “macchina della verità”:
assegnata una proposizione, doveva essere in grado di dare sempre una risposta tra “vero” o “falso”,
cioè ogni proposizione doveva essere conseguenza degli assiomi o lo doveva essere la sua
negazione. In altri termini, Hilbert auspicava che, una volta stabilita l’interpretazione, vi fosse una
corrispondenza uno-a-uno tra i fatti veri della struttura matematica ed i teoremi del sistema formale,
cioè che ogni verità matematica fosse dimostrabile nel sistema formale e viceversa. Un sistema
siffatto viene detto completo.
Hilbert sperava, inoltre, che nel sistema formale non si potessero dedurre un teorema e la sua
negazione. In altre parole una verità matematica e la sua negazione non dovevano mai tradursi in
teoremi, cioè essere dimostrabili nel sistema formale. Un tale sistema viene detto coerente.
Volendo riassumere, il sogno di Hilbert era quello di trovare un sistema completo e coerente che
fosse capace di formalizzare l’aritmetica. Ma il lavoro di Gödel doveva trasformare tale sogno in un
incubo; difatti il primo teorema di Gödel afferma proprio l’impossibilità che un siffatto sistema
formale esista; tale risultato può essere enunciato nel seguente modo12:

                         Sia T una teoria formale contenente la teoria dei numeri.
                                  Se T è coerente allora non è completa.

Prima di dare un breve cenno alla dimostrazione è necessario riflettere attentamente sul risultato di
Gödel: infatti “a priori” c’è un numero infinito di modi in cui poter scegliere gli assiomi e le regole
d’inferenza di un sistema che possa tradurre sintatticamente le verità matematiche dell’aritmetica,
ma (è questo il risultato di Gödel) qualunque scelta si decida di fare, ci saranno sempre verità
matematiche non dimostrabili formalmente nel sistema scelto.

Passiamo adesso a descrivere, molto in breve, su cosa si basa la prova di Gödel13; le due idee
centrali sono quelle di “rappresentazione” e di “autoreferenzialità”. Gödel è riuscito a rappresentare,
nel suo scritto, i “Principia mathematica” di Russell e Whitehead all’interno dell’aritmetica,
associando ad ogni simbolo e ad ogni variabile (numerica, proposizionale, predicativa) un numero:
il gödeliano; in tal modo ad ogni proposizione del celebre trattato corrispondeva un gödeliano. Il
secondo passo fu quello di considerare enunciati autoreferenziali, quali “Questo enunciato è falso”,
che erano all’origine di alcune antinomie; l’idea di Gödel fu quella di sostituire la “verità” con la
“dimostrabilità”, trasformando così il precedente enunciato in “Questo enunciato non è
dimostrabile”. In breve Gödel considerò l’enunciato:

                                          G : “G non è dimostrabile”.

Gödel riuscì a tradurre numericamente questo enunciato e a provare che:

                                   G è dimostrabile ⇔ ¬G è dimostrabile

Da ciò chiaramente ne segue che G non è dimostrabile (se infatti lo fosse, per la precedente doppia
implicazione, anche ¬G sarebbe dimostrabile e ciò non è possibile avendo supposto la teoria T
coerente).
Successivamente Gödel provò che la proposizione G è vera. A questo punto il teorema è
completamente dimostrato poiché la proposizione G è vera, ma non formalmente dimostrabile, cioè
la teoria T non è completa.

12
   Gödel, Über formal unentscheidbare Sätze der “Principia mathematica” und verwandter Systeme, (1931); il cui
titolo potremmo tradurre Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei “Principia mathematica” e di sistemi affini.
13
   Vedi E. NAGEL, J. R. NEWMAN, La prova di Gödel, pagg. 78-108.
10                                              Giuseppe Gentile

In altre parole, il 1° teorema di Gödel afferma che se un sistema che formalizzi l’aritmetica non
porta a contraddizioni (cioè se è coerente), allora l’assiomatica non è sufficientemente potente da
poter contenere al suo interno tutte le proprietà vere dell’aritmetica stessa (cioè non è completo),
ponendo così un limite al metodo assiomatico14. Questo disegno rappresenta in maniera molto
efficace la situazione che viene fuori dal 1° Teorema di Gödel 15:

Passiamo adesso ad analizzare il secondo teorema di Gödel, che doveva frantumare anche l’altro
progetto hilbertiano, quello cioè di trovare una prova assoluta di coerenza, almeno per l’aritmetica.
Tale teorema può essere enunciato come segue:

                         Sia T una teoria formale contenente la teoria dei numeri.
                         Se T è coerente tale coerenza non può essere dimostrata
                                     con strumenti formalizzabili in T.

Per dare un’idea della linea dimostrativa diciamo solo che sulla base dei risultati ottenuti nel primo
teorema, Gödel riuscì, tramite la tecnica già vista della gödelizzazione, a tradurre numericamente
l’enunciato:

                                         A : “L’aritmetica è coerente”

Inoltre Gödel provò che l’implicazione
14
   Per fare un esempio, consideriamo la cosiddetta Congettura di Goldbach, risalente al 1742, che afferma:
                             Ogni numero pari maggiore di 2, è somma di due numeri primi
Ebbene, fino ad oggi non è stato trovato un controesempio (cioè tutti i numeri pari finora considerati sono di fatto
somma di due primi), ma non è stata finora trovata una dimostrazione di tale congettura. Questo è ad oggi un problema
indecidibile e potrebbe essere una di quelle proposizioni di cui Gödel ha provato l’esistenza, cioè un affermazione
“vera”, ma non “dimostrabile”. Diciamo potrebbe perché il teorema di Gödel ci dice che esistono di tali proposizioni,
ma non fornisce un metodo per stabilire quali esse siano.
15
   Tratto da D. R. HOFSTADTER, op. cit., pag. 77.
Epistemologia della Matematica                                                 11

                                               A ⇒ G è dimostrabile

Da ciò ne viene che la proposizione A non è dimostrabile (se infatti lo fosse, per la precedente
implicazione, seguirebbe che anche G sarebbe dimostrabile, contro quanto provato nel 1° Teorema)
e cioè che non è dimostrabile la coerenza dell’aritmetica.

Anche qui bisogna fare una precisazione: il risultato di Gödel non afferma che non sia possibile
ottenere una dimostrazione relativa di coerenza (perché ciò abbiamo già visto che è possibile), ma
che non è possibile trovare una dimostrazione assoluta di coerenza dell’aritmetica, cioè, come
voleva Hilbert, dall’interno dell’aritmetica stessa16.
Anche senza i risultati di Gödel, che frantuma il sogno di Hilbert, bisogna notare che la posizione
formalista trova un grosso ostacolo alla sua accettazione, partendo dalla seguente osservazione:
all’interno di una teoria formalizzata abbiamo visto che sono presenti simboli e regole per
manipolarli; ora, di regole per manipolare tali simboli non ne esiste “a priori” una privilegiata e
tocca al matematico sceglierla; ma è chiaro che né una particolare scelta è puramente formale, né
può essere data una giustificazione puramente formale delle scelte fatte. Questo è un punto
determinante in quanto il formalismo, non solo si prefigge di giustificare tutta l’esperienza
matematica in termini solo formali, ma pretende che questo sia il reale procedere matematico; il
formalismo suggerisce, così, la possibilità di una teoria meccanicistica del ragionamento e della
conoscenza, nel senso che il sistema nervoso è un meccanismo il cui comportamento è fissato da
certe regole formali, come un calcolatore è un meccanismo il cui comportamento è fissato da certe
regole meccaniche. Ora, se queste idee hanno consentito lo sviluppo di calcolatori elettronici, i
risultati di Gödel ne hanno mostrato i limiti intriseci: in matematica esiste quel quid di astratto che è
ineliminabile; i teoremi vengono dimostrati formalmente, ma non vengono trovati meccanicamente.
Da questo punto di vista, ben vengano i teoremi di Gödel, che provano la non esistenza di una
“Macchina della Verità”, perché se esistesse davvero una tale macchina, i matematici avrebbero
perso il loro lavoro: tutto sommato se Hilbert ha vissuto con l’incubo di Gödel, noi grazie a lui
dormiamo sogni tranquilli!

§3. Le concezioni contenutistiche

Quando abbiamo descritto la differenza fra la concezione formalista e quella contenutistica,
abbiamo detto che quest’ultima vede la Matematica come uno Scienza, nel senso che è un discorso
che verte intorno a delle entità; adesso andremo a precisare meglio tale posizione. In primis, va
subito detto che, una volta accettato che l’attività matematica riguardi certi enti, essi si distinguono
appunto in base alla loro “natura”: da questo punto di vista possiamo parlare di una concezione
platonista e di una concettualista. Uno dei parametri per apprezzarne la differenza sta nel diverso
modo in cui tali concezioni vedono le definizioni reali; secondo la concezione platonista, la
matematica è una scienza descrittiva, nel senso che gli enti esistono al di là della nostra possibilità e
capacità di conoscerli, e quindi la definizione di un “oggetto matematico” non è altro che una
descrizione di qualcosa già esistente fuori di noi; la concezione concettualista guarda invece alla
matematica come ad una scienza costitutiva, nel senso che un “oggetto matematico” esiste solo nel

16
   Sono state fornite prove assolute di coerenza dell’aritmetica, ad esempio da Gentzen, ma queste fanno uso di metodi
non finitistici e quindi, da un punto di vista formale, non soddisfano pienamente; difatti, la richiesta finitista fatta da
Hilbert derivava dalla considerazione che la coerenza di una teoria che includesse un insieme infinito (e quindi portava
con sé l’infinito attuale) costituisse un vero e proprio salto nel buio: non è possibile controllare “in atto” tutte le
possibili proposizioni che si possono logicamente dedurre da un siffatto sistema di assiomi. Ecco dunque chiara la
motivazione che spinge Hilbert a richiedere una dimostrazione finitista della coerenza dell’aritmetica; ogni ulteriore
tentativo di provare la coerenza dell’aritmetica (quello di Gentzen non è l’unico) tradisce il senso originario della
richiesta hilbertiana ed è per questo motivo che non risolve il problema della coerenza assoluta.
12                                              Giuseppe Gentile

momento in cui noi li possiamo “costruire” mentalmente e quindi non c’è una pre-esistenza al
nostro pensiero.
Il platonismo si è storicamente realizzato attraverso la riduzione della pratica matematica alla teoria
degli insiemi, grazie soprattutto ai lavori e alle idee di Weierstrass, Dedekind e Cantor; la scoperta
delle antinomie ha indirizzato i matematici verso due direzioni diverse: da una parte coloro che, non
volendo rinunciare a “quel paradiso che Cantor ha creato”17, hanno cercato di porre rimedio a tale
situazione nei modi più svariati; dall’altra coloro che, pensando che la concezione platonista fosse
orami insostenibile, si sono rivolti ad una concezione costruttivista: questi ultimi, a loro volta, si
sono ancor di più suddivisi fra predicativisti e intuizionisti. È a tali concezioni, avendo sullo sfondo
la teoria cantoriana degli insiemi, che sono dedicati i prossimi paragrafi in cui passeremo in
rassegna i diversi modi in cui si è cercato di venir fuori da tali antinomie: tratteremo prima le
posizioni platoniste, passando poi a quelle costruttiviste, analizzando prima quelle predicativiste ed
infine quelle intuizioniste.

§3.1. Le concezioni platoniste

Analizziamo un po’ più da vicino le concezioni platoniste già insite nella teoria cantoriana; tale
concezione è chiaramente espressa dalla stesso Cantor quando egli afferma, in uno dei suoi lavori,
che un insieme è qualcosa di esistente nello stesso senso dell’idea platonica, un “Molti che si lascia
pensare come Uno” 18. Volendo precisare meglio queste idee, possiamo schematizzare le assunzioni
che sono intrinseche nella teoria cantoriana degli insiemi; le proprietà caratteristiche di un insieme
sono:
1) l’esistenza, in corrispondenza ad ogni molteplicità;
2) la determinazione completa da parte dei suoi elementi;
3) la sostanzialità, nella duplice veste di
    a) individualità;
    b) assolutezza.
L’esistenza garantita dalla proprietà 1) si può ritenere come non necessariamente una richiesta
platonica, poiché la si può anche pensare come un modo per dare un nome diverso alla molteplicità:
una abbreviazione linguistica; la proprietà 2), conosciuta come principio di estensionalità, afferma
solo che l’insieme non dipende dal modo in cui viene definito, ma solo dai suoi elementi; la
proprietà 3a) garantisce la possibilità per un insieme di godere di attributi e quindi di poter essere
lui stesso elemento di altri insieme; la proprietà 3b) è il vero momento platonico, poiché esso
garantisce l’esistenza di un insieme, indipendentemente dalle nostre possibilità di conoscerlo e di
caratterizzarlo linguisticamente.
La congiunzione delle proprietà 1) e 3a), nota come principio di comprensione, è stata riconosciuta
come la vera causa delle antinomie; è stato proprio di fronte a questo principio che le strade si sono
divise: i platonisti hanno cercato di salvare il salvabile, mentre i concettualisti hanno abbandonato la
teoria degli insiemi.
Cerchiamo di analizzare meglio le concezioni platoniste di fronte alle antinomie della teoria
cantoriana; avendo riscontrato la radice delle antinomie nel principio di comprensione, si è cercato
di limitare la portata e gli effetti di tale principio, agendo in svariate direzioni; vedremo i più
significativi fra tali tentativi. Uno di questi ha fatto leva sul fatto che il problema stava
nell’accettare la proprietà 1); da questo punto di vista, trovano posto due grossi filoni di idee: da una
parte coloro che volevano limitare la natura degli enti che fanno parte di una molteplicità, dall’altra
coloro che volevano limitare la natura delle molteplicità, costruendole mediante regole
predeterminate.

17
  Così Hilbert descrisse la teoria cantoriana degli insiemi.
18
  Tratto da G. CANTOR, Über unendliche lineare Punktmannigfaltigkeiten, pubblicato in sei parti tra il 1879 ed il 1884
sui Mathematische Annalen.
Epistemologia della Matematica                                                     13

Nel primo filone fa parte la cosiddetta teoria dei tipi semplici sviluppata da Russell anche sulla base
di un precedente lavoro di Chwistek: a partire da un dominio di oggetti, detti di tipo 0, è possibile
costruire insiemi di tipo 1; gli insiemi di tipo 2 saranno formati da insiemi di tipo 1 e così via; in tal
modo gli insiemi di tipo n avranno per elementi solo insiemi di tipo n–1; in tal modo Russel sperava
di eliminare le antinomie (ed in effetti lo scopo viene raggiunto), ma il principio di comprensione
viene limitato forse troppo non consentendo di considerare molteplicità disomogenee nelle quali
però il matematico si imbatte molto frequentemente.
Nel secondo filone fanno parte le teorie assiomatiche; il tentativo, che per primo vide protagonista
Zermelo, era fondato sull’idea che, limitando la possibilità di generare insiemi, fosse possibile
evitare la comparsa di quegli insiemi indesiderabili che avevano provocato così tanti guai; il sistema
di Zermelo fu sottoposto a notevoli critiche da parte soprattutto di Fraenkel e di Skolem; il sistema
assiomatico successivo a tali critiche è quello che tuttora va sotto il nome di ZF19; anche in questo
caso, l’assiomatica sembra aver guarito la teoria degli insiemi dalla malattia delle antinomie, ma
costringe anch’essa a delle rinunce.
Un terzo filone di idee ha invece visto la radice delle antinomie non nell’accettazione della
proprietà 1), ma nell’accettazione della proprietà 3a), cioè nell’ammettere che ogni insieme sia una
sostanza. In questo settore possiamo inserire senz’altro due grossi nomi che hanno cercato di
risolvere la questione in modi simili, ma non del tutto coincidenti: von Neumann e Bernays. Nelle
idee di von Neumann, il problema stava nell’ammettere che ogni estensione di un predicato20 fosse
un insieme: egli fece distinzione fra tale estensione (che chiamò classe) e sostanza (cioè un insieme
vero e proprio); in altre parole, per von Neumann il pericolo non è ammettere che un predicato
abbia un’estensione, ma che ogni tale estensione sia un oggetto matematico; così, ogni insieme è
una classe, ma non viceversa: cioè esistono classi che non sono insiemi (le cosiddette classi
proprie). L’idea di Bernays è una elaborazione di quella di von Neumann, con una sottile ma
interessante differenza: la distinzione, nella teoria degli insiemi, fra una componente matematica ed
una logica, distinzione che consente di far convivere i concetti neumanniani di classe ed insieme.
Per Bernays, i concetti di classe e di insieme sono eterogenei, appartenendo il primo alla logica ed il
secondo alla matematica: in altre parole, gli insiemi sono (gli) oggetti della matematica, le classi
sono oggetti che appartengono alla logica, frutto dell’attività linguistica. È vero, d’altronde, che tra
classi ed insiemi esistono delle relazioni, ma Bernays rifiuta il legame proposto da von Neumann,
proprio per l’eterogeneità di tali concetti: egli fornisce una risposta in termini di rappresentanza, nel
senso che un insieme rappresenta una certa classe, ma non coincide con essa. Possiamo descrivere
le differenze finora notate usando come discriminante proprio il rapporto fra classe ed insieme: se
nella teoria cantoriana tali due oggetti coincidono (e ciò porta a delle antinomie), per von Neumann
tra i due c’è un rapporto che potremmo dire di “inclusione” (nel senso che ogni insieme è una
classe, ma non sempre è vero il viceversa), mentre per Bernays c’è un sorta di “isomorfismo” (nel
senso che gli insiemi matematici rappresentano una parte delle classi logiche).
Volendo fare un quadro generale delle idee e dei tentativi fatti da un punto di vista platonico in
merito al problema della teoria cantoriana, possiamo avanzare un’ipotesi: le teorie finora descritte
(così come altre, sempre nella sfera platonica, che abbiamo tralasciato) consentono, secondo ogni
apparenza, sia di ricostruire tutta la matematica conosciuta, sia di evitare le antinomie conosciute:
cioè raggiungono lo scopo che si erano prefisse. Questo ha però portato, col rimaneggiamento del
principio di comprensione, ad accettare principi spesso arbitrari e che non trovano una
giustificazione totalmente persuasiva; certo, la plausibilità non deve essere usata quale criterio
discriminante per decidere della validità di una teoria: la storia della matematica mostra come
logicità e plausibilità siano categorie ben diverse; è però da notare come in questo caso tale divario
si riscontri non al livello della matematica, ma sul piano logico, ed in tal senso il criterio della
plausibilità assume un peso molto maggiore, potendo costituire un criterio per decidere della
legittimità del pensiero logico-matematico. Per concludere, possiamo dire che, come spesso accade,
19
     La sigla ZF data a questo sistema assiomatico deriva dalle iniziali di Zermelo e di Fraenkel.
20
     Si dice estensione di un predicato, la totalità degli oggetti che godono della proprietà descritta dal predicato stesso.
14                                                 Giuseppe Gentile

è più semplice mettersi d’accordo sul riconoscere la correttezza di un risultato che derivi da principi
accettati, che non mettersi d’accordo su quali debbano essere i principi da accettare: è proprio su
queste problematiche che trova la propria linfa ed il proprio campo di battaglia la moderna
epistemologia.

§3.2. Le concezioni costruttiviste: predicativismo e intuizionismo

Abbiamo detto che le posizioni costruttiviste partono dal presupposto che le concezioni platoniste
sono quantomeno rischiose; in sostanza il costruttivista si chiede se alla luce delle antinomie che
sono comparse all’interno della teoria cantoriana degli insiemi (che è un prodotto di una visione
platonista), perché mai poggiare la matematica su tali basi, tenendo anche in considerazione il fatto
che una tale scelta filosofica non è a priori l’unica possibile?
I costruttivisti propongono dunque una base filosofica alternativa a quella platonica e, per
apprezzarne la differenza può essere utile confrontare le due posizioni rispetto al concetto di
infinito: mentre, chiaramente, una concezione platonica accetta in toto l’infinito attuale (con tutte le
sue gradazioni, numerabile, continuo, etc…), i costruttivisti non accettano questa totale accettazione
dell’infinito attuale; ed è su questo punto che i costruttivisti, come già anticipato, si dividono: i
predicativisti accettano l’infinito attuale, ma solo nella veste numerabile, mentre gli intuizionisti
accettano solo l’infinito potenziale. In sostanza, mentre i platonisti accettano l’insieme dei numeri
reali, i predicativisti accettano l’insieme dei numeri naturali, mentre gli intuizionisti accettano solo
insiemi finiti. Parafrasando Kronecker, potremmo dire che i predicativisti farebbero loro la frase
“Dio ha creato i numeri naturali: il resto è opera dell’uomo”, gli intuizionisti affermerebbero che
“Tutto è oepra dell’uomo”.
Fra le teorie che potremmo inserire all’interno di una concezione predicativista possiamo
menzionare la teoria dei tipi ramificati Russell e le teorie predicativiste di Weyl, il quale ebbe il
merito (che possiamo dire analogo a quello di Bernays) di aver distinto fra processo logico e
processo matematico21.
Dopo questi brevi cenni alle posizioni predicativiste, passiamo senz’altro a parlare degli
intuizionisti. Il fondatore di questo modo di vedere l’attività matematica è l’olandese Brouwer, le
cui idee furono sviluppate da Heyting (olandese anch’egli). Vediamo qualche punto che risulta
particolarmente interessante di tale scuola di pensiero.
L’aspetto principale della concezione intuizionista sta nel considerare un ente matematico esistente
solo dopo che di esso se ne è data una costruzione mentale; ci si sposta così dall’analisi degli oggetti
esterni (tipica del platonismo) verso un’analisi introspettiva, e per ciò soggettiva dell’esperienza
matematica; è chiaro che da questo punto di vista i concetti diventano meno precisi e più vaghi
rispetto a quelli platonistici: alla matematica intesa come scoperta di verità su oggetti esterni e
indipendenti da noi, si sostituisce una matematica come rapporto introspettivo della nostra attività
mentale, la matematica coincide con l’attività matematica22.
Un altro aspetto notevole dell’intuizionismo è espresso dallo stesso Brower in quello che egli
chiama “primo atto dell’intuizionismo”, cioè la distinzione e separazione fra matematica e
linguaggio matematico; la matematica intuizionista è un fatto alinguistico e, nell’edificio
matematico, il linguaggio viene considerato una tecnica efficace ma non infallibile che ha il solo

21
   Per approfondire le questioni relative ai tipi ramificati di Russell o alla matematica predicativista di Weyl si può
consultare E. CASARI, Questioni di filosofia della matematica, pagg. 141-144, 166-170.
22
   Bisogna però sottolineare che ciò non vuol dire che l’intuizionismo intenda l’attività matematica in modo del tutto
arbitrario. Ad esempio, il concetto di numero naturale si fonda sull’intuizione del processo di scansione del tempo e
sulla possibilità di memorizzare tale intuizione; se, infatti, da una totalità (anche infinita) si riesce a distinguere un
elemento e a separarlo pertanto da quella infinità, rimane una totalità dalla quale è possibile ancora una volta distinguere
e separare un altro elemento; se così la prima separazione dà l’intuizione del numero uno, la seconda intuizione
(congiunta alla capacità di memorizzare la prima) dà l’intuizione del numero due; tale processo può essere iterato
fornendo la costruzione mentale dei numeri naturali (si noti come per l’intuizionismo possa essere concepito solo
l’infinito potenziale, non potendo essere ammessa una effettiva costruzione mentale di una infinità “in atto”).
Epistemologia della Matematica                                                  15

scopo di memorizzare costruzioni matematiche o riferirle ad altri, cosicché il linguaggio non può di
per sé creare sistemi matematici. È allora chiaro come l’intuizionismo vada a contrapporsi
formalismo che ha nel linguaggio, nella sua correttezza e nella possibilità di controllarlo il proprio
cavallo di battaglia; per l’intuizionismo, il formalismo matematico è un fatto secondario e solo
strumentale. A tal proposito è notevolmente interessante una precisazione ed una conseguente
osservazione dovute ad Heyting; egli distingue fra la funzione descrittiva e quella costitutiva di un
sistema di assiomi; per Heyting un tale sistema può solo descrivere in maniera più o meno fedele
una pratica matematica consolidata pre-assiomatica, ma non gli può essere riconosciuta la funzione
creativa, quella cioè in cui voglia costituire gli enti; ora (è questa è l’osservazione importante) la
teoria pre-assiomatica degli insiemi è risultata contraddittoria: a questo punto, le varie
assiomatizzazioni o non descrivono tale pratica (altrimenti sarebbero contraddittorie a loro volta) o
vorrebbero costituire una teoria che, con molta probabilità, è vuota (nel senso che non esiste un
modello che soddisfi agli assiomi).
Un altro aspetto delle idee broweriane è legato alla logica; per Brower la logica non può essere il
fondamento della matematica, ma il viceversa; secondo tale idea, ogni scienza ha una sua logica
peculiare, che non la precede, ma costituisce solo una sistemazione astratta e generale a posteriori
delle esperienze fatte all’interno di quella scienza; proprio per questo non è possibile pensare ad una
“logica intuizionista”, almeno nelle prime idee di Brouwer23.
Alle posizioni intuizioniste sono state rivolte molte critiche, a partire dalla scarsa precisione nelle
definizione dei concetti-base, al fatto che si dovesse rinunciare a molti risultati classici ed al rischio
di giudicare in base a criteri soggettivi, non supportati dall’evoluzione storica della matematica, ma
da quel tanto dell’evoluzione che è intervenuta a determinare il singolo soggetto. Certo, queste
critiche sono ben fondate e prefigurano quali potrebbero essere i rischi di una visione intuizionista
della matematica, ma bisogna rendere atto a Brower di aver tentato un’opera titanica: voler dare alla
matematica un suo peculiare significato e una sua autonomia, affrancandola da ogni ontologia
metafisica (che alla matematica è esterna), dalla logica (che alla matematica è funzionale) e dal
linguaggio (che alla matematica è funzionale).

23
   Questo almeno nelle prime idee di Brower; in seguito Heyting tentò di dare una formulazione di tale logica (per
approfondimenti su tali questioni vedi ad esempio E. CASARI, op. cit., pagg. 183-195). Qui basti dire che, tra le varie
diversità rispetto a quella classica, tale logica prevedeva la non accettazione del principio aristotelico del terzo escluso,
col conseguente rifiuto delle dimostrazioni per assurdo; la matematica che ne viene fuori è per molti aspetti diversa:
infatti, mentre per alcuni teoremi è stato possibile darne una dimostrazione senza usare la dimostrazione per assurdo,
altri teoremi non sono validi all’interno della matematica intuizionista (viceversa, esistono teoremi peculiari
dell’intuizionismo che non valgono nella matematica classica). Va infine notato che il tentativo di Heyting era dettato
anche dalla volontà di porre al riparo dalle dure critiche la posizione di Brower in cui era insito un forte soggettivismo;
la formulazione della logica intuizionista in termini che potremmo chiamare hilbertiani vanno letti anche in tal senso.
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