2019 Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Aprile - Pontimonti

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2019 Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Aprile - Pontimonti
2019
 UNITÀ PASTORALE
Barbarano Mossano Villaga

                            Anno
                            C
       Commento e letture per i
       lettori del mese di Aprile

                            Claudio
                            Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
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V Domenica di Quaresima
                                                   7 aprile 2019

                                                           Il testo proposto dalla liturgia è una profezia
                                                           contenuta nel «libro della consolazione», che
                                                           corrisponde alla seconda parte del libro di Isaia,
                                                           il cosiddetto Deuteroisaia (capp. 40-55). E l'opera
                                                           di un profeta anonimo che, sulla scia del grande
                                                           Isaia, preannuncia il ritorno in Israele degli
                                                           esiliati, a seguito della caduta dell'impero
                                                           babilonese per mano dei persiani, guidati dal re
                                                           Ciro (538 a.C.). Questa liberazione epocale è
                                                           riletta dal profeta con le categorie dell'esodo: alla
                                                           testa del suo popolo, come un pastore, Dio apre
                                                           nel deserto la via del ritorno nella Terra pro-
                                                           messa (cap. 40). Al resto d'Israele è dato di
                                                           contemplare la grazia di un nuovo esodo. Il profeta
                                                           ricorda l'intervento potente di Dio durante il
                                                           passaggio del Mar Rosso (Es 14), quando fece
                                                           passare gli israeliti oltre il mare, aprendo loro una
                                                           strada tra le acque, e distrusse gli egiziani che li
                                                           inseguivano. La liberazione in atto al presente —
                                                           quella dall'esilio babilonese — richiama alla
                                                           memoria la liberazione per eccellenza nella storia
                                                           d'Israele, quella dalla schiavitù d'Egitto. Eppure il
                                                           profeta ribadisce che i prodigi del passato
                                                           saranno eclissati dalle meraviglie ancor più grandi
                                                           che Dio sta compiendo al presente e, se un tempo
                                                           fu proverbiale la grandezza dell'intervento di

YHWH per liberare il suo popolo dall'Egitto, vengono
giorni in cui egli compirà prodigi ancor più grandi e
memorabili (cfr. Ger 16,14-15; 23,7-8). Il profeta invita gli
esuli —un popolo ormai distrutto — a scorgere negli
umili segni del presente le prime avvisaglie della
salvezza che sta per realizzarsi, come un germoglio in
cui potenzialmente si vede già il rigoglio dell'albero che ne
crescerà. È qualcosa di impensabile, come immaginare che nel deserto si riversi una quantità d'acqua tale da
farlo fiorire, un dono insperato, i cui benefici non sono solo per il popolo ma anche per le bestie selvatiche.
Israele non deve lasciarsi imprigionare in modo nostalgico nel suo glorioso passato e nelle sue
tradizioni. Occorrono occhi per apprezzare l'umile inizio di qualcosa di nuovo che spunta nella storia. -
Ricordare e osservare la Legge dei padri è un imperativo per Israele: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione
futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3-4). Il
credente, tuttavia, sa guardare la vita anzitutto a partire dal futuro delle promesse di Dio e sa fare
memoria del passato nella misura in cui esso è capace di aprirlo alla novità. Dopo l'esperienza del fallimento
e del peccato, solo la speranza e la capacità di aprirsi al futuro che Dio può attuare possono gene rare
un cammino di rinascita. E quanto Gesù annuncia ai peccatori, offrendo loro la cancellazione dei propri
peccati.
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Salmo responsonale                     Sal 125 (126)
Grandi cose ha fatto il Signore per noi. – Il
Salmo 125 evoca l'esperienza del ritorno degli
esiliati dalla terra di Babilonia, evento grandioso
e inatteso, percepito come un sogno. Davanti ad
esso – afferma il salmista –anche i popoli
stranieri, cioè i pagani, hanno riconosciuto la
grandezza del Dio d'Israele. Questo ritorno
repentino e impensato viene paragonato ai
torrenti del deserto del Neghev che, quasi
improvvisamente,        durante    la    primavera,
s'ingrossano d'acqua e fanno fiorire questa
regione arida e sassosa. Ora il faticoso tempo
dell'esilio, che sembrava preludio di morte, è
percepito come il tempo della semina: il
contadino getta con fatica la semente, tra le
lacrime e il sudore della fronte, ma poi viene la
gioia della mietitura.

                                                                 La vita di Paolo è stata capovolta dall'incontro
                                                                 con Cristo: ciò che prima considerava un
                                                                 guadagno e per cui si impegnava da zelante
                                                                 fariseo ora è divenuto una perdita. Se prima
                                                                 confidava nella carne, ora è consapevole che la
                                                                 sua salvezza e il suo vanto derivano dal suo
                                                                 essere «in Cristo» in forza del battesimo. Per
                                                                 descrivere questa esperienza, l'Apostolo fa uso
                                                                 di un linguaggio finanziario: parla di guadagni e
                                                                 di perdite, perché i Filippesi si decidano per ciò
                                                                 che veramente conta, ciò per cui davvero si può
                                                                 lasciare tutto. Rinunciando ai precedenti
                                                                 guadagni, si arriva al vero guadagno, cioè
                                                                 «l'essere trovato in Cristo». In definitiva, non è
                                                                 il credente ma Dio stesso che gli consente di
                                                                 «ritrovarsi» nel Figlio suo, in un rapporto di
                                                                 unione profonda con lui. Questo è il fondamento
                                                                 della giustizia: non l'osservanza formale delle
                                                                 prescrizioni della Legge, ma l'adesione a Cristo
                                                                 nella fede, che si attua attraverso il perdono dei
                                                                 peccati, atto gratuito che solo Dio può realizzare.
                                                                 Il vero guadagno è dunque conoscere Cristo, cioè
                                                                 immergersi nel suo mistero pasquale per vivere,
                                                                 unito a lui, un'esistenza che si dà al modo della
Pasqua: così anche le sofferenze e le asperità della vita concorrono alla conformazione a Cristo, preludendo alla
piena partecipazione alla sua risurrezione, la cui potenza vivificante è già ora sperimentabile. La vita del
credente è dunque tutta protesa verso la risurrezione. A buon diritto Paolo può vantarsi dell'uomo che è di-
ventato «in Cristo», ma è ben consapevole di non essere ancora giunto alla meta. Egli non si considera più così
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«irreprensibile» come un tempo e sa di non essere «un arrivato» (cfr. Fil 3,5), consapevole che la vita cristiana è
una corsa che presuppone un dinamismo continuo. Impiegando un'immagine sportiva (cfr. 1 Cor 9,24-27),
l'Apostolo descrive il suo ardente desiderio di raggiungere la meta per conquistare il premio della vita perfetta in
Cristo, come un atleta in corsa che non si volta a guardare indietro ma è tutto proteso a ciò che sta davanti a lui. Poi
quasi si corregge, ammettendo la precedenza di Cristo in questo itinerario: svuotando l'immagine agonistica da
ogni sfumatura possessiva, riconosce che è in corsa per afferrare Cristo, perché egli, per primo, lo ha afferrato sulla
via di Damasco. Il premio non si ottiene semplicemente con il proprio sforzo, ma dipende dalla chiamata di Dio e
coincide con l'essere in Cristo che ci attira a sé, nella corsa della vita, a risorgere con lui.

Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

Gesù non condanna l'adultera a lui
presentata perché venisse giudicata
secondo la Legge. Gesù non condanna
perché Dio, il Padre, non condanna,
ma vuole la salvezza del peccatore.
Questa misericordia non è grazia "a
buon mercato", ma è una nuova
creazione, un'opportunità perché la
donna possa cambiare la sua vita. Il
finale del racconto evangelico rimane
aperto: non sappiamo che scelte la donna
adultera avrà fatto, ma solo che Gesù l'ha
perdonata      affinché     lei    potesse
ricominciare a vivere. Gesù, il salvatore,
colui che redime, rinvia nella libertà
ognuno, affermando coni fatti che tra legge
e misericordia è quest'ultima che vince. Il
vangelo rivela oggi la più profonda

                                                                   verità sull'esistenza umana: noi non siamo i
                                                                   nostri peccati, Dio non ci identifica con le
                                                                   nostre colpe, ma apre la strada ad un
                                                                   rinnovamento di noi stessi, possibile con la
                                                                   sua grazia. Il vero peccato dell'uomo, perciò,
                                                                   è la disperazione, l'incapacità di fidarsi
                                                                   dell'amore di Dio. Anche il messaggio della
                                                                   prima lettura può essere così riassunto: Ecco,
                                                                   io faccio una cosa nuova. Il credente sa
                                                                   guardare la vita a partire dal futuro aperto
                                                                   dalla promessa di Dio e sa fare memoria del
                                                                   suo passato nella misura in cui si rende capace
                                                                   di aprirlo alla novità. La seconda lettura
                                                                   invita all'incontro trasformante con Gesù:
                                                                   un incontro che Paolo racconta alludendo
                                                                   alla sua esperienza sulla via di Damasco.

Commento al vangelo:

La quinta domenica di quaresima si presenta con un carattere particolare per l'intensità con cui si fa sentire la
voce del Giusto circondato dai suoi persecutori. È già un presagio di passione. Gesù si trova in una sempre
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più grande solitudine. È solo soprattutto perché è deciso ad andare fino in fondo alla sua missione e giungere là
dove nessun altro lo può seguire e nessuno lo può aiutare, se non il Padre. Cosa mirabile è che proprio in
quest'ora di più grande solitudine egli manifesti pienamente la grandezza del suo amore per i fratelli, la
sua capacità di prendere su di sé tutto il peso del peccato degli uomini per espiarlo. Ne è prova il vangelo che la
liturgia oggi ci offre e che possiamo rivivere da protagonisti. La scena è impressionante: scribi e farisei
sottopongono Gesù a una specie di processo mettendogli davanti la donna adultera. Nel silenzio risuonano gravi
parole... Gli accusatori si dileguano sotto il peso del loro orgoglio e della loro menzogna. Solo la donna
peccatrice rimane, da povera, sotto lo sguardo misericordioso di Gesù. Può così ricevere il suo perdono ed
essere rinnovata dal suo amore: «Vá e non peccare più». Anche noi dobbiamo presentarci a lui, insieme con
tutti i nostri fratelli, per chiedere non la condanna, ma il perdono. Questo allora ci rende fedeli al
'comandamento nuovo', ci fa passare alla 'novità' di vita, rendendoci testimoni di speranza, forti
dell'aiuto del Signore. La costanza ci è necessaria per continuare il nostro cammino di conversione e
arrivare alla pasqua nella pienezza della gioia.

Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo viviere e agire sempre in quella carità, che
spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi.

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Domenica delle Palme:
                              Passione del Signore
                                                     14 aprile 2019

Oggi Gesù compie l'oracolo del profeta Zaccaria.
Leggendo l'antica profezia scopriamo che il
Signore si sta accingendo a fare cose meravigliose
per il suo popolo. Vengono ridotte all'inesistenza
tutte le potenze che possono nuocere. Israele sarà
governato da un re speciale, particolare, giusto,
vittorioso, di pace e non di guerra, perché farà
sparire i carri da guerra da Èfraim e i cavalli da
Gerusalemme. Avrà un dominio universale. Egli
viene per annunziare la pace alle nazioni. Un regno
come questo mai è esistito nel mondo e mai
esisterà. Esso si chiama " regno di Dio, o regno
messianico ". (Zac 9,1-17). Gesù oggi viene
riconosciuto e acclamato dal popolo "Messia del
Signore ". È un momento di grande esaltazione. In
verità pochi, pochissimi sanno la verità del loro
re. Oggi si professa la fede, ma non si conosce la
profondità della verità nascosta nel segno che Gesù
offre. Una fede non sorretta dalla pienezza della
verità è assai effimera. Crea entusiasmo, ma non
martirio, non perseveranza, non fedeltà, non
obbedienza, perché l'obbedienza è alla verità della
fede. Gesù ha lavorato duramente per formare i
suoi nella verità del suo mistero, ma con scarsi
risultati. Molti uomini di Chiesa hanno addirittura
rinunciato a questo lavoro. Per essi è preferibile
fondare ogni cosa su un entusiasmo momentaneo,
ogni altra cosa è ritenuta da essi inutile. Percorrono
                                                               questa via perché convinti della sordità del
                                                               popolo del Signore. Vergine Maria, Madre della
                                                               Redenzione, Angeli, Santi, formateci nella verità
                                                               della fede.

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2019 Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Aprile - Pontimonti
La fedeltà a Dio e agli uomini – alla missione rice-
vuta in loro favore – rende il Servo di YHWH saldo
nella sofferenza, nell'ignominia, nell'apparente
fallimento. Attento discepolo della parola di Dio,
profeta e maestro di sapienza per il popolo, con la sua
sorte egli prefigura quella di Cristo, il mite che non
ha opposto resistenza alla volontà del Padre e non si
è sottratto alla malvagità degli uomini, sicuro – perfino
nell'ora suprema dell'abbandono sulla croce – che il
disegno di Dio è dono di salvezza offerto a tutti (v. 7;
cfr. Me 15,34 e Le 23,43.46).

                                                                Il povero del Signore, abbandonato da tutti,
                                                                schernito per la sua stessa fede, braccato da
                                                                ogni parte, spogliato, sfinito, reietto, ridotto allo
                                                                stremo delle forze, al punto limite della crisi
                                                                umana, riesce ancora a chiamare il Signore
                                                                “mia forza” e a rivolgersi a lui con un supremo
                                                                atto di fede, di fedeltà e di fiducia: “dal grembo
                                                                di mia madre tu sei il mio Dio!”. E,
                                                                d’improvviso, a premio della fedeltà paziente e
                                                                della povertà nello spirito che lo ha reso così
                                                                disponibile a Dio, Iddio misteriosamente gli ha
                                                                mostrato il suo volto e lo ha esaudito. Di qui
                                                                l’impegno ad annunziarne il nome ai fratelli,
                                                                perché quanti lo cercano lodino il Signore. La
                                                                profezia messianica non solo appare da tutto il
                                                                contesto del salmo, dalle formali citazioni degli
                                                                evangelisti e di San Paolo, dall’unanime
                                                                commento dei Padri e della coscienza cristiana
                                                                di tutti i tempi, ma delle parole stesse di Cristo
                                                                che dall’alto della croce se ne fece il
                                                                protagonista e lo assunse in prima persona nella
                                                                sua preghiera al Padre.

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Questo è uno stupendo inno cristologico pre-paolino.
Complesso nelle singole espressioni che lo costitui-
scono, può essere inteso a partire dal sostantivo
«tesoro geloso», in greco harpagmós (v. 6), che
letteralmente significa 'oggetto di rapina'. Quale
significato può avere l'affermazione: Cristo che è
di condizione (morphḗ) divina, non considerò
l'uguaglianza con Dio un oggetto di rapina? È qui
sottinteso il paragone con Adamo, colui che non
essendo in tale condizione volle rubarla. Paolo offre
come esempio alla comunità di Filippi il nuovo
Adamo, cioè Cristo. Costui accetta di riscattare,
mediante l'umiltà e l'obbedienza fino alla morte più
obbrobriosa, la superba disobbedienza del primo
Adamo, a causa della quale tutto il genere umano
precipitò nel peccato e nella morte (cfr. Rm 5,18s.).
Cristo svuotò se stesso e assunse la condizione
servile, che è la nostra (v. 7), fino all'estremo limite.
Al suo volontario abbassamento risponde l'azione
di Dio (vv. 9-11) che non solo «lo esaltò», ma
`sovraesaltato'. Tutto l'universo ormai è chiamato a
proclamare che Gesù Cristo è kyrios, Signore, cioè
Dio, e questa confessione è a gloria del Padre.

                                                                    Gesù, il giusto ingiustamente annoverato tra
                                                                    gli empi. Ogni vangelo ha uno specifico
                                                                    approccio all'evento della passione. In Luca
                                                                    (Lc 22,14-23,56) essa costituisce la prova
                                                                    suprema di Gesù: attraverso di essa è attestata
                                                                    la sua innocenza, in modo che tutti gli
                                                                    spettatori possano riconoscerla. Per descrivere
                                                                    la morte del Signore, Matteo e Marco
                                                                    ricorrono soprattutto al motivo del giusto
                                                                    ingiustamente perseguitato. Essi riprendono i
                                                                    motivi sal-mici delle suppliche dell'innocente
                                                                    perseguitato per dimostrare la figliolanza
                                                                    divina di Gesù e la sua fede radicale fin
                                                                    dentro la morte (Sal 22; Sap 2,12-20). Luca
                                                                    invece si rifà al tópos del giusto riconosciuto
                                                                    nella propria integrità nel momento stesso in
                                                                    cui gli eventi parrebbero smentirla. Nel
                                                                    racconto c'è un riconoscimento paradossale
della giustizia di Gesù e della menzogna degli altri attori del dramma, le cui accuse vengono, una per una, in
vario modo smentite. Durante la passione giunge alla massima estensione il processo di autenticazione di
Gesù sotteso al terzo vangelo e si prepara il definitivo atto con cui Dio riconosce il Figlio, risuscitandolo dai

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morti. Is 53,12: una chiave per interpretare la
passione lucana. Nel descrivere la passione di Gesù
il terzo evangelista rinuncia a ogni forma
d'interferenza narrativa o di commento intrusivo e si
limita a consegnare al lettore, al termine dell'ultima
Cena, le uniche parole – peculiari del terzo vangelo
– in cui Gesù interpreta il proprio destino, citando
esplicitamente le Scritture: «Io vi dico, deve compiersi
in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra
gli empi. Infatti, tutto quello che mi riguarda volge al
suo termine» (Le 22,37). Citando l'epilogo del quarto
canto del Servo (Is 53,12), Gesù offre ai suoi discepoli
e al lettore una chiave per interpretare gli avvenimenti
che stanno per abbattersi su di lui: egli sarà trattato
al pari di un malfattore. Preannunciando per mezzo
delle Scritture questa identificazione paradossale,
Gesù svela il meccanismo autenticativo soggiacente
alla passione lucana: più lo si dichiarerà ingiustamente
colpevole, tanto più emergerà la sua innocenza e la
sua conformazione al Servo di YHWH, che gode
della predilezione divina. Proviamo a osservare in che
modo. Davanti al sinedrio, un processo legittimo
(Lc      22,66-71).      Nel     vangelo      di   Luca,
contrariamente a quanto narrato in Mc 14,53-64, il
procedimento giudiziario contro Gesù si svolge in
modo legale: non si tiene nella casa privata del sommo sacerdote e nel cuore della notte (cfr. Mc 14,54;
                                                         15,1), ma il giorno successivo, nel sinedrio (Lc
                                                         22,66). Non vengono presentati falsi testimoni (cfr.
                                                         Mc 14,57-59). Luca è interessato a descrivere un
                                                         legittimo e solenne procedimento giudiziario
                                                         davanti all'assemblea plenaria dei capi
                                                         d'Israele. Gli preme, pertanto, che gli ac-
                                                         cusatori, pur rifiutando la testimonianza di
                                                         Gesù, dicano il vero sul suo conto. Alle
                                                         domande circa la sua messianicità e figliolanza
                                                         divina     (Lc    22,66-71)     Gesù       risponde
                                                         ambiguamente: non dice di essere il Cristo e
                                                         lascia intendere ai suoi accusatori che sono essi
                                                         a dover rispondere; anzi – a detta di Gesù –
                                                         essi hanno già trovato la risposta. Quando gli
                                                         domandano se egli sia realmente il Figlio di Dio
                                                         (v. 70a), Gesù – diversamente da Marco – non
                                                         risponde direttamente dicendo «Io lo sono!» (Mc
                                                         14,62), ma ribatte: «Voi stessi dite che io lo
                                                         sono» (v. 70b). Dalla loro stessa bocca, prima
                                                         ancora che da quella di Gesù, è dunque uscita
                                                         la verità sul suo conto: la testimonianza di chi
                                                         asserisce la propria innocenza non basta in un

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processo, ma Gesù può contare su quella dei
rappresentanti scelti d'Israele, che, pur non
sapendolo, testimoniano a suo favore. Essi, peraltro,
confermano di aver ben inteso la testimonianza di
Gesù: «Che bisogno abbiamo ancora di testimo-
nianza? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca»
(v. 71), giacché ha detto di essere il Figlio
dell'uomo che siederà alla destra della potenza di
Dio (v. 69). Luca trasforma la comparizione
davanti al sinedrio in un'attestazione paradossale
– da parte di chi nega – della messianicità di Gesù,
promuovendo un'autenticazione indiretta e
involontaria della sua identità. Il sinedrio, infatti,
decreta solennemente e coerentemente che Gesù si
proclama Messia. Luca mostra così che i
meccanismi della giustizia giudaica arrivano a
stabilire la verità sull'identità di Gesù;
ciononostante, essa viene rifiutata. È così che,
mentre negli altri sinottici Gesù va al patibolo
anche a motivo di falsi testimoni, nel terzo
vangelo egli è trattato da malfattore, perché la sua
vera identità è stata riconosciuta e respinta. Per
mezzo di questa paradossalità Gesù si rivela un ve-
ro profeta: la sua testimonianza è verace, proprio
perché, come tutti i profeti che l'hanno preceduto,
anche lui è stato rifiutato a causa dell'indurimento
d'Israele. Prima comparizione davanti a Pilato
                                                             (Lc 23,1-5). Davanti a Pilato il dibattito si porta
                                                             a un livello politico. Luca, diversamente da
                                                             Matteo e Marco, riporta le imputazioni che
                                                             vengono addotte dai giudei contro Gesù alla
                                                             presenza del procuratore: egli è accusato di essere
                                                             un rivoltoso, di non pagare le imposte e di
                                                             proclamarsi il Cristo re (v. 2). Dalla narrazione
                                                             precedente il lettore dispone degli strumenti per
                                                             valutare la falsità delle accu- se: Gesù non è mai
                                                             apparso come un rivoluzionario. Per di più, ora, la
                                                             suprema autorità romana in Palestina riconosce, davanti
                                                             a tutta l'assemblea dei capi del popolo, che le accuse
                                                             avanzate per condannare Gesù sono false. Pilato,
                                                             come i membri del sinedrio, offre una testimonianza
                                                             indiretta a favore della giustizia di Gesù, riconoscendo
                                                             che, dietro le sue pretese messianiche, non si nasconde
                                                             alcuna rivendicazione politica: egli è realmente il
                                                             Cristo re. A detta di Gesù, è il procuratore stesso che
                                                             lo afferma: «Tu lo dici» (v. 3). La risposta di Gesù è
                                                             volutamente ambigua. Può significare: «Tu lo dici [ ...
                                                             ] e dici il vero!», perché Gesù riscontra del vero nelle
                                                             parole di Pilato, come prima in quelle dei capi del

                                                         9
popolo. Egli, infatti, è realmente re, come si è capito
più volte durante il viaggio verso Gerusalemme (cfr.
Lc 18,39; 19,11-40). Ma può anche significare: «Lo
dici tu, non io!». Dalla sua prospettiva profana Pilato
non può che dare un'accezione politica al titolo di re;
per questo la risposta di Gesù, per quanto ambigua,
esprime il suo rifiuto di una regalità intesa in senso
politico. È evidente che Pilato comprende le parole di
Gesù con questa seconda accezione; altrimenti, non
potrebbe poi dichiarare la sua innocenza: «Non trovo
alcuna colpa in quest'uomo!» (v. 4). Non vedendo
alcun crimine in Gesù, Pilato conferma ciò di cui il
lettore si è reso conto, leggendo il vangelo: Gesù non
ha mai dato alla sua regalità quella connotazione
politica che i capi del popolo vorrebbero
ingiustamente imputargli. Eppure è trattato come un
malfattore. Davanti a Erode (Lc 23,6-12). Saputo
che Gesù appartiene alla giurisdizione di Erode,
Pilato glielo invia, mentre quegli si trova a
Gerusalemme. La questione sollevata dal procuratore
in merito alla giurisdizione di competenza (v. 7) attesta
il carattere forense dell'incontro: il re interroga Gesù
in qualità di giudice (v. 9), mentre i capi dei sacerdoti
e gli scribi lo accusano (v. 10). Formalmente Erode
non emette una sentenza, ma, dopo averlo trattato
come un re da burla, lo rinvia a Pilato (v. 11). Già da
                                                             questo il lettore può dedurre un giudizio di non-
                                                             colpevolezza, poiché Erode – pur avendo finalmente
                                                             l'opportunità di uccide- re Gesù, conformemente ai
                                                             propri progetti (cfr. Le 13,31) – lo lascia andare.
                                                             Nella scena successiva, attraverso le parole che
                                                             Pilato indirizza all'assemblea dei giudei radunata al
                                                             suo cospetto, il lettore può facilmente risalire al
                                                             verdetto emesso dal re: il funzionario romano
                                                             interpreta il fatto che Gesù gli sia stato rimandato
                                                             come una dichiarazione d'innocenza (cfr. Lc 23,14-15).
                                                             Da questa terza fase del processo risulta una
                                                             nuova dichiarazione ufficiale dell'innocenza di
                                                             Gesù, concorde con la precedente. In tal modo
                                                             vengono onorate – e contemporaneamente
                                                             pervertite – le disposizioni mosaiche che
                                                             prescrivono la testimonianza concorde di due
                                                             testimoni per mettere a morte qualcuno (cfr. Nm
                                                             35,30; Dt 17,6; 19,15). Gesù è legalmente innocente
                                                             eppure è trattato come un malfattore (v. 11).
                                                             Diversamente da Matteo e da Marco (cfr. Mt 26,62-
                                                             63; 27,1314; Mc 14,60-61; 15,4-5), nel vangelo di
                                                             Luca Gesù non sta in silenzio davanti al sinedrio e
                                                             al cospetto di Pilato, ma rivolge la propria
                                                             testimonianza ai capi e agli anziani d'Israele (Lc

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22,6671) e al procuratore (Lc 23,3-4; cfr. 3,1).
Luca trasferisce il motivo del silenzio, soppresso
dalle due scene precedenti, in quella della
comparizione di Gesù davanti a Erode. Egli resta
in silenzio come il Servo di YHWH (Is 53,7):
ingiustamente rigettato, disprezzato e trattato come
un malfattore, per la sua innocenza, è
accomunato al giusto per eccellenza. È così che,
anche attraverso il compimento delle profezie, Luca
promuove il processo autenticativo sotteso al suo
racconto della passione. Accusato, Gesù non
risponde direttamente alle domande circa la sua
messianicità. La risposta tuttavia giunge
indirettamente, attraverso i gesti, le parole –
spesso inconsapevoli – dei personaggi e il richiamo
alle Scritture. Di nuovo dinanzi a Pilato (Lc
23,13-25). Dopo che Gesù gli è stato
riconsegnato, Pilato emette un secondo e un terzo
verdetto d'innocenza (vv. 14.22): alla luce del
trattamento riservato da Erode a Gesù, egli
continua a giudicare infondate le accuse avanzate
contro di lui. Si assiste, pertanto, a un paradossale
ribaltamento dei ruoli: nell'adempiere il suo
compito di giudice, Pilato funge da testimone a
favore di Gesù, comprovandone l'innocenza davanti
ai giudei. Costoro, al contrario, agendo da
                                                                   accusatori e continuando a pretendere la morte
                                                                   di Gesù, si smascherano come colpevoli,
                                                                   contraddicendosi. Ciò emerge soprattutto
                                                                   attraverso la loro spontanea richiesta che, al
                                                                   posto di Gesù, venga liberato un assassino. In
                                                                   Luca non si menziona la consuetudine di
                                                                   Pilato di rilasciare prigionieri per le feste
                                                                   pasquali (cfr. Mt 27,15; Mc 14,6): l'iniziativa
                                                                   della liberazione di Barabba è dei giudei.
                                                                   Così facendo, il narratore accentua la gravità
                                                                   dell'ingiustizia commessa a danno di Gesù: pur
                                                                   di condannare un innocente, si reclama
                                                                   arbitrariamente la libertà di un conclamato
                                                                   rivoluzionario e omicida (v. 19). Tra i
                                                                   sinottici, Luca è l'unico che dichiara
                                                                   esplicitamente la colpevolezza di Barabba: per
Matteo, egli è un prigioniero famoso e per Marco è un tale che si trova in carcere insieme ai ribelli che,
in un tumulto, hanno commesso un omicidio (Mt 27,16; Me 15,7). Chiedendo il rilascio di un vero
malfattore, contraddittoriamente, si trascurano in lui quegli stessi crimini per cui Gesù è accusato. A chiedere a
gran voce la morte di Gesù non sono solo i capi dei sacerdoti, ma anche il popolo (v. 13; cfr. vv. 18.21.23). A
differenza di Matteo e Marco, che nominano i capi dei sacerdoti, gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio
(Mt 27,1-2; Mc 15,1) e poi una folla indifferenziata (Mt 27,20; Mc 15,8), Luca menziona esplicitamente la
partecipazione del popolo (v. 13). È così che l'autore — sempre in modo indiretto — smaschera la falsità
delle accuse contro Gesù: se egli fosse realmente un sobillatore del popolo — ciò che sostengono i
giudei (v. 14) — come potrebbe questi rivoltarglisi contro?.

                                                        11
Ai piedi della croce (Lc 23,26-49). Nel terzo vangelo gli episodi ai piedi della croce costituiscono l'ultima
prova di Gesù: attraverso di essa gli spettatori e il lettore sono condotti a riconoscere definitivamente la
sua innocenza. Per due volte, all'inizio e alla fine, si dichiara che la folla di popolo, che ha accompagnato
Gesù sino alla morte, si percuote il petto e innalza lamenti su di lui (vv. 27.48). Viene così smascherato il
comportamento contraddittorio di questo gruppo: dopo averlo osannato come un eroe, sino 'a un momento
prima del suo arresto (cfr. Le 22,2), il popolo si aggrega ai nemici di Gesù per metterlo a morte, riconoscendosi
infine colpevole ai piedi della croce. Denunciando la propria colpevolezza, indirettamente le folle
confessano che Gesù è morto ingiustamente. A conferma di ciò Luca segnala enfaticamente la sua morte
tra due delinquenti (vv. 32-33; cfr. Mt 27,38; Me 15,27); si compiono così le Scritture (Is 53,12) e la
profezia di Gesù (Lc 22,37): realmente egli è stato annoverato tra gli empi. Anche la scritta dileggiatoria
sopra la croce rappresenta un'indiretta conferma dell'identità di Gesù, attestante la sua regalità (v. 38).
Così pure il «buon ladrone» conferma che egli «non ha fatto nulla di male», a differenza dei due malfattori
crocifissi con lui, che giustamente ricevono ciò che meritano (v. 41). Nel momento in cui le tenebre si
abbattono sulla terra per tre ore (v. 44), il racconto amplifica il campo semantico del vedere (vv.
47.48.49): nell'oscurità circostante, la croce permette agli occhi di aprirsi e di riconoscere in Gesù
crocifisso la giustizia di Dio. Gesù morto si offre alla contemplazione (v. 48) e al riconoscimento di
tutti. Le parole del centurione, proprie del terzo vangelo – «Veramente quest'uomo era giusto!» (Lc 23,47;
cfr. Mt 27,54; Mc 15,39) – costituiscono il vertice di tale riconoscimento e consentono al lettore di
comprendere come la passione abbia portato alla massima estensione il processo di autenticazione di
Gesù. Il percorso narrativo predisposto da Luca per raccontarci la passione dal suo punto di vista concorre al
riconoscimento di Gesù quale giusto sofferente: è così che, per molteplici vie, è dichiarata la sua giustizia
che ci salva e ci libera dall'ingiustizia del peccato.
Delineiamo il percorso proposto dalle letture:
La celebrazione di oggi introduce alla Settimana Santa. Perciò tutta la liturgia parla di gloria e di
passione allo stesso tempo. La liturgia evidenzia infatti il paradosso del cristianesimo: Gesù è
festeggiato come l'inviato da Dio, ma subisce anche il rifiuto proprio di quelli a cui è inviato. Per
amore si umilierà fino alla morte, ma con la sua risurrezione dai morti diventerà speranza per tutti. Il
racconto della passione, che sta oggi al centro della Parola, è fatto secondo il vangelo di Luca, che
intende evidenziare in n particolare colore la sua innocenza, in modo che tutti possano riconoscerla e
comprendere come attraverso l'evento della croce viene rivelata la misericordia divina. Durante la
passione si compie per Luca il processo di autenticazione di Gesù, e si prepara il definitivo atto con cui
Dio Padre riconosce il Figlio, risuscitandolo dai morti.

                                                       12
Giovedì della Settimana Santa
                                                     18 aprile 2019

Questo testo ha un carattere prescrittivo: l'evento
storico dell'ultima cena degli Ebrei in Egitto, in
attesa del passaggio del Signore che libera dalla
schiavitù, è rievocato qui in chiave liturgica per
divenire «un rito perenne». La memoria cioè si
fa memoriale (Zikkārôn, v. 14) in cui l'efficacia
salvifica di quanto YHWH ha compiuto una volta
per tutte è resa attuale per ogni generazione in e
mediante la liturgia; di qui la preoccupazione di
dare norme concrete e dettagliate per la celebrazione
(vv. 3-8.11). Il rito ebraico fonde elementi ori-
ginariamente distinti e li storicizza. Il sacrificio
rituale dell'agnello con l'aspersione del sangue – la
pasqua (pesaḥ, festa primaverile di pastori
nomadi) – diventa per gli Israeliti segno della
protezione del Signore (vv. 7. 12s.). L'offerta
delle primizie – gli azzimi (festa agricola, legata
al ciclo delle stagioni) – posta in riferimento alla
liberazione dall'Egitto ricorda ora, di generazione
in generazione, la partenza frettolosa da quel paese di
schiavitù. In un momento preciso della storia di un
popolo oppresso, Dio interviene con potenza: quel
momento dunque non appartiene solo al fluire dei
tempi, ma alla dimensione di Dio. Perciò è un 'oggi'
sempre offerto a chi vuole entrare in quella storia di
salvezza, mediante la celebrazione del memoriale.

                                                          13
Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte
                                                             agli inganni degli uomini. Si era trovato
                                                             imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai
                                                             spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista
                                                             offrirà “un sacrificio di ringraziamento". Una parte
                                                             delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la
                                                             consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i
                                                             poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente
                                                             prendeva una coppa di vino presentandola al Signore
                                                             e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice
                                                             della salvezza”. Il salmista dice che “Agli occhi del
                                                             Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”,
                                                             intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli
                                                             a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il
                                                             dove, il come e il quando, e questo per il bene del
                                                             fedele. Il salmista offrirà "un sacrificio di
                                                             ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con
                                                             piena ortodossia nel tempio del Signore, a
                                                             Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la
                                                             sua fede nel Signore. L'esistenza del tempio porta a
pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei
pagani; come fu il caso di Geremia. “Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.

Al memoriale della liberazione dalla schiavitù
d'Egitto Gesù sostituisce il suo memoriale,
nell'ultima Cena in questa terra d'esilio.
Compimento della Legge e dei Profeti, egli porta
alla pienezza anche l'antico rito con il suo
sacrificio d'amore. «Per noi» si è lasciato
consegnare alla morte (al v. 23 il termine
«consegnare» allude a tutto il mistero pasquale,
non al solo tradimento). «Nuova» è dunque l'al-
leanza con Dio: sancita nel sangue del vero
Agnello, che con la sua immolazione ci libera dalla
schiavitù del male, e consumata nella comunione
del Pane dell'offerta, che, spezzato nella morte,
dona a noi la vita. Nuova deve diventare anche la
condotta del cristiano: ogni volta che mangia di
questo pane e beve di questo calice egli iscrive
nella propria esistenza la straordinaria ricchezza
della pasqua di Cristo e ne diviene testimone nel
tempo, fino al giorno della venuta gloriosa del
Signore (v. 26).

                                                         14
Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

                                                              È il giorno della Cena del Signore con i suoi. Nel
                                                              memoriale eucaristico la comunità cristiana accoglie
                                                              il testamento del Signore: «fate questo in memoria
                                                              di me». I segni del pane e del vino rimandano al
                                                              dono di se stesso, da ripetere nella storia come
                                                              contrassegno essenziale della sequela. Per questo la
                                                              tradizione ha associato alla Cena il rito della
                                                              lavanda dei piedi, a testimonianza dell'impegno di
                                                              servizio che, nella fedeltà a Gesù, la Chiesa si
                                                              assume. Giovedì santo = festa dell'Eucaristia.
                                                              Perché? Il Triduo pasquale celebra gli elementi
                                                              fondanti la nostra fede, avvenuti negli ultimi giorni
                                                              della vita di Gesù:
                                                                 – la sua risurrezione nella notte del Sabato al
                                                              primo giorno della settimana;
                                                                 – la sua morte il Venerdì;
                                                              –             la notte in cui fu tradito, vigilia della
                                                              sua morte, la prima Cena del Signore vissuta come
                                                              compimento della Pasqua. È in questa notte che
                                                              Gesù ha rivelato il senso della sua morte, una morte
                                                              per gli altri: «il mio corpo offerto in sacrificio per
                                                              voi, il mio sangue versato per voi» (seconda
                                                              lettura); questo aspetto redentore della morte di
                                                              Gesù era già suggerito dalla narrazione della
Pasqua (prima lettura): in Egitto il sangue
dell'agnello pasquale aveva preservato gli Ebrei
dalla morte che stava per incombere. Ma la
redenzione non è solamente l'accoglienza di un
dono inestimabile: esige una contropartita, un
esistere per, un'esistenza al servizio dei fratelli
(vangelo).

Commento al vangelo:
Il discorso di Gesù nell'ultima Cena fu una
conversazione in clima di amicizia, di confidenza e insieme un estremo addio dato effondendo il cuore.
Quanto deve aver atteso quell'ora Gesù! Quell'ora per cui era venuto, l'ora di donarsi ai discepoli,
all'umanità, alla Chiesa. Le parole del vangelo sono traboccanti di energia vitale che ci sovrasta. Il
memoriale di Gesù — ossia il ricordo della sua Cena pasquale — non si ripete nel tempo, ma si rinnova, si
fa presente per noi. Quello che Gesù fece in quel giorno, in quell'ora, è quanto egli ancora, qui presente,
compie per noi. Noi dobbiamo perciò sentirci veramente in quell'unica ora in cui Gesù consegnò se stesso
per tutti, quale dono e testimonianza dell'amore del Padre. Noi, dunque, dobbiamo imparare da Gesù che ci
dice: «Vi ho dato l'esempio... ». Dobbiamo imparare da lui a dire sempre grazie, a celebrare l'eucaristia
nella vita, entrando nella dinamica dell'amore, che offre e sacrifica se stesso per far vivere l'altro. Il rito
della lavanda dei piedi ha proprio lo scopo di ricordarci che il comandamento del Signore deve essere
praticato nel quotidiano: servirci a vicenda con umiltà. La carità non è un vago sentimento, non è un'esperienza
da cui possiamo.aspettarci gratificazioni psicologiche, ma è la volontà di sacrificare se stessi con Cristo per gli
altri, senza calcoli. L'amore vero è sempre gratuito, è sempre pronto: si dà subito e totalmente.

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Venerdì della Settimana Santa
                                                   19 aprile 2019

                                                            Del Servo sofferente ci parlano gli oracoli di
                                                            YHWH che introducono e concludono il brano
                                                            (52,13-15; 53, 11s.), mostrando l'esito glorioso del
                                                            suo mite patire che diventa fonte di salvezza per
                                                            le moltitudini. Di lui ci parla la comunità di cui
                                                            il profeta si fa voce («noi», v. 4) confessando
                                                            l'incomprensione totale nella quale si è consumato il
                                                            dolore del Servo: un'incomprensione passata
                                                            dall'indifferenza al disprezzo, dal giudizio al sopru-
                                                            so legittimato (vv. 3-4.8a). Ma egli tace.
                                                            Non attira l'attenzione con lo splendore
                                                            dell'aspetto (segno della benedizione divina), né
                                                            con la luminosità della dottrina: «Ben conosce il
                                                            patire», ma questa non è materia d'insegnamento.
                                                            Silente nell'umiliazione, nell'oppressione, nella
                                                            condanna a morte (v. 7), fino a una sepoltura
                                                            infame (v. 9). Solo quando il suo sacrificio di
                                                            espiazione è consumato, la comunità – da esso
                                                            purificata – comprende l'inconcepibile disegno di

Dio. Il castigo, quale sofferenza purificatrice, presuppone
una colpa; ma qui, per la prima volta, viene mostrato aper-
tamente qualcosa di diverso: il mistero della sofferenza
vicaria. Il peccato è nostro (ci riconosciamo senza
difficoltà nel «noi» del testo), ma chi soffre per espiarlo
non siamo noi, bensì il Servo innocente.

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l salmo è di facile lettura. Presenta un giusto che è
sfuggito di mano al suo nemico perché il Signore
ha guidato al largo i suoi passi. Quest’esperienza lo
ha fortificato, ma la prova continua, lunga e
snervante, ed egli si trova nell’affanno, nel pianto.
E’ un emarginato su cui pesa una pubblica
riprovazione che lo logora. Una congiura poi
continua a volerlo morto, e lo fa vivere in un clima
di terrore.
Suo rifugio è tuttavia il Signore, al quale domanda
salvezza dai suoi nemici.
La recitazione cristiana omette l’invocazione
d’annientamento dei nemici. Il cristiano prega per
la conversione dei suoi nemici e non chiede a Dio
di intervenire su di loro colpendoli secondo la sua
giustizia, ma sa che Dio saprà agire. San Pietro
nella sua prima lettera così ci dice di Cristo (2,23):
“Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato,
non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che
giudica con giustizia”.
Il salmista, liberato dalle angosce, loda e ringrazia
il Signore, che lo ha liberato.
La sua preghiera termina con un invito a tutti i
“suoi fedeli", cioè i retti di cuore del suo popolo, a
non dubitare mai del Signore anche nelle situazione
d’estremo dolore, e a perseverare nell’affermare il
bene.

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La pericope, di importanza centrale nella lettera
                                                              agli Ebrei, ci invita a considerare il valore infinito
                                                              del sacrificio di Cristo, che egli compie come grande
                                                              sommo sacerdote, e che egli è, in quanto vera
                                                              vittima, pura e santa. La figura di Cristo emerge
                                                              così in tutta la sua maestà. Questo tuttavia non lo
                                                              allontana in una sfera inaccessibile. Anzi, proprio
                                                              perché ha condiviso in tutto le nostre prove (4,15),
                                                              egli sa com-patire la nostra debolezza. Si è fatto a
                                                              noi vicino perché potessimo avvicinarci con piena
                                                              fiducia al Padre, Dio di misericordia e di grazia,
                                                              che ci dona l'aiuto necessario in ogni tribolazione
                                                              (4,16), affinché ogni prova divenga luogo dove
                                                              sommamente risplende la sua sapiente provvidenza.
                                                              La sofferta adesione di Cristo al disegno del Padre
                                                              ottiene così un esaudimento che supera
                                                              infinitamente i nostri orizzonti: la sua obbedienza
                                                              filiale, che lo ha portato a «consegnare se stesso alla
                                                              morte» (cfr. Is 53,12), lo ha reso «causa di salvezza
                                                              eterna» per tutti coloro che obbediscono alla sua
                                                              Parola (5,7-9), diventando così quella discendenza
                                                              sterminata promessa al Servo di YHWH: nuova
prole di figli di Dio, ri-nati dal sangue di Cristo.

Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

È il giorno, drammatico, della passione e morte del
Signore. Gesù vive l'abbandono. Ma anche si
abbandona fiduciosamente al Padre, offre se stesso a
coronamento di una vita spesa per gli uomini. È il
giorno in cui si fa esperienza del silenzio di Dio, la
Chiesa non celebra l'Eucaristia; il momento
liturgico è segnato dalla centralità della croce, da
venerare nel mistero che richiama. Ma è anche un
giorno di riconciliazione, in cui, nelle chiese
cristiane, non dovrebbe regnare paura e lamento, ma
alzarsi forte il grido: «Lasciatevi riconciliare con
Dio!» L'azione liturgica di questo giorno santo ci
offre, in forma mirabile, la sintesi di un percorso di
sacrificio oblativo: il profeta Isaia offre
un'intuizione meravigliosa del Servo sofferente che
viene indicato nel vangelo come il Figlio di Dio
che offre la vita per il mondo e che ci viene presentato nella catechesi apostolica della seconda lettura come Colui
presso il quale possiamo trovare misericordia. La Passione secondo Giovanni è il culmine di questo
disvelamento. L'innalzamento di Cristo in croce coincide con la sua ascensione nella gloria. Questo mistero del
binomio croce-gloria ci offre la possibilità di incontrarci con Cristo, il grande sacerdote che, mediante il
ministero della salvezza eterna, dà compimento ad ogni attesa di redenzione e di grazia.

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Commento al vangelo:
                                                         Come lo Spirito Santo aveva condotto Gesù nel
                                                         deserto all'inizio della sua vita pubblica, così lo
                                                         spinge fortemente verso Gerusalemme, verso «la
                                                         sua ora», l'ora dello scontro definitivo e della
                                                         definitiva manifestazione dell'amore di Dio. È lo
                                                         Spirito Santo che dà a Gesù la forza di sostenere la
                                                         lotta del Getsemani, di aderire alla volontà del Padre
                                                         e di andare fino in fondo alla sua strada, pur
                                                         nell'angoscia fino al sudore di sangue. Sul Calvario,
                                                         poi, la scena si fa quasi deserta: nel cielo si
                                                         stagliano le tre croci e sotto — quasi due braccia
                                                         di un'unica croce — stanno Maria e Giovanni.
                                                         Nell'alto silenzio di questa indicibile sofferenza
                                                         risuona una domanda: «Ho sete». Questo grido
                                                         richiama alla memoria l'incontro di Gesù con la
                                                         Samaritana. «Dammi da bere», le aveva chiesto e
                                                         ne era seguita la rivelazione che la sete di Gesù
                                                         era sete della fede della Samaritana, sete della
                                                         fede dell'umanità, desiderio di dare l'acqua viva,
                                                         di dissetare ogni uomo con la sua grazia. L'ora della
                                                         crocifissione e della morte di Gesù corrisponde
                                                         all'ora della sua massima fecondità nello Spirito.

Quando l'amore di Gesù raggiunge il culmine
nell'immolazione, dal suo totale annientamento,
come dalle profondità di una sorgente
sotterranea, scaturisce la Chiesa, che è la
nuova comunità dei credenti, il nuovo Israele, il
popolo della nuova alleanza. E Maria è là,
quale cooperatrice di salvezza, e, insieme con
Giovanni che rappresenta tutti i discepoli del
Nazareno e l'intera umanità, costituisce il
primitivo nucleo della Chiesa nascente.

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Veglia Pasquale
    20 aprile 2019

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

È il giorno aliturgico, fino al momento della solenne
Veglia pasquale. Giorno di forti contrasti: l'atmosfera
di assenza cede all'annuncio di una rinnovata
presenza del Signore. La Chiesa vive nella certezza
della risurrezione: tutte le letture bibliche, che
ripercorrono la storia della salvezza, portano verso il
momento luminoso del Vangelo della risurrezione.
Esso apre alla comunità cristiana la prospettiva di
nuova creazione che i tre momenti liturgici, con i
loro simboli (liturgia della luce, liturgia battesimale,
liturgia eucaristica), celebrano e fanno rivivere. La
notte di Pasqua è al centro della fede cristiana.
Fiamma fragile nella notte, diventa fuoco
inestinguibile quando l'annuncio della risurrezione si
spande fino a irradiare ogni cosa vincendo le tenebre
della notte e del male. I simboli, i testi, i gesti, i canti
hanno l'unico scopo di proclamare al cuore degli
inquieti, dei disperati e dei sofferenti del mondo: «la
vita è salva! È Cristo risorto il Salvatore del
mondo!». Sono quattro le notti descritte nella
Bibbia. La prima notte si ebbe quando YHWH si
affaccia sul caos dell'abisso per la creazione. La
seconda è messa a fuoco quando Dio apparve ad
Abramo. La terza notte ebbe il suo fulgore quando il Signore si manifestò nell'esperienza dell'Egitto traendo in
salvo con la sua mano potente i primogeniti d'Israele. La quarta notte ebbe il compimento quando si impegnò a
liberare il popolo dalla terra della schiavitù chiamando quella notte "notte di veglia". Sono queste quattro notti
che offrono la trama alle letture della Veglia pasquale. La notte della parusia per i cristiani è anticipata in questa
notte della risurrezione di Gesù.

Commento al Vangelo

Il racconto di Luca è costruito secondo uno schema che ritroveremo anche nelle due successive apparizioni del
c. 24. Alle donne incerte e impaurite appaiono due uomini «in vesti sfolgoranti» (al v. 23 saranno espressamente
definiti angeli), che rivolgono loro una domanda prima di recare l'annuncio; lo stesso farà lo sconosciuto
viandante con i discepoli di Emmaus (v. 26) e il Risorto con gli apostoli (v. 38). L'interrogativo apre
all'insperato. Alla domanda segue il messaggio tipico del kérygma: «Non è qui [insistenza sulla tomba vuota], è
risuscitato»; quindi Luca riporta un invito fondamentale: «Ricordatevi...» (v. 6). Questo “Fare memoria” della
parola di Gesù o delle Scritture è condizione necessaria per vedere e riconoscere il Risorto. L'incontro con lui
apre spontaneamente alla missione. Lo testimoniano le donne che, senza essere esplicitamente inviate,
avvertono l'urgenza di comunicare l'inaudita notizia agli apostoli e ai discepoli di Gesù. A questo punto
l'evangelista riferisce i nomi delle donne, ben noti nella comunità. Se le loro parole sembrano vaneggia-
menti, Pietro tuttavia se ne sente avvinto e corre al sepolcro, dove constaterà che davvero il corpo del
Signore non è lì. Inizia ora la storia della Chiesa, fondata sulla fede pasquale di Simon Pietro e degli altri
apostoli.

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Domenica di Pasqua
                          Risurrezione del Signore
                                                   21 aprile 2019

Il brano è uno spezzone del discorso di Pietro a
Cesarea in casa del centurione Cornelio. A
questo pagano, timorato di Dio, appare un
angelo del Signore, annunciandogli che le sue
preghiere sono state esaudite e invitandolo a
far chiamare Pietro in casa sua. Questi, dopo
aver ricevuto a sua volta una visione, si mette
in cammino per raggiungere Cornelio (vv. 9-
33). Per entrare nella sua casa Pietro deve
compiere un tortuoso itinerario fisico – da
Giaffa a Cesarea – e mentale, oltre i pregiudizi e
i tabù che impongono una rigida separazione tra due
mondi contrapposti: i pagani rappresentati da
Cornelio e i giudei impersonati da Pietro. Giunto
in casa di Cornelio, l'apostolo domanda
perché lo abbiano mandato a chiamare, ma non
riceve risposta. Costretto a prendere la parola,
inizia a raccontare le vicende di Gesù di
Nazareth, annunciando il kerygma, cioè la
salvezza che si è compiuta attraverso la morte e
risurrezione di Cristo. Rispetto ad altri discorsi
missionari le parole di Pietro presentano tratti
universalistici che riflettono la presenza di un
uditorio pagano: Gesù è venuto per risanare
«tutti coloro che stavano sotto il potere del
diavolo»; «chiunque crede in lui riceve il
perdono dei peccati». Nel crescendo del suo
discorso su Gesù, giunto a pronunciare queste
parole, Pietro scopre finalmente perché è in quella casa: deve constatare il rinnovarsi della Pentecoste
per un gruppo di non-circoncisi. Lo Spirito, spontaneamente, senza essere invocato, scende su di loro: Pietro
li deve solo battezzare, aggregandoli alla chiesa (vv. 44-48). Come in altri discorsi apostolici (cfr. At 2,22-24;
3,14-15; 5,2932; 13,27-31), la risurrezione appare come l'atto con cui Dio ristabilisce la giustizia di
Gesù, pervertita a causa della sua ingiusta condanna: «I giudei lo uccisero appendendolo a una croce, ma
Dio lo ha risuscitato». A partire dalla risurrezione Gesù deve quindi essere annunciato come giudice e
salvatore universale, anzitutto da coloro che sono stati testimoni oculari. Si comprende, pertanto, quanto gli
apostoli, nella visione lucana, siano necessari al messaggio che proclamano; senza di loro la Buona Notizia
non potrebbe essere proclamata e diffondersi. Per co noscere Cristo bisogna necessariamente passare
attraverso la loro testimonianza, poiché essi sono collegialmente testimoni dell'evento nella sua
interezza (cfr. At 2,32; 3,15; 5,32; 10,39.41). Tutti coloro che verranno dopo, quindi anche noi, sono
chiamati a edificare sul loro fondamento.

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Salmo responsoriale                            Sal 117 (118)
                                                             Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci
                                                             ed esultiamo. – II Salmo 117 sembra che ricalchi un
                                                             pellegrinaggio al tempio in occasione di una festa
                                                             liturgica, probabilmente quella delle Capanne. li
                                                             salmista invita Israele a innalzare la sua lode al Signore
                                                             per il suo amore senza fine. Dio lo ha mostrato,
                                                             intervenendo a vantaggio del suo popolo: lo ha liberato
                                                             dalla morte e questi ha visto la sua mano in azione
                                                             nell'esodo dall'Egitto, nel ritorno da Babilonia... nella
                                                             risurrezione di Cristo che ha redento l'uomo dalla
                                                             schiavitù del peccato. Per questo, colui che è stato
                                                             strappato alla morte può continuare a lodare Dio e a
                                                             raccontare le sue opere. Il Signore ribalta le sorti... del
                                                             suo popolo, del suo Figlio, di ogni suo discepolo: ciò
                                                             che è stato scartato diventa fondamentale.

Il battesimo ha consegnato al credente una nuova
identità: lo ha associato a Cristo a tal punto che
egli è già morto e risorto con lui a vita nuova. Egli
vive pertanto su due "registri": appartiene
contemporaneamente a due mondi, quello celeste
di lassù ove Cristo è assiso alla destra del Padre e
quello terrestre di quaggiù. Cronologicamente vive
nel presente, ma personalmente – sul piano della
sua identità – ha già oltrepassato col battesimo la
soglia della morte ed è già un uomo e una donna
del futuro. Per questo è necessario che viva tutto
proteso verso quella meta. Se è chiara la meta, ti
ritrovi anche quando ti perdi. È a partire dalla fine
che il credente giudica tutte le cose, perché là è
custodita la verità di tutto e di tutti: è là – sulla piazza d'oro della Gerusalemme celeste – che scopro la verità di me
stesso, degli altri e di tutta la creazione. Per altro verso, chi cammina con la testa rivolta all'indietro non va avanti.
Se il movente della nostra vita è il passato e ne restiamo prigionieri, o in maniera nostalgica o perché combat-
tiamo contro di esso, non ci daremo mai la possibilità della novità che viene da Dio. Se la nostra vita è nascosta con
Cristo in Dio, ciò significa che il nostro compimento, cioè la nostra identità più vera, esiste già in Dio. In lui è un
"serbatoio di senso" a cui attingere costantemente, in particolar modo nell'Eucaristia, ove il mondo di lassù si
congiunge e comunica con quello di quaggiù. Ogni liturgia è un passo verso quel noi che si nasconde con Cristo
in Dio e ci attrae a sé. Esso si manifesterà definitivamente solo nel giorno della parusia di Cristo, quando egli
apparirà nella gloria e noi con lui. Ciò che di noi per ora è nascosto sarà allora totalmente manifesto... a noi e al
mondo.

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Delineiamo il percorso proposto dalle
letture:
«Questo è il giorno che ho fatto il
Signore». La Chiesa cristiana riconosce
nella Pasqua di Gesù, il Cristo, l'agire
meraviglioso di Dio dentro la storia degli
uomini. t in atto una "nuova creazione" e,
se ci lasciamo coinvolgere, può condurci ad
una trasformazione dentro e fuori di noi. La
Pasqua di Gesù, infatti, non ci lascia inerti e
passivi, ma ci rende collaboratori di Dio per
la rinascita del nostro mondo. Questa è la
grande speranza che ci anima: la vita
nuova nasce dall'abbandono del vecchio
mondo, poiché il dilagare del male è stato
definitivamente sconfitto in Cristo risorto
dalla morte. Nel vangelo le prime testimoni
di questo nuovo giorno sono le donne: loro
sono testimoni di qualcosa di straordinario,
                                                             che sconvolge i loro piani. Per comprendere
                                                             l'evento esse devono ricordare le parole del
                                                             Signore e riconoscere che non si può cercare
                                                             trai morti colui che è vivo e presente. Nel
                                                             ricordo del ministero di Gesù, richiamato da
                                                             Pietro e riferito dalla prima lettura,
                                                             scopriamo il        significato dell'annuncio
                                                             pasquale: chi crederà in lui potrà sperimentare
                                                             il dono della remissione dei peccati. Di
                                                             conseguenza, nella seconda lettura siamo
                                                             invitati a risorgere insieme con Cristo, e
cioè a partecipare al mistero della sua vita orientando la nostra stessa esistenza secondo scelte e pensieri
conformi alla parola e all'esempio di Gesù.
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