2019 Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Aprile - Pontimonti
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2019 UNITÀ PASTORALE Barbarano Mossano Villaga Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Aprile Claudio Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
V Domenica di Quaresima 7 aprile 2019 Il testo proposto dalla liturgia è una profezia contenuta nel «libro della consolazione», che corrisponde alla seconda parte del libro di Isaia, il cosiddetto Deuteroisaia (capp. 40-55). E l'opera di un profeta anonimo che, sulla scia del grande Isaia, preannuncia il ritorno in Israele degli esiliati, a seguito della caduta dell'impero babilonese per mano dei persiani, guidati dal re Ciro (538 a.C.). Questa liberazione epocale è riletta dal profeta con le categorie dell'esodo: alla testa del suo popolo, come un pastore, Dio apre nel deserto la via del ritorno nella Terra pro- messa (cap. 40). Al resto d'Israele è dato di contemplare la grazia di un nuovo esodo. Il profeta ricorda l'intervento potente di Dio durante il passaggio del Mar Rosso (Es 14), quando fece passare gli israeliti oltre il mare, aprendo loro una strada tra le acque, e distrusse gli egiziani che li inseguivano. La liberazione in atto al presente — quella dall'esilio babilonese — richiama alla memoria la liberazione per eccellenza nella storia d'Israele, quella dalla schiavitù d'Egitto. Eppure il profeta ribadisce che i prodigi del passato saranno eclissati dalle meraviglie ancor più grandi che Dio sta compiendo al presente e, se un tempo fu proverbiale la grandezza dell'intervento di YHWH per liberare il suo popolo dall'Egitto, vengono giorni in cui egli compirà prodigi ancor più grandi e memorabili (cfr. Ger 16,14-15; 23,7-8). Il profeta invita gli esuli —un popolo ormai distrutto — a scorgere negli umili segni del presente le prime avvisaglie della salvezza che sta per realizzarsi, come un germoglio in cui potenzialmente si vede già il rigoglio dell'albero che ne crescerà. È qualcosa di impensabile, come immaginare che nel deserto si riversi una quantità d'acqua tale da farlo fiorire, un dono insperato, i cui benefici non sono solo per il popolo ma anche per le bestie selvatiche. Israele non deve lasciarsi imprigionare in modo nostalgico nel suo glorioso passato e nelle sue tradizioni. Occorrono occhi per apprezzare l'umile inizio di qualcosa di nuovo che spunta nella storia. - Ricordare e osservare la Legge dei padri è un imperativo per Israele: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3-4). Il credente, tuttavia, sa guardare la vita anzitutto a partire dal futuro delle promesse di Dio e sa fare memoria del passato nella misura in cui esso è capace di aprirlo alla novità. Dopo l'esperienza del fallimento e del peccato, solo la speranza e la capacità di aprirsi al futuro che Dio può attuare possono gene rare un cammino di rinascita. E quanto Gesù annuncia ai peccatori, offrendo loro la cancellazione dei propri peccati. 1
Salmo responsonale Sal 125 (126) Grandi cose ha fatto il Signore per noi. – Il Salmo 125 evoca l'esperienza del ritorno degli esiliati dalla terra di Babilonia, evento grandioso e inatteso, percepito come un sogno. Davanti ad esso – afferma il salmista –anche i popoli stranieri, cioè i pagani, hanno riconosciuto la grandezza del Dio d'Israele. Questo ritorno repentino e impensato viene paragonato ai torrenti del deserto del Neghev che, quasi improvvisamente, durante la primavera, s'ingrossano d'acqua e fanno fiorire questa regione arida e sassosa. Ora il faticoso tempo dell'esilio, che sembrava preludio di morte, è percepito come il tempo della semina: il contadino getta con fatica la semente, tra le lacrime e il sudore della fronte, ma poi viene la gioia della mietitura. La vita di Paolo è stata capovolta dall'incontro con Cristo: ciò che prima considerava un guadagno e per cui si impegnava da zelante fariseo ora è divenuto una perdita. Se prima confidava nella carne, ora è consapevole che la sua salvezza e il suo vanto derivano dal suo essere «in Cristo» in forza del battesimo. Per descrivere questa esperienza, l'Apostolo fa uso di un linguaggio finanziario: parla di guadagni e di perdite, perché i Filippesi si decidano per ciò che veramente conta, ciò per cui davvero si può lasciare tutto. Rinunciando ai precedenti guadagni, si arriva al vero guadagno, cioè «l'essere trovato in Cristo». In definitiva, non è il credente ma Dio stesso che gli consente di «ritrovarsi» nel Figlio suo, in un rapporto di unione profonda con lui. Questo è il fondamento della giustizia: non l'osservanza formale delle prescrizioni della Legge, ma l'adesione a Cristo nella fede, che si attua attraverso il perdono dei peccati, atto gratuito che solo Dio può realizzare. Il vero guadagno è dunque conoscere Cristo, cioè immergersi nel suo mistero pasquale per vivere, unito a lui, un'esistenza che si dà al modo della Pasqua: così anche le sofferenze e le asperità della vita concorrono alla conformazione a Cristo, preludendo alla piena partecipazione alla sua risurrezione, la cui potenza vivificante è già ora sperimentabile. La vita del credente è dunque tutta protesa verso la risurrezione. A buon diritto Paolo può vantarsi dell'uomo che è di- ventato «in Cristo», ma è ben consapevole di non essere ancora giunto alla meta. Egli non si considera più così 2
«irreprensibile» come un tempo e sa di non essere «un arrivato» (cfr. Fil 3,5), consapevole che la vita cristiana è una corsa che presuppone un dinamismo continuo. Impiegando un'immagine sportiva (cfr. 1 Cor 9,24-27), l'Apostolo descrive il suo ardente desiderio di raggiungere la meta per conquistare il premio della vita perfetta in Cristo, come un atleta in corsa che non si volta a guardare indietro ma è tutto proteso a ciò che sta davanti a lui. Poi quasi si corregge, ammettendo la precedenza di Cristo in questo itinerario: svuotando l'immagine agonistica da ogni sfumatura possessiva, riconosce che è in corsa per afferrare Cristo, perché egli, per primo, lo ha afferrato sulla via di Damasco. Il premio non si ottiene semplicemente con il proprio sforzo, ma dipende dalla chiamata di Dio e coincide con l'essere in Cristo che ci attira a sé, nella corsa della vita, a risorgere con lui. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Gesù non condanna l'adultera a lui presentata perché venisse giudicata secondo la Legge. Gesù non condanna perché Dio, il Padre, non condanna, ma vuole la salvezza del peccatore. Questa misericordia non è grazia "a buon mercato", ma è una nuova creazione, un'opportunità perché la donna possa cambiare la sua vita. Il finale del racconto evangelico rimane aperto: non sappiamo che scelte la donna adultera avrà fatto, ma solo che Gesù l'ha perdonata affinché lei potesse ricominciare a vivere. Gesù, il salvatore, colui che redime, rinvia nella libertà ognuno, affermando coni fatti che tra legge e misericordia è quest'ultima che vince. Il vangelo rivela oggi la più profonda verità sull'esistenza umana: noi non siamo i nostri peccati, Dio non ci identifica con le nostre colpe, ma apre la strada ad un rinnovamento di noi stessi, possibile con la sua grazia. Il vero peccato dell'uomo, perciò, è la disperazione, l'incapacità di fidarsi dell'amore di Dio. Anche il messaggio della prima lettura può essere così riassunto: Ecco, io faccio una cosa nuova. Il credente sa guardare la vita a partire dal futuro aperto dalla promessa di Dio e sa fare memoria del suo passato nella misura in cui si rende capace di aprirlo alla novità. La seconda lettura invita all'incontro trasformante con Gesù: un incontro che Paolo racconta alludendo alla sua esperienza sulla via di Damasco. Commento al vangelo: La quinta domenica di quaresima si presenta con un carattere particolare per l'intensità con cui si fa sentire la voce del Giusto circondato dai suoi persecutori. È già un presagio di passione. Gesù si trova in una sempre 3
più grande solitudine. È solo soprattutto perché è deciso ad andare fino in fondo alla sua missione e giungere là dove nessun altro lo può seguire e nessuno lo può aiutare, se non il Padre. Cosa mirabile è che proprio in quest'ora di più grande solitudine egli manifesti pienamente la grandezza del suo amore per i fratelli, la sua capacità di prendere su di sé tutto il peso del peccato degli uomini per espiarlo. Ne è prova il vangelo che la liturgia oggi ci offre e che possiamo rivivere da protagonisti. La scena è impressionante: scribi e farisei sottopongono Gesù a una specie di processo mettendogli davanti la donna adultera. Nel silenzio risuonano gravi parole... Gli accusatori si dileguano sotto il peso del loro orgoglio e della loro menzogna. Solo la donna peccatrice rimane, da povera, sotto lo sguardo misericordioso di Gesù. Può così ricevere il suo perdono ed essere rinnovata dal suo amore: «Vá e non peccare più». Anche noi dobbiamo presentarci a lui, insieme con tutti i nostri fratelli, per chiedere non la condanna, ma il perdono. Questo allora ci rende fedeli al 'comandamento nuovo', ci fa passare alla 'novità' di vita, rendendoci testimoni di speranza, forti dell'aiuto del Signore. La costanza ci è necessaria per continuare il nostro cammino di conversione e arrivare alla pasqua nella pienezza della gioia. Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo viviere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi. 4
Domenica delle Palme: Passione del Signore 14 aprile 2019 Oggi Gesù compie l'oracolo del profeta Zaccaria. Leggendo l'antica profezia scopriamo che il Signore si sta accingendo a fare cose meravigliose per il suo popolo. Vengono ridotte all'inesistenza tutte le potenze che possono nuocere. Israele sarà governato da un re speciale, particolare, giusto, vittorioso, di pace e non di guerra, perché farà sparire i carri da guerra da Èfraim e i cavalli da Gerusalemme. Avrà un dominio universale. Egli viene per annunziare la pace alle nazioni. Un regno come questo mai è esistito nel mondo e mai esisterà. Esso si chiama " regno di Dio, o regno messianico ". (Zac 9,1-17). Gesù oggi viene riconosciuto e acclamato dal popolo "Messia del Signore ". È un momento di grande esaltazione. In verità pochi, pochissimi sanno la verità del loro re. Oggi si professa la fede, ma non si conosce la profondità della verità nascosta nel segno che Gesù offre. Una fede non sorretta dalla pienezza della verità è assai effimera. Crea entusiasmo, ma non martirio, non perseveranza, non fedeltà, non obbedienza, perché l'obbedienza è alla verità della fede. Gesù ha lavorato duramente per formare i suoi nella verità del suo mistero, ma con scarsi risultati. Molti uomini di Chiesa hanno addirittura rinunciato a questo lavoro. Per essi è preferibile fondare ogni cosa su un entusiasmo momentaneo, ogni altra cosa è ritenuta da essi inutile. Percorrono questa via perché convinti della sordità del popolo del Signore. Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, formateci nella verità della fede. 5
La fedeltà a Dio e agli uomini – alla missione rice- vuta in loro favore – rende il Servo di YHWH saldo nella sofferenza, nell'ignominia, nell'apparente fallimento. Attento discepolo della parola di Dio, profeta e maestro di sapienza per il popolo, con la sua sorte egli prefigura quella di Cristo, il mite che non ha opposto resistenza alla volontà del Padre e non si è sottratto alla malvagità degli uomini, sicuro – perfino nell'ora suprema dell'abbandono sulla croce – che il disegno di Dio è dono di salvezza offerto a tutti (v. 7; cfr. Me 15,34 e Le 23,43.46). Il povero del Signore, abbandonato da tutti, schernito per la sua stessa fede, braccato da ogni parte, spogliato, sfinito, reietto, ridotto allo stremo delle forze, al punto limite della crisi umana, riesce ancora a chiamare il Signore “mia forza” e a rivolgersi a lui con un supremo atto di fede, di fedeltà e di fiducia: “dal grembo di mia madre tu sei il mio Dio!”. E, d’improvviso, a premio della fedeltà paziente e della povertà nello spirito che lo ha reso così disponibile a Dio, Iddio misteriosamente gli ha mostrato il suo volto e lo ha esaudito. Di qui l’impegno ad annunziarne il nome ai fratelli, perché quanti lo cercano lodino il Signore. La profezia messianica non solo appare da tutto il contesto del salmo, dalle formali citazioni degli evangelisti e di San Paolo, dall’unanime commento dei Padri e della coscienza cristiana di tutti i tempi, ma delle parole stesse di Cristo che dall’alto della croce se ne fece il protagonista e lo assunse in prima persona nella sua preghiera al Padre. 6
Questo è uno stupendo inno cristologico pre-paolino. Complesso nelle singole espressioni che lo costitui- scono, può essere inteso a partire dal sostantivo «tesoro geloso», in greco harpagmós (v. 6), che letteralmente significa 'oggetto di rapina'. Quale significato può avere l'affermazione: Cristo che è di condizione (morphḗ) divina, non considerò l'uguaglianza con Dio un oggetto di rapina? È qui sottinteso il paragone con Adamo, colui che non essendo in tale condizione volle rubarla. Paolo offre come esempio alla comunità di Filippi il nuovo Adamo, cioè Cristo. Costui accetta di riscattare, mediante l'umiltà e l'obbedienza fino alla morte più obbrobriosa, la superba disobbedienza del primo Adamo, a causa della quale tutto il genere umano precipitò nel peccato e nella morte (cfr. Rm 5,18s.). Cristo svuotò se stesso e assunse la condizione servile, che è la nostra (v. 7), fino all'estremo limite. Al suo volontario abbassamento risponde l'azione di Dio (vv. 9-11) che non solo «lo esaltò», ma `sovraesaltato'. Tutto l'universo ormai è chiamato a proclamare che Gesù Cristo è kyrios, Signore, cioè Dio, e questa confessione è a gloria del Padre. Gesù, il giusto ingiustamente annoverato tra gli empi. Ogni vangelo ha uno specifico approccio all'evento della passione. In Luca (Lc 22,14-23,56) essa costituisce la prova suprema di Gesù: attraverso di essa è attestata la sua innocenza, in modo che tutti gli spettatori possano riconoscerla. Per descrivere la morte del Signore, Matteo e Marco ricorrono soprattutto al motivo del giusto ingiustamente perseguitato. Essi riprendono i motivi sal-mici delle suppliche dell'innocente perseguitato per dimostrare la figliolanza divina di Gesù e la sua fede radicale fin dentro la morte (Sal 22; Sap 2,12-20). Luca invece si rifà al tópos del giusto riconosciuto nella propria integrità nel momento stesso in cui gli eventi parrebbero smentirla. Nel racconto c'è un riconoscimento paradossale della giustizia di Gesù e della menzogna degli altri attori del dramma, le cui accuse vengono, una per una, in vario modo smentite. Durante la passione giunge alla massima estensione il processo di autenticazione di Gesù sotteso al terzo vangelo e si prepara il definitivo atto con cui Dio riconosce il Figlio, risuscitandolo dai 7
morti. Is 53,12: una chiave per interpretare la passione lucana. Nel descrivere la passione di Gesù il terzo evangelista rinuncia a ogni forma d'interferenza narrativa o di commento intrusivo e si limita a consegnare al lettore, al termine dell'ultima Cena, le uniche parole – peculiari del terzo vangelo – in cui Gesù interpreta il proprio destino, citando esplicitamente le Scritture: «Io vi dico, deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti, tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Le 22,37). Citando l'epilogo del quarto canto del Servo (Is 53,12), Gesù offre ai suoi discepoli e al lettore una chiave per interpretare gli avvenimenti che stanno per abbattersi su di lui: egli sarà trattato al pari di un malfattore. Preannunciando per mezzo delle Scritture questa identificazione paradossale, Gesù svela il meccanismo autenticativo soggiacente alla passione lucana: più lo si dichiarerà ingiustamente colpevole, tanto più emergerà la sua innocenza e la sua conformazione al Servo di YHWH, che gode della predilezione divina. Proviamo a osservare in che modo. Davanti al sinedrio, un processo legittimo (Lc 22,66-71). Nel vangelo di Luca, contrariamente a quanto narrato in Mc 14,53-64, il procedimento giudiziario contro Gesù si svolge in modo legale: non si tiene nella casa privata del sommo sacerdote e nel cuore della notte (cfr. Mc 14,54; 15,1), ma il giorno successivo, nel sinedrio (Lc 22,66). Non vengono presentati falsi testimoni (cfr. Mc 14,57-59). Luca è interessato a descrivere un legittimo e solenne procedimento giudiziario davanti all'assemblea plenaria dei capi d'Israele. Gli preme, pertanto, che gli ac- cusatori, pur rifiutando la testimonianza di Gesù, dicano il vero sul suo conto. Alle domande circa la sua messianicità e figliolanza divina (Lc 22,66-71) Gesù risponde ambiguamente: non dice di essere il Cristo e lascia intendere ai suoi accusatori che sono essi a dover rispondere; anzi – a detta di Gesù – essi hanno già trovato la risposta. Quando gli domandano se egli sia realmente il Figlio di Dio (v. 70a), Gesù – diversamente da Marco – non risponde direttamente dicendo «Io lo sono!» (Mc 14,62), ma ribatte: «Voi stessi dite che io lo sono» (v. 70b). Dalla loro stessa bocca, prima ancora che da quella di Gesù, è dunque uscita la verità sul suo conto: la testimonianza di chi asserisce la propria innocenza non basta in un 8
processo, ma Gesù può contare su quella dei rappresentanti scelti d'Israele, che, pur non sapendolo, testimoniano a suo favore. Essi, peraltro, confermano di aver ben inteso la testimonianza di Gesù: «Che bisogno abbiamo ancora di testimo- nianza? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca» (v. 71), giacché ha detto di essere il Figlio dell'uomo che siederà alla destra della potenza di Dio (v. 69). Luca trasforma la comparizione davanti al sinedrio in un'attestazione paradossale – da parte di chi nega – della messianicità di Gesù, promuovendo un'autenticazione indiretta e involontaria della sua identità. Il sinedrio, infatti, decreta solennemente e coerentemente che Gesù si proclama Messia. Luca mostra così che i meccanismi della giustizia giudaica arrivano a stabilire la verità sull'identità di Gesù; ciononostante, essa viene rifiutata. È così che, mentre negli altri sinottici Gesù va al patibolo anche a motivo di falsi testimoni, nel terzo vangelo egli è trattato da malfattore, perché la sua vera identità è stata riconosciuta e respinta. Per mezzo di questa paradossalità Gesù si rivela un ve- ro profeta: la sua testimonianza è verace, proprio perché, come tutti i profeti che l'hanno preceduto, anche lui è stato rifiutato a causa dell'indurimento d'Israele. Prima comparizione davanti a Pilato (Lc 23,1-5). Davanti a Pilato il dibattito si porta a un livello politico. Luca, diversamente da Matteo e Marco, riporta le imputazioni che vengono addotte dai giudei contro Gesù alla presenza del procuratore: egli è accusato di essere un rivoltoso, di non pagare le imposte e di proclamarsi il Cristo re (v. 2). Dalla narrazione precedente il lettore dispone degli strumenti per valutare la falsità delle accu- se: Gesù non è mai apparso come un rivoluzionario. Per di più, ora, la suprema autorità romana in Palestina riconosce, davanti a tutta l'assemblea dei capi del popolo, che le accuse avanzate per condannare Gesù sono false. Pilato, come i membri del sinedrio, offre una testimonianza indiretta a favore della giustizia di Gesù, riconoscendo che, dietro le sue pretese messianiche, non si nasconde alcuna rivendicazione politica: egli è realmente il Cristo re. A detta di Gesù, è il procuratore stesso che lo afferma: «Tu lo dici» (v. 3). La risposta di Gesù è volutamente ambigua. Può significare: «Tu lo dici [ ... ] e dici il vero!», perché Gesù riscontra del vero nelle parole di Pilato, come prima in quelle dei capi del 9
popolo. Egli, infatti, è realmente re, come si è capito più volte durante il viaggio verso Gerusalemme (cfr. Lc 18,39; 19,11-40). Ma può anche significare: «Lo dici tu, non io!». Dalla sua prospettiva profana Pilato non può che dare un'accezione politica al titolo di re; per questo la risposta di Gesù, per quanto ambigua, esprime il suo rifiuto di una regalità intesa in senso politico. È evidente che Pilato comprende le parole di Gesù con questa seconda accezione; altrimenti, non potrebbe poi dichiarare la sua innocenza: «Non trovo alcuna colpa in quest'uomo!» (v. 4). Non vedendo alcun crimine in Gesù, Pilato conferma ciò di cui il lettore si è reso conto, leggendo il vangelo: Gesù non ha mai dato alla sua regalità quella connotazione politica che i capi del popolo vorrebbero ingiustamente imputargli. Eppure è trattato come un malfattore. Davanti a Erode (Lc 23,6-12). Saputo che Gesù appartiene alla giurisdizione di Erode, Pilato glielo invia, mentre quegli si trova a Gerusalemme. La questione sollevata dal procuratore in merito alla giurisdizione di competenza (v. 7) attesta il carattere forense dell'incontro: il re interroga Gesù in qualità di giudice (v. 9), mentre i capi dei sacerdoti e gli scribi lo accusano (v. 10). Formalmente Erode non emette una sentenza, ma, dopo averlo trattato come un re da burla, lo rinvia a Pilato (v. 11). Già da questo il lettore può dedurre un giudizio di non- colpevolezza, poiché Erode – pur avendo finalmente l'opportunità di uccide- re Gesù, conformemente ai propri progetti (cfr. Le 13,31) – lo lascia andare. Nella scena successiva, attraverso le parole che Pilato indirizza all'assemblea dei giudei radunata al suo cospetto, il lettore può facilmente risalire al verdetto emesso dal re: il funzionario romano interpreta il fatto che Gesù gli sia stato rimandato come una dichiarazione d'innocenza (cfr. Lc 23,14-15). Da questa terza fase del processo risulta una nuova dichiarazione ufficiale dell'innocenza di Gesù, concorde con la precedente. In tal modo vengono onorate – e contemporaneamente pervertite – le disposizioni mosaiche che prescrivono la testimonianza concorde di due testimoni per mettere a morte qualcuno (cfr. Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15). Gesù è legalmente innocente eppure è trattato come un malfattore (v. 11). Diversamente da Matteo e da Marco (cfr. Mt 26,62- 63; 27,1314; Mc 14,60-61; 15,4-5), nel vangelo di Luca Gesù non sta in silenzio davanti al sinedrio e al cospetto di Pilato, ma rivolge la propria testimonianza ai capi e agli anziani d'Israele (Lc 10
22,6671) e al procuratore (Lc 23,3-4; cfr. 3,1). Luca trasferisce il motivo del silenzio, soppresso dalle due scene precedenti, in quella della comparizione di Gesù davanti a Erode. Egli resta in silenzio come il Servo di YHWH (Is 53,7): ingiustamente rigettato, disprezzato e trattato come un malfattore, per la sua innocenza, è accomunato al giusto per eccellenza. È così che, anche attraverso il compimento delle profezie, Luca promuove il processo autenticativo sotteso al suo racconto della passione. Accusato, Gesù non risponde direttamente alle domande circa la sua messianicità. La risposta tuttavia giunge indirettamente, attraverso i gesti, le parole – spesso inconsapevoli – dei personaggi e il richiamo alle Scritture. Di nuovo dinanzi a Pilato (Lc 23,13-25). Dopo che Gesù gli è stato riconsegnato, Pilato emette un secondo e un terzo verdetto d'innocenza (vv. 14.22): alla luce del trattamento riservato da Erode a Gesù, egli continua a giudicare infondate le accuse avanzate contro di lui. Si assiste, pertanto, a un paradossale ribaltamento dei ruoli: nell'adempiere il suo compito di giudice, Pilato funge da testimone a favore di Gesù, comprovandone l'innocenza davanti ai giudei. Costoro, al contrario, agendo da accusatori e continuando a pretendere la morte di Gesù, si smascherano come colpevoli, contraddicendosi. Ciò emerge soprattutto attraverso la loro spontanea richiesta che, al posto di Gesù, venga liberato un assassino. In Luca non si menziona la consuetudine di Pilato di rilasciare prigionieri per le feste pasquali (cfr. Mt 27,15; Mc 14,6): l'iniziativa della liberazione di Barabba è dei giudei. Così facendo, il narratore accentua la gravità dell'ingiustizia commessa a danno di Gesù: pur di condannare un innocente, si reclama arbitrariamente la libertà di un conclamato rivoluzionario e omicida (v. 19). Tra i sinottici, Luca è l'unico che dichiara esplicitamente la colpevolezza di Barabba: per Matteo, egli è un prigioniero famoso e per Marco è un tale che si trova in carcere insieme ai ribelli che, in un tumulto, hanno commesso un omicidio (Mt 27,16; Me 15,7). Chiedendo il rilascio di un vero malfattore, contraddittoriamente, si trascurano in lui quegli stessi crimini per cui Gesù è accusato. A chiedere a gran voce la morte di Gesù non sono solo i capi dei sacerdoti, ma anche il popolo (v. 13; cfr. vv. 18.21.23). A differenza di Matteo e Marco, che nominano i capi dei sacerdoti, gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio (Mt 27,1-2; Mc 15,1) e poi una folla indifferenziata (Mt 27,20; Mc 15,8), Luca menziona esplicitamente la partecipazione del popolo (v. 13). È così che l'autore — sempre in modo indiretto — smaschera la falsità delle accuse contro Gesù: se egli fosse realmente un sobillatore del popolo — ciò che sostengono i giudei (v. 14) — come potrebbe questi rivoltarglisi contro?. 11
Ai piedi della croce (Lc 23,26-49). Nel terzo vangelo gli episodi ai piedi della croce costituiscono l'ultima prova di Gesù: attraverso di essa gli spettatori e il lettore sono condotti a riconoscere definitivamente la sua innocenza. Per due volte, all'inizio e alla fine, si dichiara che la folla di popolo, che ha accompagnato Gesù sino alla morte, si percuote il petto e innalza lamenti su di lui (vv. 27.48). Viene così smascherato il comportamento contraddittorio di questo gruppo: dopo averlo osannato come un eroe, sino 'a un momento prima del suo arresto (cfr. Le 22,2), il popolo si aggrega ai nemici di Gesù per metterlo a morte, riconoscendosi infine colpevole ai piedi della croce. Denunciando la propria colpevolezza, indirettamente le folle confessano che Gesù è morto ingiustamente. A conferma di ciò Luca segnala enfaticamente la sua morte tra due delinquenti (vv. 32-33; cfr. Mt 27,38; Me 15,27); si compiono così le Scritture (Is 53,12) e la profezia di Gesù (Lc 22,37): realmente egli è stato annoverato tra gli empi. Anche la scritta dileggiatoria sopra la croce rappresenta un'indiretta conferma dell'identità di Gesù, attestante la sua regalità (v. 38). Così pure il «buon ladrone» conferma che egli «non ha fatto nulla di male», a differenza dei due malfattori crocifissi con lui, che giustamente ricevono ciò che meritano (v. 41). Nel momento in cui le tenebre si abbattono sulla terra per tre ore (v. 44), il racconto amplifica il campo semantico del vedere (vv. 47.48.49): nell'oscurità circostante, la croce permette agli occhi di aprirsi e di riconoscere in Gesù crocifisso la giustizia di Dio. Gesù morto si offre alla contemplazione (v. 48) e al riconoscimento di tutti. Le parole del centurione, proprie del terzo vangelo – «Veramente quest'uomo era giusto!» (Lc 23,47; cfr. Mt 27,54; Mc 15,39) – costituiscono il vertice di tale riconoscimento e consentono al lettore di comprendere come la passione abbia portato alla massima estensione il processo di autenticazione di Gesù. Il percorso narrativo predisposto da Luca per raccontarci la passione dal suo punto di vista concorre al riconoscimento di Gesù quale giusto sofferente: è così che, per molteplici vie, è dichiarata la sua giustizia che ci salva e ci libera dall'ingiustizia del peccato. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: La celebrazione di oggi introduce alla Settimana Santa. Perciò tutta la liturgia parla di gloria e di passione allo stesso tempo. La liturgia evidenzia infatti il paradosso del cristianesimo: Gesù è festeggiato come l'inviato da Dio, ma subisce anche il rifiuto proprio di quelli a cui è inviato. Per amore si umilierà fino alla morte, ma con la sua risurrezione dai morti diventerà speranza per tutti. Il racconto della passione, che sta oggi al centro della Parola, è fatto secondo il vangelo di Luca, che intende evidenziare in n particolare colore la sua innocenza, in modo che tutti possano riconoscerla e comprendere come attraverso l'evento della croce viene rivelata la misericordia divina. Durante la passione si compie per Luca il processo di autenticazione di Gesù, e si prepara il definitivo atto con cui Dio Padre riconosce il Figlio, risuscitandolo dai morti. 12
Giovedì della Settimana Santa 18 aprile 2019 Questo testo ha un carattere prescrittivo: l'evento storico dell'ultima cena degli Ebrei in Egitto, in attesa del passaggio del Signore che libera dalla schiavitù, è rievocato qui in chiave liturgica per divenire «un rito perenne». La memoria cioè si fa memoriale (Zikkārôn, v. 14) in cui l'efficacia salvifica di quanto YHWH ha compiuto una volta per tutte è resa attuale per ogni generazione in e mediante la liturgia; di qui la preoccupazione di dare norme concrete e dettagliate per la celebrazione (vv. 3-8.11). Il rito ebraico fonde elementi ori- ginariamente distinti e li storicizza. Il sacrificio rituale dell'agnello con l'aspersione del sangue – la pasqua (pesaḥ, festa primaverile di pastori nomadi) – diventa per gli Israeliti segno della protezione del Signore (vv. 7. 12s.). L'offerta delle primizie – gli azzimi (festa agricola, legata al ciclo delle stagioni) – posta in riferimento alla liberazione dall'Egitto ricorda ora, di generazione in generazione, la partenza frettolosa da quel paese di schiavitù. In un momento preciso della storia di un popolo oppresso, Dio interviene con potenza: quel momento dunque non appartiene solo al fluire dei tempi, ma alla dimensione di Dio. Perciò è un 'oggi' sempre offerto a chi vuole entrare in quella storia di salvezza, mediante la celebrazione del memoriale. 13
Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento". Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”. Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele. Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore. L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia. “Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico. Al memoriale della liberazione dalla schiavitù d'Egitto Gesù sostituisce il suo memoriale, nell'ultima Cena in questa terra d'esilio. Compimento della Legge e dei Profeti, egli porta alla pienezza anche l'antico rito con il suo sacrificio d'amore. «Per noi» si è lasciato consegnare alla morte (al v. 23 il termine «consegnare» allude a tutto il mistero pasquale, non al solo tradimento). «Nuova» è dunque l'al- leanza con Dio: sancita nel sangue del vero Agnello, che con la sua immolazione ci libera dalla schiavitù del male, e consumata nella comunione del Pane dell'offerta, che, spezzato nella morte, dona a noi la vita. Nuova deve diventare anche la condotta del cristiano: ogni volta che mangia di questo pane e beve di questo calice egli iscrive nella propria esistenza la straordinaria ricchezza della pasqua di Cristo e ne diviene testimone nel tempo, fino al giorno della venuta gloriosa del Signore (v. 26). 14
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: È il giorno della Cena del Signore con i suoi. Nel memoriale eucaristico la comunità cristiana accoglie il testamento del Signore: «fate questo in memoria di me». I segni del pane e del vino rimandano al dono di se stesso, da ripetere nella storia come contrassegno essenziale della sequela. Per questo la tradizione ha associato alla Cena il rito della lavanda dei piedi, a testimonianza dell'impegno di servizio che, nella fedeltà a Gesù, la Chiesa si assume. Giovedì santo = festa dell'Eucaristia. Perché? Il Triduo pasquale celebra gli elementi fondanti la nostra fede, avvenuti negli ultimi giorni della vita di Gesù: – la sua risurrezione nella notte del Sabato al primo giorno della settimana; – la sua morte il Venerdì; – la notte in cui fu tradito, vigilia della sua morte, la prima Cena del Signore vissuta come compimento della Pasqua. È in questa notte che Gesù ha rivelato il senso della sua morte, una morte per gli altri: «il mio corpo offerto in sacrificio per voi, il mio sangue versato per voi» (seconda lettura); questo aspetto redentore della morte di Gesù era già suggerito dalla narrazione della Pasqua (prima lettura): in Egitto il sangue dell'agnello pasquale aveva preservato gli Ebrei dalla morte che stava per incombere. Ma la redenzione non è solamente l'accoglienza di un dono inestimabile: esige una contropartita, un esistere per, un'esistenza al servizio dei fratelli (vangelo). Commento al vangelo: Il discorso di Gesù nell'ultima Cena fu una conversazione in clima di amicizia, di confidenza e insieme un estremo addio dato effondendo il cuore. Quanto deve aver atteso quell'ora Gesù! Quell'ora per cui era venuto, l'ora di donarsi ai discepoli, all'umanità, alla Chiesa. Le parole del vangelo sono traboccanti di energia vitale che ci sovrasta. Il memoriale di Gesù — ossia il ricordo della sua Cena pasquale — non si ripete nel tempo, ma si rinnova, si fa presente per noi. Quello che Gesù fece in quel giorno, in quell'ora, è quanto egli ancora, qui presente, compie per noi. Noi dobbiamo perciò sentirci veramente in quell'unica ora in cui Gesù consegnò se stesso per tutti, quale dono e testimonianza dell'amore del Padre. Noi, dunque, dobbiamo imparare da Gesù che ci dice: «Vi ho dato l'esempio... ». Dobbiamo imparare da lui a dire sempre grazie, a celebrare l'eucaristia nella vita, entrando nella dinamica dell'amore, che offre e sacrifica se stesso per far vivere l'altro. Il rito della lavanda dei piedi ha proprio lo scopo di ricordarci che il comandamento del Signore deve essere praticato nel quotidiano: servirci a vicenda con umiltà. La carità non è un vago sentimento, non è un'esperienza da cui possiamo.aspettarci gratificazioni psicologiche, ma è la volontà di sacrificare se stessi con Cristo per gli altri, senza calcoli. L'amore vero è sempre gratuito, è sempre pronto: si dà subito e totalmente. 15
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Venerdì della Settimana Santa 19 aprile 2019 Del Servo sofferente ci parlano gli oracoli di YHWH che introducono e concludono il brano (52,13-15; 53, 11s.), mostrando l'esito glorioso del suo mite patire che diventa fonte di salvezza per le moltitudini. Di lui ci parla la comunità di cui il profeta si fa voce («noi», v. 4) confessando l'incomprensione totale nella quale si è consumato il dolore del Servo: un'incomprensione passata dall'indifferenza al disprezzo, dal giudizio al sopru- so legittimato (vv. 3-4.8a). Ma egli tace. Non attira l'attenzione con lo splendore dell'aspetto (segno della benedizione divina), né con la luminosità della dottrina: «Ben conosce il patire», ma questa non è materia d'insegnamento. Silente nell'umiliazione, nell'oppressione, nella condanna a morte (v. 7), fino a una sepoltura infame (v. 9). Solo quando il suo sacrificio di espiazione è consumato, la comunità – da esso purificata – comprende l'inconcepibile disegno di Dio. Il castigo, quale sofferenza purificatrice, presuppone una colpa; ma qui, per la prima volta, viene mostrato aper- tamente qualcosa di diverso: il mistero della sofferenza vicaria. Il peccato è nostro (ci riconosciamo senza difficoltà nel «noi» del testo), ma chi soffre per espiarlo non siamo noi, bensì il Servo innocente. 17
l salmo è di facile lettura. Presenta un giusto che è sfuggito di mano al suo nemico perché il Signore ha guidato al largo i suoi passi. Quest’esperienza lo ha fortificato, ma la prova continua, lunga e snervante, ed egli si trova nell’affanno, nel pianto. E’ un emarginato su cui pesa una pubblica riprovazione che lo logora. Una congiura poi continua a volerlo morto, e lo fa vivere in un clima di terrore. Suo rifugio è tuttavia il Signore, al quale domanda salvezza dai suoi nemici. La recitazione cristiana omette l’invocazione d’annientamento dei nemici. Il cristiano prega per la conversione dei suoi nemici e non chiede a Dio di intervenire su di loro colpendoli secondo la sua giustizia, ma sa che Dio saprà agire. San Pietro nella sua prima lettera così ci dice di Cristo (2,23): “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia”. Il salmista, liberato dalle angosce, loda e ringrazia il Signore, che lo ha liberato. La sua preghiera termina con un invito a tutti i “suoi fedeli", cioè i retti di cuore del suo popolo, a non dubitare mai del Signore anche nelle situazione d’estremo dolore, e a perseverare nell’affermare il bene. 18
La pericope, di importanza centrale nella lettera agli Ebrei, ci invita a considerare il valore infinito del sacrificio di Cristo, che egli compie come grande sommo sacerdote, e che egli è, in quanto vera vittima, pura e santa. La figura di Cristo emerge così in tutta la sua maestà. Questo tuttavia non lo allontana in una sfera inaccessibile. Anzi, proprio perché ha condiviso in tutto le nostre prove (4,15), egli sa com-patire la nostra debolezza. Si è fatto a noi vicino perché potessimo avvicinarci con piena fiducia al Padre, Dio di misericordia e di grazia, che ci dona l'aiuto necessario in ogni tribolazione (4,16), affinché ogni prova divenga luogo dove sommamente risplende la sua sapiente provvidenza. La sofferta adesione di Cristo al disegno del Padre ottiene così un esaudimento che supera infinitamente i nostri orizzonti: la sua obbedienza filiale, che lo ha portato a «consegnare se stesso alla morte» (cfr. Is 53,12), lo ha reso «causa di salvezza eterna» per tutti coloro che obbediscono alla sua Parola (5,7-9), diventando così quella discendenza sterminata promessa al Servo di YHWH: nuova prole di figli di Dio, ri-nati dal sangue di Cristo. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: È il giorno, drammatico, della passione e morte del Signore. Gesù vive l'abbandono. Ma anche si abbandona fiduciosamente al Padre, offre se stesso a coronamento di una vita spesa per gli uomini. È il giorno in cui si fa esperienza del silenzio di Dio, la Chiesa non celebra l'Eucaristia; il momento liturgico è segnato dalla centralità della croce, da venerare nel mistero che richiama. Ma è anche un giorno di riconciliazione, in cui, nelle chiese cristiane, non dovrebbe regnare paura e lamento, ma alzarsi forte il grido: «Lasciatevi riconciliare con Dio!» L'azione liturgica di questo giorno santo ci offre, in forma mirabile, la sintesi di un percorso di sacrificio oblativo: il profeta Isaia offre un'intuizione meravigliosa del Servo sofferente che viene indicato nel vangelo come il Figlio di Dio che offre la vita per il mondo e che ci viene presentato nella catechesi apostolica della seconda lettura come Colui presso il quale possiamo trovare misericordia. La Passione secondo Giovanni è il culmine di questo disvelamento. L'innalzamento di Cristo in croce coincide con la sua ascensione nella gloria. Questo mistero del binomio croce-gloria ci offre la possibilità di incontrarci con Cristo, il grande sacerdote che, mediante il ministero della salvezza eterna, dà compimento ad ogni attesa di redenzione e di grazia. 19
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Commento al vangelo: Come lo Spirito Santo aveva condotto Gesù nel deserto all'inizio della sua vita pubblica, così lo spinge fortemente verso Gerusalemme, verso «la sua ora», l'ora dello scontro definitivo e della definitiva manifestazione dell'amore di Dio. È lo Spirito Santo che dà a Gesù la forza di sostenere la lotta del Getsemani, di aderire alla volontà del Padre e di andare fino in fondo alla sua strada, pur nell'angoscia fino al sudore di sangue. Sul Calvario, poi, la scena si fa quasi deserta: nel cielo si stagliano le tre croci e sotto — quasi due braccia di un'unica croce — stanno Maria e Giovanni. Nell'alto silenzio di questa indicibile sofferenza risuona una domanda: «Ho sete». Questo grido richiama alla memoria l'incontro di Gesù con la Samaritana. «Dammi da bere», le aveva chiesto e ne era seguita la rivelazione che la sete di Gesù era sete della fede della Samaritana, sete della fede dell'umanità, desiderio di dare l'acqua viva, di dissetare ogni uomo con la sua grazia. L'ora della crocifissione e della morte di Gesù corrisponde all'ora della sua massima fecondità nello Spirito. Quando l'amore di Gesù raggiunge il culmine nell'immolazione, dal suo totale annientamento, come dalle profondità di una sorgente sotterranea, scaturisce la Chiesa, che è la nuova comunità dei credenti, il nuovo Israele, il popolo della nuova alleanza. E Maria è là, quale cooperatrice di salvezza, e, insieme con Giovanni che rappresenta tutti i discepoli del Nazareno e l'intera umanità, costituisce il primitivo nucleo della Chiesa nascente. 22
Veglia Pasquale 20 aprile 2019 23
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Delineiamo il percorso proposto dalle letture: È il giorno aliturgico, fino al momento della solenne Veglia pasquale. Giorno di forti contrasti: l'atmosfera di assenza cede all'annuncio di una rinnovata presenza del Signore. La Chiesa vive nella certezza della risurrezione: tutte le letture bibliche, che ripercorrono la storia della salvezza, portano verso il momento luminoso del Vangelo della risurrezione. Esso apre alla comunità cristiana la prospettiva di nuova creazione che i tre momenti liturgici, con i loro simboli (liturgia della luce, liturgia battesimale, liturgia eucaristica), celebrano e fanno rivivere. La notte di Pasqua è al centro della fede cristiana. Fiamma fragile nella notte, diventa fuoco inestinguibile quando l'annuncio della risurrezione si spande fino a irradiare ogni cosa vincendo le tenebre della notte e del male. I simboli, i testi, i gesti, i canti hanno l'unico scopo di proclamare al cuore degli inquieti, dei disperati e dei sofferenti del mondo: «la vita è salva! È Cristo risorto il Salvatore del mondo!». Sono quattro le notti descritte nella Bibbia. La prima notte si ebbe quando YHWH si affaccia sul caos dell'abisso per la creazione. La seconda è messa a fuoco quando Dio apparve ad Abramo. La terza notte ebbe il suo fulgore quando il Signore si manifestò nell'esperienza dell'Egitto traendo in salvo con la sua mano potente i primogeniti d'Israele. La quarta notte ebbe il compimento quando si impegnò a liberare il popolo dalla terra della schiavitù chiamando quella notte "notte di veglia". Sono queste quattro notti che offrono la trama alle letture della Veglia pasquale. La notte della parusia per i cristiani è anticipata in questa notte della risurrezione di Gesù. Commento al Vangelo Il racconto di Luca è costruito secondo uno schema che ritroveremo anche nelle due successive apparizioni del c. 24. Alle donne incerte e impaurite appaiono due uomini «in vesti sfolgoranti» (al v. 23 saranno espressamente definiti angeli), che rivolgono loro una domanda prima di recare l'annuncio; lo stesso farà lo sconosciuto viandante con i discepoli di Emmaus (v. 26) e il Risorto con gli apostoli (v. 38). L'interrogativo apre all'insperato. Alla domanda segue il messaggio tipico del kérygma: «Non è qui [insistenza sulla tomba vuota], è risuscitato»; quindi Luca riporta un invito fondamentale: «Ricordatevi...» (v. 6). Questo “Fare memoria” della parola di Gesù o delle Scritture è condizione necessaria per vedere e riconoscere il Risorto. L'incontro con lui apre spontaneamente alla missione. Lo testimoniano le donne che, senza essere esplicitamente inviate, avvertono l'urgenza di comunicare l'inaudita notizia agli apostoli e ai discepoli di Gesù. A questo punto l'evangelista riferisce i nomi delle donne, ben noti nella comunità. Se le loro parole sembrano vaneggia- menti, Pietro tuttavia se ne sente avvinto e corre al sepolcro, dove constaterà che davvero il corpo del Signore non è lì. Inizia ora la storia della Chiesa, fondata sulla fede pasquale di Simon Pietro e degli altri apostoli. 33
Domenica di Pasqua Risurrezione del Signore 21 aprile 2019 Il brano è uno spezzone del discorso di Pietro a Cesarea in casa del centurione Cornelio. A questo pagano, timorato di Dio, appare un angelo del Signore, annunciandogli che le sue preghiere sono state esaudite e invitandolo a far chiamare Pietro in casa sua. Questi, dopo aver ricevuto a sua volta una visione, si mette in cammino per raggiungere Cornelio (vv. 9- 33). Per entrare nella sua casa Pietro deve compiere un tortuoso itinerario fisico – da Giaffa a Cesarea – e mentale, oltre i pregiudizi e i tabù che impongono una rigida separazione tra due mondi contrapposti: i pagani rappresentati da Cornelio e i giudei impersonati da Pietro. Giunto in casa di Cornelio, l'apostolo domanda perché lo abbiano mandato a chiamare, ma non riceve risposta. Costretto a prendere la parola, inizia a raccontare le vicende di Gesù di Nazareth, annunciando il kerygma, cioè la salvezza che si è compiuta attraverso la morte e risurrezione di Cristo. Rispetto ad altri discorsi missionari le parole di Pietro presentano tratti universalistici che riflettono la presenza di un uditorio pagano: Gesù è venuto per risanare «tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo»; «chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati». Nel crescendo del suo discorso su Gesù, giunto a pronunciare queste parole, Pietro scopre finalmente perché è in quella casa: deve constatare il rinnovarsi della Pentecoste per un gruppo di non-circoncisi. Lo Spirito, spontaneamente, senza essere invocato, scende su di loro: Pietro li deve solo battezzare, aggregandoli alla chiesa (vv. 44-48). Come in altri discorsi apostolici (cfr. At 2,22-24; 3,14-15; 5,2932; 13,27-31), la risurrezione appare come l'atto con cui Dio ristabilisce la giustizia di Gesù, pervertita a causa della sua ingiusta condanna: «I giudei lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato». A partire dalla risurrezione Gesù deve quindi essere annunciato come giudice e salvatore universale, anzitutto da coloro che sono stati testimoni oculari. Si comprende, pertanto, quanto gli apostoli, nella visione lucana, siano necessari al messaggio che proclamano; senza di loro la Buona Notizia non potrebbe essere proclamata e diffondersi. Per co noscere Cristo bisogna necessariamente passare attraverso la loro testimonianza, poiché essi sono collegialmente testimoni dell'evento nella sua interezza (cfr. At 2,32; 3,15; 5,32; 10,39.41). Tutti coloro che verranno dopo, quindi anche noi, sono chiamati a edificare sul loro fondamento. 34
Salmo responsoriale Sal 117 (118) Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo. – II Salmo 117 sembra che ricalchi un pellegrinaggio al tempio in occasione di una festa liturgica, probabilmente quella delle Capanne. li salmista invita Israele a innalzare la sua lode al Signore per il suo amore senza fine. Dio lo ha mostrato, intervenendo a vantaggio del suo popolo: lo ha liberato dalla morte e questi ha visto la sua mano in azione nell'esodo dall'Egitto, nel ritorno da Babilonia... nella risurrezione di Cristo che ha redento l'uomo dalla schiavitù del peccato. Per questo, colui che è stato strappato alla morte può continuare a lodare Dio e a raccontare le sue opere. Il Signore ribalta le sorti... del suo popolo, del suo Figlio, di ogni suo discepolo: ciò che è stato scartato diventa fondamentale. Il battesimo ha consegnato al credente una nuova identità: lo ha associato a Cristo a tal punto che egli è già morto e risorto con lui a vita nuova. Egli vive pertanto su due "registri": appartiene contemporaneamente a due mondi, quello celeste di lassù ove Cristo è assiso alla destra del Padre e quello terrestre di quaggiù. Cronologicamente vive nel presente, ma personalmente – sul piano della sua identità – ha già oltrepassato col battesimo la soglia della morte ed è già un uomo e una donna del futuro. Per questo è necessario che viva tutto proteso verso quella meta. Se è chiara la meta, ti ritrovi anche quando ti perdi. È a partire dalla fine che il credente giudica tutte le cose, perché là è custodita la verità di tutto e di tutti: è là – sulla piazza d'oro della Gerusalemme celeste – che scopro la verità di me stesso, degli altri e di tutta la creazione. Per altro verso, chi cammina con la testa rivolta all'indietro non va avanti. Se il movente della nostra vita è il passato e ne restiamo prigionieri, o in maniera nostalgica o perché combat- tiamo contro di esso, non ci daremo mai la possibilità della novità che viene da Dio. Se la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio, ciò significa che il nostro compimento, cioè la nostra identità più vera, esiste già in Dio. In lui è un "serbatoio di senso" a cui attingere costantemente, in particolar modo nell'Eucaristia, ove il mondo di lassù si congiunge e comunica con quello di quaggiù. Ogni liturgia è un passo verso quel noi che si nasconde con Cristo in Dio e ci attrae a sé. Esso si manifesterà definitivamente solo nel giorno della parusia di Cristo, quando egli apparirà nella gloria e noi con lui. Ciò che di noi per ora è nascosto sarà allora totalmente manifesto... a noi e al mondo. 35
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: «Questo è il giorno che ho fatto il Signore». La Chiesa cristiana riconosce nella Pasqua di Gesù, il Cristo, l'agire meraviglioso di Dio dentro la storia degli uomini. t in atto una "nuova creazione" e, se ci lasciamo coinvolgere, può condurci ad una trasformazione dentro e fuori di noi. La Pasqua di Gesù, infatti, non ci lascia inerti e passivi, ma ci rende collaboratori di Dio per la rinascita del nostro mondo. Questa è la grande speranza che ci anima: la vita nuova nasce dall'abbandono del vecchio mondo, poiché il dilagare del male è stato definitivamente sconfitto in Cristo risorto dalla morte. Nel vangelo le prime testimoni di questo nuovo giorno sono le donne: loro sono testimoni di qualcosa di straordinario, che sconvolge i loro piani. Per comprendere l'evento esse devono ricordare le parole del Signore e riconoscere che non si può cercare trai morti colui che è vivo e presente. Nel ricordo del ministero di Gesù, richiamato da Pietro e riferito dalla prima lettura, scopriamo il significato dell'annuncio pasquale: chi crederà in lui potrà sperimentare il dono della remissione dei peccati. Di conseguenza, nella seconda lettura siamo invitati a risorgere insieme con Cristo, e cioè a partecipare al mistero della sua vita orientando la nostra stessa esistenza secondo scelte e pensieri conformi alla parola e all'esempio di Gesù. 36
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