Le "città proibite" di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazioni e rinegoziazioni letterarie del ghetto di Varsavia in due ...

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Le "città proibite" di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazioni e rinegoziazioni letterarie del ghetto di Varsavia in due ...
Laboratoire italien
                          Politique et société
                          24 | 2020
                          Écritures de la déportation

Le «città proibite» di Curzio Malaparte e Alceo
Valcini: narrazioni, diffrazioni e rinegoziazioni
letterarie del ghetto di Varsavia in due scrittori
italiani del dopoguerra
Les « villes interdites » de Curzio Malaparte et Alceo Valcini : narrations,
diffractions et renégociations litteraires du ghetto de Varsovie chez deux
écrivains italiens d’après-guerre
The “forbidden cities” of Curzio Malaparte and Alceo Valcini: narrations,
diffractions and literary renegotiations of the Warsaw ghetto in the works of two
postwar Italian writers

Tommaso Pepe

Edizione digitale
URL: http://journals.openedition.org/laboratoireitalien/4856
DOI: 10.4000/laboratoireitalien.4856
ISSN: 2117-4970

Editore
ENS Éditions

Notizia bibliografica digitale
Tommaso Pepe, « Le «città proibite» di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazioni e
rinegoziazioni letterarie del ghetto di Varsavia in due scrittori italiani del dopoguerra », Laboratoire
italien [Online], 24 | 2020, Messo online il 03 juin 2020, consultato il 05 juin 2020. URL : http://
journals.openedition.org/laboratoireitalien/4856 ; DOI : https://doi.org/10.4000/laboratoireitalien.4856

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    Le «città proibite» di Curzio
    Malaparte e Alceo Valcini:
    narrazioni, diffrazioni e
    rinegoziazioni letterarie del ghetto
    di Varsavia in due scrittori italiani
    del dopoguerra
    Les « villes interdites » de Curzio Malaparte et Alceo Valcini : narrations,
    diffractions et renégociations litteraires du ghetto de Varsovie chez deux
    écrivains italiens d’après-guerre
    The “forbidden cities” of Curzio Malaparte and Alceo Valcini: narrations,
    diffractions and literary renegotiations of the Warsaw ghetto in the works of two
    postwar Italian writers

    Tommaso Pepe

    Città proibite, rinegoziazioni di memoria
1   Lo stile, caustico e affilato, è quello inconfondibile del miglior (o peggior) Malaparte:
         – Guardate questo muro, – mi disse Frank. – Vi par proprio quella terribile muraglia
         di cemento irta di mitragliatrici, di cui parlano i giornali inglesi e americani? – E
         aggiunse ridendo: – Gli ebrei, poveretti, son tutti malati di petto: questo muro,
         almeno, li ripara dal vento.
         C’era qualcosa nella voce arrogante di Frank, che mi parve di riconoscere: qualcosa
         di torbido, una crudeltà umiliata e triste.
         – L’atroce immoralità di questo muro, – risposi, – non consiste soltanto nel fatto che
         impedisce agli ebrei di uscire dal ghetto, ma nel fatto che non impedisce loro di
         entrarvi.

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         – Eppure, – disse Frank ridendo, – benché l’infrangere il divieto di uscire dal ghetto
         sia punito con la morte, gli ebrei escono ed entrano a loro piacere. 1
2   Il ghetto è quello di Varsavia: Kaputt, libro nato dalla trasfigurazione letteraria della
    catabasi malapartiana au bout de la guerre, vi dedica una lunga sequenza ripartita nei
    capitoli «Le città proibite» e «Cricket in Polonia». Le pagine in cui Malaparte si
    addentra fra «strade affollate di squallide turbe cenciose», sorvegliate da «coppie di
    gendarmi ebrei, con la stella di David stampata in lettere rosse nel bracciale giallo» 2,
    fungono da inquietante contraltare narrativo ai ricevimenti offerti nella reggia del
    Wavel di Cracovia dal Generalgouverneur Frank, plenipotenziario di Hitler nella Polonia
    occupata. L’intermittenza fra orrore e raffinatezza, Kultur e Barbarei, viene enfatizzata
    ad arte per spingere alle estreme conseguenze le allusioni suggerite dalle disturbanti
    metafore dell’«onesta casa tedesca» e delle «oneste regole del cricket» echeggiate da
    Frank nel corso di surreali discettazioni in materia di politica demografica. Il racconto
    malapartiano fu tuttavia ispirato da una effettiva esperienza biografica: Malaparte
    aveva varcato la «soglia della città proibita» il 25 gennaio 1942, nel corso di un lungo
    viaggio-reportage sul fronte orientale condotto per conto del Corriere della Sera 3: Kaputt
    condensa così il distillato letterario dei ricordi d’uno dei pochissimi intellettuali italiani
    (e fascisti) ad avere avuto la possibilità di visionare personalmente la realtà dei ghetti
    dell’Europa centrorientale. La data della visita può essere ricavata con certezza da
    un’agenda dello scrittore, attualmente depositata presso la Fondazione Biblioteca di Via
    Senato e i cui estratti sono stati pubblicati dalla sorella di Malaparte, Edda Ronchi
    Suckert, nel corso degli anni Novanta (figura 1). Tuttavia il raffronto fra l’annotazione
    manoscritta e la rielaborazione letteraria rischia di mettere a nudo palpabili
    discrepanze:
         25 [Gennaio] Domenica
         Venuto Valcini; Gassner è partito. Andati a portare i cioccolatini di Madama
         Frassati. Poi giro al ghetto con Valcini, Zimmerman e Stöckmann. Alle 13.30 a
         colazione al Belvedere con quelli di ieri sera, più Schmelig, il boxeur. Alle 16 a casa,
         a chiacchierare un po’ con Stöckmann. Alle 18 siamo andati al caffè Europeiski. Poi,
         alle 7, al ristorante della Deutschegästehause, dove abbiamo cenato con
         Zimmermann, Valcini e Di Santi. Poi all’Adria, Varietà, dove abbiamo incontrato la
         bruna tedesca Wieninger, molto bella, capelli rossi, occhi dolcissimi. È venuto a
         salutarmi l'acrobata italiano Mazzoni. Poi, all'una, a casa a piedi attraverso Varsavia
         ruinata, bianca di neve, sotto la neve che cadeva lenta e fitta. 4

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    Figura 1. Curzio Malaparte, Agenda manoscritta, 1942

    Riprodotto per gentile concessione della Fondazione Biblioteca di Via Senato

3   «L’atroce immoralità del muro» su cui Malaparte impernia la condanna del
    Generalgoverneur Frank si riduce, nel «giornale segreto» del 1941-1942, a una laconica e
    sbrigativa attestazione fattizia, intercalata fra i «cioccolatini di Madama Frassati» e una
    visita al «all’Adria, Varietà». Colmando un’altra delle omissioni che punteggiano la
    trama del romanzo, dalle note dell’agenda polacca si apprende inoltre che ad
    accompagnare l’autore fu anche un altro giornalista italiano, Alceo Valcini, la cui
    presenza è però integralmente obliterata in Kaputt. Corrispondente da Varsavia per
    conto del Corriere, Valcini avrebbe vissuto da testimone oculare l’invasione tedesca del
    1939, la successiva occupazione della città, la rivolta del ghetto e i preparativi per la
    fallita insurrezione generale della capitale polacca nell’estate del 1944. La stessa visita
    in compagnia di Malaparte venne rievocata a distanza di tempo in un resoconto,
    intitolato Z Malapartem w Warszawskim getcie («Con Malaparte nel ghetto di Varsavia»)
    che lo stesso Valcini pubblicò poco prima della sua scomparsa 5. Il cuore di quanto visto
    in Polonia confluì tuttavia in un volume, Il calvario di Varsavia, 1939-1945, corredato da
    foto scattate dall’autore e pubblicato presso Garzanti nel 1945 6.
4   Nel quadro italiano delle prime rifrazioni letterarie della realtà del genocidio ebraico
    Kaputt e Il calvario di Varsavia accolgono così due rare – se non uniche – narrazioni
    impegnate a riflettere la triste e complessa vicenda dei ghetti dell’Europa
    centrorientale. Sarà infatti solamente nel 1958 che le vicende legate alla costituzione,
    alla vita e alla liquidazione del ghetto varsaviano avrebbero ricevuto in Italia rinnovata
    attenzione con la pubblicazione di un testo, tematicamente e qualitativamente ben
    differente, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek di Alberto Nirenstejn 7. Di quella stessa vicenda
    Malaparte e Valcini propongono tuttavia modelli di raffigurazione antitetici e
    potenzialmente complementari: allo stile prettamente documentario del Calvario,

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    ancorato a quella sobrietà di linguaggio propria delle scritture memorialistiche della
    deportazione, Malaparte contrappone una narrazione volutamente espressionistica,
    non priva di accezioni grottesche e perturbanti. La descrizione della raccolta dei
    cadaveri nel ghetto può così essere raffigurata sulla scorta di lontane reminiscenze
    manzoniane, in passi che sembrano prefigurare temi e situazioni proprie della Pelle:
         Squadre di giovani andavano in giro per le strade a raccogliere i morti, entravano
         negli ànditi, salivano su per le scale, penetravano nelle stanze. Erano giovani
         monatti, in gran parte studenti, i più di Berlino, di Monaco, di Vienna, altri deportati
         dal Belgio, dalla Francia, dall’Olanda, dalla Romania. Molti erano stati, una volta,
         ricchi e felici, avevano abitato in belle case, erano cresciuti tra mobili di lusso, tra
         quadri antichi, fra libri, fra strumenti di musica, fra preziose argenterie e fragili
         porcellane, ed ora si trascinavan faticosamente nella neve, i piedi avvolti in stracci,
         i vestiti a brandelli […] Sollevavano i morti con gentilezza, come se sollevassero una
         statua di legno, li deponevano sui carri trainati da squadre di giovani laceri e
         smunti: sulla neve restavano le impronte dei cadaveri, e quelle macchie giallastre,
         orrende e misteriose, che i morti lasciano in tutto ciò che toccano. 8
5   Accanto a intemperanze stilistiche queste narrazioni del ghetto varsaviano presentano
    tuttavia altre due atipicità salienti. La prima concerne la particolare ottica adottata
    dall’io narrante: se la scrittura della deportazione intende illuminare la realtà del
    genocidio dal «fondo» del Lager, offrendo al lettore una prospettica solidale con la
    condizione desoggettivata dell’internato, Kaputt e Il calvario di Varsavia illuminano
    quella stessa realtà da un’angolatura conoscitiva difforme, coincidente, per Valcini, con
    il punto di vista non meno complesso e problematico del bystander, dell’osservatore
    terzo; nel caso di Malaparte gli eventi della persecuzione vengono invece ritratti da un
    vantage point pericolosamente interno agli ambienti dell’élite nazifascista 9. A questa
    anomalia prospettica se ne aggiunge poi un’altra relativa alle manipolazioni e alle
    amnesie selettive che la scrittura è in grado di produrre nella rielaborazione d’un
    passato potenzialmente spiacevole.
6   Quando infatti Malaparte e Valcini varcarono il confine dell’«atroce immoralità» delle
    mura del ghetto agirono da una posizione culturalmente interna all’universo ideologico
    del fascismo: accanto alla notoria e turbinosa adesione di Malaparte al regime va infatti
    rilevata l’iscrizione «antemarcia», prima quindi del 1922, di Valcini al PNF 10. Le
    corrispondenze giornalistiche che i due scrittori inviano dalla Polonia erano indirizzate
    alla scrivania del direttore del Corriere Aldo Borelli, il quale provvedeva a limarle e se
    necessario correggerle sulla base di indicazioni fornite dallo stesso Mussolini in
    apposite «udienze» convocate in materia di «questioni giornalistiche» 11. Il ruolo di quei
    reportage fu, in altri termini, quello di contribuire a puntellare il «regime della
    menzogna» su cui fascismo e nazionalsocialismo fondarono le basi del proprio consenso
    interno12.
7   Al contrario, nel 1944-1945, la riscrittura in forma letteraria di queste memorie del
    ghetto viene condotta da una prospettiva inderogabilmente post-fascista: dietro le
    «città proibite» sta dunque una memoria proibita rispetto alla quale la letteratura,
    piuttosto che agire come «pompa filtro» tesa a rischiarare una realtà che rifiuta di
    lasciarsi riflette, diviene strumento privilegiato d’affabulazione al servizio d’una
    «memoria di comodo» dai connotati sofisticatamente densi e quindi difficilmente
    decostruibili13. Questa collocazione anomala, non priva di opacità che chiedono di
    essere rischiarate, rende allora esplicita la natura a un tempo problematica ma
    culturalmente significativa di queste narrazioni del ghetto. Esse obbligano il lettore a
    un difficile esercizio di anamnesi, un lavoro di scavo indiziario teso a sceverare il vero,

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    il falso e il finto che inevitabilmente coabitano in quel particolare medium di
    trasmissione dell’esperienza vissuta che è la letteratura.

    Cronache difformi: Valcini giornalista e narratore nella
    Varsavia occupata
8   Una cronistoria delle fasi di costruzione e ridefinizione del racconto di Valcini rivela
    infatti stratigrafie differenziate. Le prime pagine di quello che sarebbe divenuto Il
    calvario di Varsavia (figura 2) vennero redatte tra la fine del 1939 e il gennaio 1940. «Il
    manoscritto», scrive l’autore nella prefazione al libro:
         aveva il titolo provvisorio di «La Vistola in fiamme», giunse a Milano alla fine di
         aprile del 1940, con due mesi di ritardo sulla data stabilita per la consegna. La
         pubblicazione del manoscritto sottoposto alla censura preventiva fu ritenuta
         inopportuna dal ministero degli Esteri e dal ministero della Cultura Popolare.
         L’editore, valendosi del caso di forza maggiore, non diede corso alla pubblicazione. 14

    Figura 2. Alceo Valcini, Il calvario di Varsavia, Milano, Garzanti, 1945

    Riprodotto per gentile concessione dell’editore Garzanti. L’autore è a disposizione degli eredi per
    riconoscere gli eventuali diritti

9   Il testo andò poi irrimediabilmente perduto a seguito dei bombardamenti alleati su
    Milano – sorte analoga ebbe anche la prima redazione de Il Volga nasce in Europa di
    Malaparte, bruciato assieme agli archivi della Bompiani nel 1943. Valcini provvide a
    ricostruire i contenuti del manoscritto in una nuova stesura realizzata alla fine del
    1944, dopo il suo rientro in Italia. In questa fase furono aggiunti nuovi materiali relativi
    «all’ultimo tragico atto di Varsavia» e ampie sequenze narrative specificamente

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     dedicate a ripercorrere le tappe della persecuzione e deportazione degli ebrei del
     ghetto.
10   Il Calvario tuttavia inquadra la dolorosa parabola della persecuzione antiebraica nel più
     ampio scenario dell’occupazione della Polonia.15 Il primo ghetto ad essere menzionato
     da Valcini è così non quello versaviano, ma il Ghetto Litzmannstadt, istituito nel
     Governatorato generale di Polonia già nel dicembre 1939 a Łódź – ridenominata
     Litzmannstadt dalle autorità naziste e dove, scrive l’autore:
          si procedette con rigore e si applicò la legge di Norimberga. Tutti gli Ebrei della
          città, che assommavano a centocinquantamila, furono rinchiusi nel ghetto, un
          quartiere della città isolato e diviso dal resto del mondo da palizzate che
          sorreggevano una fitta rete di filo spinato. Percorsi un’ampia diritta strada che
          attraversava il ghetto di Lodz. Si trattava di una importante strada provinciale che
          portava fuori dalla città e alla quale i tedeschi non avevano potuto rinunciare. Il
          ghetto risultava così tagliato in due parti. Mentre ai margini del marciapiede si
          elevarono dei grossi pali, lasciando sgombra la via al traffico dei veicoli, si costruì
          un ponte di legno che si innalzava inarcandosi da un marciapiede all’altro sopra la
          strada.16
11   Alla descrizione degli spazi della segregazione si accompagna una raffigurazione
     dell’umanità degli internati in cui si compenetrano tipizzazioni radicate
     dell’immaginario collettivo («barbe irsute di vecchi ebrei») e tropi d’un nascente
     immaginario concentrazionario («Le donne… avevano lo sguardo morto»):
          Vidi facce pallide, barbe irsute di vecchi Ebrei con la stella di Sion cucita come una
          maledizione sulla schiena e sul braccio. Le donne, con i fazzoletti annodati sotto il
          mento, avevano lo sguardo morto e guardavano inebetite l’uomo che passava loro
          accanto a mezzo metro di distanza, tra le file dei reticolati, libero di muoversi e di
          andare da una città all’altra. Anche una chiesa cattolica era stata sacrificata e
          compresa nel ghetto di Lodz e sembrava, dall’alto della sua guglia, manifestare un
          segno di solidarietà verso un popolo che soffriva. Ebrei, ricchi e poveri, seguivano la
          stessa sorte.17
12   Diviene a questo punto chiaro, continua Valcini, come il «programma» fondamentale
     perseguito dalla Germania nazista nel «settore nord-orientale europeo» si riassumesse,
     nel «ridurre il popolo polacco a una massa livellata di agricoltori e a fare scomparire da
     quelle regioni la popolazione ebraica»18. Conclusa la digressione preliminare dedicata al
     ghetto di Łódź le pagine successive del Calvario ripercorrono le tappe principali dei
     piani di deportazione, concentrazione e successivo sterminio della popolazione ebraica
     di Varsavia. Anche nella capitale polacca venne varata l’imposizione del bracciale
     «bianco con su trapunta la stella di Sion»19, a cui seguì la diramazione dell’«ordine che
     tutti gli appartenenti alla razza ebraica dovessero traslocare nella parte settentrionale
     della città» accompagnato da una parallela spoliazione di beni e proprietà «già da
     tempo catalogate»20. Contemporaneamente veniva avviata «con voluta lentezza la
     costruzione di muri che bloccavano una via, sbarravano una piazza, chiudevano e
     complicavano la viabilità dei veicoli e dei pedoni». La creazione del ghetto ha così
     inizio:
          Sin dal principio ansiose furono le domande che s’incrociavano per Varsavia, per
          risolvere l’enigma della costruzione di questi muri. Certi parlavano della creazione
          di un vero e proprio ghetto, dove gli Ebrei sarebbero stati condannati a vivere
          rinchiusi, altri sostenevano che le mura avrebbero avuto uno scopo strategico
          militare […]. In verità, nessuno era in grado di sapere con precisione la verità e,
          data la ridda di congetture, l’incrociarsi delle induzioni e l’estrema lentezza con cui
          procedevano le misteriose costruzioni, i timori si diradavano, e con quella filosofia

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          della rassegnazione accettata da tutti, si rimandò lo scioglimento dell’enigma a
          tempo opportuno.21
13   Alla «filosofia della rassegnazione» con cui la popolazione sembra accettare il fluire
     degli eventi si contrappone, al contrario, l’inasprirsi della brutalità degli occupanti, di
     cui divengono emblematiche le continue «retate» – ovvero le azioni di rastrellamento e
     deportazione verso i siti concentrazionari – di cui Valcini propone puntuali
     registrazioni:
          All’indomani, lunedì 12 agosto [1940], veniva fatta a Varsavia una retata che
          superava per energia e proporzioni tutte le precedenti. La zona centrale della città
          veniva circondata. […] Anche la via dove abitavo io, alla Chmielna, una trasversale
          della tumultuosa Nowy Swiat, veniva percorsa dai nazisti. Sei uomini sfuggiti alla
          retata, riparatisi nel portone, erano saliti nella mia abitazione e spiavano dalle
          finestre semichiuse i gendarmi che rincorrevano le vittime nella strada sottostante.
          Un ragazzino, orfano di guerra, che viveva nella nostra casa, raccolto dalla
          compassione della portinaia, era da poco rientrato in casa […]. Fidente dei suoi
          sedici anni, aperse il portone e sporse il capo per vedere quello che stava
          succedendo in strada. Non fece in tempo a tentar la fuga per le scale che un
          gendarme gli aveva messo le mani addosso e lo aveva spinto in fila con le altre
          vittime lungo il muro.22
14   «Dopo qualche mese», avrebbe aggiunto l’autore, il ragazzo «sarebbe morto consunto di
     fame e di freddo nella necropoli di Oswiecim»23. Come larga parte della coeva
     letteratura sulla deportazione, la narrazione del Calvario non ignora l’esistenza d’una
     galassia concentrazionaria che avrebbe rappresentato il terminale ultimo delle pratiche
     di persecuzione. Il nome di Auschwitz era già affiorato in pagine precedenti, relative
     alle ritorsioni perpetrate dai tedeschi nei confronti della resistenza antinazista 24.
     Valcini individua correttamente la funzione assunta dai campi, volta a conseguire
     l’annientamento dei prigionieri attraverso il lavoro e l’inedia («il freddo e la
     denutrizione», aggiunge in un altro passo, «falciavano in quei campi il fiore delle vite
     umane»25) rimanendo tuttavia ignaro di uno degli elementi chiave della struttura
     concentrazionaria, rappresentato dall’uso delle camere a gas.
15   Un ulteriore passo in direzione della «soluzione» della «questione degli Ebrei» sarebbe
     stato tuttavia intrapreso nell’estate del 1942 con l’avvio della Großaktion Warschau. Nel
     corso d’una imponente operazione di rastrellamento condotta nelle giornate comprese
     fra il 23 luglio 1942 – giorno della celebrazione ebraica del Tisha b’Av – e il 21 settembre
     1942 – festività dello Yom Kippur – le autorità naziste trasferirono verso il campo di
     Treblinka almeno duecentocinquantamila internati. Nella cronaca di Valcini la
     Großaktion Warschau segna in tal modo un punto di rottura cruciale. «Alla fine di luglio»,
     scrive l’autore, «venne posto in esecuzione a Varsavia l’ordine concertato tra Adolfo
     Hitler e Heinrich Himmler di sterminare gli ebrei chiusi nella trappola del ghetto»:
          Fu un avvenimento di atrocità tale che non trova riscontro se non nei periodi più
          tetri della storia del nostro continente. Fu un massacro d’inermi, bagno di sangue
          che imbrattò le vie del ghetto. Fu un susseguirsi di notti di San Bartolomeo, attuate
          con sistemi ben più raffinati e modernizzati. Una notte numerose colonne di
          autocarri della Gestapo e di poliziotti lettoni penetrarono nel ghetto e diedero
          l’ordine di evacuare un determinato numero di vie. All’ordine gridato ai quattro
          venti fece seguito una sparatoria contro porte e finestre.26
16   Due sono in modo particolare gli elementi su cui l’autore richiama l’attenzione del
     lettore: da un lato la natura sistematica ed esplicitamente volta allo sterminio della
     persecuzione: il ghetto «doveva essere liquidato, quel settore di Varsavia doveva essere
     ripulito per sempre dalla razza che secondo i Tedeschi era stata la causa di tante

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     sciagure per l’umanità»27. Dall’altro, la descrizione della Grossaktion Warschau intensifica
     quegli elementi di orrore e brutalità suffusi lungo tutta la trama narrativa del Calvario:
          Da un giovane Ebreo, che era riuscito nella notte a scappare assieme alla moglie e a
          rifugiarsi nel quartiere ariano, appresi tutte le mostruosità di questa azione
          tedesca. Mi raccontò che i Tedeschi e soprattutto i Lettoni non avevano più niente
          di umano, si erano trasformati in tante belve. Penetravano nelle abitazioni,
          sparando all’impazzata, sventrando mobili, rovesciando cassetti, cercando oro,
          dollari, pietre preziose. Spingevano a calci le vittime sul pianerottolo – uomini,
          vecchi, donne, bambini – e li facevano scendere a precipizio le scale immerse
          nell’oscurità, sparando loro addosso con la rivoltella. La vita di un Ebreo, in quei
          momenti, era meno preziosa di una sigaretta.28
17   A conclusione dell’operazione, mentre «i morti di quelle notti di tregenda rimanevano
     per alcuni giorni sui marciapiedi delle strade», il capo della Gestapo «poteva telegrafare
     che il ghetto di Varsavia da quattrocentomila abitanti era stati ridotto a meno di
     duecentomila»29. Tutti gli uomini e le donne ancora capaci di lavorare erano stati
     deportati verso «i territori orientali», quanto ai vecchi e ai bambini, aggiunge l’autore,
     «non sarebbe stato difficile farli scomparire, come era stato previsto dal piano nazista»
     30
        .
18   L’ultimo atto di questo calvario nel calvario sarebbe giunto con la rivolta e definitiva
     distruzione del ghetto nella primavera del 1943, di cui Valcini registra le fasi principali:
     le continue e pressanti richieste da parte di Hermann Höfle, collaboratore di Odilo
     Globočnik, relative al trasferimento ogni settimana un «contingente umano» verso i
     luoghi di sterminio; il rifiuto, da parte dell’organizzazione di autogoverno del ghetto e
     il conseguente scoppio dell’insurrezione il 19 aprile 1943, alla vigilia delle celebrazioni
     della Pasqua ebraica31. In quella data, scrive l’autore, «il ghetto chiudeva le porte,
     barricava gli angusti accessi e si chiudeva nella sua fortezza» (figure 3 e 4).

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Le «città proibite» di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazi...   9

     Figure 3 e 4. Insurrezione del ghetto di Varsavia: «L’artiglieria tedesca spara contro gli ingressi del
     quartiere ebraico», «I quartieri attorno al ghetto dove è passata la “punizione” tedesca». Fotografie
     di Alceo Valcini, da Il calvario di Varsavia, p. 81

     Riprodotto per gentile concessione dell’editore Garzanti. L’autore è a disposizione degli eredi per
     riconoscere gli eventuali diritti

          Varsavia, al primo momento non comprese cosa stava succedendo, pensò che si
          trattasse di un nuovo massacro organizzato nel ghetto. Le notizie precise giunsero
          presto. Quelli che abitavano a Zoliborz e che col tram giungevano in città
          costeggiando il ghetto per via Bonifraterska raccontavano che gli Ebrei eranoin
          rivolta e che i Tedeschi contavano già numerosi morti e feriti. Dagli edifici più alti
          del ghetto sventolavano le bandiere polacche, inglesi e sovietiche. 32
19   La rivolta sarebbe proseguita, con scontri sanguinosi, finché «un giorno,
     contemporaneamente in più punti della zona interdetta, si videro improvvisamente
     lunghe colonne di fumo salire vorticosamente nel cielo». L’unico modo per porro fine
     all’insurrezione infatti fu, famigeratamente, quello di bruciare l’intero ghetto:
          Il ghetto era stato divorati dagli incendi. Le case erano state carbonizzate assieme ai
          loro difensori. Nella vasta desolazione dei ruderi, di tanto in tanto, si riaccendeva
          ancora qualche violenta sparatoria che durava pochi minuti. I Tedeschi frugavano
          tra le macerie ancora ardenti, negli angoli riarsi dove resisteva ancora qualche
          Ebreo scappato al forno crematorio […] Così finì la battaglia del ghetto. 33
20   Come è possibile ravvisare da questi prelievi testuali, le pagine del Calvario di Varsavia
     dipanano una cronistoria sostanzialmente accurata dei principali eventi in cui si
     articolò la vicenda del Warschauer Ghetto. Approfondendo tuttavia un’indagine
     diacronica delle diverse fasi scrittorie – narrative e giornalistiche – che Valcini avrebbe
     dedicato al «calvario» di Varsavia dal 1940 al 1945, il rapporto fra il contenuto fattuale
     del Calvario e quello che Benjamin avrebbe chiamato «contenuto di verità» si rivela più
     fluido e complesso.

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Le «città proibite» di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazi...   10

21   Negli stessi anni, infatti, Valcini fu contestualmente autore di regolari corrispondenze
     giornalistiche in cui viene offerta una rappresentazione della realtà profondamente
     diversa, funzionale in tal caso alle esigenze propagandistiche di (dis)informazione del
     regime fascista. Le due testualizzazioni – quella proposta sulle colonne del Corriere della
     Sera nel 1940-1943 e quella riprodotta in volume del 1945 – presentano in altri termini
     connotazioni divergenti. L’assenza negli articoli pubblicati da Valcini di qualsiasi
     riferimento agli eventi che invece costituiscono il corpo narrativo principale del
     Calvario – la segregazione razziale, le «retate» e i rastrellamenti verso i siti
     concentrazionari, il clima di terrore instaurato dalle autorità tedesche, la rivolta
     conclusiva della comunità ebraica – delineano in sé emblematiche omissioni. Alcuni
     confronti mirati permettono tuttavia di apprezzare in pieno il diasistema di queste
     rinegoziazioni memoriali. Ad apertura del primo degli articoli inviati da Varsavia
     occupata alla redazione del Corriere nel marzo 1940 Valcini poteva infatti così scrivere:
          Si rimarginano le ferite, si ripuliscono le strade, si tira giù la parete superstite di
          una casa che è rimasta su un piedestallo di rovine [...] A quest’opera vengono
          impiegati gli ebrei, che hanno finito di trafficare, e devono provare personalmente
          la scomodità del lavoro manuale. Girano gli ebrei per le strade con il bracciale
          bianco sormontato dalla stella azzurra di Sion. Anche le donne della ricca borghesia
          ebraica lo portano infilato al braccio, un po' vergognose, cercando che sia poco
          visibile.34
22   A differenza del Valcini narratore, il Valcini giornalista non si rivela dunque immune
     quell’antisemitismo diffuso che irrorò in maniera capillare l’humus culturale dell’Italia
     fascista precedendo, preparando e poi consolidando la svolta della campagna razziale 35.
     Le tracce di questo pregiudizio pulviscolare appaiono disseminate attraverso tutto il
     corpus degli articoli pubblicati sul Corriere. In un reportage realizzato in Galizia e a Lvov
     nei mesi che seguirono l’avvio dell’invasione dell’Unione Sovietica nel 1941 si legge:
          Gli ebrei galiziani, seppure ripuliti dalla barba rituale e dall'untuoso caftano, si
          fanno vedere il meno possibile e si rintanano nelle viuzze del ghetto. Essi hanno un
          grosso conto da pagare agli ucraini per l’assassinio computo a Parigi da parte di un
          loro correligionario, di Petlura, che fu capo del primo Governo Ucraino sul finire
          della guerra europea e poi rifugiò a Parigi, dove fu raggiunto dall'odio settario di un
          giudeo. Oggi essi tremano per la paura che gli ucraini si ricordino di questo loro
          grave misfatto.36
23   Simili visioni, impregnate della retorica razziale propria dall’antisemitismo di regime,
     si protrarranno sino alla vigilia del collasso del regime: ancora nel novembre 1942,
     quando la macchina di annientamento del ghetto era pienamente entrata in funzione,
     Valcini firmò di proprio pugno un articolo dedicato alla celebrazione del governatorato
     di Frank – lo stesso Hans Frank responsabile delle deportazioni verso il campo di
     Treblinka – con la seguente affermazione: «in questi giorni il Governatorato generale
     ha compiuto tre anni e inizia sotto i buoni auspici il suo quarto anno di vita»
     (figura 5)37. Alle due stratigrafie testuali corrispondono, non senza disarmonie palesi,
     differenti stratigrafie della memoria. Simili raffronti diacronici permettono così di
     porre in evidenza il significato implicito sotteso alla riscrittura operata da Valcini nel
     Calvario di Varsavia, le cui pagine non costituiscono solo una cronaca documentaria del
     «calvario» del ghetto, ma la rinegoziazione d’una memoria «proibita» attuata entro lo
     schermo d’una scrittura impegnata a mimare un effet de réel: ovvero una finzione di
     realtà verosimile sul piano estetico, ma soprattutto accettabile su quello etico.

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     Figura 5. Alceo Valcini, «Nelle terre del Nebenland», Corriere della Sera, Archivio Storico,
     19-20 novembre 1942

     Riprodotto per gentile concessione della Fondazione Corriere della Sera

     Malaparte, il ghetto e la «crudeltà della paura»
24   La scrittura malapartiana non si sarebbe rivelata immune da simili riorientamenti
     prospettici, evidenziando tuttavia un rapporto con il tema della persecuzione
     antisemita che appare ancora più complesso, problematico e tutt’altro che superficiale.
     La figura dell’ebreo quale vittima par excellence nel paesaggio narrativo di Kaputt viene
     evocata sin dalla provocatoria epigrafe d’apertura dell’opera, dove una citazione
     desunta da un dizionario enciclopedico tedesco, il Meyers Conversation-Lexicon, viene
     piegata a sugellare una inquietante congettura (para)etimologica: « KAPUTT (von
     hebräischen Kopparoth, Opfer, oder französisch, Capot), matsch, zugrunde gerichtet, entzwei»
     (Kaputt, dall’ebraico Kapparoth, vittima, o dal francese capot, marcio, completamente
     distrutto, a pezzi)38.
25   Se l’etimo della parola kaputt deriva infatti dall’espressione francese faire capot,
     equivalente all’italiano colloquiale «fare cappotto» e il cui significato originario è
     quello di sconfiggere l’avversario in un «match» nel gioco del piquet, il Conversation-
     Lexicon citato da Malaparte suggerisce un un’altra possibile derivazione (priva tuttavia
     di riscontri effettivi). In questo secondo etimo kaputt rivelerebbe una radice associata
     allo yiddish kapores , termine a sua volta estrapolato dal sintagma ‫פרות‬        ּ ּ ‫ כ‬/ kapores
     shlognAlla base queste .(«letteralmente «colpire il kapores) ‫אגן‬             ָ ‫פרות של‬     ּ ּ ‫כ‬/
     stratificazioni semantiche si cela tuttavia un nucleo religioso, perché il kapores della
     lingua yiddish è calco della parola ebraica kapparot, il cui significato è «espiazione» e il

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     cui radicale kâphar/‫ כ ָ ּפ ַר‬è lo stesso individuabile nella denominazione dello Yom
     Kippur, il giorno dell’espiazione39.
26   A differenza del realismo cronachistico che pervade Il calvario di Varsavia, lo schermo
     dell’autofinzione malapartiana rilegge spazi e ambientazioni del ghetto attraverso una
     scrittura deformata in senso espressionista o, più propriamente, surrealista. Esemplare
     in tal senso è una descrizione nella quale i cadaveri degli internati suscitano
     impensabili parallelismi con i «morti ebrei di Chagall» 40:
          Ogni tanto mi toccava scavalcare un morto: camminavo in mezzo alla folla senza
          vedere dove mettevo i piedi, e ogni tanto inciampavo in un cadavere disteso tra i
          rituali candelabri ebraici. I morti giacevano abbandonati sulla neve, in attesa che il
          carro dei monatti passasse a portarli via: ma la moria era grande, i carri erano scarsi,
          non si faceva in tempo a portarli via tutti, e i cadaveri restavano lì giorni e giorni,
          distesi nella neve tra i candelabri spenti […]. Avevano la barca sporca di nevischio e
          di fango. Alcuni avevano gli occhi spalancati, ci seguivano a lungo con lo sguardo
          bianco, guardavan la folla passare. Erano rigidi e duri, parevano statue di legno.
          Simili ai morti ebrei di Chagall. Le barbe sembravano azzurre negli scarni visi
          illividiti dal gelo e dalla morte. Di un azzurro così misterioso, che ricordava il mare,
          quell’azzurro misterioso del mare in certe ore misteriose del giorno. 41
27   È da un’estetica della «crudeltà», avrebbe annotato Malaparte su Prospettive, la rivista
     fondata e codiretta con la collaborazione di Alberto Moravia, che la qualità «morale»
     della propria scrittura trae la sua radice primaria42. Il tema della crudeltà costituisce in
     parallelo una delle chiavi portanti dell’intera orchestrazione tematica di Kaputt,
     elemento rispetto al quale la violenza della guerra «conta dunque come una fatalità»
     accessoria43. Per questa via la visione malapartiana del ghetto si rivela innervata da una
     orrorificazione del reale e parallela estetizzazione dell’orrore dai risultati spesso
     perturbanti. «Avevo tentato di recarmi nel ghetto da solo», scrive l’autore
     rimanipolando i contenuti della propria esperienza biografica, «senza la scorta
     dell’agente della Gestapo, che mi seguiva dappertutto come un’ombra nera, ma gli
     ordini del Governatore Fischer erano severi, e anche quella volta m’era toccato
     rassegnarmi alla compagnia della Guardia Nera»:
          Un giovane alto, biondo, dal viso scarno, dallo sguardo chiaro e freddo. Aveva un
          viso bellissimo, una fronte alta e pura, che il casco di acciaio oscurava di un’ombra
          segreta. Camminava tra gli ebrei come un Angelo del dio d’Israele. 44
28   L’equiparazione metaforica fra un agente della Gestapo e l’immagine dell’«angelo del
     dio d’Israele» codifica una volontaria quanto preoccupante sublimazione d’una realtà
     altrimenti irredimibile: perché il volto dell’«Angelo delle Scritture annunziatore di
     morte» se rivela essere, a un tempo, «crudele e bellissimo» 45. Sulla scorta di questa
     estetizzazione della crudeltà la posizione anti-canonica assunta dalla scrittura di
     Malaparte nel campo delle rifrazioni letterarie della Shoah in Italia pone allora
     interrogativi spinosi. L’anomalia della scrittura malapartiana appare leggibile non solo
     nei termini d’una effrazione volta a spingere all’estremo i «limiti rappresentativi» – per
     rievocare una nota formula coniata da Saul Friedlander – sottesi a ogni tentativo di
     rappresentazione estetica della violenza del genocidio46, quanto di consapevole
     deviazione da un canone di raffigurazione ispirato ad un saldo realismo documentario.
     Il frutto di questa trasgressione appare così essere, riformulando una nozione elaborata
     da Michael Rothberg, un traumatic antirealism mobilitato a veicolare eventi «a tal punto
     inimmaginabil[i]» da rivelarsi «irriducibil[i] agli elementi reali che li costituiscono» 47.
29   All’anomalia estetica della prosa malapartiana corrisponde, tuttavia, una riflessione
     che dal piano rappresentativo si estende ad alcuni dei nodi più scabrosi della realtà che

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     Kaputt si impegna a simbolizzare. Con uno rioerientamento decisivo il fulcro della
     narrazione non coincide infatti con l’ottica dei deportati, ma con quella ben più
     disturbante ed eticamente problematica dei perpetratori. Kaputt sottopone così il
     lettore a un esperimento prospettico tanto spiacevole quanto concettualmente e
     letterariamente arduo, di cui il passaggio conclusivo della lunga sequenza che il libro
     dedica al ghetto varsaviano costituisce un esempio emblematico. La scena ha luogo
     dinanzi all’ingresso della «città proibita» ed ha per protagonista lo stesso
     Generalgouverneur Frank:
          Frank si avvicinò ai due soldati, e domandò a che sparassero.
          «A un topo» risposero, ridendo rumorosamente.
          «A un topo? ach so!» disse Frank, inginocchiandosi per guardare al di sopra della
          spalla del soldato.
          Anche noi ci eravamo avvicinati, e le signore ridevano e squittivano alzandosi le
          sottane fino a mezza gamba, come fan di solito le donne quando odono parlar di
          topi.
          «Dov’è il topo?» domandò Frau Brigitte Frank.
          «Achtung!» disse il soldato prendendo la mira. Dalla buca scavata ai piedi del muro
          fece capolino un nero ciuffo di capelli arruffati, poi due mani emersero dalla buca,
          si posarono sulla neve. Era un bambino.48
30   La struttura di questa breve sequenza espone in maniera volutamente icastica una
     dialettica fra soggetto e oggetto dello sguardo narrativo, fra vittime e carnefici, che
     permea l’intera tessitura del récit malapartiano. È solo tuttavia attraverso questa feroce
     e sgradevole ricategorizzazione, obbligando il lettore ad entrare in «quelle tenebre» da
     cui è avvolta la psicologia dei perpetratori, che diviene possibile illuminare il nucleo
     più intimo d’una «crudeltà della paura» assurta a elemento centrale dell’affresco
     allucinatorio proposto da Kaputt:
          In nessuna parte d’Europa – scrive Malaparte – il tedesco m’era mai apparso così
          nudo, così scoperto, come in Polonia. Nel corso della mia lunga esperienza di
          guerra, m’ero venuto persuadendo che il tedesco non ha alcuna paura dell’uomo
          forte, dell’uomo armato che lo affronta con coraggio, e gli tien testa. Il tedesco ha
          paura degli inermi, dei deboli, dei malati. Il tema della «paura», della crudeltà
          tedesca come effetto della paura, era diventato il tema fondamentale di tutta la mia
          esperienza. A chi guardi bene, con intelligenza moderna e cristiana, questa «paura»
          muove a pietà e orrore […] Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più
          freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura
          degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne,
          dei bambini, la paura degli ebrei.49
31   Con questa inedita focalizzazione tematica la scrittura malapartiana lambisce una
     questione rivelatasi cruciale nella successiva riflessione sulla natura della violenza
     genocidaria della Germania e dell’Italia nazifasciste. A differenza di altre importanti
     narrazioni della Shoah proposte nell’immediato dopoguerra, generalmente tese a
     suggerire una «resistenzializzazione» degli eventi associati alla persecuzione e allo
     sterminio ebraico50, Malaparte sottolinea per converso un’alterità concettuale che
     separa la violenza bellica del conflitto da una «crudeltà», invece, assolutamente inutile
     e superflua: un «furore di abiezione» privo di finalità politiche apparenti e la cui
     manifestazione precipua assume al contrario i tratti di quella che Adriana Cavarero ha
     opportunamente definito «violenza sugli inermi»51. Sara tuttavia proprio questa inedita
     forma di inspiegabile e inutile «crudeltà della paura», di cui Primo Levi, Adriana
     Cavarero e Julia Kristeva avrebbero offerto analisi particolarmente cogenti, a costituire

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la traccia più intima e controversa dell’«atroce immoralità» messa a nudo dalla visione
malapartiana del ghetto di Varsavia52.

NOTE
1. Il brano è tratto da Kaputt, in C. Malaparte, Opere scelte, a cura di L. Martellini, Milano,
Mondadori, 2016, p. 647-648. La prima edizione del testo venne stampata a Napoli nel
1944: Id., Kaputt, Napoli, Casella Editore, 1944. Per una prima ricognizione critica
sull’opera è possibile rinviare a R. Walker, Malaparte and literary strangeness: a critical
preface to Kaputt, «Sewanee Review», vol. CXVIII, n. 2, 2010, p. 270-285 e, con uno
sguardo più generale sul senso del tragico in Malaparte, F. Baldasso, Curzio Malaparte
and the tragic understanding of modern history, «Annali d’Italianistica», vol. XXXV, 2017,
p. 279-303.
2. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 540-541.
3. Sull’attività giornalistica di Malaparte corrispondente di guerra è disponibile
un’esauriente monografia a cura di Enzo Laforgia, Malaparte scrittore di guerra, Firenze,
Vallecchi, 2011. Per una ricostruzione degli spostamenti e dell’attività dell’autore si
rinvia alla biografia curata da Maurizio Serra, Malaparte : vies et légendes, Parigi, Grasset,
2011 (trad. italiana Malaparte: vite e leggende, Venezia, Marsilio, 2012).
4. Edda Ronchi Suckert, prima curatrice dell’archivio dello scrittore, ha edito una
selezione dell’ampio corpus documentario dell’archivio di Malaparte, raccolta in dodici
volumi. Cfr. Malaparte, vol. VI: 1942-1945, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, p. 252.
L’agenda è conservata presso il Fondo Malaparte della Fondazione Biblioteca di Via
Senato, faldone 205, fascicolo 1035.
5. A. Valcini, Z Malapartem w Warszawskim getcie, Varsavia, Państwowy Instytut
Wydawniczy, 1990. Il testo è stato recentemente tradotto in italiano da Agata Pryciak in
un contributo di Raoul Bruni, Malaparte, «Kaputt» e l’ombra dell’Olocausto (con una
testimonianza inedita di Alceo Valcini su Malaparte nel ghetto di Varsavia), «La Rassegna della
letteratura italiana», vol. CXXII, n. 2, 2018, p. 315-330.
6. Id., Il calvario di Varsavia, 1939-1945, Milano, Garzanti, 1945.
7. A. Nirenstejn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958. Nirenstejn, di
origini polacche – nacque a Baranów da una famiglia ebraica – emigrò in Palestina negli
anni Trenta partecipando poi alla liberazione di Firenze al servizio della Brigata
Ebraica. Stabilitosi in Italia, nel 1950 intraprese una serie di ricerche presso l’Istituto di
Storia di Varsavia i cui materiali costituirono il nucleo del volume pubblicato nel 1958
sul quale, in mancanza di ulteriori studi critici, è possibile consultare la recensione
curatane nel 1959 da Giorgio Romano per La Rassegna Mensile di Israel, vol. XXIV,
nn. 11-12, 1958, pp. 472-474.
8. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 542.

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9. Come sottolineato da Robert Gordon, La Shoah nella letteratura italiana, in Storia della
Shoah in Italia: vicende, memorie, rappresentazioni, vol. II: Memorie, vicende, eredità, a cura di
M. Flores et al., Torino, UTET, 2010, p. 364.
10. L’informazione è ricavabile dall’articolo commemorativo apparso sul Corriere della
Sera all’indomani della scomparsa del giornalista, «Morto Valcini, l’inviato che non
volle tacere» (7 maggio 1991). Come si avrà modo di mostrare il titolo dell’articolo
riflette tuttavia una visione sottilmente autoassolutoria del lavoro svolto da Valcini in
Polonia che merita d’essere criticamente riconsiderata.
11. Traccia documentaria di questi incontri fra Borelli – che fu inoltre legato da
profonda amicizia a Malaparte – e Mussolini emergono dai fondi conservati presso
l’Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Personale del Duce, Corrispondenza
Ordinaria, Fascicolo Aldo Borelli, n. 209340.
12. La nozione proviene dal celebre saggio di Piero Calamandrei, Il fascismo come regime
della menzogna, Roma, Laterza, 2014.
13. La metafora della pompa-filtro è naturalmente leviana, cfr. P. Levi, Tradurre Kafka,
in Id., Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, vol. II, p. 939. Allo stesso modo
la nozione di «memoria di comodo» fa la sua apparizione nel primo capitolo de I
sommersi e i salvati, «La memoria dell’offesa».
14. A. Valcini, Il calvario di Varsavia, op. cit., p. vii.
15. La prima sezione del libro di Valcini, dal titolo «Come incominciò», è intesa a
fornire tanto una ricostruzione contestuale degli eventi diplomatici che portarono allo
scoppio della guerra nel settembre 1939, quanto una cronaca dettagliata delle prime
settimane dell’invasione della Polonia. La seconda sezione del testo, «Il Calvario»,
ripercorre invece gli eventi dell’occupazione tedesca di Varsavia dal gennaio 1940 al
1944. È in questa sezione che vengono condensati i riferimenti e le pagine
specificatamente dedicate alla costruzione del ghetto.
16. Ibid., p. 145.
17. Ibid., p. 143.
18. Ibid., p. 141.
19. Ibid., p. 143.
20. Ibid., p. 144.
21. Loc. cit.
22. Ibid., p. 147.
23. Loc. cit.
24. Ibid., p. 130, dove l’autore annota: «Le vittime [delle azioni di polizia della Gestapo]
furono inviate a popolare il campo di concentramento di Oswiecim (Auschwitz), nelle
vicinanze di Cracovia. In questa località, che rimarrà tristemente famosa nella storia
della Polonia, venivano segregati e condannati a lenta morte d’inedia i migliori patrioti
polacchi».
25. Ibid., p. 155.
26. Ibid., p. 186.
27. Loc. cit.
28. Ibid., p. 187.
29. Loc. cit.

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30. Loc. cit.
31. Manca invece un riferimento alla prima insurrezione armata scoppiata nel gennaio
1945 e che porto a un prima, temporanea e limitata, riduzione delle deportazioni verso
Treblinka, cfr. G. S. Paulsson, Secret City: The Hidden Jews of Warsaw, 1940-1945, New
Haven, Yale University Press, 2002.
32. Ibid., p. 202. Le bandiere effettivamente issate da parte degli insorti in uno degli
edifici di piazza Muranowski furono in realtà quella polacca e quella della Żydowski
Związek Walki, l’Unione Ebraica Combattente.
33. Ibid., p. 209.
34. A. Valcini, Varsavia via col vento, «Il Corriere della Sera», 12 marzo 1940.
35. Il problema della diffusione capillare di ideologie e stereotipi antisemiti nella
cultura italiana degli anni Trenta, che Renzo De Felice volle deliberatamente lasciare
«in sospeso» nella sua analisi della Storia degli ebrei sotto il fascismo, costituisce un tema
di riflessione complesso. Alcuni primi tentativi di indagine in questa direzione sono
stati promossi da G. Rigano, Note sull’antisemitismo in Italia prima del 1938, «Storiografia»,
n. 12, 2008, p. 215-267 e, con riferimento alla cultura letteraria italiana, B. Pischedda,
L’idioma molesto: Emilio Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale, Torino, Nino
Aragno, 2015.
36. Cfr. A. Valcini, Un giro in Galizia, «Corriere della Sera», 4-5 ottobre 1941.
37. Id., Nelle terre del Nebenland: tre anni di Governatorato generale, «Corriere della Sera»,
19-20 novembre 1942.
38. Cfr. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 429.
39. Il kapparot è per la precisione un rituale di espiazione talvolta praticato alla vigilia
dello Yom Kippur: un gallo viene fatto roteare attorno alla testa di una persona, per
essere poi ucciso in veste di capro espiatorio. I riferimenti etimologici sono tratti da
W. Genesius, Hebrew and Chaldee’ Lexicon to the Old Testament Scriptures, trad. di
S. P. Tregelles, New York, Wiley, 1879.
40. Per una analisi mirata delle numerose allusioni che la trama stilistica di Kaputt
riserva alle arti pittoriche è possibile rinviare allo studio di F. Longo, Componenti visive e
arti figurative in Kaputt fra non fiction e fiction , «Critica letteraria», n. 179, 2018,
p. 305-322.
41. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 540. Corsivi nell’originale.
42. Una discussione più circostanziata di questa estetica della crudeltà è stata offerta da
Franco Baldasso, Malaparte and the tragic understanding of modern history, art. cit., e più
recentemente in Id., Curzio Malaparte, la letteratura crudele, Roma, Carocci, 2019.
43. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 430.
44. Ibid., p. 539.
45. Ibid., pp. 542-543.
46. Il riferimento è a Probing the Limits of Representation: Nazism and the “Final Solution”, a
cura di S. Friedlander, Cambridge, Harvard University Press, 1992, p. 2, dove l’autore
osservava: «new narratives about Nazism came to the fore», new forms of representation
appeared. In many cases they seemed to test implicit boundaries and to raise not only aesthetic
and intellectual problems, but moral issues too».

Laboratoire italien, 24 | 2020
Le «città proibite» di Curzio Malaparte e Alceo Valcini: narrazioni, diffrazi...   17

47. Le parole sono quelle con cui Giorgio Agamben descrive l’aporia «d’una realtà che
eccede i suoi componenti fattuali»: vera, ma al contempo inimmaginabile (G. Agamben,
Quel che resta di Auschwitz: l’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 4).
Cfr. inoltre M. Rothberg, Traumatic Realism: The Demands of Holocaust Representation,
Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000, p. 3.
48. C. Malaparte, Kaputt, op. cit., p. 649.
49. Ibid., p. 537.
50. Si confronti in proposito l’attenta analisi del tema proposta da Manuela Consonni in
L’eclisse dell’antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al
1989, Roma, Laterza, 2015.
51. Cfr. A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007.
52. Oltre alla nota categoria leviana di «violenza inutile», uno dei caposaldi
argomentativi de I sommersi e i salvati, il rimando va in modo particolare a legame fra
abiezione, desoggettivazione e deumanizzazione esplorato da Julia Kristeva in Pouvoirs
de l’horreur : essai sur l’abjection, Parigi, Seuil, 1980.

RIASSUNTI
La mattina del 25 gennaio 1942 Curzio Malaparte, impegnato per Il Corriere della Sera in un lungo
reportage giornalistico sul fronte orientale, varca la soglia della «città proibita» di Varsavia.
Malaparte fu il primo scrittore italiano a compiere una ricognizione personale del più grande dei
ghetti ebraici istituiti in Europa orientale: il resoconto letterario di quella esperienza verrà
raccolto in una lunga sequenza narrativa di Kaputt, libro pubblicato nel 1944. Malaparte, tuttavia,
non fu solo nella sua visita: infatti ad accompagnarlo fu anche un altro giornalista italiano, Alceo
Valcini, la cui figura è integralmente rimossa dal racconto di Kaputt. Corrispondente da Varsavia
per conto del Corriere, Valcini avrebbe assistito da testimone oculare all’invasione tedesca del
1939, alla successiva occupazione della città e alla rivolta del ghetto ebraico nella primavera del
1943. Le memorie di quegli eventi confluirono in un volume, Il calvario di Varsavia, edito da
Garzanti nel 1945 e mai più ristampato in seguito. Il presente contributo intende proporre una
lettura selettiva di queste due atipiche narrazioni del ghetto varsaviano, elaborate da autori la
cui parabola intellettuale si rivelò oltretutto profondamente compromessa con l’universo
ideologico del fascismo.

Le matin du 25 janvier 1942, Curzio Malaparte, engagé dans un long reportage journalistique sur
le front oriental pour le Corriere della Sera, franchit le seuil de la « ville interdite » de Varsovie.
Malaparte fut le premier écrivain italien à se livrer à une reconnaissance personnelle du plus
grand ghetto juif établi en Europe orientale : le compte rendu littéraire de cette expérience sera
recueilli dans une longue séquence narrative de Kaputt, livre publié en 1944. Toutefois, Malaparte
n’était pas seul lors de sa visite : il était en fait accompagné par un autre journaliste italien, Alceo
Valcini, dont la figure est intégralement supprimée dans le récit de Kaputt. Correspondant de
Varsovie pour le Corriere, Valcini aurait assisté en tant que témoin oculaire à l’invasion allemande
de 1939, à l’occupation de la ville et à la révolte du ghetto juif au printemps 1943. Les souvenirs
de ces événements ont été rassemblés dans un volume, Il calvario di Varsavia (« Le calvaire de

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