CIRPET Centro di Ricerca sui Paesi Emergenti e in Transizione

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Università degli Studi di Torino                                              www.cirpet.unito.it

                                           Rebus Kosovo
                                          Stefano Amoroso
                                           15 Luglio 2008

        A circa cinque mesi dalla dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (non riconosciuta da
Belgrado), il futuro del Kosovo continua ad essere incerto e a tenere impegnate le cancellerie di
mezza Europa, nonché di Mosca e Washington.
        Il motivo principale per cui lo status del Kosovo resta indefinito è che quasi nessuno, in
Serbia, sembra disposto ad accettare la sua indipendenza, né in linea di principio né come situazione
di fatto. Anche le scorse elezioni di maggio, che hanno rovesciato la precedente maggioranza di
governo, hanno confermato questo orientamento generale.
        I leader della nuova maggioranza a Belgrado, vale a dire Boris Tadic per il partito
democratico ed Iviça Dacic per i socialisti, sono impegnati in serrate trattative per la formazione del
nuovo esecutivo, ed hanno confermato la comune aspirazione alla pronta adesione della Serbia
all’Unione Europea, già espressa chiaramente in campagna elettorale. In questo si sono
notevolmente differenziati dai nazionalisti, alcuni dei quali sono decisamente anti-europei e
vagheggiano di riunificazioni ed alleanze sotto la guida russa, in nome dell’antica corrente del
“panslavismo”.
        Tuttavia, per quanto riguarda il Kosovo nessuno, tranne una parte del piccolo partito liberal-
democratico, è disposto a riconoscerne l’indipendenza. Questo è un tratto comune tra i vincitori
delle elezioni ed i precedenti governanti, soprattutto il Primo Ministro uscente, il nazionalista
moderato Kostunica. Tanto è vero che anche il nuovo governo ha confermato che ci sarà un
dicastero dedicato alla regione, il Ministero per il Kosovo, che quasi certamente verrà affidato ad un
esponente della minoranza serba della regione.
        Se, dunque, da Belgrado non ci sono sostanziali novità per quello che riguarda il Kosovo, le
principali novità vengono proprio da questa ex regione serba, dichiaratasi indipendente. Restando
nel campo serbo, è di pochi giorni fa la notizia dell’insediamento del cosiddetto Parlamento dei
Serbi del Kosovo a Kosovska Mitrovica (solo Mitrovica per gli albanesi), ovviamente nella parte
serba della città.
        Come si ricorderà, si tratta di una delle principali città della Regione–Stato, che ha la
caratteristica di essere abitata in maggioranza da serbi, a differenza degli altri centri urbani. A
Mitrovica la divisione tra albanesi e serbi è innanzitutto fisica, con i primi che abitano a sud del

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fiume che taglia in due la città, ed i secondi a nord. In mezzo, schierati ad impedire pericolosi
“contatti ravvicinati”, ci sono le forze della missione di pace guidata dall’Unione Europea.
        Dunque in questo piccolo centro montano, una delle ultime città divise d’Europa, si è
insediato il nuovo Parlamento dei serbi–kosovari, ovviamente non riconosciuto dalle autorità
albanesi di Pristina e ritenuto solo simbolico dal nuovo capo della missione internazionale delle
Nazioni Unite nella Regione (UNMIK), l’italiano Lamberto Zanier.
        Purtroppo affermare una cosa del genere significa non riconoscere la grande importanza dei
simboli nella storia dei Balcani. Anche la data scelta per l’insediamento della rappresentanza della
minoranza serba in Kosovo (28 giugno, giorno di S. Vito) è fortemente simbolica. Infatti, secondo il
calendario cristiano-ortodosso, è proprio il giorno nel quale cade l’anniversario della famosa
battaglia di Kosovo-Polije, che si svolse il 28 giugno del 1389, tra una coalizione cristiana a guida
serba, da un lato, ed i turchi ottomani ed i loro alleati, dall’altro.
        Come gli appassionati di storia sanno, si tratta di una versione serba della ben più famosa
battaglia delle Termopili. Anche in Kosovo, infatti, il ben più piccolo esercito cristiano riuscì a
sconfiggere e fermare (ma solo per qualche tempo) le temibili armate ottomane. Si trattò, tuttavia, di
una vittoria pressoché inutile perché, rimasta quasi priva di un esercito, pochi anni dopo la Serbia si
dovette sottomettere all’Impero Ottomano.
        Ciò nonostante, a più di sei secoli di distanza dalla battaglia, il neo–presidente del
Parlamento di Mitrovica, l’ultra-nazionalista Radovan Micic, ha ricordato, commosso, il principe
Lazar, condottiero serbo, ed il significato di quella terribile giornata di guerra di tanti secoli fa. Il
parallelo che si vuole stabilire con la situazione odierna, neanche troppo nascosto, è evidente: oggi
come allora, sostengono gli esponenti dei serbi in Kosovo, sono in minoranza di fronte alle
preponderanti forze mussulmane ed anti-europee (questa volta albanesi e non turchi, ma la retorica
in questi casi non va troppo per il sottile) e per questo bisogna unire le forze e resistere,
preparandosi al peggio. Confidando nell’aiuto di Dio. Non è un caso, infatti, che la Chiesa greco-
ortodossa, a Belgrado come a Mitrovica, sia apertamente schierata a fianco di coloro che rifiutano
più ostinatamente il dialogo con gli albanesi e le altre minoranze.
        Il fatto che storicamente gli albanesi fossero schierati in gran parte al fianco dei serbi e che
la resistenza albanese (e cristiana) agli ottomani sia stata non meno forte di quella serba (basti
pensare all’epopea di Giovanni “Castriota” Skanderbeg) non sembra importare un granché. In
Kosovo la religione musulmana è oggi numericamente forte, anche se non in maggioranza assoluta,
e gli albanesi hanno “usurpato” la regione alla Serbia. Questo è tutto ciò che interessa ai nazionalisti
serbi e tanto basta a dare alla loro lotta quasi il significato di una moderna crociata anti-islamica nel
cuore d’Europa.
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       A Belgrado, però, non tutti guardano di buon occhio il nuovo Parlamento auto-proclamato di
Mitrovica. Nel partito di maggioranza relativa, il Partito Democratico, ci sono posizioni abbastanza
scettiche sulla reale utilità di questo nuovo Parlamento, anche se probabilmente la maggioranza del
partito è pronto a sostenerlo. I socialisti tornano al potere per la prima volta dopo la caduta del
regime di Milosevic e, dopo una fase di crisi di guida e di contenuti, si affidano ad un dinamico
quarantenne, Dacic, che ha profondamente rinnovato nei programmi e nel modo di fare politica
l’erede diretto del Partito Comunista di Tito, diventato Partito Socialista dopo il crollo del Muro di
Berlino. Sempre nel segno del pragmatismo e dell’europeismo (moderato), è probabile che Dacic ed
i suoi non si esprimano subito ed in maniera netta sulle ultime vicende in Kosovo, aspettando
l’evolversi degli eventi e, soprattutto, di consolidare il potere interno.
       Una voce dissonante dal coro della politica serba sul Kosovo è sicuramente, in questo
momento, quella di Goran Bogdanovic e del suo Partito Liberal-democratico. Egli fu il primo
avversario riconosciuto ed ufficiale del regime di Milosevic e che per questo è stato inquisito,
minacciato ed incarcerato per qualche tempo. Il Partito Liberal-democratico è oggi un piccolo
partito votato soprattutto dalle elites urbane, che sembra sul punto di superare anche la storica
avversione ai socialisti dell’odiato Milosevic. Infatti, proprio pochi giorni fa, è stata annunciata la
crisi della maggioranza al Consiglio Comunale della capitale, Belgrado. Ciò dovrebbe portare ad
un’inedita alleanza tra Liberali, Socialisti e Democratici per mandare i Nazionalisti all’opposizione.
       Questo potrebbe essere il preludio all’ingresso futuro di Bogdanovic e dei suoi nell’orbita di
governo. Ciò avrebbe una scarsa utilità sul piano dei voti (la maggioranza tra Democratici e
Socialisti in Parlamento è ampia e solida, ed i Liberali sono davvero pochi) ma sarebbe importante
sul piano simbolico in politica estera, perché i Liberali sono gemellati con diversi partiti occidentali
e rappresentano da sempre una forza chiaramente filo-occidentale e pro-Europa in un paese dove
tutto questo non è affatto scontato. Naturalmente c’è da chiedersi se i Liberali potranno continuare,
nel nuovo contesto di alleanze che li vede protagonisti, ad essere favorevoli all’indipendenza del
Kosovo, unico partito serbo ad avere questa posizione ufficiale. Probabilmente invece dovranno
cambiare visione se vorranno governare con i Democratici ed i Socialisti.
       Intanto il governo nazionalista prepara la sua uscita di scena, dopo la brutta sconfitta subita a
maggio. Il Primo Ministro Kostunica recentemente è stato ospite della Conferenza
dell’Organizzazione degli Stati Africani (OUA), occasione nella quale ha ringraziato i paesi del
continente nero per non aver riconosciuto (tranne 3 paesi) l’indipendenza del Kosovo. Kostunica ha
affermato che l’indipendenza auto–proclamata di una regione può costituire un precedente grave,
soprattutto per un continente, come quello africano, da sempre martoriato da guerre e guerriglie
indipendentiste di ogni genere, che spesso coprono interessi economici enormi sulle ricchezze del
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sottosuolo africano. Si tratta, come si sa, di una vecchia tesi del marxismo terzo-mondista, unita alla
tesi dell’influenza decisiva delle grandi multinazionali occidentali (e soprattutto nordamericane)
sulla determinazione del futuro dei paesi e dei popoli del cosiddetto “Terzo Mondo”. Una tesi che
ha portato alla coniazione di definizioni come “neocolonialismo” per differenziarlo (assimilandolo
ad esso, però) dal colonialismo ottocentesco e dei primi del Novecento.
       Che cosa c’entri una tale visione politica, peraltro parziale e datata, con la situazione del
Kosovo è tutto da dimostrare, ma la retorica, in certi casi, non va troppo per il sottile. Né si può
negare che le parole dei politici serbi e russi abbiano fatto presa sulle classi politiche dei paesi
emergenti, visto che dall’America Latina all’Africa, dall’Asia all’Oceania, pochissimi paesi hanno
riconosciuto l’indipendenza del Kosovo.
       L’offensiva diplomatica della Serbia si è dispiegata in pieno anche ad Atene, al Congresso
Europeo dell’Internazionale Socialista. Il Presidente serbo Tadic (socialista) parlando alla platea dei
rappresentanti socialisti di tutto il continente si è detto deluso perché i partiti dell’Internazionale
Socialista non hanno reagito in maniera compatta sulla questione del Kosovo e non hanno avuto una
linea comune e condivisa, di talché alcuni partiti si sono detti favorevoli all’indipendenza
(controllata) del Kosovo, mentre altri si sono espressi contro.
       Naturalmente né Kostunica né Tadic hanno fatto cenno alle violenze che l’esercito e la
polizia serba hanno esercitato sui civili albanesi del Kosovo, fino agli ultimi giorni del conflitto.
Nessuno ha ricordato che in Kosovo la stragrande maggioranza dei cittadini è di origine e lingua
albanese e che negli anni di Milosevic sono stati negati ad essi anche i più elementari diritti civili e
politici. E’ vero che né Kostunica (avversario di Milosevic) né Tadic (esponente della minoranza
anti-Milosevic all’interno del Partito Socialista) sono responsabili di quanto avvenuto negli anni
Ottanta e Novanta, però è anche vero che oggi essi rappresentano lo Stato serbo.
       In ogni caso il Kosovo preoccupa molto di più i politici che non i cittadini comuni della
Serbia. Infatti, oltre al tema dell’adesione all’Unione Europea (con modalità e tempi ancora da
stabilire), alcuni dei principali temi della campagna elettorale hanno riguardato le riforme
economiche necessarie, l’eliminazione degli ultimi residui della politica economica titoista in
Serbia, le privatizzazioni a venire. Una su tutte è quella che dovrebbe riguardare la compagnia aerea
di bandiera della Serbia, vicina ad essere comprata dagli inglesi della British Airways. Sul fronte
automobilistico, infine, è di poche settimane fa la notizia che la FIAT ha allargato gli accordi di
collaborazione industriale con l’ex industria statale di automezzi. Mentre il colosso indiano TATA
ha avviato la produzione in serie di proprie vetture in Serbia, e si affacciano altri produttori
interessati. Così, con un’economia in forte crescita ed un’inflazione finalmente sotto controllo, la

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Serbia può guardare con maggiore serenità al proprio futuro. Soprattutto se le trattative di adesione
all’Unione Europea andranno avanti.
        Sul fronte albanese l’umore è completamente diverso. A Tirana si respira un’aria di grande
festa e fiducia crescente, da quando l’Albania da “buco nero” dell’Europa civile e moderna, in
preda a convulsioni interne e sul punto di collassare, è diventato uno dei paesi più stabili della
regione. A Tirana la navigazione politica-economica e culturale punta decisamente sull’Europa e
l’integrazione atlantica. Per il primo punto, il paese ha stipulato da alcuni anni il SAA (Stabilisation
and Association Agreement) con la Commissione Europea ed attende l’avvio di negoziati ufficiali e
formali di adesione. Il governo albanese si è fatto promotore di un’area di libero scambio nel Sud
Est d’Europa che sia propedeutica all’ingresso nella UE ed ha mediato efficacemente tra la
minoranza albanese ed il Governo in Macedonia.
        Dal punto di vista, invece, dell’integrazione atlantica, il paese sarà prossimamente ammesso
nella NATO, obiettivo di antica data delle classi dirigenti albanesi. Esse sottolineano anche, con
malcelato orgoglio, la recente partecipazione di un piccolo contingente di soldati albanesi alla
guerra in Iraq. Indubbiamente restano ancora molti nodi da sciogliere, ma l’Albania oggi non si
sente più la “cenerentola” d’Europa e quindi anche sul Kosovo vuole far sentire la propria presenza,
per ora tesa a calmare gli animi e mediare (per quanto possibile) una soluzione pacifica e politica ai
possibili conflitti.
        Oltre a Serbia ed Albania, che sono evidentemente i paesi più coinvolti nel futuro del
Kosovo, anche gli altri paesi confinanti sono coinvolti in varia misura: il Montenegro e la
Macedonia perché confinanti e perché ospitano delle minoranze albanesi, mentre gli altri paesi
perché variamente interessati ad appoggiare questa o quella parte in gioco, anche con un occhio al
contesto internazionale. Infatti, da quando Mosca ha deciso di alzare il tiro sulla questione del
Kosovo (e sull’assetto dei Balcani in generale), provocando la reazione di Londra e Washington, è
diventato quasi impossibile per i paesi dell’area non prendere posizione pro o contro l’indipendenza
del Kosovo. Una volta constatato che il tempo delle trattative era finito (finalmente, aggiungiamo
noi) tutti sono stati chiamati ad esprimersi con nettezza.
        Ebbene, finora si è visto che tutti i paesi hanno fatto prevalere i vincoli interni (sotto forma
di preoccupazioni per alcune regioni abitate da minoranze etniche o religiose, ma anche
preoccupazioni di tipo economico e di stabilità dell’area) a quelli esterni. Questo ha fatto sì che, a
parte l’Albania, quasi nessun paese dell’area si sia mostrato entusiasta dell’indipendenza del
Kosovo e molti non l’hanno riconosciuta.
        In questo contesto, e visto che i confini del nuovo Stato sono ancora incerti, è stata l’Unione
Europea a dover intervenire in prima persona. Come si sa tutti i membri più influenti della UE, con
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la vistosa eccezione della Spagna, dovuta soprattutto alla questione irrisolta dei Paesi Baschi, hanno
riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Tuttavia hanno deciso di metterla sotto tutela, né sono stati
avviati normali rapporti politici e diplomatici con il nuovo Stato. Un “tutoraggio” politico–
istituzionale insomma, qualcosa di molto simile alle “amministrazioni fiduciarie” che, soprattutto in
passato, l’ONU affidava ai suoi membri più importanti, verso aree dove si doveva costruire uno
Stato e quindi un’autonoma capacità politica ed istituzionale.
       Per rappresentare la UE in Kosovo è stata creata la missione EULEX, a cui contribuiscono
soprattutto Italia e Germania, con compiti di State Building sia legislativi che costituzionali (la
Costituzione che è entrata in vigore in Kosovo è ancora provvisoria). La missione europea, almeno
nelle intenzioni iniziali, doveva sostituire la fallimentare missione dell’ONU (la UNMIK) e
rappresentare l’interfaccia politica della missione militare di pace, sempre a guida europea.
       Anche per questo, lo scorso 12 luglio, si è riunita a Bruxelles la conferenza dei donatori per
il Kosovo. Sono stati raccolti 1,2 miliardi di euro, una cifra certamente importante per un piccolo
paese montuoso e grande grosso modo come l’Abruzzo, ma non tale da far gridare al miracolo.
Infatti, tra vincoli e “caveat” di varia natura, meno della metà saranno disponibili subito, e cioè
entro il 2009. Approfondendo l’analisi della cifra donata, si scopre che la Commissione Europea ha
messo sul piatto quanto aveva promesso (500 ml di euro), gli Stati Uniti (attraverso USAID) la
metà, 250, ed i singoli Stati europei 285 (100 da parte della Germania).
       La sfida ora, come riconosce anche il nuovo rappresentante dell’ONU a Pristina, l’italiano
Zanier, è di evitare il ripetersi degli scandali e degli sprechi del passato, frutto certamente di
corruzione e malaffare, ma anche e soprattutto di carenze organizzative e di conflitti di potere tra le
varie sigle internazionali. Una confusione non più accettabile, che trasformerebbe il Kosovo in una
pericolosa terra di nessuno, un buco nero nel cuore d’Europa, possibile ricettacolo di traffici illegali
di ogni genere. Pochi mesi fa, a questo proposito, la prestigiosa rivista italiana di geopolitica Limes
dedicò uno speciale monografico sul Kosovo. All’interno, tra vari studi ed analisi più o meno
convergenti sul futuro della regione-Stato (l’indipendenza non era stata ancora proclamata), si
ripercorrevano nel dettaglio otto anni di fallimentare amministrazione ONU, con fondi spariti nel
nulla e l’emergere di una potente e rapace mafia kosovara, che desta preoccupazione in tutta
Europa. Infine, forse più inquietante ancora, veniva pubblicata una mappa geografica del Kosovo,
su cui erano state disegnate le possibili rotte interne ed internazionali dei trafficanti di droga, di
armi e di ogni altro tipo possibile di merce illegale.
       Chi controllerà quei passi montani? La corrotta ed inaffidabile (almeno fino a ieri) polizia
kosovara? Le forze dell’Unione Europea? Come saranno divisi i compiti tra le varie organizzazioni
presenti sul territorio kosovaro?
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Durante la conferenza stampa d’insediamento, il nuovo capo missione dell’UNMIK, Lamberto
Zanier, ha dichiarato che la missione da lui presieduta avrà un ruolo molto più politico che tecnico e
che opererà in stretto coordinamento con EULEX, che avrà compiti prevalentemente legislativi. La
missione militare europea, invece, continuerà ad avere il compito di mantenere la pace, di
proteggere le minoranze etniche ed i luoghi di culto da possibili rappresaglie e saccheggi ed infine
di addestrare la polizia kosovara.
         Tutto bene, dunque? Non troppo, almeno a sentire un esperto di Balcani come Marco
Bergamini, consigliere del Parlamento Europeo sui Balcani. Secondo questi, l’intera area balcanica
vive una fase di profonda confusione ed è tuttora potenzialmente instabile, anche a causa
dell’eccessiva presenza internazionale con un guazzabuglio di sigle ed organismi: un
coordinamento tra questi si fa sempre più complicato e non vi è nessuna certezza sui tempi di durata
delle loro missioni.
         Intanto, a Pristina, qualcuno ha tolto gli annunci di affitto dei locali usati dai funzionari e
tecnici dell’UNMIK. Segno evidente che la riduzione del personale, prevista per giugno, è
rimandata a data da destinarsi. Benvenuti nel Kosovo, dunque. E’ il primo “protettorato” europeo. Il
cui futuro, inutile negarlo, un po’ ci inquieta.

                      CIRPET - Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Torino Copyright © 2008
Ai sensi della Legge 22 aprile 1941, n.633 e successive modificazioni, i contenuti di questo testo non sono riproducibili né per intero
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