Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2011 - Ministero ...

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Centro Militare di Studi Strategici
            Ricerca 2011

  Il Comprehensive and Integrated
 Approach: l’utilizzo degli strumenti
   dell’Alleanza (DIME) nell’ambito
        dell’Operazione ISAF.
  Stato dell’arte e prospettive future

              Direttore della Ricerca
            Dott. Angeloantonio ROSATO
INDICE

CAPITOLO I
Concetto di ''Comprehensive and Integrated Approach''

§ 1.1   Introduzione al concetto di Comprehensive and Integrated Approach    6

§ 1.2   Definizione di Comprehensive and Integrated Approach ed aree
        di applicazione                                                      8

§ 1.3   Considerazioni tratte da una serie di interviste condotte
        dall’autore a Bruxelles nel luglio 2011 su Comprehensive Approach,
        COIN e le prospettive future in Afghanistan                          10

§ 1.4   Comprehensive Approach e Processo di Transizione in Afghanistan      15

§ 1.5   Un approccio critico al Comprehensive Approach                       18

2
CAPITOLO II
Gli Strumenti di Potere - DIME

§ 2.1   Concetto di Strumenti di Potere    25

§ 2.2   Diplomatic Instrument              28

§ 2.3   Information Instrument             33

§ 2.4   Intelligence Instrument            36

§ 2.5   Military Instrument               39

§ 2.6   Economic Instrument               40

§ 2.7   Developmental Instrument          43

§ 2.8   Financial Instrument              44

§ 2.9   Law Enforcement Instrument        45

3
CAPITOLO III
Punto di situazione in Afghanistan

§ 3.1   Afghanistan oggi                                       49

§ 3.2   La missione ISAF - NATO a confronto con l’esperienza   51
        sovietica in Afghanistan (1979-89)

§ 3.3   Le influenze esterne: Iran e Pakistan                  52

§ 3.4   La lezione non appresa dalla storia                    54

§ 3.5   Proposte e suggerimenti applicabili                    57

§ 3.6   Scenari                                                59

CAPITOLO IV
Case Study: Herat e l’influenza di Teheran

§ 4.1   Introduzione storica                                   62

§ 4.2   L’influenza dell’Iran e la via della droga             64

§ 4.3   L’influenza di Ismail Khan ed il gioco di Teheran      66

§ 4.4   Previsioni                                             67

§ 4.5   Intervista a Oleg Kulakov                              68

4
CONCLUSIONI

Perché siamo in Afghanistan?   73
Contra COIN                    74
Pre-ritiro                     76
Strategia e tattica Taliban    78
Post-ritiro                    79
Nunc (durante il ritiro)       81
Prospettive future              82

BIBLIOGRAFIA                   84

5
CAPITOLO I
                  Concetto di ''Comprehensive and Integrated Approach''

§ 1.1 Introduzione al concetto di 'Comprehensive and Integrated Approach'

“Il Comprehensive Approach non solo è logico – è necessario,” afferma il Segretario
Generale dell’Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen. “La NATO ha bisogno di
lavorare a più stretto contatto con i nostri partner civili sul terreno ed a livello politico – in
particolare con l’Unione Europea e le Nazioni Unite”.1
L’effettiva implementazione di un Comprehensive Approach – continua il Segretario
Generale della NATO – richiede che tutti gli attori contribuiscano con uno sforzo
congiunto, basato su un sentimento comune di responsabilità, apertura e determinazione,
tenendo in considerazione i loro rispettivi ruoli, mandati e forze, come pure la loro
autonomia decisionale.
Sin dalla decisione, presa dalla NATO al Bucarest Summit del 2008, di sviluppare il
“Comprehensive Approach Action Plan”, l’Alleanza non ha mai smesso di migliorare i suoi
strumenti di crisis management ed ha rafforzato la sua capacità di lavorare con i Paesi
partner, le organizzazioni internazionali, le organizzazioni non-governative (NGO) e le
autorità locali. In particolare, sempre secondo Rasmussen, la NATO sta costruendo
strettissime partnerships con attori civili che hanno esperienza ed abilità in aree quali
institution building, sviluppo, governance, settore giudiziario e polizia.

Il nuovo Concetto Strategico della NATO, adottato al Lisbon Summit del Novembre 2010,
sottolinea che le lezioni apprese dalle operazioni a guida NATO mostrano che una efficace
crisis management richiede un Comprehensive Approach che coinvolga strumenti politici,
civili e militari. Gli Alleati si sono persuasi che i mezzi militari, per quanto essenziali, non
sono sufficienti da soli ad affrontare le numerose e complesse sfide alla sicurezza Euro-
Atlantica ed internazionale. I leader dell’Alleanza a Lisbona hanno convenuto sulla
necessità di migliorare il contributo della NATO ad un Comprehensive Approach nei

1
  Cfr. A ''Comprehensive Approach'' to crisis management, in sito web ufficiale della NATO - www.nato.int
(Last updated: 13-Apr-2011).
6
confronti delle crisis management, come parte dello sforzo della comunità internazionale,
e di aumentare la capacità della NATO per contribuire ai processi di stabilizzazione e
ricostruzione.

Per approfondire la relazione tra nuovo Strategic Concept e Comprehensive Approach,
l’autore ha intervistato il 13 luglio ’11, a Bruxelles, presso l’HQ dell’Alleanza Atlantica,
Lorenz Meyer-Minnemann, esperto della NATO presso la Divisione Affari Politici e Politica
di Sicurezza:

“In occasione del Lisbon Summit, si è ammesso ufficialmente che l’Alleanza Atlantica può
trattare problemi non strettamente militari. A tal fine deve necessariamente dotarsi di
efficaci civilian capabilities”.

Sulla questione restano scettici soprattutto i Francesi (da non molto rientrati
nell’organizzazione militare della NATO): a parer loro l’Alleanza non dovrebbe occuparsi di
ciò che non è capace di fare.

“Ma come portare le civilian capabilities nella NATO?- si domanda Meyer-Minnemann - La
strada scelta dall’Alleanza è di affittare le National civilian resources dei Paesi membri. È
stato così creato un meccanismo chiamato Compass, acronimo che significa
‘Comprehensive Approach Specialist Support’. Si tratta di un data-base, un roster di
esperti da cui attingere per le missioni in cui occorreranno civilian capabilities. Non sarà la
NATO a selezionare direttamente questi esperti, ma sarà l’autorità dei singoli Paesi
membri”.

Chiediamo a Meyer-Minnemann per quale scopo la NATO deve dotarsi di civilian
capabilities:

“La Nato deve dotarsi e sviluppare le civilian capabilities al fine di realizzare
compiutamente il Comprehensive Approach”.

Segue una serie di Questions & Answers (Q & A) rivolte dall’autore all’esperto NATO
Meyer-Minnemann:

“Q-Quale l’utilizzo pratico delle civilian capabilities da parte della NATO?

7
A-L’Alleanza deve essere preparata ad utilizzare prontamente le civilian capabilities, nel
caso in cui gli altri attori internazionali (EU, ONU ecc) non vogliano/possano
immediatamente farlo da sé.

Q-Che tipo di civilian capabilities la Nato dovrebbe sviluppare?
A-Le civilian capabilities in grado di realizzare la stabilizzazione e la ricostruzione del
Paese/regione dove si svolge la missione.

Q-Quando queste civilian capabilities della NATO saranno operative?
A-Ci sono tre fasi al riguardo:
    1. pianificazione e creazione del roaster Compass (agli inizi, estate ’11)
    2. integrare i pianificatori civili nel sistema decisionale e di pianificazione della NATO
        (due anni a partire dall’estate ’11)
    3. accedere alle civilian capabilities dei Paesi membri.

§ 1.2 Definizione di Comprehensive and Integrated Approach ed aree di applicazione

Come possiamo definire in sintesi il Comprehensive and Integrated Approach? Esso è una
struttura, uno strumento concettuale che può essere usato per rinforzare la coordinazione
degli obiettivi e delle attività da parte dell’Alleanza e dei suoi partner, identificando,
analizzando, pianificando ed eseguendo risposte onnicomprensive e coerenti a situazioni
complesse.
Infatti, post-operational analysis di situazioni e crisi che si sono verificate negli ultimi 20
anni in varie parti del pianeta, hanno dimostrato il valore e l’efficacia di un approccio
olistico, congiunto e multidisciplinare al fine di ottenere risultati auspicati e duraturi.

Lo sviluppo e l’implementazione del contributo della NATO ad un Comprehensive
Approach è uno sforzo di lungo periodo. L’Alleanza sta lavorando al fine di realizzare
miglioramenti in diverse aree-chiavi di lavoro. Vediamo ora alcune di queste key-area di
applicazione del Comprehensive Approach:

8
Pianificazione e condotta delle operazioni
L’Alleanza si prende carico di tutti gli aspetti militari e non-militari di un NATO
engagement, e sta lavorando per migliorare la cooperazione pratica a tutti i livelli con tutti
gli attori e le organizzazioni rilevanti nella pianificazione e condotta delle operazioni. Il
lavoro odierno della NATO nell’area dell’Operations Planning promuove la condivisione di
scopi e di determinazione a raggiungerli, la chiara definizione di strategie ed obiettivi prima
di lanciare un’operazione, come pure l’attenta pianificazione al fine di supportare il
contributo nazionale alle operazioni.
Gli Alleati concordano che, come regola generale, stabilizzazione e ricostruzione sono
meglio realizzate da quegli attori ed organizzazioni che posseggono gli adeguati mandati,
expertise e competenza. Tuttavia, ci possono essere delle circostanze tali da impedire a
questi attori di assolvere ai suddetti compiti, o di assolverli senza il sostegno della NATO.
Pertanto al Summit di Lisbona, I Paesi membri hanno deciso che l’Alleanza debba avere la
capacità di pianificare, impiegare e coordinare le risorse sia civili che militari che le nazioni
forniscono per missioni NATO di crisis management.
Al fine di migliorare il contributo dell’Alleanza ad un Comprehensive Approach e l’abilità
della NATO a contribuire, quando richiesto, alla stabilizzazione e ricostruzione, gli Alleati
hanno concordato di costituire un’appropriata ma limitata civilian capability allo scopo di
interfacciarsi più efficacemente con altri attori e condurre un’appropriata pianificazione in
ambito di crisis management.

Lezioni apprese, addestramento, istruzione ed esercitazioni
Applicare un Comprehensive Approach significa un cambio di mentalità. L’Alleanza
pertanto sta enfatizzando la necessità di addestramento ed esercitazioni congiunti di
personale civile e militare. Ciò promuove la condivisione delle lezioni apprese ed inoltre
aiuta a costruire fiducia tra la NATO, i suoi partner ed altri attori locali ed internazionali.
Questo a sua volta favorisce una migliore coordinazione.

Migliorare la cooperazione con gli attori esterni
Raggiungere intesa, fiducia e rispetto duraturi e comuni tra i rilevanti attori ed
organizzazioni renderà i loro rispettivi sforzi più efficaci. Pertanto, la NATO sta attivamente
costruendo stretti legami e solide collaborazioni con i più importanti attori ed
organizzazioni, nel rispetto dell’autonomia decisionale di ciascuna organizzazione.

9
Comunicazione pubblica
Al fine di essere efficace, il Comprehensive Approach deve essere completato da
messaggi coerenti e costanti indirizzati verso il pubblico. Le campagne di comunicazione
della NATO (tra cui la cosiddetta Public Diplomacy) dovrebbero essere sostenute da un
flusso sistematico ed aggiornato di informazioni, le quali documentino il progresso in aree
rilevanti. È importante assicurare che le strategie di comunicazione dei principali attori
siano complementari e non contraddittorie, il che può essere facilitato da diretti contatti tra
i responsabili della comunicazione pubblica.2

§ 1.3 Considerazioni tratte da una serie di interviste condotte dall’autore a Bruxelles nel
       luglio 2011 su Comprehensive Approach, COIN e le prospettive future in
       Afghanistan

Nelle prossime pagine riportiamo alcuni giudizi di esperti e funzionari di organizzazioni
internazionali rilevanti per il discorso in oggetto, intervistati nel luglio ’11 dall’autore a
Bruxelles ed a Roma sul Comprehensive Approach, la COIN e gli sviluppi futuri in
Afghanistan. All’inizio di ogni intervista, in sottolineato, il nome dell’esperto intervistato,
l’organizzazione di appartenenza e la data dell’intervista.

Bettina Muscheidt, EU - desk AFG, 11 luglio 2011:
Chiediamo alla funzionaria comunitaria Bettina Muscheidt un commento ed un giudizio sul
Comprehensive Approach dal punto di vista della cooperazione civile-militare EU-NATO in
Afghanistan. Afferma la Muscheidt:

“La strategia EU in Afghanistan si chiama ‘Afghan Development Strategy’. La EU non è
parte della strategia NATO in Afghanistan”, ovvero della strategia COIN.
La EU focalizza la sua azione sull’ Institutions/nation building in Afghanistan, sin dal 2002.
I settori prioritari dell’impegno EU in Afghanistan sono tre:
- Governance, rule of law
- Agriculture
- Health”.

2
 Cfr. A ''Comprehensive Approach'' to crisis management, in sito web ufficiale della NATO - www.nato.int
(Last updated: 13-Apr-2011).
10
Di che tipo è l’approccio EU in Afghanistan per il futuro?

“L’approccio EU in Afghanistan – risponde la Muscheidt - è di lungo periodo. La nuova
fase di impegno della Unione durerà considerevolmente (2014-2021). La coincidenza con
la data del definitivo ritiro della NATO dal Paese asiatico (2014) è solo un caso. L’impegno
EU si concentra nel Nord e nell’Est del paese asiatico”.

Shada Islam, Head of Asia Program, Friends of Europe, 11 luglio ‘11
Il giudizio di Shada Islam - esperta di Afghanistan e Pakistan, Head of Asia Program,
Friends of Europe – è molto critico sulla gestione della missione Afghanistan.

“Finalmente è arrivato il Comprehensive Approach!. Sin dall’inizio, c’è stata molta
confusione sulle finalità della missione in Afghanistan. Anche per quanto riguarda il
Comprehensive Approach, sono stati commessi molti errori, sin dagli esordi. Per esempio,
una scarsa coerenza nel messaggio da parte della Coalizione, che non è mai stato chiaro
ed univoco”.
La strategia di transizione della NATO è di addestrare le Afghan National Security Forces
(ANSF) in modo tale che possano assicurare da sole la sicurezza dell’ Afghanistan, dopo il
ritiro della NATO. Ma, secondo Shada Islam, “se si costruisce un forte esercito in
Afghanistan, si avrà come risultato finale un altro Pakistan”, intendendo con ciò uno Stato
con istituzioni politiche civili assai deboli, corrotte, il cui ruolo e funzioni vengono svolti di
fatto dalle Forze armate. Il risultato finale è la fine del regime democratico nel Paese.
Resta da vedere se un periodo transitorio di regime autoritario centralizzato possa essere
davvero un male per l’Afghanistan, vista la situazione di caos, insurgency e incipiente
guerra civile di quello che ormai è uno Stato narco-feudale ovvero un non-Stato.

Ecco quello che manca alla strategia NATO in Afghanistan, secondo Shada Islam:

     -    “Civilian leadership / society
     -    istruzione
     -    coordinamento tra i Paesi donatori”.

11
Secondo l’esperta di Friends of Europe, “Il problema chiave è la corruzione. Il 2014 sarà
l’anno in cui si completerà la transizione dei poteri e delle responsabilità agli afghani: “è
necessario focalizzare gli sforzi su quella che possiamo definire civilian surge”. Il
riferimento è chiaramente, in chiave critica, alla military surge ordinata dal presidente
Obama qualche tempo fa al fine di spezzare il momentum dei Taliban; con quale successo
resta ancora da vedere.
Secondo Shada Islam, I tre problemi dell’Afghanistan più importanti per il prossimo futuro
sono i seguenti:

-      “leadership inadeguata e corruzione; è necessario accrescere la pressione su
       Karzai allo scopo di risolvere tali questioni;
-      occorre un’espansione della società civile (civilian surge);
-      le potenze della regione non saranno mai in grado di gestire la situazione dopo il
       ritiro della NATO, quindi la regionalizzazione del problema afghano non è una
       soluzione realistica”.

La posizione della Cina merita particolare attenzione a parere di Shada Islam:

“Pechino è preoccupata dall’espansione dell’islamismo radicale per via del suoi problemi
interni nel Turkestan cinese con la minoranza uigura. Dall’altra parte la Cina è interessata
alle risorse minerarie dell’Afghanistan”.

Nick Grono, International Crisis Group, 11 luglio ‘11
Nick Grono, esperto della ONG International Crisis Group, è ancora più critico nel suo
giudizio sulla gestione della missione AFG:

“Il problema principale in Afghanistan per la coalizione è la mancanza di Institutional
building”. Grono esprime una velata critica alla strategia NATO della Transition dei poteri
e delle responsabilità a ANSF: “troppo focus su Esercito e Polizia, mentre non ci si è
concentrati abbastanza sullo Stato di Diritto, la riforma del sistema giudiziario, la lotta alla
corruzione.”

In sostanza, secondo l’esperto dell’ International Crisis Group, “la NATO non ha una
strategia coerente in Afghanistan”.

12
Che cosa dovrebbero fare allora in Afghanistan la NATO e gli Stati Uniti?
Grono ribadisce i concetti su espressi, ed aggiunge:

“probabilmente ormai è troppo tardi, avremmo dovuto agire molto tempo addietro, nel
2002”.

In conclusione, per Nick Grono, il rischio di una nuova guerra civile dopo il ritiro delle
truppe NATO nel 2014 “è lo scenario più probabile”.

Funzionario NATO, Bruxelles, 12 luglio ‘11:
Abbiamo chiesto un giudizio sul Comprehensive Approach ad un funzionario NATO,
esperto della questione, il quale preferisce mantenere l’anonimato. Di seguito egli traccia
un elenco delle negatività e positività del Comprehensive Approach applicato in
Afghanistan:

“Comprehensive Approach, negatività:
-        corruzione rampante
-        relazioni future triangolari AFG-USA-PAK
-        sostenibilità finanziaria e supporto NATO a ANSF nel lungo periodo.

Comprehensive Approach, positività:
-        unità di intenti della comunità internazionale
-        colpi assestati ai Taliban da parte della NATO, negli ultimi tempi
-        crescita quantitativa/qualitativa delle ANSF.

Queste sono le Istituzioni internazionali che, a parere del funzionario NATO di cui sopra,
hanno pure un ruolo importante in Afghanistan, nella cornice del Comprehensive
Approach:

-        Banca Mondiale (WB; ma la World Bank non sblocca i fondi per l’Afghanistan, a
         causa del recente scandalo finanziario della Banca di Kabul)
-        International Monetary Fund (IMF)
-        United Nations (UN).

13
Altre note positive nel rapporto NATO-AFG:
-      impegno continuativo della NATO verso l’Afghanistan
-      assistenza alla creazione di una military leadership afgana con obiettivo finale la
       Defense Reform
-      training e mentoring delle ANSF
-      emergency planning
-      sostegno al “dialogo politico” tra Afghanistan e Pakistan.

Tuttavia anche il funzionario NATO evidenzia il pericoloso parallelo Pakistan/Afghanistan,
già evidenziato da Shada Islam, circa il possibile ruolo futuro dell’esercito nel sistema
politico afgano:

“Occorre però segnalare il rischio di uno scenario PAK per AFG, ovvero una
militarizzazione dello Stato, a scapito delle gracili istituzioni democratiche afgane; uno
scenario di Stato afgano con un esercito molto forte, versus strutture civili deboli”.

Ancor una volta viene da chiedersi se ciò sia davvero da ritenere un male, considerando la
situazione presente dell’Afghanistan e quella più probabile dopo il ritiro della NATO (e
degli USA) nel 2014. È davvero negativo uno scenario afgano caratterizzato da un forte
Stato centralizzato ed a forte componente militare? Oppure, come nel caso del Pakistan,
esso potrebbe essere l’unico argine contro la dissoluzione dello Stato?. Il rischio post-
2014 è infatti uno scenario di failing State come è accaduto in Afghanistan dopo il ritiro
delle truppe sovietiche nel 1989. Questo failing State può essere definito Stato narco –
feudale. Rimandiamo ad un capitolo successivo del presente lavoro per un
approfondimento degli elementi costitutivi dello Stato narco – feudale e per meglio
individuare come potrebbe (e dovrebbe) essere uno scenario afgano caratterizzato da uno
Stato centralizzato ed a forte leadership militare.

Megan Million, già NATO Media Operarions Center, Bruxelles, 13 luglio ‘11
Megan Million, esperta di Transition, già NATO Media Operations Center (MOC),
dall’estate ’11 in prestito all’UNAMA di Kabul, traccia un quadro dell’AFG Transition; questi
sono, a suo giudizio, gli elementi più importanti per avere successo:

14
- mentoring & training: OMLT (ANA), POMLT (ANP)
- Special Forces: blitz, azioni “mordi e fuggi”.

Da sottolineare – continua l’esperta Megan Million - l’enorme massa di denaro confluita in
Afghanistan in questi anni: nel solo 2010, 40 miliardi USD. Eppure i risultati non
corrispondono alla quantità di denaro e risorse investiti, almeno finora.

Megan Million, infine delinea uno scenario bicefalo circa la Transition post 2014:

-      “Opportunity: la transizione avviene correttamente, e gli Afghani prendono la guida
del loro Paese, riuscendo a sconfiggere l’insurgency, oppure
-      Risk: di nuovo guerra civile”.

§ 1.4 Comprehensive Approach e Processo di Transizione in Afghanistan

Alto funzionario NATO nel corso di una conferenza tenutasi a Bruxelles, 13 luglio’11
Riportiamo i commenti sul Comprehensive Approach e sulla Transition espressi da un alto
funzionario NATO nel corso di una conferenza tenutasi a Bruxelles nel luglio 2011. La
conferenza si è svolta sotto la Chatham House Rule, quindi non può essere pubblicato il
nome del funzionario di cui sopra.

Le prossime tappe importanti per fissare i successivi step della Transition, da parte della
NATO e della comunità internazionale, saranno le seguenti:

- Instanbul, novembre ‘11
- Bonn, dicembre ’11.

Ecco alcune dichiarazioni dell’alto funzionario NATO circa il Comprehensive Approach:

- “Occorre impiantare un Comprehensive & Stability Approach.
- Bisogna mettere in piedi un Comprehensive Approach - n. 2; forse questo sarà un film
migliore (a better movie).
- Abbiamo commesso degli errori, perso tempo. Ma ora ci è chiaro cosa dobbiamo fare”.

15
Morten F. Henriksen / Rob Ayasse, Operations Division, NATO, 13 luglio ‘11
I due esperti - Morten F. Henriksen e Rob Ayasse dell’Operations Division, NATO -
tracciano una differenza fondamentale tra COIN e Comprehensive Approach:

“La COIN è diretta da una sola entità, cioè la NATO. Invece, il Comprehensive Approach è
diretto (teoricamente) da tutta la comunità internazionale”.

Ci sarà una divisione del lavoro dopo il 2014 (anno del ritiro della NATO)? Secondo
Henriksen, “ciò non avverrà perché non ci sarà l’attuale leadership assicurata dall’Alleanza
atlantica”.

Queste sono le lezioni apprese dalla NATO in Afghanistan, secondo Henriksen e Ayasse
dell’Operations Division, NATO:

- “mai più una missione boots on the ground a lunga scadenza, tipo ISAF.
- Sì, invece, a missioni stile Libia – 2011. Ovvero una missione che prevede task leggeri
tipo: imposizione di una ‘no fly zone’, bombardamenti aerei o navali, sostegno alle truppe
locali a terra, ma senza nessun soldato NATO boots on the ground sul suolo libico”.

Insomma, la nuova strategia NATO è di starsene in aria o in mare ed evitare il
coinvolgimento boots on the round, come si è fatto invece in Afghanistan. Questo schema
sarà sempre possibile in futuro? Come implementare operazioni di peacekeeping o
addirittura di peace enforcing senza mai schierare soldati NATO sul terreno? Tutte queste
domande restano per ora senza risposte, oscurate dal presente successo in Libia. Ma
presto, alla prossima grave crisi, torneranno prepotentemente.

Il futuro delle missioni NATO sarà caratterizzato, secondo i due esperti NATO Henriksen e
Ayasse da questi elementi fondamentali:

- espandere l’abilità di schierare military trainers (addestratori militari) per le attività di
mentoring delle forze locali
- mantenere e sviluppare la capacità di Rapid Reaction Force.

16
Come si dovrebbe concretizzare in pratica il Comprehensive Approach in Afghanistan?
“Esso – continuano Henriksen e Ayasse - si realizzerà da qui (2011) fino al 2014 (anno del
ritiro della NATO).” Il processo di transizione, ceteris paribus e se tutto andrà bene, si
dovrebbe realizzare con queste modalità:

“mentre la NATO progressivamente ritira dall’Afghanistan le sue truppe, la UE e le Nazioni
Unite progressivamente accrescono il loro civilian engagement nel Paese asiatico.
I PRT (Provincial Reconstruction Team) saranno smantellati, ma aumenteranno gli sforzi,
le azioni civili per la ricostruzione grazie alle Nazioni Unite, le NGO, la UE, i singoli Paesi
della coalizione internazionale. In questo contesto gli Afgani, ossia le Afghan National
Security Forces (ANSF) provvederanno alla sicurezza degli esperti civili internazionali,
oltre che a quella del Paese in generale”.

Secondo questo scenario ottimistico, per esempio, “le truppe italiane andranno via, ma
resteranno, anzi aumenteranno, gli esperti civili italiani. Se la sicurezza fornita dalle ANSF
non sarà sufficiente, ci penseranno i contractor civili”. Presumibilmente si tratterà di
warlord militia ed ex militari NATO, molto ben pagati per fare le stesse cose che facevano
prima con la divisa.
L’ottimistico scenario di Henriksen e Ayasse appare alquanto irrealistico ed artificioso.
Infatti, è improbabile che nel 2014, cioè tra pochissimo, l’Afghanistan sarà pacificato, il
governo afgano e le ANSF saranno in grado di assicurare la governance e la sicurezza del
Paese. Lo scenario prefigurato dagli esperti NATO Henriksen e Ayasse ricorda una specie
di gigantesco outsourcing per cui la governance e la ricostruzione dell’Afghanistan
saranno sempre più affidati a esperti civili delle nazioni Unite e della UE, mentre la
sicurezza sarà di fatto compito di contractor profumatamente pagati; o peggio sarà affidata
alle stesse warlord militia che da tempo terrorizzano e taglieggiano la popolazione civile
afgana. Questa è la ricetta per un piatto che risulterà molto indigesto per gli Afghani. E di
certo aumenterà la popolarità dei Taliban, non la nostra.

Alla fine la domanda più importante resta questa: l’Afghanistan post-2014 sarà
caratterizzato da un instabile equilibrio basato sulla malafede di un fragile accordo di pace
tra governo e Taliban, negoziato frettolosamente dagli Americani, ansiosi di chiudere la
partita? L’Afghanistan resterà un failing State, un Paese sempre sull’orlo dell’abisso,
sommerso di contractor ed esperti civili stranieri profumatamente pagati per condurre

17
processi di ricostruzione etero-diretti, con scarsa attenzione per i veri bisogni della
popolazione?
Oppure semplicemente scoppierà di nuovo la guerra civile e l’Afghanistan da failing State
diventerà definitivamente e tout cour un failed State, modello Somalia con elementi
messicani (narcos), una MesSomalia sull’Hindukush.

§ 1.5 Un approccio critico al Comprehensive Approach

Riportiamo di seguito un riassunto dell’intervista, realizzata dall’autore nella primavera del
2011, all’esperto di relazioni transatlantiche Lucio Martino sul Comprehensive Approach
alla luce del nuovo Concetto Strategico della NATO, ufficializzato nel Summit di Lisbona
(autunno 2010).

Le questioni inerenti lo Strategic Concept 2010 della NATO sono numerose e
problematiche. Il Concetto Strategico introdotto nell’autunno 2010 nel corso del Summit
NATO di Lisbona ha istituito un “Comprehensive Approach” quale componente vitale di
qualsiasi presente e futura operazione di crisis management. Ha stabilito inoltre alcuni
requisiti specifici inclusa l’organizzazione di attività civili oggi parificate alle attività militari.
Il Segretario Generale Rasmussen ha salutato il nuovo Concetto Strategico con ottimismo,
così forse sottostimando i problemi associati con la creazione di tali capacità. Per essere
credibile l’Alleanza deve affrontare e risolvere significativi problemi strategici, tattici e
operativi, specialmente per quanto concerne la cooperazione con e tra differenti operatori
civili. In breve, al di là delle belle parole, l’enorme complessità e la forte ambiguità insite
nelle molte dimensioni di quello che è stato definito un profondo e vasto cultural change
che attraversa la sfera politica, diplomatica, giuridica ed amministrativa, oggi solleva
crescenti domande sull’efficacia di tale nuovo approccio operativo.
Secondo un’opinione molto diffusa, questo nuovo approccio operativo deve ancora essere
definito. Il bisogno di sviluppare capacità civili al fine di bilanciare, o addirittura sostituire,
capacità militari è il risultato dell’impiego di strumenti militari in condizioni operative, e per
scopi molto differenti da quelli immaginati al tempo della pianificazione originaria.
La pianificazione di lungo periodo è uno strumento essenziale per una organizzazione che
deve avere a che fare con l’incertezza e che è caratterizzata da una relativamente scarsa
flessibilità circa l’impiego delle risorse. Per la Nato la pianificazione è diventata assai

18
complessa. Finiti i tempi della pianificazione caratterizzata da una singola dominante
minaccia, e degli aggiustamenti di breve periodo al fine di capitalizzare sulle nuove
tecnologie, il planning dei nostri giorni richiede un approccio molto più lasco allo scopo di
risolvere varie sfide. Pertanto, l’Alleanza ha definito ed implementato nuovi processi di
pianificazione di grande portata nel tentativo di realizzare una cornice entro cui
armonizzare le defense planning activities. A questo scopo, il defense planning process è
stato organizzato secondo un alto livello di flessibilità. Il processo è per definizione
modulato sulle capacità di medio termine, ma allo stesso tempo rimane aperto ad
impreviste esigenze derivanti dalle attuali operazioni.
Tale processo è oggi una sofisticata scenario-based analysis in cinque stadi, i quali sono
generalmente sequenziali per loro natura. Il primo consiste nel fissare una political
guidance, al fine di assicurare che l’insieme degli obiettivi siano sincronizzati con i fini
politici e militari stabiliti dall’Alleanza e dagli staff nazionali. Il secondo è definire cosa
dovrebbe essere fatto in termini di capacità qualitative e quantitative. Il terzo stadio
riguarda l’assegnazione di requisiti e lo stabilire obiettivi secondo un leale burden sharing.
Il quarto è facilitare l’implementazione delle capacità necessarie attraverso il monitoraggio
dell’implementazione nazionale. Infine, il processo revisiona se e come sono stati raggiunti
gli obiettivi stabiliti nelle political guidance e nei target associati.
Lo scenario - thinking è oggi più che mai un elemento fondamentale di qualsiasi supporto
analitico al capability planning. Tuttavia, questo tipo di analisi è spesso fuorviante, perchè
l’interpretazione di cosa è uno scenario differisce a seconda degli attori e delle nazioni;
inoltre crea confusione perché, essendo una metodologia, privilegia incertezze invece di
certezze. La pianificazione di lungo periodo è uno strumento molto potente solo quando la
natura del rischio è ben compresa. Pertanto, sviluppare scenari multipli è la metodologia
preferibile quando si ha a che fare con un futuro incerto.
Le questioni ed i possibili problemi che si possono affrontare con le valutazioni scenario-
based sono molti. Grande è il rischio di un approccio ex post, ovvero di proiettare nel
futuro ciò che avrebbe funzionato al meglio nel passato. Soprattutto, la inter-agency
coordination è quella che presenta le maggiori sfide. Dunque una stretta cooperazione tra
pianificatori civili e militari è importante sin dalle prime fasi di qualunque processo di
pianificazione.
Dato il lungo ciclo che richiede l’implementazione di una nuova force structure, in parte
dovuto ai considerevoli tempi di sviluppo ed acquisizione, qualsiasi planning process di
solito è proiettato dai 10 ai 30 anni nel futuro. Così descritta, la pianificazione è un affare
complicato, aggravato da significative e forse gravi conseguenze. Il ritmo del progresso

19
scientifico e tecnologico e la complessità dell’ambiente internazionale rendono la
pianificazione ancora più complessa. Costretti a vedersela con un limitato budget per la
Difesa, un ampio spettro di minacce, complessi problemi interni e un sempre più
complicato security environment che produce le istanze più disparate, i decision-maker
hanno bisogno di un sostegno sofisticato nel planning process. Inoltre, una efficace
planning capability permette una reazione rapida ed appropriata agli eventi, specialmente
se gli asset garantiti da un tale processo sono appropriatamente sfruttati.
Tuttavia, non c’è niente di sorprendente circa l’emergenza di nuove minacce e sfide
elencate nello Strategic Concept 2010. La questione è semplicemente questa: la velocità
con la quale tali minacce si manifestano è tale da mettere a rischio il planning process
dell’Alleanza? In altre parole, la domanda è se questi fatti rappresentano discontinuità
storiche oppure dei semplici sviluppi di eventi.
Inoltre, I Paesi membri stanno affrontando profondi cambiamenti sociali, i quali possono
avere l’effetto di cambiare le dinamiche delle loro relazioni reciproche, ed infine mettere a
rischio l’efficacia della stessa NATO. Le crisis management operation sono uno strumento
particolarmente utile per affrontare le minacce che emergono da un momento storico che
è il prodotto di un’intersezione tra la classica dottrina del libero mercato e l’impatto
rivoluzionario delle fast communications. La globalizzazione ha contribuito a costruire
benessere su una scala mai vista prima d’ora. Ma l’Europa e l’America si stanno
avvicinando al limite della pubblica tolleranza a causa delle difficoltà create dal nuovo
sistema economico. Nell’affrontare le nuove sfide, nessuna singola soluzione è una
risposta decisiva. Nessuna singola istituzione è adeguata come base per un efficace
management.
Un tale set di minacce in perenne mutazione ha forzato la Difesa e gli apparati della
Sicurezza ad implementare cambiamenti importanti. Lo spettro dei compiti si è esteso. Se
il tradizionale peacekeeping focalizzava su containment e riduzione dell’escalation militare,
l’odierno crisis management punta alla trasformazione sociale, politica ed economica al
fine di implementare una ‘comprehensive conflict resolution’. I compiti ora si estendono da
aiuto umanitario e protezione fisica degli individui, fino alla creazione di strutture socio-
economiche stabili e sostenibili. Inoltre, i limiti temporali si sono espansi. In termini
concettuali e pratici, il crisis management si estende oggi da una fase iniziale di
prevenzione dei conflitti fino a comprendere intervento umanitario, peace building,
peacekeeping, e post conflict management. Il crisis management è ulteriormente
complicato dal bisogno di gestire la congiunzione tra le differenti fasi che spesso finiscono
per sovrapporsi. Infine il numero di attori coinvolti si è espanso in modo significativo. Ciò è

20
parzialmente dovuto allo spettro allargato di compiti insiti nelle varie fasi del crisis
management, che richiedono specifici strumenti ed expertise che nessun singolo attore è
capace di fornire da solo. Coinvolgendo vari attori, statuali e non, la legittimità politica di
ogni impegno internazionale aumenta. Questo si applica a qualsiasi gruppo politico,
religioso, etnico, sociale.
Pertanto la coordinazione interna ed esterna di tutti gli strumenti disponibili, il loro puntuale
ed appropriato uso nelle varie fasi del conflitto, e la chiarificazione dei comuni obbiettivi
della missione, è divenuto di primaria importanza al fine di ottenere una risposta efficace
alle crisi (successful crisis response). In questo contesto l’Alleanza Atlantica ha
riconosciuto il bisogno di un approccio più sofisticato, più esteso sia nel suo campo di
applicazione che nelle sue risorse.
Con l’accettazione della “Comprehensive Political Guidance”, l’Alleanza Atlantica ha
fissato nel Comprehensive Approach il suo programma per una pianificazione che includa
tutti gli aspetti civili e militari dell’engagement. Una prova dello straordinario sforzo
compiuto a questo scopo è data dal lancio di un gran numero di esercitazioni e studi. Dato
che l’Alleanza non ha (ancora) rilevanti civilian capabilities, accrescere la cooperazione
esterna con attori civili ed altre organizzazioni internazionali è diventata una ‘top priority’.
Tuttavia, sia al livello concettuale che a quello dell’implementazione, il Comprehensive
Approach pone sfide facilmente sottostimabili. Alto è il pericolo di aumentare il livello di
complessità operativa oltre qualsiasi capacità di controllo fattivo, mentre l’assenza di un
singolo modello emergente condiviso e coerente è sia un pericolo che un’opportunità.
Mentre la maggior parte degli autori oggi riconosce la necessità di migliorare
coordinazione e sforzi collettivi, i loro approcci divergono significativamente per quanto
concerne priorità, mezzi ed auspicati end state delle crisis management. Una tale
frammentazione minaccia direttamente le prospettive di strategie comuni. Obiettivi ed
interessi divergenti facilmente danno vita ad interazioni conflittuali tra agenzie, attori e
task. La cooperazione tra differenti attori è spesso complicata dall’incompatibilità circa gli
obiettivi e le culture organizzative. Per quanto concerne le organizzazioni militari, le
differenze tra le regole nazionali di ingaggio nelle operazioni di peacekeeping sono
importanti, ma esse non sono meno importanti delle differenze riguardo alle culture militari
tra servizi nazionali e multinazionali. A proposito della sfera civile, l’interazione delle attività
combinata con obiettivi divergenti relativi alla protezione dei diritti umani, le riforme
politiche e lo sviluppo economico frequentemente generano conflitti riguardo a
responsabilità, risorse e ordine gerarchico. Come conseguenza, si sono sviluppate
differenti culture del ‘Comprehensive Approach’ a livello nazionale ed internazionale.

21
Sono conciliabili queste diverse culture del comprehensive approach? A quale prezzo? Il
gioco vale la candela? A tutte queste domande solo il tempo potrà dare risposta.
È opinione di alcuni esperti che l’attuazione del Comprehensive Approach è stata
parzialmente un successo grazie alla creazione di una costellazione di Provincial
Reconstruction Team (PRT), come si è fatto in Iraq ed Afghanistan. Tali entità sono
concepite allo scopo di fornire sicurezza e facilitare la ricostruzione a livello locale.
Tuttavia a volte la composizione dei PRT è incoerente, i loro obiettivi e mezzi sono
considerevolmente divergenti. Fino ad un certo punto questo riflette la necessità di
adattarsi ai bisogni specifici dell’ambiente locale, ma per la maggior parte ciò è dovuto
alla credibilità ancora piuttosto limitata, della forza militare come partner cooperativo, agli
occhi delle ONG operanti in loco, per esempio.
Fino ad oggi, questi nuovi approcci hanno mostrato una performance quanto meno
ambigua. Divergenti culture organizzative e risorse disponibili hanno realmente limitato
l’armonizzazione ed il miglioramento di qualsiasi efficienza operativa. Oltre ciò, mutamenti
sistemici per assicurare un Comprehensive Approach hanno occasionalmente richiesto un
largo impiego di tempo e denaro, infiammando così gli inevitabili scontri che scaturiscono
dalla resistenza delle diverse agenzie (ed all’interno delle stesse) contro la riallocazione di
potere e risorse. Come accade in ogni processo di trasformazione, l’implementazione di
un nuovo approccio è difficile da mettere in pratica. Il cambiamento delle pratiche, dei
privilegi   e   delle   strutture   amministrative   tradizionali   tipici   di   un’organizzazione
istituzionalizzata, in nome di concetti astratti come coerenza ed efficienza, è assai difficile
da realizzare. Comunque, fintanto che il crisis management è percepito come uno
strumento appropriato (nonché una finalità condivisibile), non c’è alternativa alla ricerca di
un Comprehensive Approach.
L’ultima revisione del Concetto Strategico (2010, Summit di Lisbona) e la re-integrazione
della Francia nella struttura militare dell’Alleanza, prese insieme, rappresentano delle
buone chance per una migliore implementazione del Comprehensive Approach, secondo
lo spirito originario in cui fu concepito nel 2006. Da allora un enorme capitale politico è
stato speso per assicurare che una nuova politica del crisis management fosse posta in
cima al nuovo Concetto Strategico. In effetti, il bisogno di un “comprehensive cultural
change” è chiaramente dichiarato nel documento ufficiale del 2010, ma accrescere
l’efficacia del nuovo approccio attraverso la sua istituzionalizzazione nelle dottrine e
strutture operative è un compito molto arduo.
Nel   contesto     di   un   tale   cambiamento,     apprestare     procedure      di   condivisione
dell’intelligence al fine di prevedere le crisi e il modo in cui esse possano essere prevenute

22
al meglio, è considerato un obbiettivo primario, tanto importante quanto lo sviluppo di
dottrine e capacità militari per expeditionary operations, incluse le operazioni di
counterinsurgency (COIN), stabilizzazione e ricostruzione. Altrettanto importante è formare
un’appropriata, seppur contenuta, civilian crisis management capability allo scopo di
interfacciarsi più efficacemente con i partner civili, costruendo sulla base delle lezioni
apprese nelle passate operazioni. Questa capability potrebbe anche essere utilizzata al
fine di pianificare, impiegare e coordinare attività civili fino a che le condizioni non
permettano il trasferimento di tali responsabilità e compiti ad altri attori. Altre sfide
riguardano lo sviluppo della necessaria capacità di addestrare e sviluppare forze locali
nelle zone di crisi, in modo tale che le autorità locali siano in grado di assumere
velocemente la gestione della sicurezza, senza bisogno dell’assistenza internazionale.
Esattamente quanto sta accadendo in Afghanistan con il processo di transizione, iniziato a
metà 2011, e che dovrebbe concludersi nel 2014
Tuttavia, la condivisione dell’intelligence tra sistemi militari è stato sempre un compito
molto arduo, sia a livello internazionale che a quello di diverse agenzie. Condividere
informazioni strategiche con i civili è persino più difficile per i militari, ma di certo è più
semplice che risolvere i problemi inerenti la condivisione delle stesse con civili e militari dei
Paesi partner. Altrettanto difficile è concepire un affidabile sistema di integrazione della
componente civile nella pianificazione militare.
Un esempio ulteriore di quanto problematica sia l’implementazione di questo cambiamento
culturale è dato dal problema di identificare il profilo sulla base del quale selezionare i civili
che debbano essere efficacemente addestrati e schierati con un breve preavviso in Paesi
lontani. Persino più difficile è identificare quale tipo di agenzia dovrebbe farsi carico di una
tale responsabilità. Inoltre, le risorse civili sono raramente disponibili e pronte all’uso su
vasta scala, come sarebbe richiesto per il deployment in tempo di crisi; però questa è la
strada da seguire se si vogliono potenziare le force capabilities secondo il Comprehensive
Approach, e così affrontare con risultati soddisfacenti le crisi presenti e future. Può
richiedere molto tempo e lavoro identificare e schierare risorse civili, perchè il semplice
allestimento di un registro dei volontari civili e degli asset non è di per sè sufficiente.
Nel prossimo futuro il processo di pianificazione dovrà espandersi in modo tale da saper
riunire e gestire le risorse civili, le quali verranno da un crescente numero di diverse fonti.
Pianificare è impossibile se non conosciamo il tipo di risorse civili disponibili, il loro livello
di prontezza e capacità, e di che tipo di sostegno esse necessitano.
L’esperienza dimostra che un’agenzia formalmente istituita per provvedere alla
coordinazione assoluta è spesso un sogno; e che quelle organizzazioni capaci di effettiva

23
reazione rapida sono molto spesso di natura militare. L’esperienza mostra inoltre che
alcune istituzioni potrebbero non essere così entusiaste di avere relazioni con altri attori.
Pertanto, il Comprehensive Approach, lungi dall’essere un’altra dottrina o un altro
concetto, è stato concepito come uno strumento per aprire nuovi spazi e promuovere
nuove partecipazioni. Qualsiasi approccio efficace dovrebbe essere il prodotto di una
moltiplicazione di decisioni. Il pragmatismo è spesso la migliore ed unica via, per quanto
imperfetto possa essere. Altrimenti, forte è la possibilità che il Comprehensive Approach
possa trasformarsi nell’ennesimo insieme di rigide regole mal amalgamate, con il risultato
finale di decrescere, invece di accrescere, il livello operativo di flessibilità e pragmatismo.
A questo proposito, forse non sarebbe la scelta migliore per l’Alleanza Atlantica quella di
offrirsi sempre come il lead coordinator in qualsiasi comprehensive effort.

24
CAPITOLO II
                                   Gli Strumenti di Potere - DIME

§ 2.1 Concetto di Strumenti di Potere

Il concetto di Strumenti di Potere (Diplomatic, Information, Military and Economic - DIME)
è, per sua natura e per sua origine, americo-centrico. Per approfondire la questione sarà
dunque necessario fare riferimento alla dottrina statunitense in materia. Il concetto deriva
direttamente da quello di “instruments of national power” (strumenti del potere nazionale),
dove per “nazionale” ci si riferisce agli Stati Uniti. Infatti, durante la Guerra fredda,
l’acronimo DIME era già usato negli USA come abbreviazione per “diplomatic,
informational, military, and economic instruments of national power”.3 Negli anni ’60 questi
stessi “diplomatic, informational, military, and economic instruments” erano di casa presso
importanti Istituzioni nazionali americane come: State Department, U.S. Information
Agency, Defense Department, U.S. Agency for International Development.
Più recentemente, l’acronimo MIDLIFE —“military, informational, diplomatic, law
enforcement, intelligence, financial, and economic”— ha ottenuto ulteriore credito e
diffusione, come riflesso della maggiore complessità necessaria nei modi e mezzi atti a
perseguire la sicurezza nazionale nel XXI secolo.
La nozione di “instruments of national power” è un’astrazione. Non c’è accordo unanime
su questa terminologia, ma neppure è in atto un serrato dibattito in merito. Più
interessante forse è circoscrivere semanticamente la nozione di Power (Potere). Potere,
nel contesto degli affari internazionali, può essere definito come “l’abilità di influenzare il
comportamento di altri allo scopo di raggiungere un risultato desiderato”. 4 E la Diplomazia
ha la capacità di proiettare il Potere, incluso il potenziale per la guerra. Il lavoro seminale
di Edward H. Carr del 1939 - The Twenty-Years’ Crisis 1919-1939: Introduction to the
Study of International Relations - fornisce un ottimo punto di partenza per quanto concerne
la discussione sugli strumenti del Potere:

3
  DoD Dictionary of Military and Associated Terms. “All of the means available to the government in its
pursuit of national objectives. They are expressed as diplomatic, economic, informational and military.”
http://www.dtic.mil/doctrine/jel/doddict/index.html accessed 26 October 2008.
4
  Edward Hallett Carr, The Twenty-Years’ Crisis 1919-1939: Introduction to the Study of International
Relations (New York: HarperCollins, 1964).
25
“Il potere politico nella sfera internazionale può essere diviso, ai fini della
      discussione, in tre categorie: (a) military power (potere militare), (b) economic
      power (potere economico), (c) power over opinion (potere sull’opinione)… Ma il
      Potere è un tutto indivisibile, uno degli strumenti non può esistere a lungo in
      assenza degli altri”.5

Non sfuggirà al lettore attento un punto interessante. Perché Carr non incluse la
Diplomazia nella sua suddivisione degli strumenti del Potere? Certamente egli ne era
consapevole. Possiamo supporre, basandoci sulla definizione di Potere data da Carr, che
la Diplomazia è l’arte di applicare gli strumenti del Potere, piuttosto che uno dei singoli
strumenti di questo. Lo strumento diplomatico è spesso alternativamente chiamato lo
strumento politico, e Carr in effetti considera il potere politico come suddiviso, diffuso nei
tre strumenti citati. Questa formulazione ci regala l’immagine del diplomatico che negozia
con amici, nemici e neutrali, sempre sostenuto dall’ American military power, economic
power, and power over opinion. E il diplomatico in questione può essere il tradizionale
funzionario del Foreign Service (Dipartimento di Stato) che negozia con i suoi pari
rappresentanti di altri Stati; ma può anche essere un giovane Capitano del Corpo dei
Marine, il quale negozia con un capo villaggio.
É pure degno di nota che Carr menziona il “power over opinion”, piuttosto che il “power of
information”. Come Carr sottolinea, i tre elementi del Potere sono indivisibili e nessuno di
essi può esistere a lungo in assenza degli altri. La successiva sostituzione dello strumento
“power over opinion” con quello denominato “informational instrument of power” fu una
significativa innovazione rispetto ai tempi di Carr, ma non è scontato che ciò sia stato per il
meglio. Il modo in cui gli Stati Uniti usano il loro potere militare ed economico “comunica”
tantissimo, ed influenza la formazione dell’opinione sia interna che internazionale.
Un’opinione (pubblica) interna favorevole rappresenta un saldo potere strategico nelle
mani del Presidente, mentre un’opinione sfavorevole può abbattere un Presidente.
L’opinione della comunità internazionale (questo oggetto misterioso ed indefinito) può
creare opposizione o sostegno per le politiche dell’America. Esiste dunque uno ed un solo
messaggio. Esso è la somma di azioni e parole. Considerare l’information instrument
come un messaggio separato dalle azioni crea contraddizioni, disfunzioni e sfiducia.

5
    E. H. Carr, op. cit., 108.
26
Inoltre, oggi, in questo mondo globalizzato, nessun governo, neanche Washington, è in
grado di controllare l’informazione.
Questa critica all’Information Instrument of power può essere facilmente estesa, per
esempio a livello tattico, ad una sbagliata coordinazione tra le operazioni sul terreno e le
PSYOPS di supporto (Psycological Operations o Comunicazioni Operative, secondo la
Dottrina nazionale). Infatti, i danni maggiori a livello di credibilità - sia per il Comandante
che per tutto il Contingente nazionale in Teatro operativo - spesso derivano proprio dallo
iato, dalla non convergenza tra messaggio ed azione sul campo, ovvero quando il primo
non corrisponde alla seconda. Alcuni credono che le PSYOPS servano semplicemente a
raddrizzare, per così dire, un’azione tattica che non ha avuto gli effetti sperati o si è
dimostrata     controproducente:       per    esempio      un’azione      militare   da    cui    derivi
involontariamente una CIVCAS. Questo tipo di credenza da una parte sopravvaluta le
PSYOPS, conferendo loro quasi un potere magico (inesistente) di risolvere tutti i problemi.
Dall’altra sottovaluta gli effetti negativi verso il Target Audience che percepisce
l’artificiosità del messaggio, il suo carattere subordinato, e pertanto lo giudica come falso
ed ingannevole. Ciò vale anche in situazioni di pesante arretratezza socio-economica e
scarsa alfabetizzazione, come abbiamo potuto constatare nelle aree più povere e rurali
dell’ Afghanistan occidentale (RC-West, AOR del contingente nazionale in Teatro). In
conclusione le PSYOPS, fermo restando il loro carattere di supporto alla missione, devono
poter contare su una certa autonomia nella concezione e nello sviluppo delle campagne di
comunicazione, al fine di essere davvero utili in Teatro Operativo, e servire efficacemente
gli obiettivi della missione.
Certe scuole di pensiero, in particolare quella di Armitage e S. Nye, operano la distinzione
tra hard power e soft power.6 Hard power in sostanza è il potere di coercizione. Vale a dire
la capacità di costringere qualcuno a fare qualcosa grazie alla forza militare o alle sanzioni
economiche; e, secondo alcuni, anche grazie agli inventivi economici, seppur in questo
caso sembrerebbe un po’ forzato parlare di coercizione. Soft power, invece, può essere
definito in breve come il potere di attrarre, o di persuadere qualcuno a fare qualcosa senza
il ricorso alla forza coercitiva. Soft power è molto più simile al power over opinion di Carr,
di quanto lo sia all’ information instrument del DIME. Soft power include pure l’influenza
esercitata all’estero attraverso il commercio privato e le compagnie nazionali, piuttosto che
tramite un diretto impegno governativo. Alcuni erroneamente ritengono che hard power sia
quello delle Forze Armate, mentre soft power sarebbe quello dei dipartimenti ed agenzie

6
 Richard L. Armitage and Joseph S. Nye, Jr., “Implementing Smart Power: Setting an Agenda for National
Security Reform,” a statement before the Senate Foreign Relations Committee, 24 April 2008.
27
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