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Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2011 Il Comprehensive and Integrated Approach: l’utilizzo degli strumenti dell’Alleanza (DIME) nell’ambito dell’Operazione ISAF. Stato dell’arte e prospettive future Direttore della Ricerca Dott. Angeloantonio ROSATO
INDICE CAPITOLO I Concetto di ''Comprehensive and Integrated Approach'' § 1.1 Introduzione al concetto di Comprehensive and Integrated Approach 6 § 1.2 Definizione di Comprehensive and Integrated Approach ed aree di applicazione 8 § 1.3 Considerazioni tratte da una serie di interviste condotte dall’autore a Bruxelles nel luglio 2011 su Comprehensive Approach, COIN e le prospettive future in Afghanistan 10 § 1.4 Comprehensive Approach e Processo di Transizione in Afghanistan 15 § 1.5 Un approccio critico al Comprehensive Approach 18 2
CAPITOLO II Gli Strumenti di Potere - DIME § 2.1 Concetto di Strumenti di Potere 25 § 2.2 Diplomatic Instrument 28 § 2.3 Information Instrument 33 § 2.4 Intelligence Instrument 36 § 2.5 Military Instrument 39 § 2.6 Economic Instrument 40 § 2.7 Developmental Instrument 43 § 2.8 Financial Instrument 44 § 2.9 Law Enforcement Instrument 45 3
CAPITOLO III Punto di situazione in Afghanistan § 3.1 Afghanistan oggi 49 § 3.2 La missione ISAF - NATO a confronto con l’esperienza 51 sovietica in Afghanistan (1979-89) § 3.3 Le influenze esterne: Iran e Pakistan 52 § 3.4 La lezione non appresa dalla storia 54 § 3.5 Proposte e suggerimenti applicabili 57 § 3.6 Scenari 59 CAPITOLO IV Case Study: Herat e l’influenza di Teheran § 4.1 Introduzione storica 62 § 4.2 L’influenza dell’Iran e la via della droga 64 § 4.3 L’influenza di Ismail Khan ed il gioco di Teheran 66 § 4.4 Previsioni 67 § 4.5 Intervista a Oleg Kulakov 68 4
CONCLUSIONI Perché siamo in Afghanistan? 73 Contra COIN 74 Pre-ritiro 76 Strategia e tattica Taliban 78 Post-ritiro 79 Nunc (durante il ritiro) 81 Prospettive future 82 BIBLIOGRAFIA 84 5
CAPITOLO I Concetto di ''Comprehensive and Integrated Approach'' § 1.1 Introduzione al concetto di 'Comprehensive and Integrated Approach' “Il Comprehensive Approach non solo è logico – è necessario,” afferma il Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen. “La NATO ha bisogno di lavorare a più stretto contatto con i nostri partner civili sul terreno ed a livello politico – in particolare con l’Unione Europea e le Nazioni Unite”.1 L’effettiva implementazione di un Comprehensive Approach – continua il Segretario Generale della NATO – richiede che tutti gli attori contribuiscano con uno sforzo congiunto, basato su un sentimento comune di responsabilità, apertura e determinazione, tenendo in considerazione i loro rispettivi ruoli, mandati e forze, come pure la loro autonomia decisionale. Sin dalla decisione, presa dalla NATO al Bucarest Summit del 2008, di sviluppare il “Comprehensive Approach Action Plan”, l’Alleanza non ha mai smesso di migliorare i suoi strumenti di crisis management ed ha rafforzato la sua capacità di lavorare con i Paesi partner, le organizzazioni internazionali, le organizzazioni non-governative (NGO) e le autorità locali. In particolare, sempre secondo Rasmussen, la NATO sta costruendo strettissime partnerships con attori civili che hanno esperienza ed abilità in aree quali institution building, sviluppo, governance, settore giudiziario e polizia. Il nuovo Concetto Strategico della NATO, adottato al Lisbon Summit del Novembre 2010, sottolinea che le lezioni apprese dalle operazioni a guida NATO mostrano che una efficace crisis management richiede un Comprehensive Approach che coinvolga strumenti politici, civili e militari. Gli Alleati si sono persuasi che i mezzi militari, per quanto essenziali, non sono sufficienti da soli ad affrontare le numerose e complesse sfide alla sicurezza Euro- Atlantica ed internazionale. I leader dell’Alleanza a Lisbona hanno convenuto sulla necessità di migliorare il contributo della NATO ad un Comprehensive Approach nei 1 Cfr. A ''Comprehensive Approach'' to crisis management, in sito web ufficiale della NATO - www.nato.int (Last updated: 13-Apr-2011). 6
confronti delle crisis management, come parte dello sforzo della comunità internazionale, e di aumentare la capacità della NATO per contribuire ai processi di stabilizzazione e ricostruzione. Per approfondire la relazione tra nuovo Strategic Concept e Comprehensive Approach, l’autore ha intervistato il 13 luglio ’11, a Bruxelles, presso l’HQ dell’Alleanza Atlantica, Lorenz Meyer-Minnemann, esperto della NATO presso la Divisione Affari Politici e Politica di Sicurezza: “In occasione del Lisbon Summit, si è ammesso ufficialmente che l’Alleanza Atlantica può trattare problemi non strettamente militari. A tal fine deve necessariamente dotarsi di efficaci civilian capabilities”. Sulla questione restano scettici soprattutto i Francesi (da non molto rientrati nell’organizzazione militare della NATO): a parer loro l’Alleanza non dovrebbe occuparsi di ciò che non è capace di fare. “Ma come portare le civilian capabilities nella NATO?- si domanda Meyer-Minnemann - La strada scelta dall’Alleanza è di affittare le National civilian resources dei Paesi membri. È stato così creato un meccanismo chiamato Compass, acronimo che significa ‘Comprehensive Approach Specialist Support’. Si tratta di un data-base, un roster di esperti da cui attingere per le missioni in cui occorreranno civilian capabilities. Non sarà la NATO a selezionare direttamente questi esperti, ma sarà l’autorità dei singoli Paesi membri”. Chiediamo a Meyer-Minnemann per quale scopo la NATO deve dotarsi di civilian capabilities: “La Nato deve dotarsi e sviluppare le civilian capabilities al fine di realizzare compiutamente il Comprehensive Approach”. Segue una serie di Questions & Answers (Q & A) rivolte dall’autore all’esperto NATO Meyer-Minnemann: “Q-Quale l’utilizzo pratico delle civilian capabilities da parte della NATO? 7
A-L’Alleanza deve essere preparata ad utilizzare prontamente le civilian capabilities, nel caso in cui gli altri attori internazionali (EU, ONU ecc) non vogliano/possano immediatamente farlo da sé. Q-Che tipo di civilian capabilities la Nato dovrebbe sviluppare? A-Le civilian capabilities in grado di realizzare la stabilizzazione e la ricostruzione del Paese/regione dove si svolge la missione. Q-Quando queste civilian capabilities della NATO saranno operative? A-Ci sono tre fasi al riguardo: 1. pianificazione e creazione del roaster Compass (agli inizi, estate ’11) 2. integrare i pianificatori civili nel sistema decisionale e di pianificazione della NATO (due anni a partire dall’estate ’11) 3. accedere alle civilian capabilities dei Paesi membri. § 1.2 Definizione di Comprehensive and Integrated Approach ed aree di applicazione Come possiamo definire in sintesi il Comprehensive and Integrated Approach? Esso è una struttura, uno strumento concettuale che può essere usato per rinforzare la coordinazione degli obiettivi e delle attività da parte dell’Alleanza e dei suoi partner, identificando, analizzando, pianificando ed eseguendo risposte onnicomprensive e coerenti a situazioni complesse. Infatti, post-operational analysis di situazioni e crisi che si sono verificate negli ultimi 20 anni in varie parti del pianeta, hanno dimostrato il valore e l’efficacia di un approccio olistico, congiunto e multidisciplinare al fine di ottenere risultati auspicati e duraturi. Lo sviluppo e l’implementazione del contributo della NATO ad un Comprehensive Approach è uno sforzo di lungo periodo. L’Alleanza sta lavorando al fine di realizzare miglioramenti in diverse aree-chiavi di lavoro. Vediamo ora alcune di queste key-area di applicazione del Comprehensive Approach: 8
Pianificazione e condotta delle operazioni L’Alleanza si prende carico di tutti gli aspetti militari e non-militari di un NATO engagement, e sta lavorando per migliorare la cooperazione pratica a tutti i livelli con tutti gli attori e le organizzazioni rilevanti nella pianificazione e condotta delle operazioni. Il lavoro odierno della NATO nell’area dell’Operations Planning promuove la condivisione di scopi e di determinazione a raggiungerli, la chiara definizione di strategie ed obiettivi prima di lanciare un’operazione, come pure l’attenta pianificazione al fine di supportare il contributo nazionale alle operazioni. Gli Alleati concordano che, come regola generale, stabilizzazione e ricostruzione sono meglio realizzate da quegli attori ed organizzazioni che posseggono gli adeguati mandati, expertise e competenza. Tuttavia, ci possono essere delle circostanze tali da impedire a questi attori di assolvere ai suddetti compiti, o di assolverli senza il sostegno della NATO. Pertanto al Summit di Lisbona, I Paesi membri hanno deciso che l’Alleanza debba avere la capacità di pianificare, impiegare e coordinare le risorse sia civili che militari che le nazioni forniscono per missioni NATO di crisis management. Al fine di migliorare il contributo dell’Alleanza ad un Comprehensive Approach e l’abilità della NATO a contribuire, quando richiesto, alla stabilizzazione e ricostruzione, gli Alleati hanno concordato di costituire un’appropriata ma limitata civilian capability allo scopo di interfacciarsi più efficacemente con altri attori e condurre un’appropriata pianificazione in ambito di crisis management. Lezioni apprese, addestramento, istruzione ed esercitazioni Applicare un Comprehensive Approach significa un cambio di mentalità. L’Alleanza pertanto sta enfatizzando la necessità di addestramento ed esercitazioni congiunti di personale civile e militare. Ciò promuove la condivisione delle lezioni apprese ed inoltre aiuta a costruire fiducia tra la NATO, i suoi partner ed altri attori locali ed internazionali. Questo a sua volta favorisce una migliore coordinazione. Migliorare la cooperazione con gli attori esterni Raggiungere intesa, fiducia e rispetto duraturi e comuni tra i rilevanti attori ed organizzazioni renderà i loro rispettivi sforzi più efficaci. Pertanto, la NATO sta attivamente costruendo stretti legami e solide collaborazioni con i più importanti attori ed organizzazioni, nel rispetto dell’autonomia decisionale di ciascuna organizzazione. 9
Comunicazione pubblica Al fine di essere efficace, il Comprehensive Approach deve essere completato da messaggi coerenti e costanti indirizzati verso il pubblico. Le campagne di comunicazione della NATO (tra cui la cosiddetta Public Diplomacy) dovrebbero essere sostenute da un flusso sistematico ed aggiornato di informazioni, le quali documentino il progresso in aree rilevanti. È importante assicurare che le strategie di comunicazione dei principali attori siano complementari e non contraddittorie, il che può essere facilitato da diretti contatti tra i responsabili della comunicazione pubblica.2 § 1.3 Considerazioni tratte da una serie di interviste condotte dall’autore a Bruxelles nel luglio 2011 su Comprehensive Approach, COIN e le prospettive future in Afghanistan Nelle prossime pagine riportiamo alcuni giudizi di esperti e funzionari di organizzazioni internazionali rilevanti per il discorso in oggetto, intervistati nel luglio ’11 dall’autore a Bruxelles ed a Roma sul Comprehensive Approach, la COIN e gli sviluppi futuri in Afghanistan. All’inizio di ogni intervista, in sottolineato, il nome dell’esperto intervistato, l’organizzazione di appartenenza e la data dell’intervista. Bettina Muscheidt, EU - desk AFG, 11 luglio 2011: Chiediamo alla funzionaria comunitaria Bettina Muscheidt un commento ed un giudizio sul Comprehensive Approach dal punto di vista della cooperazione civile-militare EU-NATO in Afghanistan. Afferma la Muscheidt: “La strategia EU in Afghanistan si chiama ‘Afghan Development Strategy’. La EU non è parte della strategia NATO in Afghanistan”, ovvero della strategia COIN. La EU focalizza la sua azione sull’ Institutions/nation building in Afghanistan, sin dal 2002. I settori prioritari dell’impegno EU in Afghanistan sono tre: - Governance, rule of law - Agriculture - Health”. 2 Cfr. A ''Comprehensive Approach'' to crisis management, in sito web ufficiale della NATO - www.nato.int (Last updated: 13-Apr-2011). 10
Di che tipo è l’approccio EU in Afghanistan per il futuro? “L’approccio EU in Afghanistan – risponde la Muscheidt - è di lungo periodo. La nuova fase di impegno della Unione durerà considerevolmente (2014-2021). La coincidenza con la data del definitivo ritiro della NATO dal Paese asiatico (2014) è solo un caso. L’impegno EU si concentra nel Nord e nell’Est del paese asiatico”. Shada Islam, Head of Asia Program, Friends of Europe, 11 luglio ‘11 Il giudizio di Shada Islam - esperta di Afghanistan e Pakistan, Head of Asia Program, Friends of Europe – è molto critico sulla gestione della missione Afghanistan. “Finalmente è arrivato il Comprehensive Approach!. Sin dall’inizio, c’è stata molta confusione sulle finalità della missione in Afghanistan. Anche per quanto riguarda il Comprehensive Approach, sono stati commessi molti errori, sin dagli esordi. Per esempio, una scarsa coerenza nel messaggio da parte della Coalizione, che non è mai stato chiaro ed univoco”. La strategia di transizione della NATO è di addestrare le Afghan National Security Forces (ANSF) in modo tale che possano assicurare da sole la sicurezza dell’ Afghanistan, dopo il ritiro della NATO. Ma, secondo Shada Islam, “se si costruisce un forte esercito in Afghanistan, si avrà come risultato finale un altro Pakistan”, intendendo con ciò uno Stato con istituzioni politiche civili assai deboli, corrotte, il cui ruolo e funzioni vengono svolti di fatto dalle Forze armate. Il risultato finale è la fine del regime democratico nel Paese. Resta da vedere se un periodo transitorio di regime autoritario centralizzato possa essere davvero un male per l’Afghanistan, vista la situazione di caos, insurgency e incipiente guerra civile di quello che ormai è uno Stato narco-feudale ovvero un non-Stato. Ecco quello che manca alla strategia NATO in Afghanistan, secondo Shada Islam: - “Civilian leadership / society - istruzione - coordinamento tra i Paesi donatori”. 11
Secondo l’esperta di Friends of Europe, “Il problema chiave è la corruzione. Il 2014 sarà l’anno in cui si completerà la transizione dei poteri e delle responsabilità agli afghani: “è necessario focalizzare gli sforzi su quella che possiamo definire civilian surge”. Il riferimento è chiaramente, in chiave critica, alla military surge ordinata dal presidente Obama qualche tempo fa al fine di spezzare il momentum dei Taliban; con quale successo resta ancora da vedere. Secondo Shada Islam, I tre problemi dell’Afghanistan più importanti per il prossimo futuro sono i seguenti: - “leadership inadeguata e corruzione; è necessario accrescere la pressione su Karzai allo scopo di risolvere tali questioni; - occorre un’espansione della società civile (civilian surge); - le potenze della regione non saranno mai in grado di gestire la situazione dopo il ritiro della NATO, quindi la regionalizzazione del problema afghano non è una soluzione realistica”. La posizione della Cina merita particolare attenzione a parere di Shada Islam: “Pechino è preoccupata dall’espansione dell’islamismo radicale per via del suoi problemi interni nel Turkestan cinese con la minoranza uigura. Dall’altra parte la Cina è interessata alle risorse minerarie dell’Afghanistan”. Nick Grono, International Crisis Group, 11 luglio ‘11 Nick Grono, esperto della ONG International Crisis Group, è ancora più critico nel suo giudizio sulla gestione della missione AFG: “Il problema principale in Afghanistan per la coalizione è la mancanza di Institutional building”. Grono esprime una velata critica alla strategia NATO della Transition dei poteri e delle responsabilità a ANSF: “troppo focus su Esercito e Polizia, mentre non ci si è concentrati abbastanza sullo Stato di Diritto, la riforma del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione.” In sostanza, secondo l’esperto dell’ International Crisis Group, “la NATO non ha una strategia coerente in Afghanistan”. 12
Che cosa dovrebbero fare allora in Afghanistan la NATO e gli Stati Uniti? Grono ribadisce i concetti su espressi, ed aggiunge: “probabilmente ormai è troppo tardi, avremmo dovuto agire molto tempo addietro, nel 2002”. In conclusione, per Nick Grono, il rischio di una nuova guerra civile dopo il ritiro delle truppe NATO nel 2014 “è lo scenario più probabile”. Funzionario NATO, Bruxelles, 12 luglio ‘11: Abbiamo chiesto un giudizio sul Comprehensive Approach ad un funzionario NATO, esperto della questione, il quale preferisce mantenere l’anonimato. Di seguito egli traccia un elenco delle negatività e positività del Comprehensive Approach applicato in Afghanistan: “Comprehensive Approach, negatività: - corruzione rampante - relazioni future triangolari AFG-USA-PAK - sostenibilità finanziaria e supporto NATO a ANSF nel lungo periodo. Comprehensive Approach, positività: - unità di intenti della comunità internazionale - colpi assestati ai Taliban da parte della NATO, negli ultimi tempi - crescita quantitativa/qualitativa delle ANSF. Queste sono le Istituzioni internazionali che, a parere del funzionario NATO di cui sopra, hanno pure un ruolo importante in Afghanistan, nella cornice del Comprehensive Approach: - Banca Mondiale (WB; ma la World Bank non sblocca i fondi per l’Afghanistan, a causa del recente scandalo finanziario della Banca di Kabul) - International Monetary Fund (IMF) - United Nations (UN). 13
Altre note positive nel rapporto NATO-AFG: - impegno continuativo della NATO verso l’Afghanistan - assistenza alla creazione di una military leadership afgana con obiettivo finale la Defense Reform - training e mentoring delle ANSF - emergency planning - sostegno al “dialogo politico” tra Afghanistan e Pakistan. Tuttavia anche il funzionario NATO evidenzia il pericoloso parallelo Pakistan/Afghanistan, già evidenziato da Shada Islam, circa il possibile ruolo futuro dell’esercito nel sistema politico afgano: “Occorre però segnalare il rischio di uno scenario PAK per AFG, ovvero una militarizzazione dello Stato, a scapito delle gracili istituzioni democratiche afgane; uno scenario di Stato afgano con un esercito molto forte, versus strutture civili deboli”. Ancor una volta viene da chiedersi se ciò sia davvero da ritenere un male, considerando la situazione presente dell’Afghanistan e quella più probabile dopo il ritiro della NATO (e degli USA) nel 2014. È davvero negativo uno scenario afgano caratterizzato da un forte Stato centralizzato ed a forte componente militare? Oppure, come nel caso del Pakistan, esso potrebbe essere l’unico argine contro la dissoluzione dello Stato?. Il rischio post- 2014 è infatti uno scenario di failing State come è accaduto in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989. Questo failing State può essere definito Stato narco – feudale. Rimandiamo ad un capitolo successivo del presente lavoro per un approfondimento degli elementi costitutivi dello Stato narco – feudale e per meglio individuare come potrebbe (e dovrebbe) essere uno scenario afgano caratterizzato da uno Stato centralizzato ed a forte leadership militare. Megan Million, già NATO Media Operarions Center, Bruxelles, 13 luglio ‘11 Megan Million, esperta di Transition, già NATO Media Operations Center (MOC), dall’estate ’11 in prestito all’UNAMA di Kabul, traccia un quadro dell’AFG Transition; questi sono, a suo giudizio, gli elementi più importanti per avere successo: 14
- mentoring & training: OMLT (ANA), POMLT (ANP) - Special Forces: blitz, azioni “mordi e fuggi”. Da sottolineare – continua l’esperta Megan Million - l’enorme massa di denaro confluita in Afghanistan in questi anni: nel solo 2010, 40 miliardi USD. Eppure i risultati non corrispondono alla quantità di denaro e risorse investiti, almeno finora. Megan Million, infine delinea uno scenario bicefalo circa la Transition post 2014: - “Opportunity: la transizione avviene correttamente, e gli Afghani prendono la guida del loro Paese, riuscendo a sconfiggere l’insurgency, oppure - Risk: di nuovo guerra civile”. § 1.4 Comprehensive Approach e Processo di Transizione in Afghanistan Alto funzionario NATO nel corso di una conferenza tenutasi a Bruxelles, 13 luglio’11 Riportiamo i commenti sul Comprehensive Approach e sulla Transition espressi da un alto funzionario NATO nel corso di una conferenza tenutasi a Bruxelles nel luglio 2011. La conferenza si è svolta sotto la Chatham House Rule, quindi non può essere pubblicato il nome del funzionario di cui sopra. Le prossime tappe importanti per fissare i successivi step della Transition, da parte della NATO e della comunità internazionale, saranno le seguenti: - Instanbul, novembre ‘11 - Bonn, dicembre ’11. Ecco alcune dichiarazioni dell’alto funzionario NATO circa il Comprehensive Approach: - “Occorre impiantare un Comprehensive & Stability Approach. - Bisogna mettere in piedi un Comprehensive Approach - n. 2; forse questo sarà un film migliore (a better movie). - Abbiamo commesso degli errori, perso tempo. Ma ora ci è chiaro cosa dobbiamo fare”. 15
Morten F. Henriksen / Rob Ayasse, Operations Division, NATO, 13 luglio ‘11 I due esperti - Morten F. Henriksen e Rob Ayasse dell’Operations Division, NATO - tracciano una differenza fondamentale tra COIN e Comprehensive Approach: “La COIN è diretta da una sola entità, cioè la NATO. Invece, il Comprehensive Approach è diretto (teoricamente) da tutta la comunità internazionale”. Ci sarà una divisione del lavoro dopo il 2014 (anno del ritiro della NATO)? Secondo Henriksen, “ciò non avverrà perché non ci sarà l’attuale leadership assicurata dall’Alleanza atlantica”. Queste sono le lezioni apprese dalla NATO in Afghanistan, secondo Henriksen e Ayasse dell’Operations Division, NATO: - “mai più una missione boots on the ground a lunga scadenza, tipo ISAF. - Sì, invece, a missioni stile Libia – 2011. Ovvero una missione che prevede task leggeri tipo: imposizione di una ‘no fly zone’, bombardamenti aerei o navali, sostegno alle truppe locali a terra, ma senza nessun soldato NATO boots on the ground sul suolo libico”. Insomma, la nuova strategia NATO è di starsene in aria o in mare ed evitare il coinvolgimento boots on the round, come si è fatto invece in Afghanistan. Questo schema sarà sempre possibile in futuro? Come implementare operazioni di peacekeeping o addirittura di peace enforcing senza mai schierare soldati NATO sul terreno? Tutte queste domande restano per ora senza risposte, oscurate dal presente successo in Libia. Ma presto, alla prossima grave crisi, torneranno prepotentemente. Il futuro delle missioni NATO sarà caratterizzato, secondo i due esperti NATO Henriksen e Ayasse da questi elementi fondamentali: - espandere l’abilità di schierare military trainers (addestratori militari) per le attività di mentoring delle forze locali - mantenere e sviluppare la capacità di Rapid Reaction Force. 16
Come si dovrebbe concretizzare in pratica il Comprehensive Approach in Afghanistan? “Esso – continuano Henriksen e Ayasse - si realizzerà da qui (2011) fino al 2014 (anno del ritiro della NATO).” Il processo di transizione, ceteris paribus e se tutto andrà bene, si dovrebbe realizzare con queste modalità: “mentre la NATO progressivamente ritira dall’Afghanistan le sue truppe, la UE e le Nazioni Unite progressivamente accrescono il loro civilian engagement nel Paese asiatico. I PRT (Provincial Reconstruction Team) saranno smantellati, ma aumenteranno gli sforzi, le azioni civili per la ricostruzione grazie alle Nazioni Unite, le NGO, la UE, i singoli Paesi della coalizione internazionale. In questo contesto gli Afgani, ossia le Afghan National Security Forces (ANSF) provvederanno alla sicurezza degli esperti civili internazionali, oltre che a quella del Paese in generale”. Secondo questo scenario ottimistico, per esempio, “le truppe italiane andranno via, ma resteranno, anzi aumenteranno, gli esperti civili italiani. Se la sicurezza fornita dalle ANSF non sarà sufficiente, ci penseranno i contractor civili”. Presumibilmente si tratterà di warlord militia ed ex militari NATO, molto ben pagati per fare le stesse cose che facevano prima con la divisa. L’ottimistico scenario di Henriksen e Ayasse appare alquanto irrealistico ed artificioso. Infatti, è improbabile che nel 2014, cioè tra pochissimo, l’Afghanistan sarà pacificato, il governo afgano e le ANSF saranno in grado di assicurare la governance e la sicurezza del Paese. Lo scenario prefigurato dagli esperti NATO Henriksen e Ayasse ricorda una specie di gigantesco outsourcing per cui la governance e la ricostruzione dell’Afghanistan saranno sempre più affidati a esperti civili delle nazioni Unite e della UE, mentre la sicurezza sarà di fatto compito di contractor profumatamente pagati; o peggio sarà affidata alle stesse warlord militia che da tempo terrorizzano e taglieggiano la popolazione civile afgana. Questa è la ricetta per un piatto che risulterà molto indigesto per gli Afghani. E di certo aumenterà la popolarità dei Taliban, non la nostra. Alla fine la domanda più importante resta questa: l’Afghanistan post-2014 sarà caratterizzato da un instabile equilibrio basato sulla malafede di un fragile accordo di pace tra governo e Taliban, negoziato frettolosamente dagli Americani, ansiosi di chiudere la partita? L’Afghanistan resterà un failing State, un Paese sempre sull’orlo dell’abisso, sommerso di contractor ed esperti civili stranieri profumatamente pagati per condurre 17
processi di ricostruzione etero-diretti, con scarsa attenzione per i veri bisogni della popolazione? Oppure semplicemente scoppierà di nuovo la guerra civile e l’Afghanistan da failing State diventerà definitivamente e tout cour un failed State, modello Somalia con elementi messicani (narcos), una MesSomalia sull’Hindukush. § 1.5 Un approccio critico al Comprehensive Approach Riportiamo di seguito un riassunto dell’intervista, realizzata dall’autore nella primavera del 2011, all’esperto di relazioni transatlantiche Lucio Martino sul Comprehensive Approach alla luce del nuovo Concetto Strategico della NATO, ufficializzato nel Summit di Lisbona (autunno 2010). Le questioni inerenti lo Strategic Concept 2010 della NATO sono numerose e problematiche. Il Concetto Strategico introdotto nell’autunno 2010 nel corso del Summit NATO di Lisbona ha istituito un “Comprehensive Approach” quale componente vitale di qualsiasi presente e futura operazione di crisis management. Ha stabilito inoltre alcuni requisiti specifici inclusa l’organizzazione di attività civili oggi parificate alle attività militari. Il Segretario Generale Rasmussen ha salutato il nuovo Concetto Strategico con ottimismo, così forse sottostimando i problemi associati con la creazione di tali capacità. Per essere credibile l’Alleanza deve affrontare e risolvere significativi problemi strategici, tattici e operativi, specialmente per quanto concerne la cooperazione con e tra differenti operatori civili. In breve, al di là delle belle parole, l’enorme complessità e la forte ambiguità insite nelle molte dimensioni di quello che è stato definito un profondo e vasto cultural change che attraversa la sfera politica, diplomatica, giuridica ed amministrativa, oggi solleva crescenti domande sull’efficacia di tale nuovo approccio operativo. Secondo un’opinione molto diffusa, questo nuovo approccio operativo deve ancora essere definito. Il bisogno di sviluppare capacità civili al fine di bilanciare, o addirittura sostituire, capacità militari è il risultato dell’impiego di strumenti militari in condizioni operative, e per scopi molto differenti da quelli immaginati al tempo della pianificazione originaria. La pianificazione di lungo periodo è uno strumento essenziale per una organizzazione che deve avere a che fare con l’incertezza e che è caratterizzata da una relativamente scarsa flessibilità circa l’impiego delle risorse. Per la Nato la pianificazione è diventata assai 18
complessa. Finiti i tempi della pianificazione caratterizzata da una singola dominante minaccia, e degli aggiustamenti di breve periodo al fine di capitalizzare sulle nuove tecnologie, il planning dei nostri giorni richiede un approccio molto più lasco allo scopo di risolvere varie sfide. Pertanto, l’Alleanza ha definito ed implementato nuovi processi di pianificazione di grande portata nel tentativo di realizzare una cornice entro cui armonizzare le defense planning activities. A questo scopo, il defense planning process è stato organizzato secondo un alto livello di flessibilità. Il processo è per definizione modulato sulle capacità di medio termine, ma allo stesso tempo rimane aperto ad impreviste esigenze derivanti dalle attuali operazioni. Tale processo è oggi una sofisticata scenario-based analysis in cinque stadi, i quali sono generalmente sequenziali per loro natura. Il primo consiste nel fissare una political guidance, al fine di assicurare che l’insieme degli obiettivi siano sincronizzati con i fini politici e militari stabiliti dall’Alleanza e dagli staff nazionali. Il secondo è definire cosa dovrebbe essere fatto in termini di capacità qualitative e quantitative. Il terzo stadio riguarda l’assegnazione di requisiti e lo stabilire obiettivi secondo un leale burden sharing. Il quarto è facilitare l’implementazione delle capacità necessarie attraverso il monitoraggio dell’implementazione nazionale. Infine, il processo revisiona se e come sono stati raggiunti gli obiettivi stabiliti nelle political guidance e nei target associati. Lo scenario - thinking è oggi più che mai un elemento fondamentale di qualsiasi supporto analitico al capability planning. Tuttavia, questo tipo di analisi è spesso fuorviante, perchè l’interpretazione di cosa è uno scenario differisce a seconda degli attori e delle nazioni; inoltre crea confusione perché, essendo una metodologia, privilegia incertezze invece di certezze. La pianificazione di lungo periodo è uno strumento molto potente solo quando la natura del rischio è ben compresa. Pertanto, sviluppare scenari multipli è la metodologia preferibile quando si ha a che fare con un futuro incerto. Le questioni ed i possibili problemi che si possono affrontare con le valutazioni scenario- based sono molti. Grande è il rischio di un approccio ex post, ovvero di proiettare nel futuro ciò che avrebbe funzionato al meglio nel passato. Soprattutto, la inter-agency coordination è quella che presenta le maggiori sfide. Dunque una stretta cooperazione tra pianificatori civili e militari è importante sin dalle prime fasi di qualunque processo di pianificazione. Dato il lungo ciclo che richiede l’implementazione di una nuova force structure, in parte dovuto ai considerevoli tempi di sviluppo ed acquisizione, qualsiasi planning process di solito è proiettato dai 10 ai 30 anni nel futuro. Così descritta, la pianificazione è un affare complicato, aggravato da significative e forse gravi conseguenze. Il ritmo del progresso 19
scientifico e tecnologico e la complessità dell’ambiente internazionale rendono la pianificazione ancora più complessa. Costretti a vedersela con un limitato budget per la Difesa, un ampio spettro di minacce, complessi problemi interni e un sempre più complicato security environment che produce le istanze più disparate, i decision-maker hanno bisogno di un sostegno sofisticato nel planning process. Inoltre, una efficace planning capability permette una reazione rapida ed appropriata agli eventi, specialmente se gli asset garantiti da un tale processo sono appropriatamente sfruttati. Tuttavia, non c’è niente di sorprendente circa l’emergenza di nuove minacce e sfide elencate nello Strategic Concept 2010. La questione è semplicemente questa: la velocità con la quale tali minacce si manifestano è tale da mettere a rischio il planning process dell’Alleanza? In altre parole, la domanda è se questi fatti rappresentano discontinuità storiche oppure dei semplici sviluppi di eventi. Inoltre, I Paesi membri stanno affrontando profondi cambiamenti sociali, i quali possono avere l’effetto di cambiare le dinamiche delle loro relazioni reciproche, ed infine mettere a rischio l’efficacia della stessa NATO. Le crisis management operation sono uno strumento particolarmente utile per affrontare le minacce che emergono da un momento storico che è il prodotto di un’intersezione tra la classica dottrina del libero mercato e l’impatto rivoluzionario delle fast communications. La globalizzazione ha contribuito a costruire benessere su una scala mai vista prima d’ora. Ma l’Europa e l’America si stanno avvicinando al limite della pubblica tolleranza a causa delle difficoltà create dal nuovo sistema economico. Nell’affrontare le nuove sfide, nessuna singola soluzione è una risposta decisiva. Nessuna singola istituzione è adeguata come base per un efficace management. Un tale set di minacce in perenne mutazione ha forzato la Difesa e gli apparati della Sicurezza ad implementare cambiamenti importanti. Lo spettro dei compiti si è esteso. Se il tradizionale peacekeeping focalizzava su containment e riduzione dell’escalation militare, l’odierno crisis management punta alla trasformazione sociale, politica ed economica al fine di implementare una ‘comprehensive conflict resolution’. I compiti ora si estendono da aiuto umanitario e protezione fisica degli individui, fino alla creazione di strutture socio- economiche stabili e sostenibili. Inoltre, i limiti temporali si sono espansi. In termini concettuali e pratici, il crisis management si estende oggi da una fase iniziale di prevenzione dei conflitti fino a comprendere intervento umanitario, peace building, peacekeeping, e post conflict management. Il crisis management è ulteriormente complicato dal bisogno di gestire la congiunzione tra le differenti fasi che spesso finiscono per sovrapporsi. Infine il numero di attori coinvolti si è espanso in modo significativo. Ciò è 20
parzialmente dovuto allo spettro allargato di compiti insiti nelle varie fasi del crisis management, che richiedono specifici strumenti ed expertise che nessun singolo attore è capace di fornire da solo. Coinvolgendo vari attori, statuali e non, la legittimità politica di ogni impegno internazionale aumenta. Questo si applica a qualsiasi gruppo politico, religioso, etnico, sociale. Pertanto la coordinazione interna ed esterna di tutti gli strumenti disponibili, il loro puntuale ed appropriato uso nelle varie fasi del conflitto, e la chiarificazione dei comuni obbiettivi della missione, è divenuto di primaria importanza al fine di ottenere una risposta efficace alle crisi (successful crisis response). In questo contesto l’Alleanza Atlantica ha riconosciuto il bisogno di un approccio più sofisticato, più esteso sia nel suo campo di applicazione che nelle sue risorse. Con l’accettazione della “Comprehensive Political Guidance”, l’Alleanza Atlantica ha fissato nel Comprehensive Approach il suo programma per una pianificazione che includa tutti gli aspetti civili e militari dell’engagement. Una prova dello straordinario sforzo compiuto a questo scopo è data dal lancio di un gran numero di esercitazioni e studi. Dato che l’Alleanza non ha (ancora) rilevanti civilian capabilities, accrescere la cooperazione esterna con attori civili ed altre organizzazioni internazionali è diventata una ‘top priority’. Tuttavia, sia al livello concettuale che a quello dell’implementazione, il Comprehensive Approach pone sfide facilmente sottostimabili. Alto è il pericolo di aumentare il livello di complessità operativa oltre qualsiasi capacità di controllo fattivo, mentre l’assenza di un singolo modello emergente condiviso e coerente è sia un pericolo che un’opportunità. Mentre la maggior parte degli autori oggi riconosce la necessità di migliorare coordinazione e sforzi collettivi, i loro approcci divergono significativamente per quanto concerne priorità, mezzi ed auspicati end state delle crisis management. Una tale frammentazione minaccia direttamente le prospettive di strategie comuni. Obiettivi ed interessi divergenti facilmente danno vita ad interazioni conflittuali tra agenzie, attori e task. La cooperazione tra differenti attori è spesso complicata dall’incompatibilità circa gli obiettivi e le culture organizzative. Per quanto concerne le organizzazioni militari, le differenze tra le regole nazionali di ingaggio nelle operazioni di peacekeeping sono importanti, ma esse non sono meno importanti delle differenze riguardo alle culture militari tra servizi nazionali e multinazionali. A proposito della sfera civile, l’interazione delle attività combinata con obiettivi divergenti relativi alla protezione dei diritti umani, le riforme politiche e lo sviluppo economico frequentemente generano conflitti riguardo a responsabilità, risorse e ordine gerarchico. Come conseguenza, si sono sviluppate differenti culture del ‘Comprehensive Approach’ a livello nazionale ed internazionale. 21
Sono conciliabili queste diverse culture del comprehensive approach? A quale prezzo? Il gioco vale la candela? A tutte queste domande solo il tempo potrà dare risposta. È opinione di alcuni esperti che l’attuazione del Comprehensive Approach è stata parzialmente un successo grazie alla creazione di una costellazione di Provincial Reconstruction Team (PRT), come si è fatto in Iraq ed Afghanistan. Tali entità sono concepite allo scopo di fornire sicurezza e facilitare la ricostruzione a livello locale. Tuttavia a volte la composizione dei PRT è incoerente, i loro obiettivi e mezzi sono considerevolmente divergenti. Fino ad un certo punto questo riflette la necessità di adattarsi ai bisogni specifici dell’ambiente locale, ma per la maggior parte ciò è dovuto alla credibilità ancora piuttosto limitata, della forza militare come partner cooperativo, agli occhi delle ONG operanti in loco, per esempio. Fino ad oggi, questi nuovi approcci hanno mostrato una performance quanto meno ambigua. Divergenti culture organizzative e risorse disponibili hanno realmente limitato l’armonizzazione ed il miglioramento di qualsiasi efficienza operativa. Oltre ciò, mutamenti sistemici per assicurare un Comprehensive Approach hanno occasionalmente richiesto un largo impiego di tempo e denaro, infiammando così gli inevitabili scontri che scaturiscono dalla resistenza delle diverse agenzie (ed all’interno delle stesse) contro la riallocazione di potere e risorse. Come accade in ogni processo di trasformazione, l’implementazione di un nuovo approccio è difficile da mettere in pratica. Il cambiamento delle pratiche, dei privilegi e delle strutture amministrative tradizionali tipici di un’organizzazione istituzionalizzata, in nome di concetti astratti come coerenza ed efficienza, è assai difficile da realizzare. Comunque, fintanto che il crisis management è percepito come uno strumento appropriato (nonché una finalità condivisibile), non c’è alternativa alla ricerca di un Comprehensive Approach. L’ultima revisione del Concetto Strategico (2010, Summit di Lisbona) e la re-integrazione della Francia nella struttura militare dell’Alleanza, prese insieme, rappresentano delle buone chance per una migliore implementazione del Comprehensive Approach, secondo lo spirito originario in cui fu concepito nel 2006. Da allora un enorme capitale politico è stato speso per assicurare che una nuova politica del crisis management fosse posta in cima al nuovo Concetto Strategico. In effetti, il bisogno di un “comprehensive cultural change” è chiaramente dichiarato nel documento ufficiale del 2010, ma accrescere l’efficacia del nuovo approccio attraverso la sua istituzionalizzazione nelle dottrine e strutture operative è un compito molto arduo. Nel contesto di un tale cambiamento, apprestare procedure di condivisione dell’intelligence al fine di prevedere le crisi e il modo in cui esse possano essere prevenute 22
al meglio, è considerato un obbiettivo primario, tanto importante quanto lo sviluppo di dottrine e capacità militari per expeditionary operations, incluse le operazioni di counterinsurgency (COIN), stabilizzazione e ricostruzione. Altrettanto importante è formare un’appropriata, seppur contenuta, civilian crisis management capability allo scopo di interfacciarsi più efficacemente con i partner civili, costruendo sulla base delle lezioni apprese nelle passate operazioni. Questa capability potrebbe anche essere utilizzata al fine di pianificare, impiegare e coordinare attività civili fino a che le condizioni non permettano il trasferimento di tali responsabilità e compiti ad altri attori. Altre sfide riguardano lo sviluppo della necessaria capacità di addestrare e sviluppare forze locali nelle zone di crisi, in modo tale che le autorità locali siano in grado di assumere velocemente la gestione della sicurezza, senza bisogno dell’assistenza internazionale. Esattamente quanto sta accadendo in Afghanistan con il processo di transizione, iniziato a metà 2011, e che dovrebbe concludersi nel 2014 Tuttavia, la condivisione dell’intelligence tra sistemi militari è stato sempre un compito molto arduo, sia a livello internazionale che a quello di diverse agenzie. Condividere informazioni strategiche con i civili è persino più difficile per i militari, ma di certo è più semplice che risolvere i problemi inerenti la condivisione delle stesse con civili e militari dei Paesi partner. Altrettanto difficile è concepire un affidabile sistema di integrazione della componente civile nella pianificazione militare. Un esempio ulteriore di quanto problematica sia l’implementazione di questo cambiamento culturale è dato dal problema di identificare il profilo sulla base del quale selezionare i civili che debbano essere efficacemente addestrati e schierati con un breve preavviso in Paesi lontani. Persino più difficile è identificare quale tipo di agenzia dovrebbe farsi carico di una tale responsabilità. Inoltre, le risorse civili sono raramente disponibili e pronte all’uso su vasta scala, come sarebbe richiesto per il deployment in tempo di crisi; però questa è la strada da seguire se si vogliono potenziare le force capabilities secondo il Comprehensive Approach, e così affrontare con risultati soddisfacenti le crisi presenti e future. Può richiedere molto tempo e lavoro identificare e schierare risorse civili, perchè il semplice allestimento di un registro dei volontari civili e degli asset non è di per sè sufficiente. Nel prossimo futuro il processo di pianificazione dovrà espandersi in modo tale da saper riunire e gestire le risorse civili, le quali verranno da un crescente numero di diverse fonti. Pianificare è impossibile se non conosciamo il tipo di risorse civili disponibili, il loro livello di prontezza e capacità, e di che tipo di sostegno esse necessitano. L’esperienza dimostra che un’agenzia formalmente istituita per provvedere alla coordinazione assoluta è spesso un sogno; e che quelle organizzazioni capaci di effettiva 23
reazione rapida sono molto spesso di natura militare. L’esperienza mostra inoltre che alcune istituzioni potrebbero non essere così entusiaste di avere relazioni con altri attori. Pertanto, il Comprehensive Approach, lungi dall’essere un’altra dottrina o un altro concetto, è stato concepito come uno strumento per aprire nuovi spazi e promuovere nuove partecipazioni. Qualsiasi approccio efficace dovrebbe essere il prodotto di una moltiplicazione di decisioni. Il pragmatismo è spesso la migliore ed unica via, per quanto imperfetto possa essere. Altrimenti, forte è la possibilità che il Comprehensive Approach possa trasformarsi nell’ennesimo insieme di rigide regole mal amalgamate, con il risultato finale di decrescere, invece di accrescere, il livello operativo di flessibilità e pragmatismo. A questo proposito, forse non sarebbe la scelta migliore per l’Alleanza Atlantica quella di offrirsi sempre come il lead coordinator in qualsiasi comprehensive effort. 24
CAPITOLO II Gli Strumenti di Potere - DIME § 2.1 Concetto di Strumenti di Potere Il concetto di Strumenti di Potere (Diplomatic, Information, Military and Economic - DIME) è, per sua natura e per sua origine, americo-centrico. Per approfondire la questione sarà dunque necessario fare riferimento alla dottrina statunitense in materia. Il concetto deriva direttamente da quello di “instruments of national power” (strumenti del potere nazionale), dove per “nazionale” ci si riferisce agli Stati Uniti. Infatti, durante la Guerra fredda, l’acronimo DIME era già usato negli USA come abbreviazione per “diplomatic, informational, military, and economic instruments of national power”.3 Negli anni ’60 questi stessi “diplomatic, informational, military, and economic instruments” erano di casa presso importanti Istituzioni nazionali americane come: State Department, U.S. Information Agency, Defense Department, U.S. Agency for International Development. Più recentemente, l’acronimo MIDLIFE —“military, informational, diplomatic, law enforcement, intelligence, financial, and economic”— ha ottenuto ulteriore credito e diffusione, come riflesso della maggiore complessità necessaria nei modi e mezzi atti a perseguire la sicurezza nazionale nel XXI secolo. La nozione di “instruments of national power” è un’astrazione. Non c’è accordo unanime su questa terminologia, ma neppure è in atto un serrato dibattito in merito. Più interessante forse è circoscrivere semanticamente la nozione di Power (Potere). Potere, nel contesto degli affari internazionali, può essere definito come “l’abilità di influenzare il comportamento di altri allo scopo di raggiungere un risultato desiderato”. 4 E la Diplomazia ha la capacità di proiettare il Potere, incluso il potenziale per la guerra. Il lavoro seminale di Edward H. Carr del 1939 - The Twenty-Years’ Crisis 1919-1939: Introduction to the Study of International Relations - fornisce un ottimo punto di partenza per quanto concerne la discussione sugli strumenti del Potere: 3 DoD Dictionary of Military and Associated Terms. “All of the means available to the government in its pursuit of national objectives. They are expressed as diplomatic, economic, informational and military.” http://www.dtic.mil/doctrine/jel/doddict/index.html accessed 26 October 2008. 4 Edward Hallett Carr, The Twenty-Years’ Crisis 1919-1939: Introduction to the Study of International Relations (New York: HarperCollins, 1964). 25
“Il potere politico nella sfera internazionale può essere diviso, ai fini della discussione, in tre categorie: (a) military power (potere militare), (b) economic power (potere economico), (c) power over opinion (potere sull’opinione)… Ma il Potere è un tutto indivisibile, uno degli strumenti non può esistere a lungo in assenza degli altri”.5 Non sfuggirà al lettore attento un punto interessante. Perché Carr non incluse la Diplomazia nella sua suddivisione degli strumenti del Potere? Certamente egli ne era consapevole. Possiamo supporre, basandoci sulla definizione di Potere data da Carr, che la Diplomazia è l’arte di applicare gli strumenti del Potere, piuttosto che uno dei singoli strumenti di questo. Lo strumento diplomatico è spesso alternativamente chiamato lo strumento politico, e Carr in effetti considera il potere politico come suddiviso, diffuso nei tre strumenti citati. Questa formulazione ci regala l’immagine del diplomatico che negozia con amici, nemici e neutrali, sempre sostenuto dall’ American military power, economic power, and power over opinion. E il diplomatico in questione può essere il tradizionale funzionario del Foreign Service (Dipartimento di Stato) che negozia con i suoi pari rappresentanti di altri Stati; ma può anche essere un giovane Capitano del Corpo dei Marine, il quale negozia con un capo villaggio. É pure degno di nota che Carr menziona il “power over opinion”, piuttosto che il “power of information”. Come Carr sottolinea, i tre elementi del Potere sono indivisibili e nessuno di essi può esistere a lungo in assenza degli altri. La successiva sostituzione dello strumento “power over opinion” con quello denominato “informational instrument of power” fu una significativa innovazione rispetto ai tempi di Carr, ma non è scontato che ciò sia stato per il meglio. Il modo in cui gli Stati Uniti usano il loro potere militare ed economico “comunica” tantissimo, ed influenza la formazione dell’opinione sia interna che internazionale. Un’opinione (pubblica) interna favorevole rappresenta un saldo potere strategico nelle mani del Presidente, mentre un’opinione sfavorevole può abbattere un Presidente. L’opinione della comunità internazionale (questo oggetto misterioso ed indefinito) può creare opposizione o sostegno per le politiche dell’America. Esiste dunque uno ed un solo messaggio. Esso è la somma di azioni e parole. Considerare l’information instrument come un messaggio separato dalle azioni crea contraddizioni, disfunzioni e sfiducia. 5 E. H. Carr, op. cit., 108. 26
Inoltre, oggi, in questo mondo globalizzato, nessun governo, neanche Washington, è in grado di controllare l’informazione. Questa critica all’Information Instrument of power può essere facilmente estesa, per esempio a livello tattico, ad una sbagliata coordinazione tra le operazioni sul terreno e le PSYOPS di supporto (Psycological Operations o Comunicazioni Operative, secondo la Dottrina nazionale). Infatti, i danni maggiori a livello di credibilità - sia per il Comandante che per tutto il Contingente nazionale in Teatro operativo - spesso derivano proprio dallo iato, dalla non convergenza tra messaggio ed azione sul campo, ovvero quando il primo non corrisponde alla seconda. Alcuni credono che le PSYOPS servano semplicemente a raddrizzare, per così dire, un’azione tattica che non ha avuto gli effetti sperati o si è dimostrata controproducente: per esempio un’azione militare da cui derivi involontariamente una CIVCAS. Questo tipo di credenza da una parte sopravvaluta le PSYOPS, conferendo loro quasi un potere magico (inesistente) di risolvere tutti i problemi. Dall’altra sottovaluta gli effetti negativi verso il Target Audience che percepisce l’artificiosità del messaggio, il suo carattere subordinato, e pertanto lo giudica come falso ed ingannevole. Ciò vale anche in situazioni di pesante arretratezza socio-economica e scarsa alfabetizzazione, come abbiamo potuto constatare nelle aree più povere e rurali dell’ Afghanistan occidentale (RC-West, AOR del contingente nazionale in Teatro). In conclusione le PSYOPS, fermo restando il loro carattere di supporto alla missione, devono poter contare su una certa autonomia nella concezione e nello sviluppo delle campagne di comunicazione, al fine di essere davvero utili in Teatro Operativo, e servire efficacemente gli obiettivi della missione. Certe scuole di pensiero, in particolare quella di Armitage e S. Nye, operano la distinzione tra hard power e soft power.6 Hard power in sostanza è il potere di coercizione. Vale a dire la capacità di costringere qualcuno a fare qualcosa grazie alla forza militare o alle sanzioni economiche; e, secondo alcuni, anche grazie agli inventivi economici, seppur in questo caso sembrerebbe un po’ forzato parlare di coercizione. Soft power, invece, può essere definito in breve come il potere di attrarre, o di persuadere qualcuno a fare qualcosa senza il ricorso alla forza coercitiva. Soft power è molto più simile al power over opinion di Carr, di quanto lo sia all’ information instrument del DIME. Soft power include pure l’influenza esercitata all’estero attraverso il commercio privato e le compagnie nazionali, piuttosto che tramite un diretto impegno governativo. Alcuni erroneamente ritengono che hard power sia quello delle Forze Armate, mentre soft power sarebbe quello dei dipartimenti ed agenzie 6 Richard L. Armitage and Joseph S. Nye, Jr., “Implementing Smart Power: Setting an Agenda for National Security Reform,” a statement before the Senate Foreign Relations Committee, 24 April 2008. 27
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