Capitalismo delle piattaforme: un putting out system urbano? Fabio Scolari

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Capitalismo delle piattaforme: un putting out
   system urbano?
   Fabio Scolari 1

   Introduzione

    Con la fine dei tre decenni di crescita economica post-bellica è ini-
ziato un periodo di profondo riassetto delle economie capitalistiche su
scala mondiale. Nei paesi dell’Europa Occidentale, anche a seguito di un
forte ciclo di mobilitazioni studentesche ed operaie avvenuto durante gli
anni Sessanta e Settanta, l’inedito fenomeno della “stagflazione” ha sgre-
tolato le fragili basi su cui riposava il compromesso fordista-keynesiano.
Nuove tendenze politiche, economiche e sociali sono emerse e hanno
dispiegato prepotentemente i loro effetti: i programmi politici neo-libe-
rali associati a diversi modelli di organizzazione del lavoro (ad esempio il
Toyota production system), in concomitanza con l’avvio di una prima fase
di automazione dei processi produttivi, hanno inasprito una tendenza
volta alla precarizzazione del lavoro su ampia scala, all’intensificazione dei
ritmi lavorativi, all’allungamento della giornata di lavoro, all’aumento dei
livelli di disoccupazione strutturale (almeno nelle nazioni di più antica
industrializzazione). (Basso 1998)
    Questi processi non sono stati colti nella loro complessa articolazione
da numerosi studiosi, i quali, al contrario, hanno interpretato questa fase
di passaggio formulando alcuni miti teorici ancor’oggi molto in voga e
difficili da scalfire. Tanto per fare degli esempi, è stato ed è abbastanza
usuale sentir parlare di “fine del lavoro”, di “scomparsa del proletariato”,
di “fine della storia”. Oggi questa miopia analitica torna prepotentemen-
te alla ribalta nel momento in cui la rivoluzione digitale è chiamata a
sanare tutti gli squilibri, le deformazioni e le contraddizioni connaturate
al modo di produzione capitalistico. Addirittura c’è chi celebra i nuovi

   1. University of Milan-Bicocca.

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modelli di impresa digitale come l’alternativa alle storture che hanno ca-
ratterizzato le antiquate fabbriche fordiste del Novecento.
    Questo articolo, che si muove nella direzione opposta rispetto a quan-
to fino ad ora richiamato, prova a rintracciare la superiorità del platform
capitalism nel recupero e nell’aggiornamento di alcune modalità di orga-
nizzazione del lavoro e della produzione tipicamente proto-capitalistiche.
In questo senso, il funzionamento interno delle imprese digitali di ultima
generazione può essere paragonato alla logica del putting out system di ori-
gine medievale. Per far ciò, il saggio è suddiviso in tre paragrafi. Nel pri-
mo,richiamo brevemente le evoluzioni subite dalle economie occidentali
negli ultimi decenni e l’emersione di nuovi fenomeni economici come la
sharing economy o la gig economy; nel secondo ricostruisco i motivi storici
che hanno favoritolo sviluppo della manifattura a domicilio durante il
Medioevo per poi elencare gli elementi cardini della sua logica di funzio-
namento interno; nel terzo, dopo l’analisi delle ragioni che hanno spinto
molte imprese capitalistiche ad adottare modelli di funzionamento cen-
trati sull’utilizzo di piattaforme digitali, cerco dimettere in luce come al-
cune caratteristiche del putting out system vengano aggiornate dalle azien-
de digitali di ultima generazione. In questo modo, voglio sottolineare
l’apparente contraddizione tra l’autonomia della prestazione lavorativa e
la crescita del comando capitalistico sui lavoratori, inquadrati giuridica-
mente, però, come dei liberi “collaboratori”.

   La rivoluzione digitale

    È intorno alla prima metà degli anni Settanta del Novecento che si
può datare l’avvio di una profonda trasformazione nei modelli di accu-
mulazione capitalistica su scala planetaria, sempre di più trainati da una
crescita delle attività finanziarie, da un incremento dell’indebitamento
pubblico-privato e da una ristrutturazione produttiva di carattere perma-
nente. In questi ultimi decenni, infatti, tanto i processi produttivi quanto
le strutture delle imprese capitalistiche hanno subito delle modifiche so-
stanziali rese possibili dall’introduzione dell’informatica e delle tecnolo-
gie dell’informazione e della comunicazione (ICT).
    Questa fase di passaggio, che ha avuto come effetto principale quello
di riaffermare il comando capitalistico nei luoghi di lavoro (specialmente

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nei paesi occidentali), è stata interpretata da molti studiosi come l’avvio
di una nuova fase nello sviluppo storico dell’umanità che troverebbe il
suo punto culminate con la rivoluzione digitale.
    In via preliminare, è importante richiamare i due argomenti che di
solito vengono presentati a sostegno di questa tesi. In primo luogo, viene
certificato il passaggio da una società industriale ad una post-industriale,
in cui la crescita economica sarebbe sempre di più basata sulla conoscenza
scientifica e sull’innovazione tecnologica. In questo senso, l’evoluzione
delle strutture occupazionali dei paesi capitalistici avanzati, segnata da
una prevalenza di lavoratori occupati nel settore dei servizi, dimostre-
rebbe come le “obsolete” categorie analitiche utilizzate per descrivere l’a-
lienante lavoro operaio alla catena di montaggio, non troverebbero oggi
una corrispondenza con una realtà del mondo del lavoro caratterizzata
da attività maggiormente creative e con ampi margini di autonomia (De
Masi 2002). Quindi, le mansioni lavorative avrebbero subito, al contrario
delle pessimistiche tesi bravermaniane (Braverman 1978), un processo di
progressiva riqualificazione reso possibile dal superamento della parcelliz-
zazione taylorista. In seconda battuta, un fenomeno analogo lo si riscon-
trerebbe anche per quanto riguarda le strutture delle imprese capitalisti-
che che, sbarazzandosi delle rigidità fordiste per abbracciare la flessibilità
toyotista, avrebbero abbandonato il loro carattere autocratico in favore di
forme di gestione della forza-lavoro maggiormente democratiche, parte-
cipative e collaborative (Bell 1999, Toffler 1987, Touraine 1969).
    Queste due tendenze troverebbero, sempre secondo questa vulgata
dominante, una ulteriore conferma grazie agli effetti che dovrebbero es-
sere prodotti dalla trasformazione digitale della produzione e dei servizi.
All’interno di questa narrazione generale, un posto di particolare impor-
tanza lo occuperebbero nuovi fenomeni economici come quello della
sharing economy, che dovrebbe sostituire la proprietà individuale con un
consumo collettivo di beni e servizi utili per la collettività, e della gig
economy, che finalmente dovrebbe liberare le potenzialità auto-impren-
ditoriali degli individui emancipandoli dall’ansia della stabilità e della
continuità lavorativa. Una sintesi delle posizioni appena richiamate, la
si può trovare esposta in un breve pamphlet scritto da Davide Pellegrini,
presidente dell’Associazione Italiana Sharing Economy, nel quale è pos-
sibile leggere:

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“senza dubbio, l’affermarsi dell’azienda collaborativa porta ad una
   serie di mutazioni. Per esempio, diventa difficile mantenere le tradizio-
   nali strutture gerarchiche e piramidali: gli scambi alla pari sono il carbu-
   rante dei processi collaborativi. Sul modello dell’intelligenza collettiva,
   lo scambio di conoscenze e punti di vista e la complementarietà delle
   competenze favoriscono, inoltre, un approccio di problem solving e di
   progettazione human centered con gli approcci dell’experience design.
   Ovvero, nell’idea stessa di community, è centrale il fatto che i fornitori
   di servizi e prodotti si lascino affiancare dai clienti nella definizione di
   strategie e codesign. L’impresa, in questo modo, cresce e comincia a va-
   lorizzare gli stakeholder esterni, come fornitori o clienti, fino a farne dei
   tasselli importanti del sistema di produzione, distribuzione e custumer
   experience dell’impresa” (Pellegrini 2017, 88).

    In definitiva, la rivoluzione digitale sarebbe destinata non solo a scon-
volgere completamente, nel giro di qualche generazione, il modo di pro-
durre o consumare beni e servizi, ma dovrebbe anche rendere effettive le
potenzialità inscritte nella società della conoscenza. La molla imperso-
nale, che spingerebbe questo processo, non sarebbe nient’altro che l’uti-
lizzo, sempre più invasivo, delle più recenti tecnologie digitali in grado
di generare i cyber physical system, che, fondendo realtà fisica e virtuale,
permettono alle macchine, agli esseri umani ed ai prodotti di comunicare
tra loro in tempo reale. Per questo motivo, tutto diventerebbe più “intel-
ligente” ed infatti espressioni come “smart city”, “smart factory” o “smart
working” sono entrate a fare parte del lessico comune.

   Lo sviluppo del putting out system

    La fine dell’Impero Romano d’Occidente coincise con l’avvio di gran-
di migrazioni che determinarono tanto la sua disintegrazione politica
quanto l’avvio di un diffuso caos economico e sociale. Si entrava, in que-
sto modo, nell’epoca medievale, che per diversi secoli fu caratterizzata
dalla disorganizzazione del commercio a lunga distanza e dall’avvio di
una tendenza a ricreare unità economiche autonome e di piccole dimen-
sioni. A tal proposito, Paolo Barrucci scrive:

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“nell’Età Buia la rete dei mercati si restringe gravemente, declina così
   la domanda di beni e la produzione su larga scala. Le economie si chiu-
   dono e si frammentano innescando processi di de-specializzazione del
   lavoro. Nella stessa epoca si innescano però anche processi che provoche-
   ranno importanti trasformazioni: da una parte, a causa del restringimen-
   to dei mercati, diminuisce la disponibilità di manodopera schiavistica,
   dall’altra la dottrina cristiana vieta di rendere schiavi i cristiani. Ciò sti-
   molò, (…), la ricerca tecnologica finalizzata a risparmiare forza lavoro,
   quindi ad accrescere la produttività” (Barrucci 2014, 27).

    Contro una visione puramente stagnante del Medioevo, bisogna ag-
giungere che in questi secoli furono introdotte anche importanti innova-
zioni come la staffa, un nuovo tipo di aratro montato su ruote ed infine il
collare rigido ed imbottito per il cavallo. Grazie a tutto questo,

       “la nuova tecnologia combinandosi con specifici trends economici fa-
   vorì la ripresa generale che cominciò a manifestarsi fin dall’inizio dell’XI
   secolo e fu grandemente stimolata dalle Crociate, che dettero alle città
   commerciali italiane basi preziose nell’Oriente. La “rivoluzione agricola”,
   che ormai aveva trasformato le foreste dell’Europa occidentale in terre
   coltivabili produttive, fu integrata da una “rivoluzione commerciale”,
   come i moderni studiosi del medioevo l’hanno denominata, che ebbe
   come suo epicentro l’Italia e le Fiandre, e che favorì la costruzione di
   nuove città e l’espansione delle vecchie” (Kranzberg e Gies 1991, 66).

    Questa nuova fase di dinamismo economico, sociale e politico pro-
dusse, nel Basso Medioevo, la ricomparsa delle antiche corporazioni ar-
tigianali che ereditavano dal passato il ruolo di mutua assistenza tra i
membri, ma a questo si aggiungeva anche una nuova funzione ossia la
protezione del mestiere, attuata attraverso una dettagliata regolamenta-
zione della produzione e delle modalità di vendita. Il funzionamento di
ciascuna di esse era basato sul giuramento dei singoli funzionari di pro-
teggere la corporazione e di non risparmiare né amici né parenti sorpresi
a vendere merci non prodotte secondo i regolamenti corporativi. La loro
struttura interna era articolata sulla distinzione principale tra maestri ed
apprendisti a cui si accompagnava la possibilità, in alcuni casi particolari,
di poter disporre dei servizi di un valletto o di un operaio a giornata. Tra
le altre possibilità, ogni maestro poteva impiegare nella sua bottega anche

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i familiari, a dimostrazione del carattere prevalentemente ereditario del
mestiere.
    A fronte di questa attività, l’ordinamento economico del Medioevo
si dimostrò particolarmente dinamico grazie anche all’attivismo delle
corporazioni dei mercanti. Queste, formatesi per disciplinare le attività
commerciali, manifestarono una vitalità aggressiva che le portò, lungo
questi secoli, a dominare le corporazioni artigiane. Un esempio di questa
tendenza è costituito, per quanto riguarda la produzione tessile, dal siste-
ma del putting out o manifattura a domicilio che ebbe particolare svilup-
po nelle Fiandre, una regione particolarmente dedita alla produzione di
panno di lana, che si sarebbe costituito come il principale prodotto del
commercio medievale a lunga distanza. Anche se le tecniche produttive
di filatura e di tessitura non avevano subito sostanziali modifiche rispetto
al passato, a prescindere dall’invenzione del filatoio che permise di otte-
nere il filato dalla fibra con maggiore rapidità, Melvin Kranzberg e Joseph
Gies descrivono con queste parole le innovazioni introdotte dal sistema
della manifattura a domicilio:

        “la novità, nel sistema medievale, consisteva invece nel modo in cui le
   varie fasi del processo produttivo furono organizzate. Iniziato forse come
   un modo di utilizzare i tempi morti delle attività dei contadini durante i
   mesi invernali e gli altri periodi in cui il lavoro nei campi era stagnante,
   il sistema del putting-out si sviluppò in un’industria urbana concentrata
   nelle grandi e floride città fiamminghe del XVIII secolo: Ghent, Bruges,
   Ypres, Arras, Lille e altre. Vi furono molte modificazione nel sistema del
   putting-out, e la vecchia produzione contadina sopravvisse, ma le grandi
   città tessili fiamminghe svilupparono un sistema industriale diverso, do-
   minato da una ricca classe imprenditoriale, che sotto molti aspetti adom-
   brava gli imprenditori capitalisti della Rivoluzione industriale. Essi, in
   effetti, realizzarono una specie di rivoluzione preindustriale, in cui gli
   artigiani erano subordinati al controllo di uomini che operavano sola-
   mente in qualità di mercanti e di dirigenti della produzione” (Kranzberg
   e Gies 1991, 70).

    Il funzionamento di questo sistema era unificato dall’attività mercan-
te-imprenditore laniero fiammingo che acquistava la lana greggia, di soli-
to in Inghilterra, per poi fornirla e farla lavorare ad un tessitore che, nella
sua casa e con l’aiuto della sua famiglia, la filava e la tesseva. Solamente

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dopo aver trasformato la materia prima in un panno di lana, egli era
tenuto a restituire il prodotto al mercante. Quest’ultimo poi o lo follava
e lo tingeva in proprio oppure lo rivendeva nuovamente per farlo rifinire
altrove. Il passaggio finale era poi la vendita del panno o sul mercato na-
zionale oppure su mercati esteri.
    In questo modo, il sistema della manifattura a domicilio giungeva ad
articolare due momenti di vendita: in prima battuta, il mercante-impren-
ditore vendeva il greggio al tessitore e solo successivamente quest’ultimo
lo ricedeva al primo. A prescindere da questa apparente uguaglianza dei
rapporti tra le parti, l’imprenditore-mercante aveva in realtà una posi-
zione di grande vantaggio dal momento che egli “traeva un profitto dal
greggio venduto al tessitore anche se poi non riacquistava il prodotto; se
la guerra interrompeva il flusso commerciale non aveva nessun obbligo
di comprare il panno finito del tessitore, o poteva comprarlo a un prezzo
più basso”. Questa condizione, determinava in aggiunta che “sebbene
lavorassero in casa, secondo un ritmo da essi stabilito, i tessitori erano
così radicalmente alla mercé dei mercanti di panno come se fossero a loro
direttamente subordinati, e perciò non è sorprendete che il primo sciope-
ro della storia sia stato quello dei tessitori di Douai, una delle principali
città fiamminghe, nel 1245” (Kranzberg e Gies 1991, 71).
    Due descrizioni non molto dissimili da quella precedente, le offrono
da un lato Paolo Barrucci e dall’altro Arnaldo Bagnasco et alii:

       “il ruolo del mercante inizia a separasi da quello del produttore, fino
   al punto in cui le corporazione dei mercanti arrivano a dominare e con-
   trollare quelle degli artigiani. La figura del mercante-imprenditore carat-
   terizza lo sviluppo del settore tessile delle città fiamminghe: egli acquista
   ad esempio la lana grezza in Inghilterra e poi la fa lavorare a delle famiglie
   contadine (sistema del putting out); a quel punto l’imprenditore o termi-
   nava la lavorazione del prodotto nei propri laboratori o rivendeva il tes-
   suto ad altri produttori (ad esempio i rifinitori italiani). Questo sistema
   stimolò ulteriormente la divisione del lavoro tra diverse regioni europee
   e i prodotti finiti venivano venduti in tutte le aree del Mediterraneo”
   (Barrucci 2014, 28).
       “il mercante girava per i villaggi di campagna dove si incominciava
   ad accumulare, soprattutto nei mesi di stasi delle attività agricole, una
   popolazione eccedente i bisogni di manodopera nell’agricoltura; portava
   con sé un carico di materia prima, ad esempio lana, e qualche semplice

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attrezzo e macchinario per la filatura e la tessitura. Distribuiva il tutto
   nelle case contadine, forniva le specificazioni tecniche su come dovesse
   essere svolta la lavorazione (ad es., lunghezza, altezza e spessore dei panni)
   e si impegnava a ritirare il prodotto finito a una scadenza prestabilita die-
   tro il pagamento di un compenso in denaro. Il mercante, in altre parole,
   forniva il capitale di esercizio e la famiglia contadina (donne, bambini e
   vecchi compresi) il lavoro” (Bagnascoet alii 2012, 61).

    In aggiunta, anche Valerio Castronovo rintraccia la principale novità
del putting out system:

        “nella diffusione di un sistema di produzione decentrato nelle cam-
   pagne e non più soggetto al controllo delle compagnie artigiane. A im-
   piantarlo era stata una schiera di mercanti-imprenditori, interessati so-
   prattutto allo smercio di articoli d’abbigliamento, che, forniti del capitale
   necessario per l’acquisto delle materie prime, avevano via via aggirato il
   monopolio esercitato dalle corporazioni nei centri urbani, al fine di poter
   utilizzare un gran numero di braccia a basso costo, quali si potevano
   trovare tra i contadini e i loro familiari nelle “stagioni morte” dell’agri-
   coltura, nelle seste periodiche del lavoro nei campi. Distribuendo nei
   villaggi la lana o il cotone da trattare, a singoli lavoranti a domicilio, essi
   provvedevano poi a ritirare da costoro (pagati con un compenso a tariffa)
   quanto veniva così prodotto per collocarlo sul mercato”.

    Il risultato ultimo era una netta differenziazione dei ruoli “fra chi co-
ordinava la produzione e la smerciava e chi la eseguiva materialmente”
(Castronovo 2007, 25-26). È evidente come questo sistema di organiz-
zazione della produzione, superato con l’avvento del moderno sistema di
fabbrica, non solo rappresentò un progresso importante perché permise
la filatura ed il commercio di quantità di panno di lana fino ad allora
inimmaginabili, ma ebbe come conseguenza anche la crescita di una di-
visione internazionale del lavoro che vedeva connessi produttori di lana
inglesi, mercanti e tessitori fiamminghi e rifinitori italiani. Con il sistema
della manifattura a domicilio si gettarono quindi le basi per importanti
cambiamenti futuri nelle tecniche e nelle forme di organizzazione della
produzione, che dispiegarono pienamente i loro effetti a seguito della
prima rivoluzione industriale.

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In conclusione a questo paragrafo, è utile sintetizzare gli elementi car-
dini della logica di funzionamento del sistema medievale del putting out:
in primo luogo, questo sistema di organizzazione della produzione era
tipicamente rurale dal momento che la localizzazione dei tessitori era pre-
valentemente nelle campagne; in secondo luogo, il mercante-imprendito-
re svolgeva solamente una funzione di intermediazione tra dei produttori
formalmente indipendenti e dei consumatori situati in differenti aree ge-
ografiche; terzo, a discapito dell’apparente orizzontalità delle relazioni tra
le parti coinvolte, il mercante-imprenditore disponeva in realtà di un so-
stanziale potere di controllo e di coordinamento nei riguardi dei tessitori,
i quali si trovavano completamente subordinati alle volontà del primo
soggetto; quarto, quest’ultimo ricavava un doppio guadagno derivante
sia dalla vendita della materia prima ai singoli tessitori, senza obbligo di
ricompera, sia dalla cessione del prodotto finito ai compratori; infine,
questa modalità di organizzazione della produzione, riprodotta su scala
ampia, produsse un effettivo dominio delle corporazioni dei mercanti su
quelle degli artigiani.

   Lavoro digitale e capitalismo delle piattaforme

    Ai fini dell’obiettivo di questo saggio, in questo paragrafo analizzo il
fenomeno del platform capitalism rispetto a due questioni: i motivi che
hanno spinto le imprese capitalistiche ad adottare modelli di organiz-
zazione centrati sull’utilizzo di piattaforme digitali;le ragioni che hanno
prodotto il successo economico planetario delle aziende digitali di ultima
generazione.
    Per quanto riguarda il primo aspetto, è necessario partire dalla con-
statazione che il capitalismo del XXI secolo è diventato sempre più di-
pendente dall’estrazione e dall’utilizzo di un tipo particolare di materiale
grezzo: i dati. La raccolta di questi ultimi, infatti, non solo implica una
forma di registrazione, ma anche dei potenti sistemi di archiviazione
adatti alla loro conservazione ed analisi (Vercellone 2019; Casilli 2019).
Lo scopo ultimo a cui mira questo processo è quello di garantire alle im-
prese una conoscenza approfondita ed un controllo, in tempo reale, tanto
dei gusti e delle preferenze dei consumatori quanto delle prestazioni dei
loro lavoratori. A questo proposito, è da sottolineare che già il passaggio

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dall’organizzazione scientifica del lavoro all’ohnismo (Ohno 2004) ave-
va fatto emergere questa problematica dal momento che, con il sistema
toyotista, si lega maggiormente la produzione di merci alla domanda di
mercato (just-in-time) e, allo stesso tempo, si ricerca la più completa in-
teriorizzazione del comando capitalistico, al fine di promuovere forme
di coinvolgimento manipolate (Antunes 2016) dei lavoratori nell’ambito
aziendale. In proposito, Vittorio Rieser sottolinea che la fabbrica capita-
listica è sempre stata “un complesso sistema informativo”, in cui il lavo-
ratore diveniva sempre di più “un soggetto che tratta informazioni” ed il
rapporto uomo-macchina assumeva, sempre più esplicitamente, la forma
“di uno scambio di informazioni allo stato puro (cioè sempre meno me-
diato da operazioni di trasformazione manuale)” (Rieser 2015, 217).
     In relazione a questo punto, Nick Srnicek riconosce che:

       “i vecchi modelli di business non erano stati particolarmente ben pro-
   gettati per estrarre e usare i dati. Il loro metodo di lavoro consisteva nella
   produzione di un bene in fabbrica dove la maggior parte dell’informazio-
   ne andava persa, poi di venderlo, senza mai imparare nulla sul cliente e
   sul modo in cui il prodotto stava venendo usato. Anche se la rete logistica
   globale di produzione lean ha comunque rappresentato un miglioramen-
   to in questo ambito, con poche eccezioni anche questa è rimasta un mo-
   dello perdente” (Srnicek 2017, 41-42).

    È nel tentativo di trovare una risposta a questo problema di natura
tecnico-politica che le piattaforme si sono dimostrate il miglior strumen-
to per raccogliere, manipolare, analizzare e processare quantità crescenti
di dati. Inoltre, a partire da questo elemento, si può comprendere come
mai oggi, in tutti i settori dell’economia, si siano diffuse società private
(Google, Facebook, Uber, Siemens, Monsanto) che hanno completamen-
te riconfigurato la propria struttura e ridefinito i propri meccanismi di
funzionamento a partire dai vantaggi che possono garantire le piattafor-
me digitali tanto nel controllo dei consumatori quanto dei lavoratori.
    Quanto alla seconda questione, ci sono diversi autori (Botsman Ro-
gers 2017; Brynjolfsson McAfee 2015) che attribuiscono l’ascesa del ca-
pitalismo delle piattaforme ad una nuova forma di gestione della dinami-
ca economica dominata da organizzazioni democratiche, partecipative e
collaborative. La competitività di queste nuove imprese, rispetto alle an-
tiche fabbriche fordiste, risiederebbe nella valorizzazione della creatività

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e dei talenti dei rispettivi “collaboratori” oppure nella collaborazione con
tutti gli stakeholders interni o esterni ai confini organizzativi.
    Al contrario di queste posizioni, che sono anche le narrazioni do-
minanti, ritengo invece che il platform capitalism, lungi dal configurarsi
come una realtà priva di gerarchie e rapporti di potere, ripropone ed
aggiorna alcune caratteristiche della manifattura a domicilio di origine
medievale. Il successo di questi nuovi fenomeni economici, infatti, si può
spiegare anche con il recupero di alcune forme di organizzazione del lavo-
ro tipiche della prima fase dell’industrializzazione capitalistica(Birgillito
2016, Chesta 2020, Ciccarelli 2018, Comito 2016, Fana 2017, Somma
2019). In questo scenario, sono proprio le tecnologie digitali ad offrire al
capitale la possibilità di procedere ad una ulteriore scomposizione della
classe lavoratrice su scala planetaria.
    Se nel putting out system medievale era la figura del mercante-impren-
ditore laniero fiammingo a collegare le diverse fasi del processo di vendita
e a comandare un vasto numero di tessitori formalmente indipendenti,
oggi una funzione simile (non uguale e identica, ma simile) viene eser-
citata dalle piattaforme digitali governate attraverso l’uso di algoritmi
apparentemente “neutrali” (Caruso, Chesta, Cini 2019; Gaddi 2020).
Sempre in analogia con il caso della manifattura a domicilio,è la semplice
attività di intermediazione tra chi richiede un prodotto o servizio e chi lo
offre che consente di scaricare il rischio di impresa sui lavoratori, inqua-
drati giuridicamente come autonomi, ma sostanzialmente subordinati ad
una entità esterna che poi, solo indirettamente, coordina tutte le singole
prestazioni lavorative. Tra l’altro, questa condizione di subordinazione,
nel caso delle nuove imprese digitali,risulta ulteriormente accentuata dal
fatto che i lavoratori stessi sono costretti a mettere a disposizione, come
strumenti di lavoro, le proprie biciclette, i propri smartphone, i propri
computer. Inoltre, è sempre questa apparente contraddizione tra autono-
mia e controllo che permette a queste aziende di eludere le tutele norma-
tive previste dall’ordinamento giuridico in relazione ad una prestazione
di lavoro dipendente.
    Perciò, i modelli di organizzazione del lavoro imposti dalle piattafor-
me digitali ai loro “collaboratori” risultano, almeno fino ad oggi, la più
completa realizzazione di una forma di impresa snella o liofilizzata che,
lungi dal ribaltare i principi dell’autocrazia capitalistica, mira, invece, a
promuovere inedite forme di controllo e di comando sulla forza-lavoro.

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A questo punto mi sento di sottoscrivere le considerazioni di Annalisa
Murgia ed Emiliana Armano, secondo le quali:

       “il modello organizzativo sotteso all’impresa on demand o gig eco-
   nomy è quello del lavoro “frelancizzato” su scala digitale, con la messa a
   lavoro della folla, la flessibilità massima dispiegata grazie alle tecnologie
   digitali e al trasferimento sul singolo del rischio che in passato era pre-
   valentemente assunto dall’impresa. Il soggetto viene dunque costruito
   come imprenditore di se stesso, apparentemente sceglie contenuti e orari
   di lavoro in quanto lavoratore autonomo, e però viene remunerato solo
   sulla base delle prestazioni e non gode di alcuna delle tutele tipiche del
   lavoro dipendente, quali la pensione, le ferie, e malattie, l’assicurazione
   infortuni o il diritto alla genitorialità. Questo tipo di attività da freelance
   sconfinano dunque facilmente nel precariato più selvaggio, iper flessibile
   e sfruttato, che consente alle imprese on-demand di ridurre i costi, fles-
   sibilizzare al massimo i volumi di produzione, mettere fuori mercato i
   concorrenti” (Armano, Murgia e Teli 2017, 12-13).

    Tra l’altro, questa condizione di precarietà estrema viene ulteriormen-
te aggravata, sempre secondo le due autrici, dall’utilizzo degli algoritmi
che, essendo gli strumenti di governo di queste infrastrutture digitali,
consentono, in aggiunta:

       “all’impresa on demand di strutturare il rapporto di lavoro imperso-
   nalmente e individualmente. Il singolo, pur essendo di fatto un dipen-
   dente precario, viene privato del diritto di associazione e di negoziazione
   collettiva. Così, se ad esempio il profilo di chi lavora scompare da un
   momento all’altro dal network aziendale, che in questo caso è la piat-
   taforma digitale, significa che l’impresa sta notificando il licenziamento
   senza bisogno di nessun altra comunicazione” (Armano, Murgia e Teli
   2017, 13-14).

    È da rilevare quindi che questi “nuovi” modelli economici, che hanno
dispiegato i loro effetti negli ultimi decenni, stanno riportando la classe
lavoratrice ad una situazione che in un certo qual modo ricordala condi-
zione di lavoro dei tessitori di panno di lana medievali. Seppur in contesti
diversi, in entrambi i casi ci si trova dinnanzi a dei lavoratori formalmen-
te autonomi che però sono soggetti ad un controllo e ad un comando da
parte di un agente esterno, che poi, solo indirettamente, regola tutte le

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singole attività lavorative. In entrambi gli scenari, l’apparente autonomia
della prestazione di lavoro garantisce la più completa assenza di qualsiasi
limite allo sfruttamento (Woodcock 2020).
    Rispetto a tali questioni Crouch (2019) sottolinea che le recenti evo-
luzioni sono rappresentate, da molti politici ed intellettuali neoliberisti,
come una forma di lavoro ideale perché il loro risultato è proprio quello
di aggirare le rigidità imposte dal contratto di lavoro subordinato. Grazie
a questo aspetto, infatti, le aziende digitali di ultima generazione sono in
grado di massimizzare la flessibilità della forza-lavoro, richiedendo de-
terminate prestazioni a lavoratori formalmente autonomi solo quando
ritengono di averne bisogno. Inoltre, è sempre questo meccanismo che
consente a queste imprese, che si considerano soltanto dei semplici gesto-
ri di una piattaforma digitale, di evitare gli oneri e le responsabilità sociali
che sono associate ad un rapporto di lavoro dipendente.
    Per questi motivi, Crouch sostiene che l’idea che si sostanzia in que-
sti nuovi modelli aziendali sia legata alla possibilità di poter disporre di
“lavoratori che non sono dipendenti di un’azienda, verso i quali l’azienda
non accetta di avere responsabilità datoriale, ma che possono essere san-
zionati da quella stessa azienda” (Crouch 2019, 8).
    Ecco quindi svelati i reali motivi degli apprezzamenti per la sharing
economy o per la gig economy. Queste nuove modalità di organizzazio-
ne del lavoro e di strutturazione delle imprese rappresentano il sogno di
ogni capitalista dal momento che stanno dimostrando come sia possibile
associare a crescenti livelli di sfruttamento della forza-lavoro e di brutale
intensificazione dei ritmi lavorativi nessun rispetto per le normative so-
ciali poste a tutela di chi esegue una prestazione lavorativa di carattere
subordinato.
    In merito a quest’ultimo aspetto, Lidia Greco constata che:

       “al di là delle disquisizioni giuridiche è chiaro lo sbilanciamento dei
   rapporti di forza in favore della piattaforma. Tra gli operatori che inter-
   vengono sul web – piattaforma e committente – sussiste un’asimmetria
   nella regolazione del lavoro derivante dalla maggior forza economica del
   gestore del sito che dispone delle tecnologie digitali e della possibilità di
   raggiungere ampi gruppi di internauti. Nate come bacheche degli an-
   nunci, le piattaforme sono oggi incorporate nel lavoro e nel suo mercato,
   interferendo rispetto a modi, tempi e contenuti della prestazione lavo-
   rativa. I benefici che esse offrono sono invece legati alla fornitura degli

                                       69
algoritmi per un’utilizzazione efficiente della domanda e dell’offerta, alla
   riduzione dei costi di transazione e alla esistenza di meccanismi di re-
   putazione e monitoraggio che limitano i rischi di mercato per quanti vi
   partecipano. La peculiarità dell’intermediazione delle piattaforme risiede
   tuttavia non solo nel mettere in connessione una molteplicità di soggetti
   (e mercati) ma anche nel coordinamento degli effetti reticolari della con-
   nettività stessa” (Greco 2017, 59-60).

   Tutta l’apparente contraddittorietà di questa situazione, viene colta da
Ricardo Antunes, quando dal piano analitico si sposta all’analisi empirica
del caso Uber, una delle aziende digitali più famose a livello mondiale.
Rispetto a questo, egli scrive:

       “Uber è un altro esempio più che emblematico: lavoratori e lavo-
   ratrici con le loro automobili, cioè con i loro strumenti di lavoro, af-
   frontano le loro spese di sicurezza, le spese di manutenzione dei veicoli,
   di alimentazione, di pulizia, ecc., mentre l’“applicazione” - nella verità
   un’impresa privata globale di salarizzazione mascherata sotto la forma di
   lavoro de-regolamentato - si appropria del plus-lavoro generato dai servi-
   zi dell’autista, senza preoccupazioni con i doveri del lavoro storicamente
   conquistati dalla classe lavoratrice. In poco tempo, questa impresa è di-
   ventata globale, con un numero straordinariamente grande di autisti che
   vivono le vicissitudini di questa modalità di lavoro instabile” (Antunes
   2020, 29-30).

    Tra l’altro, nel sistema Uber, la subordinazione degli autisti è talmente
evidente che essi non possono neppure rifiutare le richieste, salvo rischia-
re sanzioni disciplinari da parte dell’azienda.
    Ricardo Antunes non si limita, come nei casi precedenti, a constatare
l’apparente paradosso tra autonomia e controllo insito nei nuovi modelli
di lavoro digitale, ma si spinge fino ad individuare come una tendenza
l’espansione generale su scala mondiale di un “nuovo proletariato dell’era
digitale, i cui lavori, più o meno intermittenti, più o meno costanti, gua-
dagnano nuovo impulso con le Tecnologie dell’Informatizzazione e della
Comunicazione, che connettono, con i cellulari, le più distinte modalità
di lavoro”. Pertanto, la sua previsione è che “invece della fine del lavo-
ro nell’era digitale”staremo assistendo ad una“crescita esponenziale del
nuovo proletariato dei servizi, una variante globale di ciò che può essere

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denominato schiavitù digitale” (Antunes 2020, 24-25).A suo modo di
vedere, una forma di uberizzazione su larga scala del lavoro salariato da-
rebbe corpo ad “uno spietato modus operandi imprenditoriale mirato a
generare più profitto e ad incrementare il valore del capitale attraverso
forme di lavoro precario”. Inoltre, questa condizione sarebbe ulterior-
mente aggravata dal fatto che, grazie all’utilizzo delle ICT, “una quota
sempre più grande di lavoro online, ha reso quasi impossibile separare il
lavoro dal tempo libero” e per questo motivo le imprese capitalistiche si
aspettano “che sempre più dipendenti siano disposti a lavorare in qual-
siasi momento” (Antunes 2019, 193). Ciò potrebbe causare, a discapito
di chi ha per molto tempo esaltato le potenzialità libertarie della Rete e
del lavoro digitale, una crescita abbastanza rapida di una nuova forma di
“cybertariato” (Huws 2009, 2014) o di “info-proletariato” (Antunes e
Braga, 2009).
    Pertanto si stanno sviluppando, sempre più rapidamente, delle nuove
imprese capitalistiche che sono in grado di associare alti livelli di inno-
vazione tecnologica con forme brutali di sfruttamento della forza-lavoro.
Anzi, è proprio l’utilizzo crescente delle tecnologie digitali che permette
di dar forma ad un fenomeno inedito: se da un lato si de-concentra-
no i lavoratori, individualizzando sempre di più il rapporto di lavoro,
dall’altro si centralizza al massimo e di conseguenza si spersonalizza il
comando capitalistico. In questo senso, le imprese digitali costituiscono
una ulteriore conferma della tendenza del capitalismo contemporaneo ad
estendere, oltre il ristretto ambito industriale, forme di “centralizzazione
senza concentrazione” (Bellofiore 2012, 59). Questi due processi, che
per Karl Marx dovevano tendenzialmente procedere di pari passo, oggi si
potrebbero separare con il fine di promuovere una atomizzazione sempre
più profonda della classe lavoratrice.
    Sono questi i motivi in forza dei quali si può sostenere che dietro ad
una facciata apparentemente partecipativa, democratica, collaborativa, il
lavoro digitale cela, invece, il recupero di modalità e di condizioni lavora-
tive essenzialmente proto-capitalistiche, anche a fronte di una rivoluzione
radicale degli strumenti di produzione – con il passaggio dal telaio in
legno dei tessitori medievali agli smartphone o ai personal computer dei
moderni “schiavi digitali”.
    A tal riguardo, Scholz denuncia le modalità di lavoro imposte dal ca-
pitalismo delle piattaforme come “la punta lucida e affilata di una gigan-

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tesca lancia neoliberista che è fatta di deregolamentazione, aumento della
disuguaglianza, passaggio da impiego dipendente a contratti a termine
scarsamente retribuiti e attacco ai sindacati” (Scholz 2017, 42).
    In conclusione, in questo paragrafo è emerso che: le piattaforme di-
gitali, sviluppate al fine di raccogliere, processare ed analizzare quantità
crescenti di dati, portano alle estreme conseguenze un modello di orga-
nizzazione del lavoro che è in grado di associare ad un comando sem-
pre più autocratico ed impersonale sui lavoratori, considerati però come
liberi “collaboratori”, un non riconoscimento della natura subordinata
del rapporto di lavoro; questo è il meccanismo perverso che consente
alle aziende digitali di ultima generazione di conciliare una intensifica-
zione dei ritmi lavorativi ed un allungamento degli orari di lavoro con
una scarsa, se non nulla, protezione sociale per chi esegue la prestazione
lavorativa; l’atomizzazione e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro,
consentite dalla mediazione dell’infrastruttura digitale, rendono molto
più complesso organizzare forme di resistenza e di conflitto collettivo; è
la dispersione spaziale dei singoli “collaboratori”a rappresentare il princi-
pale ostacolo per un loro auto-riconoscimento come classe per sé.
    Certamente, anche a fronte di tutti questi argomenti, si può ricono-
scere che le tecnologie digitali possono essere, in alcuni casi, dei possibili
strumenti per costruire dei legami sociali allo scopo di superare l’iso-
lamento reciproco e per promuovere forme di auto-organizzazione dal
basso. Tuttavia la condizione soggettiva-oggettiva dei moderni lavoratori
digitali ricorda in un certo qual modo quella dei contadini nella Francia
post-rivoluzionaria, descritta da Karl Marx (2006) nei suoi saggi storici.
Anche in questo caso, solamente il tempo potrà mostrare quale delle due
dimensioni prevarrà sull’altra. Se queste tendenze non dovessero incontra-
re delle forme di regolazione giuridica, le forze politiche e sindacali legate
al mondo del lavoro dovranno prendere atto dell’apparente paradosso, tra
un aumento del controllo ed una formale autonomia dei lavoratori, entro
il quale saranno chiamate a muoversi se vogliono riuscire, anche all’alba
della rivoluzione digitale, a promuovere un processo di ricomposizione
tra i diversi poli della classe-che-vive-di-lavoro (Antunes 2016).

                                     72
Conclusioni

    In questo articolo ho analizzato alcuni effetti della rivoluzione digitale
sul lavoro. Se da un lato, in questi ultimi anni, si è potuta osservare l’e-
mersione di nuovi modelli aziendali e di innovativi fenomeni economici
(sharing economy, gig economy), dall’altro nulla sembra supportare le tesi
sulla liberazione del lavoro, sulla generalizzazione di attività creative e
con ampi margini di autonomia, sulla fine del lavoro, etc. Al contrario,
le evidenze segnalano anche il ritorno di modalità di organizzazione del
lavoro e della produzione tipicamente proto-capitalistiche.
    Questo apparente ritorno al passato è reso possibile proprio dall’uso
anti-sociale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che
consentono, allo stesso tempo, di atomizzare la forza-lavoro e di centra-
lizzare il comando capitalistico. Questo può essere un elemento centrale
che segnerà il diffondersi di questi nuovi modelli aziendali. Inoltre, nulla
di tutto questo rende possibile il ribaltamento o il rovesciamento del-
la gerarchia non democratica che è inestricabilmente legata alla natura
dell’impresa capitalistica (Laise 2015). L’offensiva lanciata contro il mon-
do del lavoro non può essere, a questo proposito, più insidiosa e perico-
losa. Inoltre, è bene specificare anche come questa tendenza, lungi dal
produrre una riqualificazione generale delle mansioni lavorative, causa,
invece,una corrosione ancora più profonda delle residue tutele giuridiche
poste a garanzia del lavoratore dipendente.
    Solamente a fronte di questa realtà si può comprendere come mai il
lavoro digitale, a discapito delle apparenze, si può configurare, nei decen-
ni a venire, come la punta più avanzata di una offensiva neo-liberale in
grado di associare ad una completa precarizzazione del lavoro salariato
una tendenza all’accrescimento del saggio di plusvalore. E’questo perver-
so paradosso tra una formale autonomia della prestazione lavorativa ed
una sostanziale subordinazione della stessa che spiega il vero motivo del
successo economico del capitalismo delle piattaforme.

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