Capitalism in America di Alan Greenspan, Adrian Wooldridge

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                             Direttore responsabile: Antonio Zama

      Capitalism in America di Alan Greenspan, Adrian
                         Wooldridge
                                                         2018
                                               14 Maggio 2021
                                              Guglielmo Piombini

Perché leggere questo libro
In questa affascinante storia del capitalismo americano, Alan Greenspan, celebre ex presidente della
Federal Reserve, e il giornalista Adrian Wooldridge ricostruiscono la storia dell’economia
statunitense dalle origini fino ai nostri giorni. Il libro narra una storia di imprese titaniche, di figure
imprenditoriali leggendarie, di progressi stupefacenti e di trionfanti scoperte. Il genio dell’America,
affermano gli autori, è stato il suo entusiasmo per la “distruzione creativa”, l’incessante scomparsa del
vecchio che cede il passo al nuovo. Per quanto disordinato e doloroso, questo processo ha portato la
stragrande maggioranza degli americani a livelli di vita inimmaginabili anche solo poche generazioni fa. In
un momento in cui la produttività è di nuovo in stallo, e la preminenza americana nel mondo sembra
incerta, Capitalism in America afferma che il gigantesco motore della crescita economica americana può
essere nuovamente rimesso in moto.

Riassunto
Il successo dell’America
Immaginiamoci che nel 1620 si fosse tenuta una riunione analoga a quella del Forum Economico Mondiale
di Davos, e che il tema dell’incontro fosse: quale Paese dominerà il mondo nei prossimi secoli? La
maggioranza avrebbe indicato la Cina, altri l’impero ottomano, altri ancora l’India dei Mogol o l’impero
spagnolo; pochi avrebbero puntato sull’Inghilterra, ma nessuno avrebbe menzionato l’America, dato che a
quel tempo ci vivevano pochissimi europei, in condizioni durissime, nel New England e in Virginia.
L’intero continente nordamericano produceva meno ricchezza del più piccolo principato tedesco.
Oggi invece gli Usa costituiscono la maggiore economia mondiale e, pur contando solo il 5 per cento della
popolazione mondiale, producono un quarto del Pil mondiale. L’America domina tutte le nuove tecnologie
del futuro, ed eccelle in un’ampia gamma di industrie. L’America è il luogo di nascita del capitalismo
popolare e della produzione di massa: mentre in molti paesi il capitalismo viene associato alle élite
plutocratiche, in America è sempre stato associato all’apertura e all’opportunità. Nell’immaginario
americano, la libera iniziativa permette anche a una persona di oscure origini di scalare i vertici della
società e godere quel tenore di vita un tempo riservato solo alle classi elevate.
L’America non ha solo reso prosperi i propri cittadini, ma ha esportato la prosperità sotto forma di
innovazioni e idee. Senza il suo intervento nella seconda guerra mondiale, Hitler avrebbe probabilmente
soggiogato l’intera Europa. Senza il suo impegno incrollabile nella guerra fredda, gli eredi di Stalin
sarebbero ancora al potere nell’Europa orientale e in parte dell’Asia. Lo Zio Sam ha salvato il ventesimo
secolo dalla rovina fornendo l’arsenale alla democrazia.
Questo libro racconta la straordinaria storia dell’economia americana degli ultimi quattrocento anni: come
tredici piccole colonie sorte in mezzo al nulla diventarono la più potente economia che il mondo avesse
mai visto. Questo libro cercherà anche di utilizzare le lezioni della storia per capire se gli Stati Uniti
riusciranno a preservare la loro preminenza o se dovranno cedere la loro leadership a qualche altra potenza,
quasi certamente meno liberale.

Una repubblica commerciale: 1776-1860
Il termine “colonie” evoca immagini di sfruttamento, ma in realtà l’America coloniale alla vigilia
dell’indipendenza era uno dei luoghi più liberi e ricchi della terra. Dal 1600 al 1776 la crescita economica
delle colonie americane era stata la più alta del mondo, mediamente il doppio di quella inglese. Gli
americani erano anche più prolifici, con una media di sette figli per donna paragonati ai 0quattro o cinque
delle donne inglesi. La Dichiarazione d’Indipendenza venne firmata nel 1776, lo stesso anno della
pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, e nessun altro paese abbracciò con più
entusiasmo i principi della libertà economica contenuti in questo libro. La cosiddetta Rivoluzione
americana fu però una rivoluzione a metà, perché conservò tutte le migliori tradizioni della madrepatria
inglese, come il governo limitato, la common law e il riconoscimento dei diritti individuali.
La Costituzione americana, ratificata nel 1788, pose dei limiti stringenti al potere della maggioranza, e
stabilì che l’intero paese fosse un mercato comune senza barriere e tariffe interne. La solida protezione
costituzionale della proprietà e della libertà di scambio fu il fattore principale della futura prosperità
americana, molto più dei convenzionali vantaggi materiali come l’abbondanza di terra o di materie prime.
Grazie alla libertà d’iniziativa e alla possibilità di conservare interamente i frutti del proprio lavoro, gli
americani si dedicarono con passione alle attività produttive.
I visitatori europei erano sempre affascinati dalla frenesia, dal movimento continuo e dall’operosità degli
americani. Quando Tocqueville arrivò in Ohio, esclamò che “l’intera società americana è una fabbrica” e
che “gli americani mettevano qualcosa di eroico nel loro modo di commerciare”. I viaggiatori europei
erano anche impressionati dalla natura integralmente borghese della società americana, tutta concentrata
sugli affari e sul denaro. Questa mentalità si esprimeva nell’alta stima cui godevano gli uomini d’affari (
businessmen) e in un vero e proprio culto dell’imprenditore. Gli americani credevano che i reali motori del
cambiamento storico fossero gli imprenditori innovativi, e che la “distruzione creativa” dei nuovi metodi di
produzione che soppiantano i vecchi fosse la molla del progresso sociale.
In molti paesi gli effetti benefici della distruzione creatrice vengono bloccati per via politica dagli interessi
costituiti che se ne sentono minacciati. Per gran parte della sua storia, invece, gli Stati Uniti d’America
furono immuni da queste pressioni politiche di breve termine. I Padri Fondatori fecero un ottimo lavoro nel
proteggere l’economia dalle interferenze politiche, dotando i propri cittadini di diritti inalienabili e
vincolando in diversi modi il potere statale. Il gold standard offrì un sistema monetario estremamente
stabile, che permise agli Stati Uniti d’America di fare a meno di una banca centrale per 77 anni, dal 1836 al
1913. Inoltre, fino al 1913, non esisteva l’imposta sul reddito. In un ambiente così favorevole, l’iniziativa
poteva avere libero sfogo.

Le due Americhe
Diverse culture confluirono nella formazione della nazione americana delle origini: quella dei puritani del
New England, dei quaccheri della Pennsylvania e del Delaware, degli anglicani e dei cattolici della
Virginia e del Maryland, degli scoto-irlandesi della frontiera. Ma la vera polarizzazione che determinò il
corso della storia americana fu quella tra i modernizzatori industriali del nord e gli agrari del sud. La
disputa cominciò con un grande dibattito intellettuale, che debordò in rivalità personale, tra Alexander
Hamilton, il primo segretario del tesoro americano, e Thomas Jefferson, primo segretario di Stato e terzo
presidente. Hamilton voleva che l’America diventasse una potente repubblica industriale; Jefferson
preferiva che l’America rimanesse una repubblica agraria decentralizzata formata da numerosi agricoltori
indipendenti.
Hamilton intendeva realizzare il suo programma istituendo una banca centrale sul modello di quella
inglese, un energico potere esecutivo capace di far applicare le regole del commercio tra gli Stati, e un
sistema di tariffe doganali come fonte d’entrata per il governo. Jefferson contestava il tentativo di
accumulare il potere nelle mani del governo federale. Gli americani, diceva, non avevano combattuto una
guerra contro gli inglesi proprio per prevenire la centralizzazione del potere?
Colui che riconciliò la visione agraria e quella industriale dell’America fu Andrew Jackson, presidente dal
1828 al 1836. Egli non proveniva né dal mondo urbano e borghese di Hamilton, né dal mondo agrario e
aristocratico di Jefferson, ma era un figlio della cultura scoto-irlandese della frontiera, e godeva di
un’immensa popolarità tra i pionieri, gli artigiani, i commercianti. Nella sua ostilità democratica ai
privilegi, Jackson combinò il populismo con un elemento ad esso raramente associato: il conservatorismo
fiscale. Egli infatti ridusse il debito federale a zero per tre anni consecutivi (fu la prima e ultima volta nella
storia americana), abolì la banca centrale, sostenne il gold standard. Jackson introdusse quindi un nuovo e
potente elemento nel dibattito economico americano: il populismo liberista (laissez-faire populism).
L’America rimase però divisa in due sistemi economici differenti: l’economia capitalista del nord e
l’economia agraria e schiavistica del sud. La guerra civile che scoppiò tra questi due mondi fu il primo
conflitto dell’era industriale, e costò un numero elevatissimo di vittime, tra le 650mila e le 850mila. Il Sud
pagò il prezzo maggiore, con la morte del 13 per cento dei suoi uomini in età militare. La vittoria dei
nordisti era scontata, dato che possedevano il 70 per cento delle ricchezze del paese e potevano mettere in
campo un numero doppio di potenziali soldati. Con la vittoria del nord nella guerra civile, un paese diviso
in due diventò un’unica grande repubblica commerciale.

Il trionfo del capitalismo: 1865-1914
Nei decenni compresi tra la fine della guerra civile e lo scoppio della prima guerra mondiale gli Stati Uniti
divennero la prima potenza economica del pianeta, con un enorme predominio non solo nelle nuove
industrie dell’acciaio, delle automobili, dell’elettricità e del petrolio, ma anche nelle tradizionali attività
dell’agricoltura e dell’allevamento: negli anni 70 del XIX secolo proveniva dagli Stati Uniti il 30-50 per
cento del grano e il 70-80 per cento della carne commerciata a livello mondiale. In quest’epoca l’America
divenne una società consumista, con il maggior numero di milionari (4000 nel 1914). Anche gli operai
godevano dei salari più elevati del mondo: nel 1914 il reddito pro-capite degli americani era di 346 dollari,
paragonato ai 244 dollari della Gran Bretagna, ai 184 dollari della Germania, ai 153 della Francia e ai 108
dell’Italia.
Nello stesso tempo la popolazione degli Stati Uniti ebbe una crescita fenomenale, passando dai 40 milioni
del 1870 ai 99 milioni del 1914. Due terzi di questa crescita demografica era dovuta dall’elevata natalità,
che rifletteva l’ottimismo della popolazione riguardo il futuro, mentre un terzo era dovuta
all’immigrazione, attirata dalla convinzione diffusa che l’America fosse la terra delle opportunità. Tra il
1870 e il 1900 arrivarono negli Stati Uniti quasi 12 milioni di immigrati.
L’Homestead Act del 1862, che offriva a ogni agricoltore 160 acri di terra a un prezzo simbolico purché
l’avesse coltivata per almeno 5 anni, accelerò il movimento verso ovest della popolazione e innescò la
grande epopea della Frontiera del West. Nei decenni successivi il governo “privatizzò” più di 270 milioni
di acri, circa il 10 per cento di tutta la terra degli Stati Uniti, cedendola a 2,5 milioni di coloni. Mentre nel
Brasile neofeudale il governo concedeva enormi appezzamenti di terreno ai latifondisti, nella capitalista
America il governo vendette la terra alle persone comuni, a patto che mischiassero il loro lavoro con il
suolo. I pionieri e i cow-boy resero più ricca la dieta degli americani, immettendo sul mercato enormi
quantità di cereali e di carne. Il pane bianco e la carne a basso prezzo trasformarono questi beni, che in
Europa erano ancora generi di lusso riservati ai ricchi, in beni di consumo per le masse.
Ma il settore che più innalzò la prosperità degli americani fu quello delle ferrovie. Dal 1870 in poi le
compagnie ferroviarie private aggiunsero più di 13 miglia di binari ogni giorno, tanto che nel 1917 gli Stati
Uniti arrivarono ad avere il 35 per cento delle ferrovie esistenti al mondo. Le strade ferrate ridussero
enormemente il costo del trasporto delle merci, fino al 96 per cento rispetto al trasporto su carri. Le ferrovie
fecero di più che collegare le località isolate e accelerare il trasporto delle merci: spostarono la direzione
del traffico dall’asse fluviale nord-sud e viceversa all’asse est-ovest e viceversa. Le persone ora affluivano
da est verso ovest, e le merci da ovest verso e est e poi, su nave, verso il resto del mondo. Era come se un
gigante avesse applicato una leva a un intero Paese girandolo sul suo asse.

L’epoca dei titani
Negli anni fra il 1865 e il 1914 gli americani misero a punto una serie di innovazioni fondamentali, come
l’acciaio, il petrolio, l’elettricità, l’automobile, l’aeroplano, il telefono. I protagonisti furono dei veri e
propri giganti di energia e ambizione: John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt, J. P.
Morgan, Collis Huntington, James Fisk, Jay Gould, Henry Ford. A molti di questi uomini d’affari è rimasta
attaccata la definizione di “baroni ladri” (robber barons), ma in realtà non furono né baroni né ladri.
Da un lato furono quasi tutti uomini che si erano fatti da sé partendo da umili origini (self-made men
), dall’altro con le loro innovazioni organizzative beneficiarono immensamente i consumatori, sotto forma
di colossali riduzioni dei prezzi dei beni: grazie a Carnegie il prezzo dell’acciaio scese da 166 dollari alla
tonnellata nel 1867 a 46 dollari un decennio dopo; grazie a Rockefeller il prezzo del petrolio scese da 16
dollari al barile nel 1859 a un dollaro al barile nel 1879.

La rivolta contro il laissez-faire
L’America dell’800 rimase fedele alla libera iniziativa e al governo limitato sia nei fatti sia negli ideali. Nel
1871 il governo federale impiegava solo 51mila persone, delle quali 37000 lavoravano per le poste. Quindi,
se escludiamo gli uffici postali, gli americani potevano passare tutta la vita senza alcun contatto con il
governo federale. Non esistevano l’imposta sui redditi, la Federale Reserve e i ministeri dell’istruzione, del
commercio, ecc. La Casa Bianca aveva ben poco a che fare, tanto che Grover Cleveland (presidente dal
1885 al 1889 e dal 1893 al 1897), fedele ai principi dello Stato minimo, rispondeva direttamente alle
telefonate e apriva la porta agli ospiti.
Se escludiamo gli anni della guerra civile, la spesa complessiva del governo a tutti i livelli (federale, statale
e locale) tra il 1800 e il 1917 rimase sempre inferiore all’8 per cento del Pil. In altre parole, il settore
pubblico estraeva dall’economia solo 8 centesimi per ogni dollaro prodotto, 6 dei quali venivano spesi dal
governo locale. La straordinaria crescita dell’economia americana dopo la guerra civile, senza precedenti
nella storia umana, ebbe quindi luogo praticamente senza alcuna interferenza da parte di Washington. Alla
maggior parte degli americani tutto questo piaceva: secondo l’opinione comune del tempo, tutto quello che
occorreva per avere una buona società era una moneta sana e una Dichiarazione dei diritti; il libero mercato
avrebbe fatto il resto.
Il generale consenso per il laissez-faire mostrò le prime incrinature a cavallo del nuovo secolo, con
l’attacco del populista William Jennings Bryan al gold standard e alle grandi imprese e con l’emergere
degli intellettuali progressisti favorevoli a un maggior intervento del governo. In pochi decenni i
progressisti cambiarono l’atteggiamento verso il governo: se prima gli americani erano ottimisti verso il
business e cinici verso il governo, i progressisti riuscirono a rovesciare l’opinione di molti. Woodrow
Wilson, presidente durante la prima guerra mondiale e filosofo-re dei progressisti, affermò che fino a quel
momento gli americani si erano impegnati troppo a limitare il governo, e poco a renderlo più efficace: ora
bisognava fare l’opposto.
Queste tendenze stataliste coincisero con la chiusura della Frontiera, annunciata con rammarico dallo
storico Frederick Jackson Turner nella sua celebre conferenza del 1893. La Frontiera era sempre stata una
fonte di energia e ottimismo per gli americani, perché schiudeva un mondo di opportunità illimitate.
L’immagine americana per eccellenza era quella delle carovane di pionieri che si spingevano verso l’Ovest
in cerca di fortuna. Se l’esistenza della Frontiera aveva alimentato il rude individualismo degli americani,
la fine della colonizzazione faceva dell’America una civiltà stanziale, più simile all’Europa.

I ruggenti anni venti
L’America del 1918, alla fine della prima guerra mondiale, era molto differente dall’America dell’800.
Aveva acquisito infatti molte caratteristiche delle società moderne dominate dallo Stato: l’imposta sul
reddito, la banca centrale, una burocrazia in continua espansione, e un significativo gruppo di persone
convinte che lo Stato avrebbe dovuto ulteriormente espandersi. Negli anni Venti, tuttavia, due presidenti
repubblicani rimasti fedeli agli ideali della Vecchia America, Warren Harding e Calvin Coolidge,
riuscirono ad abolire molte misure prese durante l’era progressista abbracciando un atteggiamento
favorevole alla libera impresa.
Degna di nota fu la rapidità con cui gli Stati Uniti uscirono dalla grave depressione del 1920, anno in cui la
disoccupazione salì da 2 all’11 per cento. Il governo non intervenne, e l’economia si riprese da sola. Dal
1921 al 1929 il pil americano aumentò del 5 per cento all’anno, una delle più grandi performance storiche
di un paese avanzato. Gli Stati Uniti divennero una società opulenta di massa, e migliaia di innovazioni
tecnologiche cambiarono la vita delle persone: elettrodomestici, radio, cinema, automobili, ecc. In questo
paradiso si annidavano però due serpenti: i debiti eccessivi alimentati dal sistema bancario; e il crescente
nazionalismo, che portò a leggi restrittive verso l’immigrazione.

La grande depressione
Nell’ottobre del 1929 improvvisamente la borsa crollò. Ne seguì una lunga e acuta depressione che durò 12
anni. Al suo picco, un quarto della forza lavoro si trovò disoccupata. Il Segretario del Tesoro Andrew
Mellon, che aveva lavorato anche sotto le precedenti amministrazioni Harding e Coolidge, suggerì al
presidente in carica Herbert Hoover che una politica di non intervento avrebbe permesso un rapido ritorno
dell’economia alla normalità, proprio come era successo con la depressione del 1920.
Purtroppo il nuovo presidente credeva fermamente che le moderne economie capitaliste necessitassero
della guida attiva del governo. Effetti particolarmente disastrosi sull’economia ebbe l’approvazione della
legge Smoot-Hawley nel 1930, che aumentava notevolmente i dazi su centinaia di prodotti agricoli e
industriali. A seguito delle rappresaglie degli altri paesi, si verificò un crollo del commercio internazionale:
il volume globale degli affari si ridusse da 36 miliardi di dollari nel 1929 a 12 miliardi bel 1932. La legge
tariffaria del 1930 divenne un simbolo dell’idiozia economica.
Nel 1932 vinse le elezioni il democratico Franklin Delano Roosevelt, che con il suo fiuto politico si rese
conto che fare qualcosa, anche se sbagliato, sarebbe stato meglio che non fare nulla. Il suo massiccio
programma di intervento, chiamato New Deal, cambiò per sempre la relazione tra il governo e la società
statunitense. Prima del New Deal, l’America aveva una flessibile economia di mercato dove il potere
politico era largamente decentralizzato; dopo le riforme di Roosevelt, il governo federale di Washington
occupò il centro della scena.
Dal punto di vista economico il New Deal diede risultati molto negativi. Nel lungo periodo le politiche
interventiste basate sulla spesa e la creazione di posti di lavoro nel settore pubblico si rivelarono
controproducenti. Dopo una lieve ripresa, nell’agosto 1937 il Paese precipitò in una seconda crisi. La
“recessione di Roosevelt” fece sì che negli Stati Uniti la Grande Depressione durasse più a lungo che in
ogni altro Paese. La prova più evidente del fallimento del New Deal è data dai tassi di disoccupazione, che
rimasero elevatissimi per tutti gli anni Trenta: se nell’ultimo anno della presidenza Hoover il 16,3 per cento
degli americani erano senza lavoro, nel 1939 questo numero era salito al 17,2 per cento.
Alla disoccupazione si pose rimedio solo con l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale,
quando l’America si trasformò in un immenso arsenale. I consumi del governo, sotto forma di armi,
munizioni, carri armati e navi da guerra, si sostituirono a quelli dei cittadini privati, e le grandi fabbriche
come la Ford si riconvertirono con grande efficienza alla produzione bellica. La guerra dimostrò la
straordinaria potenza produttiva del big business che si era sviluppato dalla fine della guerra civile in poi.
Secondo una stima, la produttività oraria del lavoratore americano era due volte quella del lavoratore
tedesco e cinque volte quella del lavoratore giapponese. Non sorprende quindi l’esito vittorioso della
guerra.

L’età d’oro della crescita: 1945-1970
Alla fine della guerra gli economisti keynesiani come Alvin Hansen avvertivano che, con il taglio delle
spese militari, gli Stati Uniti sarebbero entrati in un’era di “stagnazione secolare”. La smobilitazione
dell’esercito dopo la vittoria diede invece il via a 25 anni di crescita ininterrotta: dal 1946 al 1973
l’economia crebbe mediamente del 3.8 per cento all’anno e il reddito familiare aumentò del 74 per cento. Il
grande ottimismo dell’epoca si manifestò anche nel baby-boom: tra il 1954 e il 1964 nacquero più 4
milioni di bambini ogni anno.
L’America inoltre ricostruì l’ordine internazionale rinunciando alla tentazione di punire gli avversari
sconfitti in guerra come era stato fatto a Versailles al termine della prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti si
resero conto che il proprio interesse a lungo termine consisteva nella rifondazione del capitalismo su scala
globale, nel libero scambio, e nell’aiutare la ricostruzione delle economie non solo dei propri esausti alleati,
ma anche dei propri nemici.

Stagflazione
Gli anni settanta, all’opposto del periodo precedente, furono un periodo lugubre per gli Stati Uniti. La
sconfitta nella guerra del Vietnam scosse la fiducia dell’America; i sovietici avanzavano minacciosamente
nel mondo; la Nuova Sinistra portava nichilismo e violenza; i ghetti delle città americane erano sconvolti
dalla delinquenza, tanto che alla fine degli anni ’70 il tasso di omicidi raggiunse il record storico.
I semi della crisi erano stati gettati alla metà degli anni ’60 dal presidente democratico Lyndon Johnson,
che in quegli anni di euforia aveva aumentato enormemente la spesa pubblica sia per la guerra in Vietnam,
sia per nuovi programmi assistenziali di “guerra” interna alla povertà, con risultati fallimentari in entrambi
i casi. Il suo successore, il repubblicano Richard Nixon, era stato eletto nel 1968 con un programma
conservatore ma, una volta eletto, la sua politica economica fu ancor più interventista di quella di Johnson:
dichiarò di essere keynesiano, aumentò ulteriormente la spesa pubblica, nel 1971 uscì dal gold standard
facendo lievitare l’inflazione, stabilì un disastroso controllo sui prezzi che provocò scarsità di beni e lunghe
file alle pompe di benzina.
Il risultato fu la stagflazione, una combinazione tossica di elevata inflazione e disoccupazione non prevista
dai modelli keynesiani. La situazione non migliorò sotto la presidenza del democratico Jimmy Carter,
eletto nel 1976. Il triste e pessimista Carter non era l’uomo adatto per rinnovare la società e l’economia
americana. Occorreva qualcuno che riaccendesse la fede nella capacità degli imprenditori di far rinascere il
capitalismo americano, e quest’uomo era Ronald Reagan.

L’era dell’ottimismo
Reagan fu uno dei più popolari presidenti degli Stati Uniti. Nel 1984 venne rieletto staccando il suo rivale
democratico Walter Mondale di quasi venti milioni di voti. Alla fine dei suoi otto anni di presidenza il suo
tasso di approvazione era altissimo, tanto che i repubblicani trascorreranno i decenni successivi alla ricerca
di un nuovo Reagan. Egli credeva fermamente nella necessità di liberare gli imprenditori dai vincoli del
governo. Se negli anni ’30 gli americani si erano rivolti allo Stato perché li salvasse dall’instabilità del
mercato, negli anni ’80 si rivolsero agli imprenditori perché li salvasse dal soffocamento statale.
Reagan colse numerosi successi nella sua lotta ai sindacati, all’inflazione, alle tasse elevate e al comunismo
internazionale, vincendo di fatto la guerra fredda. La sua politica economica (Reaganomics
), basata sulla riduzione delle imposte per le imprese e sulla deregolamentazione, diede risultati notevoli:
durante la sua presidenza il pil crebbe di quasi un terzo, l’inflazione scese dal 12 al 5 per cento, la
disoccupazione dal 7 al 5 per cento. La deregulation favorì straordinarie innovazioni nel campo
tecnologico, finanziario e dei trasporti, soprattutto nel settore aereo. Il suo unico insuccesso fu nel
contenimento della spesa e del debito pubblico, che tra il 1980 e il1990 triplicò.
Il suo successore George Bush cercò di ridurre il debito pubblico aumentando le tasse, sconfessando una
sua promessa elettorale. Il risultato fu una recessione che gli alienò l’elettorato a favore del democratico
Bill Clinton, il quale ebbe molto più successo. Clinton riportò il bilancio in pareggio e abbracciò con
entusiasmo la globalizzazione innescata dalla caduta dei regimi comunisti, generando un duraturo boom
economico. Negli anni ’80 e ’90 lo spirito imprenditoriale era tornato al centro della vita economica
americana, e gli Stati Uniti divennero una fucina d’innovazioni nel campo della finanza, dell’informatica,
delle comunicazioni e dell’energia, grazie anche alla rivoluzione del fracking, una nuova tecnica di
estrazione petrolifera messa a punto dall’imprenditore George Mitchell. Nel suo discorso di commiato
dopo il suo secondo mandato, Bill Clinton usò toni trionfalistici: “Siamo fortunati a vivere in questo
momento della storia. Mai prima d’ora la nostra nazione ha goduto, nello stesso tempo, di tanta prosperità e
progresso sociale, con così poche crisi interne e minacce esterne”.

La recessione e il tramonto del dinamismo americano
George W. Bush ereditò un paese dall’economia florida e con un surplus di bilancio, ma la sua presidenza
si caratterizzò per una serie continua di crisi: il collasso della Enron, l’attacco terroristico dell’11 settembre
2001 con il seguito delle guerre in Afghanistan e Iraq, e la crisi finanziaria globale del 2008. Malgrado il
governo fosse riuscito a contenere la crisi meglio che nel 1929, la ripresa successiva sotto Barack Obama si
è rivelò debole e incerta. L’America da allora appare sempre meno come una nazione eccezionale, e
sempre più come una tipica economia matura sovraccaricata dall’eccesso di governo, con una crescita
debole e timorosa del futuro.
Gli Stati Uniti sembrano aver perso il ruggente spirito pionieristico che li ha da sempre contraddistinti. Nel
1850 Herman Melville scriveva: “Noi siamo i pionieri del mondo, l’avanguardia inviata nei territori
selvagge a fare le cose mai tentate prima, per aprire un nuovo sentiero nel Nuovo Mondo”. Oggi molti dei
discendenti di questi pionieri sono terrorizzati solo a posare il piede su un nuovo sentiero. Il problema
comincia nelle scuole, alcune delle quali hanno vietato, per ragioni di sicurezza, di spingere i bambini
sull’altalena o di portare la merenda da casa. E continua nei college, dove i professori hanno creato degli
“spazi sicuri” per evitare che gli studenti entrino in contatto con idee che potrebbero risultare per loro
“offensive”.
La riduzione dei tassi di crescita rispetto al passato è dovuta soprattutto a due cause: l’eccesso di
assistenzialismo, dato che il numero delle persone che vivono di sussidi o di pensioni non fa che crescere; e
l’eccesso di regolamentazione, che agisce come una tassa sulle due maggiori risorse dell’imprenditore: il
suo tempo e la sua abilità nel fare cose nuove. Il maggior costo della regolamentazione è quello di portare
alla burocratizzazione del capitalismo, uccidendo così lo spirito d’innovazione imprenditoriale.
La storia del capitalismo americano raccontata in questo libro è essenzialmente una storia di successi.
Malgrado tutti i problemi recenti, la maggioranza degli americani non ha mai vissuto così bene come oggi.
L’America è sempre riuscita a riprendersi, anche dopo le gravi crisi degli anni ’30 e ’70, e non c’è ragione
di pensare che non possa farlo ancora. Tutto ciò che gli serve è di rimettere in moto il processo di
distruzione creatrice recuperando il suo tradizionale spirito imprenditoriale.

Citazioni rilevanti
In difesa dei grandi capitalisti
«La principale difesa di questi uomini dal pubblico obbrobrio, comunque, non è che si fecero strada nella
vita partendo da zero, o che fondarono opere caritatevoli. Il loro merito fu quello di generare un enorme
miglioramento degli standard di vita per tutti. Questi uomini erano geni imprenditoriali che riuscirono con
successo a fare degli Stati Uniti uno dei più puri laboratori di distruzione creativa che il mondo avesse mai
visto: uomini che compresero che nell’aria aleggiava qualcosa di grande ma ancora informe, e che gli
diedero una forma e una direzione, uomini che spremettero il petrolio dalle rocce e che crearono delle
macchine industriali dove prima c’era il caos ... Questi titani capirono che la base materiale della civiltà
stava cambiando. Carnegie comprese che l’America stava entrando nell’era dell’acciaio, e che l’uomo che
avesse fornito il miglior acciaio al minor prezzo sarebbe diventato un Re Mida. Rockefeller comprese che
stava cominciando l’era del petrolio. Henry Ford capì che stava iniziando l’epoca della mobilità di massa».
(p. 126)

La rivoluzione statalista del New Deal
«Più di ogni altra cosa, Franklin Delano Roosevelt raggiunse l’obiettivo maggiormente ambito dai
progressisti: cambiare la relazione tra il governo e il popolo. Prima del New Deal, l’America era stata
eccezionale nel suo sospetto verso il big government in generale e il governo federale in particolare: il
governo era molto più limitato che nella maggior parte dei Paesi europei e il potere era ampiamente
disperso fra tanti livelli sussidiari di governo. Dopo il New Deal, il governo federale divenne il cuore della
società americana. In breve: Roosevelt ereditò una politica economica decentralizzata fondata su mercati
flessibili e la trasformò in una politica economica dominata da Washington fondata sulla gestione della
domanda, su programmi nazionali di welfare, e su negoziazioni collettive e obbligatorie». (p. 251)

L’ascesa del conservatorismo americano del dopoguerra
«L’America venne spostata a destra da un movimento conservatore che odiava lo statalismo. Milioni di
americani lessero La via della schiavitù di Friedrich A. von Hayek, almeno nella versione condensata
curata dal Reader’s Digest. Gli uomini d’affari sostennero l’American Enterprise Institute, che si trasferì da
New York a Washington. L’individualismo celebrato nei romanzi La fonte meravigliosa (1943) e La
rivolta di Atlante (1957) della scrittrice Ayn Rand ricevette una grande accoglienza dal pubblico. Perfino a
guerra appena conclusa, pur avendo le truppe americane e quelle sovietiche combattuto dalla stessa parte,
l’anticomunismo era largamente condiviso dall’opinione pubblica: nel 1946 un sondaggio rivelò che il 67
per cento degli americani era contrario alla presenza di comunisti negli impieghi statali, mentre in un
sondaggio del 1947 il 61 per cento degli americani si dichiarò favorevole alla messa fuori legge del Partito
Comunista». (p. 277, 278)

Punti da ricordare
In America il capitalismo è sempre stato associato all’apertura e all’opportunità
La solida protezione costituzionale della proprietà privata e della libertà di scambio è stato il fattore
principale della prosperità americana
Gli americani credevano che i motori del cambiamento storico fossero gli imprenditori innovativi, e che la
“distruzione creativa” fosse la molla del progresso sociale
Con la vittoria dei nordisti nella guerra civile, l’America industriale del nord prevalse sull’America agraria
del sud
Tra il 1865 e il 1914 gli Stati Uniti divennero la prima potenza economica mondiale
Le innovazioni dei grandi imprenditori come Rockefeller, Carnegie, Vanderbilt, Morgan, Huntington, Fisk,
Gould, Ford resero gli americani molto più prosperi
Per tutto il XIX secolo l’America rimase fedele alla libera iniziativa e al governo limitato, sia nei fatti sia
negli ideali
All’inizio del XX secolo emersero le idee stataliste dei populisti e dei progressisti
Nei ruggenti anni ’20 il pil americano aumentò del 5 per cento all’anno, una delle più grandi performance
storiche di un paese avanzato
La crisi del 1929 sfociò in una grande depressione a causa delle politiche interventiste di Hoover e
Roosevelt
Nel secondo dopoguerra ci furono quasi 25 anni di crescita ininterrotta
Lo statalismo di Nixon portò alla stagflazione e alla sfiducia degli anni ‘70
La politica economica di Reagan ridiede slancio e ottimismo all’America
Grazie alla globalizzazione, la crescita proseguì anche begli anni ’90 di Clinton
Dopo la crisi del 2008 il dinamismo dell’economia americano è rallentato
Per risollevarsi l’America deve rimettere in moto il processo di distruzione creatrice recuperando il suo
tradizionale spirito imprenditoriale

Gli Autori
Alan Greenspan è nato nel 1926 nel quartiere di Washington Heights a New York da una famiglia di
origine ebraica. Nel 1945 ha frequentato la New York University, dove ha conseguito la laurea in
Economia con lode nel 1948, il master nel 1950 e il dottorato nel 1977. Nel 1954 è stato co-fondatore della
società di consulenza economica Townsend-Greenspan & Co. Dal 1974 al 1977 è stato consulente
economico del presidente Gerald Ford. Nel 1987 il Presidente Ronald Reagan lo ha nominato governatore
della Federal Reserve, carica che ha mantenuto fino al suo pensionamento nel 2006. È autore di altri due
best-seller: L’età della turbolenza e The Map and the Territory 2.0.
Adrian Wooldridge è nato l’11 novembre 1959 nel Regno Unito. Ha studiato storia moderna al Balliol
College di Oxford, dove nel 1985 ha conseguito il dottorato in filosofia. Attualmente è direttore editoriale
ed editorialista di The Economist. È co-autore, insieme a John Micklethwait, dei seguenti libri: The Witch
Doctors: Making Sense of the Management Gurus (1996), A Future Perfect: The Challenge and Promise of
Globalization (2000), The Company: A Short History of a Revolutionary Idea (2003), The Right Nation:
Conservative Power in America (2004, trad. italiana: La destra giusta, 2005), God is Back: How the
Global Revival of Faith Is Changing the World (2009), The Fourth Revolution: The Global Race to
Reinvent the State (2014). Insieme ad Alan Greenspan ha pubblicato Capitalism in America. A History
(2018).

Indice del libro
1      Introduction
29     1. A Commercial Republic: 1776-1860
60     2. The Two Americas
91     3. The Triumph of Capitalism: 1865-1914
123    4. The Age of Giants
150    5. The Revolt Against Laissez-Faire
189    6. The Business of America Is Business
220    7. The Great Depression
273    8. The Golden Age Of Growth: 1945-1970
299    9. Stagflation
326    10. The Age of Optimism
368    11. The Great Recession
389    12. America’s Fading Dynamism
418    Conclusion
451    Appendix: Data and Methodology
457    Acknowledgment
459    Image Credits
461    Notes
475    Index
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Alan Greenspan, Adrian Wooldridge, Capitalism in America. A History, Penguin Press, 2018, p. 486.

TAG: capitalismo, USA, Recensione, storia

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