BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" LUGLIO 2019 - Amazon AWS

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LUGLIO 2019

CAMERA PENALE VENEZIANA
   “ANTONIO POGNICI”

 BOLLETTINO
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Direzione

                Fabiana DANESIN

                    Segreteria

                Marco VIANELLO

                    Redazione

                Fabiana DANESIN

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       Paola LOPRIENO – Marco VIANELLO

                Comitato Scientifico

Damiano BEDA – Gabriele CIVELLO – Mariarosa COZZA

Andrea GALLI - Lorenza GAMBARO - Giorgia MASELLO

        Marianna NEGRO - Elena ZENNARO

                     Referente

                  Giovanni COLI

            PER IL SITO INTERNET
           www.camerapenaleveneziana.it

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SEZIONE PRIMA – DIRITTO PENALE

Tribunale Ordinario di Venezia – Sezione del Giudice per l’Udienza Preliminare – Sent. n.
246/2019 del 19.3.2019 (dep. il 9.4.19) – Giudice Stigliano Messuti

Delitti contro l’incolumità pubblica – Delitti colposi di comune pericolo – Disastro –
Naufragio – Principio di offensività – Principio di colpevolezza – Mancanza accadimento
macroscopico e dirompente – Mancanza situazione di rischio tale da porre in pericolo
l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone – Sentenza di non luogo a procedere
perché il fatto non sussiste

In tema di naufragio, qualora interessi una piccola imbarcazione da diporto con tre persone a
bordo, immediatamente tratte in salvo senza riportare alcuna conseguenza lesiva, affondata a poca
distanza dalla terraferma, in una zona e in un periodo dell’anno con ampia visibilità, con moto
ondoso normale, non si è in presenza di un accadimento macroscopico e dirompente, né di una
situazione di rischio tale da porre in pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di
persone.
Né può essere obiettato in contrario che la collisione tra di essa e un motoscafo in servizio pubblico
di linea ponga in pericolo l’integrità fisica dei passeggeri di quest’ultimo, tenendo conto della
notevole differenza di stazza tra le due imbarcazioni.

NOTA
In una vicenda riguardante la collisione tra un motoscafo adibito al trasporto passeggeri in servizio
pubblico di linea e un natante a remi in laguna di Venezia, con successivo affondamento di
quest’ultimo e salvataggio dei membri dell’equipaggio, il Pubblico Ministero, all’esito delle
indagini, esercitava l’azione penale nei confronti dei rispettivi conducenti per il reato di cui all’art.
449 c.p. (in relazione all’art. 428 c.p.), attribuendo ad entrambi la responsabilità del sinistro.
Il G.U.P. verificava previamente la correttezza dell’imputazione con riferimento alla fattispecie di
cui al co. 1 dell’art. 449 c.p., in luogo di quella di cui al relativo co. 2, in ragione della natura di
imbarcazione non adibita al trasporto di persone del mezzo da diporto in legno coinvolto e a quella
prevista all’art. 428 co. 1 c.p., e non co. 3 dello stesso, essendo l’imbarcazione spezzatasi e
affondata in proprietà non del soggetto agente, ma altrui. Successivamente, disponeva la
separazione delle posizioni dei coimputati, avendo il capitano del motoscafo formalizzato istanza di
applicazione pena a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale. Invitava, quindi, le parti del
procedimento non stralciato a concludere. Infine, pronunciava sentenza di non luogo a procedere
nei confronti di ambedue gli accusati, respingendo, pertanto, la richiesta di patteggiamento del
primo, perché il fatto non sussiste.
La decisione oggetto del presente contributo è quella riguardante il poppiere del natante a remi.
Prendendo le mosse dalla giurisprudenza più garantistica della Suprema Corte in materia, il Giudice
richiamava innanzitutto l’insegnamento secondo il quale “ai fini della configurabilità del delitto di
naufragio colposo di natante di altrui proprietà, costituente un reato di pericolo astratto, va
comunque accertata l’offensività in concreto del fatto alla luce del criterio della
contestualizzazione dell’evento, con giudizio ex ante, verificando se, alla luce degli elementi
concretamente determinatisi quali la dimensione del mezzo, il numero di passeggeri che può essere
trasportato, il luogo effettivo di naufragio, l’espansività e la potenza del danno materiale, il fatto
era in grado di esporre a pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone” (Cfr.
Cass. n. 12631/2017). Nello specifico, il Giudice evidenziava come la suddetta sentenza si ponesse
nel solco di pronunce di analogo tenore della Corte costituzionale e ne valorizzava il precipitato in
materia di offensività e colpevolezza. Segnatamente, ravvisava l’irrimediabile contrasto con tali

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principi della categoria del pericolo presunto, con ciò imponendosi di rintracciare nel tessuto
normativo della fattispecie tipica indici idonei a coprire di concreta attitudine offensiva la condotta
contestata. Aderendo a tale ratio interpretativa, del resto, si incorre nella tendenziale sostituzione del
pericolo presunto con il pericolo astratto, sicché la conformità al tipo meritevole di censura non
coincide con la mera operazione di collimazione tra il fatto e la lettera della norma, ma si richiede,
ulteriormente, un’autentica potenzialità offensiva dei beni giuridici dei quali essa si erge a tutela.
Laddove il reato come tratteggiato dal legislatore pecchi di tale capacità si dischiude la porta della
censura costituzionale.
Inoltre, affrontando la magnitudine lesiva nascosta dietro la nozione medesima di disastro, il G.U.P.
si faceva ancora forte di un arresto della Corte di Cassazione su tale specifico ambito. In esso, gli
Ermellini, confermando una sentenza di merito che aveva escluso il disastro colposo per un caso
afferente il mancato blocco automatico della marcia di una cabina funiviaria in corrispondenza della
stazione di arrivo, così da cozzare contro il respingente di fine corsa e, dunque, causando il
ferimento di diciassette persone, avevano distillato il seguente principio di diritto, relativo all’art.
449 c.p.: “è necessario e sufficiente che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente e
quindi caratterizzato, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità
di danno alla vita o all’incolumità di numerose persone, in un modo che non è precisamente
definibile o calcolabile” (Cfr. Cass. n. 14859/2015).
Compiuto tale excursus giurisprudenziale in tema di rapporto tra i principi di offensività e
colpevolezza e i reati di disastro e naufragio, il Giudice procedeva a sussumere i fatti al di sotto
delle norme penali rilevanti, così come interpretate dal filone sposato in apertura di motivazione,
puntando il faro su determinate circostanze chiave. In particolare, menzionava le dimensioni, la
natura e l’equipaggio dell’imbarcazione affondata, il pronto salvataggio dei soggetti interessati, la
mancanza di alcuna conseguenza lesiva per gli stessi, la prossimità dell’evento alla terraferma -
verificatosi in una zona e in un momento dell’anno caratterizzati da ampia visibilità (si trattava di
un pomeriggio del mese di luglio) -, in presenza di un moto ondoso non eccezionale. Alla luce di
ciò, approdava alla conclusione che difettassero tanto un accadimento macroscopico e dirompente
quanto una situazione di rischio tale da porre in pericolo l’integrità fisica di un numero
indeterminato di persone. Anticipando una possibile critica cui si offriva tale ultimo profilo della
propria argomentazione - riflettente proprio il bene giuridico tutelato dalla norma in considerazione
-, il G.U.P. escludeva categoricamente che tale pericolo potesse essere ravvisato con riguardo ai
passeggeri del motoscafo in servizio pubblico di linea - non essendo stato possibile, peraltro,
desumerne il numero dagli atti - data la notevole differenza di stazza tra le due imbarcazioni
coinvolte nel sinistro.
A ben vedere, la sentenza qui in commento sembra fare proprie, seppur non in forma esplicita, le
conclusioni di una recentissima pronuncia dei Giudici del Palazzaccio in tema di art. 449 c.p. (Cfr.
Cass. n. 12631/18), dove la scure di legittimità si era abbattuta su due aspetti trascurati, in allora,
della Corte di merito e che, in questa occasione, - merita di essere significato - sono risultati
attentamente sondati dal Giudicante, quali la contestualizzazione dell’evento e la valutazione del
pericolo per la incolumità delle persone coinvolte. Quanto al primo dei due cardini argomentativi
rievocati poiché “nessun accenno è stato posto su altri elementi, pure emersi, che si ponevano in
apparente contrasto con la paventata condizione di pericolo, quali il fatto che si è trattato di un
naufragio che ha riguardato una imbarcazione da diporto con sei persone a bordo,
immediatamente tratte in salvo, affondata a pochi metri dalla costa, d’estate, in pieno giorno e con
mare calmo, in prossimità di altre barche di diportisti che avrebbero potuto fornire immediata
assistenza; il ricorrente, al riguardo, ha anche allegato il verbale n. 31/2005, contenente le
considerazioni della Commissione ministeriale sull’evento, che ha ritenuto come «l’incolumità
delle persone a bordo dell’unità non sia stata esposta a un serio, concreto e attuale pericolo»”.
Rispetto al secondo, invece, in quanto “al di là dell’affondamento del natante, che costituisce uno
dei presupposti oggettivi del reato ma non l’unico a caratterizzarlo sul piano della tipicità, essendo
anche necessario, come detto, che il fatto si connoti come “disastro”, e quindi comporti un certo

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grado di offensività, concretamente apprezzabile, sul piano del pericolo per la vita e la salute delle
persone coinvolte (anche solo potenzialmente) nel naufragio”.
In tema di principio di offensività, tanto nel suo modello c.d. forte, fedele alla lezione di Franco
Bricola, che in quello c.d. debole, destinato a miglior fortuna nella prassi giurisprudenziale, si veda
V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio
ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005. [Gianmarco Bondi]

Tribunale Ordinario di Venezia – Sezione Distrettuale delle misure di Prevenzione – Giud. Estens.
Dott. Scaramuzza – Ud. 20.05.2019 (dep. 03.06.2019) – Imp. XY

Proposta della Procura di applicazione della Misura della Prevenzione della Sorveglianza
Speciale di P.S. con divieto di soggiorno ai sensi dell’art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11 –
Richiesta di rigetto della proposta – Illegittimità costituzionale dell’art. 4 co. 1 lett. c) del
D.Lvo 159/2011 nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si
applicano anche ai soggetti indicati nell’art. 1 lett. a) portatori della c.d. “pericolosità
generica” – Necessità di garantire una lettura costituzionalmente orientata all’art. 1 lett. b)
D.Lvo 159/2011 – Insussistenza di elementi di fatto da cui evincere che il soggetto “viva
abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” - Rigetto della Proposta -
Ragioni.
(Art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11)

“L’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2019 ha sancito l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 lett. a) del D.Lvo 159/2011 per violazione sia dell’art. 13 della
Costituzione che dell’art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU quale norma interposta in relazione all’art.
117 c. 1 della Costituzione, espungendo pertanto dall’ordinamento la categoria dei soggetti che
debbono ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi. Quanto
invece al disposto di cui all’art. 1 lett. b) del D.Lvo 159/2011 devesi evidenziare che la valutazione
sulla sussistenza o meno di elementi di fatto da cui poter desumere che un soggetto “viva
abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” deve essere accurata e deve
trovar riscontri oggettivi e concreti, non potendosi desumere dal solo fatto che vi siano mere
segnalazioni di polizia, anche se numerose, magari solo per reati arrestatisi allo stato del
tentativo”.

NOTA
Il provvedimento che si ritiene di dover analizzare per la delicatezza delle problematiche sottese
rappresenta il caso di un soggetto nei confronti del quale la Procura aveva avanzato Proposta di
applicazione della Misura della Prevenzione della Sorveglianza Speciale di P.S. con divieto di
soggiorno ai sensi dell’art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11, in quanto “abitualmente dedito a traffici
delittuosi” ed in quanto ritenuto “vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività
delittuose”. La materia, come a tutti noto, è stata frutto di recenti interventi da parte della Corte
Costituzionale nonché di numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Sostanzialmente
la misura veniva richiesta per le seguenti ragioni: assenza di attività lavorativa; frequentazione di
persone che, nella maggior parte dei casi, hanno precedenti di polizia per reati contro il patrimonio;
sussistenza di una serie di segnalazioni; il fatto di essere già stato destinatario di una serie di fogli di
via obbligatori. Veniva pertanto acquisita dal Tribunale documentazione attestante il contenuto
delle varie segnalazioni, appurando che si trattava di quasi tutte ipotesi di reati arrestatisi allo stato
del tentativo. Sulla base della documentazione in atti, integrata anche da quella acquisita, la Difesa
si permetteva osservare che trattandosi di una misura di prevenzione personale richiesta per un
soggetto nei cui confronti la Procura riteneva di dover ravvisare una c.d. “pericolosità generica”, in

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assenza di precedenti penali, in presenza di una serie di informative anche contradditorie nella
descrizione dei soggetti ritenuti responsabili, peraltro quasi tutte riferite a reati solo tentati e a fatti
certamente non definibili di “elevato spessore delinquenziale”, non si potessero assolutamente
ritenere integrati e sussistenti i presupposti per l’applicazione della misura richiesta. Sul punto
merita richiamarsi l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “occorre un
pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da
una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione
un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto”
(Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015).
Si osservava peraltro come la Corte Costituzionale fosse di recente intervenuta con sentenza n. 24
del 2019 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 co. 1 lett. c) del D. Lvo 159/2011 nella
parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applicano anche ai soggetti indicati
nell’art. 1 lett. a) portatori della c.d. “pericolosità generica”, in quanto la norma in questione “non
soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost. quanto in riferimento all’art. 117
co. 1 Cost, dall’art. 2 CEDU”. La lettura della richiamata sentenza della Corte Costituzionale
induce a riflettere anche sulla disposizione di cui all’art. 1 lett. b) del medesimo Decreto, avendo la
Corte specificato come a tale norma debba essere data una lettura costituzionalmente orientata, al
fine di garantire il rispetto dei principi costituzionali: “La locuzione "coloro che per la condotta ed
il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in
parte, con i proventi di attività delittuose" è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come
espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli "titoli" di reato, quanto di
specifiche "categorie" di reato.
Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l'esigenza - sulla quale ha da
ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l'attenzione la
sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte - di individuazione dei "tipi di comportamento" ("types of
behaviour") assunti a presupposto della misura. Le "categorie di delitto" che possono essere
assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso
di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito - da provarsi sulla base di precisi
"elementi di fatto", di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13,
secondo comma, Cost.) - per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un
significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a
costui, c) i quali a loro volta costituiscano - o abbiano costituito in una determinata epoca - l'unico
reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito”. Sul punto è
evidente che nel caso di specie, trattandosi di quasi tutte segnalazioni per reati tentati e non
consumati, peraltro tutti casi in cui il profitto che si sarebbe ricavato sarebbe stato certamente di
modesta entità, non si potessero ritenere integrati i requisiti richiesti dalla Corte, ovvero l’esistenza
di effettivi profitti in capo al soggetto i quali costituissero l’unico reddito del soggetto o comunque
una componente significativa di esso. “Il riferimento ai "proventi" di attività delittuose, di cui alla
lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato nel senso di richiedere la
"realizzazione di attività delittuose che ... siano produttive di reddito illecito" e dalle quale sia
scaturita un'effettiva derivazione di profitti illeciti” (Cass. n. 31209 del 2015).
Investito della questione, il Tribunale del Riesame di Venezia – Sezione Distrettuale della Misure di
Prevenzione - rigettava la proposta osservando che non si potesse ritenere raggiunta la prova che
“il soggetto, privo di precedenti definitivi (salvo una contravvenzione per foglio di via) e privo di
carichi pendenti, viva abitualmente, anche in parte, con proventi delittuosi, non potendosi
certamente ritenere che il proposto possa aver tratto profitti significativi da due soli delitti, oggetto
solo di segnalazione, consumati uno nel 2017 ed uno nel 2018, e produttivi di profitti illeciti, che lo
stesso proponente peraltro rileva essere stati scarsi”. Lo stesso Tribunale richiamava le recenti
pronunce della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “in tema di misure di prevenzione, il
concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica deve essere valutato tenendo
conto del pregresso accertamento in sede penale, ancorché non definito da una sentenza di

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condanna, relativo all’accertamento dell’avvenuta commissione di delitti dai quali il proposto
avrebbe tratto proventi illeciti” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 53003 del 21/09/2017). E’ d’obbligo
in questa sede soffermarsi a riflettere sul fatto che ripetutamente in pronunce giurisprudenziali,
anche recenti, la Suprema Corte ritenga che il Tribunale possa “ricostruire in via autonoma la
rilevanza dei fatti accertati in sede penale” anche nei casi in cui non abbiano dato luogo ad una
sentenza di condanna ed anche nei casi in cui sia stata emessa una sentenza di proscioglimento per
intervenuta prescrizione. Personalmente mi permetto osservare che una siffatta interpretazione
debba essere calibrata con attenzione al fine di scongiurare l’ipotesi che la mera presenza di una
sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, magari unita a mere segnalazioni, possa
essere sufficiente a ritenere applicabile una misura di prevenzione, una misura preventiva limitativa
della libertà che proprio in quanto tale, in onor dei principi fondanti la nostra Costituzione nonché
dei principi sottesi alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo, ritengo debba essere uno strumento di
limitato ed accurato utilizzo.
Il Tribunale di Venezia ha esaminato con attenzione la questione in esame ed ha concluso con il
ritenere non applicabile la misura in quanto “NON POSSA fondarsi un giudizio di pericolosità solo
in base ad un Decreto Penale di condanna per un’unica violazione a foglio di via obbligatorio, e a
mere segnalazioni di polizia per truffe, di cui solo due consumate, e per importi di scarsa entità, ed
il resto solo tentate ed oltretutto nessuna accertata giudizialmente”.
Non solo. Il Tribunale, poiché il proponente aveva fatto richiamo anche all’art. 1 lett. c) del D.Lgs.
159/2011 per sostenere la propria richiesta di applicazione della misura di Sorveglianza Speciale, ha
correttamente motivato anche sul punto ritenendo non integrato il requisito della “comprovata
dedizione alla commissione di reati offendenti o ponenti in pericolo la sicurezza o tranquillità
pubblica”. L’art. 6 del medesimo decreto, nel ritenere applicabili ai soggetti di cui all’art. 1 la
misura di prevenzione, richiede che tali persone “siano pericolose per la sicurezza pubblica”, ed è
questo il punto su cui focalizza l’attenzione l’Organo Giudicante, secondo il quale non attribuire un
precipuo significato a questa locuzione significherebbe privare di significato la norma, in quanto
nulla sarebbe altro che la ripetizione dell’art. 1. Per potersi quindi correttamente ritenere applicabile
la misura di prevenzione ai soggetti indicati all’art. 1 lett. c) del D.Lgs. 159/2011 è necessario che
tali soggetti abbiano posto a rischio non solo beni giuridici individuali bensì beni giuridici di natura
collettiva: “In tema di misure di prevenzione, può ritenersi socialmente pericoloso ai sensi dell’art.
1, comma 1 lett. c), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il soggetto che risulti dedito in maniera non
occasionale alla commissione di fatti criminosi lesivi o, comunque, pericolosi per la sicurezza e la
tranquillità pubblica e non di beni giuridici meramente individuali” (Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n.
9517 del 07/02/2018). [Lorenza Gambaro]

Tribunale di Venezia – Sezione Distrettuale Misure di Prevenzione, Presidente dott.ssa Marchiori -
Giudice Estens. Dott. Gualtieri, Ud. 18/02/2019 (dep. 12/03/2019) – Imp. XY

Misure di Prevenzione ex D. Lgs. 159/2011 – Richiesta basata su c.d. Pericolosità Generica –
Presupposti – Difetto – Decreto di Rigetto.

“Nel caso di proposte fondate sulla cd. pericolosità generica, i presupposti per l’applicazione della
misura di prevenzione sono i seguenti: in primo luogo è necessario l’esistenza di elementi di fatto
che consentano di inquadrare il proposto, con esattezza, in almeno una delle categorie
criminologiche di cui all’art. 1 del D. Lgs. 159/2011; in secondo luogo si deve accertare che il
proposto risulti, sulla base di elementi obiettivi, pericoloso per la sicurezza pubblica, ai sensi
dell’art.6 del medesimo decreto; quindi, è necessario che tale pericolosità sia attuale, ossia
sussistente nel momento in cui interviene la decisione.

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Tutti e tre gli elementi devono coesistere: la mancanza anche di uno solo dei suddetti requisiti
impedisce l’applicazione della misura”.

NOTA
Il decreto di rigetto della misura di prevenzione in esame viene emesso in un procedimento sorto su
istanza della Questura di Verona che chiede al Tribunale Distrettuale l’applicazione nei confronti di
X della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per 3 anni, con obbligo di soggiorno nel comune
di residenza o di dimora abituale e con obbligo di presentazione quotidiano all’autorità di controllo.
La richiesta viene formulata ai sensi dell’art. 4 e 1 co. 1 lett. a), b) e c) del D. Lgs. 159/2011, vale a
dire per essere il soggetto ritenuto abitualmente dedito a traffici delittuosi, per vivere abitualmente
anche in parte dei proventi illeciti, per essere dedito alla commissione di reati che offendono o
mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minori, la sanità, sicurezza o tranquillità pubblica.
A sostegno della richiesta vengono elencati i numerosi precedenti penali a carico di X, le pendenze
e le segnalazioni di polizia; viene dato atto dell’assenza in toto di qualsivoglia attività lavorativa e
del pregresso tenore elevato di vita, dello stato di tossicodipendenza incompatibile con le condizioni
economiche di X.
Vale una premessa.
La norma in esame prevede, in relazione alle misure di prevenzione personale, due tipologie di
misure: quelle applicate dal Questore (foglio di via obbligatorio e avviso orale), disciplinate dagli
artt. da 1 a 3 e quelle applicate dall’Autorità Giudiziaria, disciplinate dall’art. 4 e ss.
I presupposti di queste ultime sono indicati nell’art. 6 D. Lgs. 159/11.
I soggetti destinatari sono quelli di cui all’art. 4 del D. Lgs. 159/11, la cui lettera c) rimanda ai
presupposti indicati per le misure applicate dal Questore, con unica esclusione dei soggetti di cui
all’art. 1 lett. a), vale a dire coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto,
abitualmente dediti a traffici delittuosi.
La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza 24.01-27.02.2019 ha dichiarato illegittima la lettera c)
nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II – misure applicate dall’autorità
giudiziaria - si applichino anche ai soggetti indicati nell’art.1 lettera a).
La ritenuta abituale dedizione di X a traffici delittuosi sulla base dei precedenti e delle pendenze
nonché segnalazioni non può ritenersi presupposto per la applicazione della misura.
Non rivestendo più la categoria di cui all’art. 1 lett. a) alcuna rilevanza a seguito dell’intervento
della Consulta, il Tribunale ha esaminato la sussistenza dei rimanenti requisiti.
Numerosi sono i precedenti penali a carico del proposto: i più gravi e rilevanti commessi in epoca
lontana, cui si riferiscono le numerose condanne e segnalazioni.
In epoca recente X ha commesso reati di inferiore rilevanza sociale, per lo più furti di biciclette
avvalendosi da solo di tecniche rudimentali, aventi ad oggetto beni di modesto valore economico.
La modestia dei reati contro il patrimonio, commessi in epoca più recente con metodologie
rudimentali da soggetto isolato e non inserito in alcun contesto criminale, aventi per oggetto beni di
modesto valore economico (furti di bicilette), commessi da soggetto in condizione di assoluta
indigenza, non possono essere valorizzati ai fini di nessuna categoria di cui all’art. 1.
La modesta gravità dei fatti recenti commessi, l’assenza di forme di violenza o di modalità
particolarmente aggressive o lesive dei beni altrui, le gravi documentate condizioni di salute del
proposto che ne limitano l’offensività, non consentono neppure l’inquadramento sub. art. 6 della
pericolosità per la sicurezza pubblica, intesa come accertamento di un effettivo pericolo per la
collettività.
Difettando anche l’elemento imprescindibile dell’attualità la richiesta è stata rigettata per carenza
dei tre dati necessari ed assolutamente indefettibili: l’inquadramento nelle categorie di cui all’art.1,
la pericolosità di cui all’art. 6 e l’attualità del pericolo.
Con riferimento a quest’ultimo requisito si ritiene opportuno aggiungere alcune brevi note.
Con la sentenza n. 291 del 02.12.2013 la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’art. 15 del D.
Lgs. 159/11 nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di

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prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della
persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione deve valutare,
anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento
dell’esecuzione della misura.
Una cosa è, infatti, la applicabilità della misura a soggetti ristretti in carcere, possibile per
orientamento costante, altra cosa è l’esecuzione della misura che deve rimanere sospesa ed è
differita sino al momento in cui viene a cessare lo stato di detenzione.
Orbene, in detta ipotesi la pericolosità va riverificata a sospensione esaurita.
Detta ratio ha portato all’introduzione, con la legge 17.10.2017 n. 161, dell’art. 14 D. Lgs. 159/11
disciplinante, appunto, la decorrenza e la cessazione della sorveglianza speciale. [Mariarosa Cozza]

Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari – Sent. n. 655/2018 del 17
ottobre 2018 – Est. Vicinanza – Imp. XY

Reati previsti dal TULPS – omessa comunicazione ex art. 109, co. 3° - successione delle leggi
penali nel tempo – abrogazione della legge n. 135 del 2001 sostitutiva dell’art. 109 TULPS –
abrogazione dell’art. 109 TULPS – reviviscenza della precedente normativa abrogata –
esclusione – inapplicabilità dell’art. 109 TULPS

L'obbligo per i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricreative di comunicare
all'autorità locale di p.s. le generalità delle persone alloggiate entro le ventiquattro ore successive
al loro arrivo, previsto dall'art. 109 R.D. 18 giugno 1931 n. 773 (testo unico delle leggi di p.s.) non
è più sanzionata penalmente dalla disposizione sussidiaria di cui all'art. 17 dello stesso R.D. n. 773
del 1931, in quanto la Legge n. 135 del 2001, che aveva riformulato la norma eliminando la
sanzione amministrativa che era stata introdotta con la depenalizzazione operata dal D.L. n. 97 del
1995 (conv. dalla Legge n. 203 del 1995), è stata abrogata dal D.L.vo n. 79 del 2011 ed il D.L. n.
201 del 2011 (conv. dalla Legge n. 214 del 2011) ha riformulato il solo comma 3°, lasciando
immutata l’intervenuta abrogazione dei commi 1° e 2°, con conseguente inapplicabilità tout court
del disposto normativo dell’art. 109 TULPS.

NOTA
La sentenza in commento afferisce ad un procedimento penale nel quale l’imputato era chiamato a
rispondere, in qualità di amministratore unico e legale rappresentante di una società gestrice di una
struttura ricettiva, della contravvenzione di cui all’art. 109, co. 3° T.U.L.P.S..
Oggetto di addebito era, in particolare, l’omessa comunicazione alla Questura delle generalità delle
persone alloggiate nella struttura stessa entro le ventiquattro ore successive al loro arrivo.
Il Giudice per le Indagini Preliminari, investito dal Pubblico Ministero della richiesta di emissione
del decreto penale di condanna, ha ritenuto di non poter accogliere siffatta richiesta, pronunciando
sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.
Il Giudicante ha, innanzitutto, ripercorso sinteticamente il complesso percorso normativo che ha
portato all’attuale formulazione della citata norma incriminatrice.
Il disposto di cui all’art. 109 TULPS, che nella versione originaria disciplinava la fattispecie come
illecito penale (dapprima mediante il richiamo alle pene stabilite dall’ultimo comma dell’art. 665
cod. pen. e, successivamente all’abrogazione della norma codicistica ad opera del D.L.vo n. 480 del
1994, mediante la previsione di specifiche sanzioni penali introdotte nell’ultimo comma del citato
art. 109 dal ridetto D.L.vo), aveva subito una prima radicale modifica nel 1995, allorquando con il
D.L. n. 97 del 1995 (convertito nella Legge n. 203 del 1995) la medesima fattispecie era stata
depenalizzata, prevedendo il nuovo 4° comma della norma in parola che la violazione dell’obbligo

                                                  9
di comunicazione fosse punita con la “sanzione amministrativa del pagamento di una somma da
lire un milione e lire sei milioni”.
Contestualmente, era stato modificato il novero dei soggetti tenuti al ridetto obbligo di
comunicazione, ovvero non più “gli albergatori, i locandieri, coloro che gestiscono pensioni o case
di salute o altrimenti danno alloggio per mercede”, ma “i gestori delle strutture ricettive di cui
all’art. 6 della legge 17 maggio 1983 n. 217, esclusi i rifugi alpini inclusi in apposito elenco
approvato dalla regione o provincia autonoma in cui sono ubicati”.
Con la successiva novella del 2001, introdotta dall’art. 8 Legge n. 135 del 2001, il legislatore aveva
nuovamente criminalizzato la fattispecie in questione, espungendo dal testo del citato art. 109 il
comma 4° (che prevedeva, appunto, la predetta sanzione amministrativa), con conseguente
applicabilità delle sanzioni penali previste dall’art. 17 TULPS, a mente del quale “(…) le violazioni
alle disposizioni di questo testo unico, per le quali non è stabilita una pena od una sanzione
amministrativa ovvero non provvede il codice penale, sono punite con l’arresto fino a tre mesi o
con l’ammenda fino ad euro 206”.
Era stato, altresì, nuovamente modificato il comma 1 della medesima disposizione, individuando
quali soggetti sottoposti al ridetto obbligo di comunicazione “i gestori di esercizi alberghieri e di
altre strutture ricettive, comprese quelle che forniscono alloggio in tende, roulotte, nonché i
proprietari o gestori di case e di appartamenti vacanze e gli affittacamere, ivi compresi i gestori di
strutture di accoglienza non convenzionali, ad eccezione dei rifugi alpini inclusi in apposito elenco
approvato dalla regione o provincia autonoma in cui sono ubicati”.
Il legislatore è, infine, nuovamente intervenuto in subiecta materia, dapprima con il D.L.vo n. 79
del 2011, il cui art. 3 lett. I) ha integralmente ed espressamente abrogato “la legge 29 marzo 2001,
n. 135” e, successivamente, con il D.L. n. 201 del 2011 (convertito nella Legge n. 214 del 2011), il
cui art. 40, comma 1° ha modificato il solo comma 3° dell’art. 109 TULPS, prevedendo che “entro
le ventiquattro ore successive all’arrivo, i soggetti di cui al comma 1 comunicano alle questure
territorialmente competenti, avvalendosi di mezzi informatici o telematici o mediante fax, le
generalità delle persone alloggiate, secondo modalità stabilite con decreto del Ministero
dell’Interno, sentito il Garante per la protezione dei dati personali”.
Ora, è proprio interpretando in via sistematica tali ultime due novelle legislative che il Giudice
perviene ad una pronuncia di proscioglimento dell’imputato, in particolare perché il fatto non è
previsto dalla legge come reato.
L’effetto ablativo della novella del 2011 (D.L.vo n. 79 del 2011) sulla novella del 2001 (L. n. 135
del 2001) avrebbe, infatti, coinvolto anche l’art. 8 della stessa legge n. 135 del 2001 – ovvero la
norma che aveva sostituito il dettato normativo dell’art. 109 TULPS – con la conseguenza che
anche l’art. 109 TULPS dovrebbe considerarsi implicitamente abrogato, essendo venuta meno la
norma (art. 8, L. n. 135 del 2001) che ne aveva modificato il testo.
In altri termini, l’intervenuta abrogazione delle Legge n. 135 del 2001 avrebbe provocato
l’abrogazione anche del disposto dell’art. 109 TULPS nella versione introdotta da quest’ultima
legge.
Né l’ulteriore novella legislativa del 2011 (D.L. n. 201 del 2011), modificando esclusivamente il
comma 3° del citato art. 109, avrebbe mutato la situazione, in quanto il legislatore, non avvedendosi
dell’intervenuta abolitio dell’intero dettato normativo di cui all’art. 109, si sarebbe limitato a
(re)introdurre il comma 3° nell’ambito di una norma priva dei primi due commi.
Tale vuoto normativo, sempre secondo il Giudice, nemmeno sarebbe “colmabile” mediante la
reviviscenza della versione dell’art. 109 TULPS introdotta dal D.L. n. 97 del 1995, ipotesi del resto
esclusa dalla stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Pen., sez. I, sent. 9/04/2014, n. 32777).
E, se anche si volesse accedere a siffatta ipotesi interpretativa - conclude il Giudice - ci si
troverebbe di fronte all’impossibilità di individuare i soggetti tenuti all’obbligo di comunicazione ai
sensi del D.L. n. 97 del 1995, in quanto la Legge n. 135 del 2001 aveva espressamente abrogato la
L. n. 217 del 1983, a cui il comma 1 dell’art. 109 TULPS nella versione introdotta dal citato D.L. n.
97 del 1995 faceva espresso riferimento proprio per individuare i soggetti obbligati.

                                                  10
Pertanto, facendo il comma 3° dell’art. 109 TULPS riferimento, per l’individuazione dei soggetti
obbligati, ad un comma (il 1°) non più vigente, si renderebbero di fatto inapplicabili le sanzioni
penali previste dall’art. 17 TULPS per la violazione dell’obbligo di cui al citato comma 3°, con
conseguente proscioglimento dell’imputato perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come
reato.
La conclusione a cui è pervenuto il Giudice è sicuramente innovativa, in quanto si pone in aperto
contrasto con la stessa giurisprudenza di legittimità citata nel provvedimento in commento.
Infatti, sebbene la Suprema Corte in tale arresto escluda l’ipotesi di una possibile reviviscenza della
versione dell’art. 109 TULPS introdotta dal D.L. n. 97 del 1995, per converso smentisce
espressamente l’assunto secondo cui l’art. 109 TULPS sarebbe stato, per effetto dell’intervenuta
abrogazione della legge n. 135 del 2001, abrogato “in via mediata”.
In particolare, i Giudici di legittimità statuiscono in tale precedente che “la sostituzione in toto della
predetta legge (legge n. 135 del 2001) con la novella (D.L.vo n. 79 del 2011) non comporta
l’eliminazione dell'effetto abrogativo sostitutivo dell'art. 109 TULPS che si è già verificato e non
può derivarne la riviviscenza del testo introdotto con D.L. n. 97 del 1995, che prevedeva la
sanzione amministrativa (Sez. 3, n. 19037 del 18/04/2007, Caggegi1). Tanto trova conferma anche
nel fatto che il successivo D.L. n. 201 del 2011, conv. nella L. n. 214 del 2011 (decreto
semplificazione governo Monti) che all'art. 40, comma 1, prevede la semplificazione degli
adempimenti per la registrazione dei clienti nelle strutture ricettizie dell'art. 109 TULPS e modifica
il solo comma 3, facendo riferimento al testo di detto articolo formulato dalla L. n. 135 del 2001,
che, quindi, considera vigente anche dopo l'intervenuta abrogazione (cfr. Cass. Pen., sez. I, sent.
9/04/2014, n. 32777).
In sostanza, sebbene la Corte regolatrice confermi l’assenza di qualsiasi margine per l’applicazione
in subiecta materia del fenomeno della cd. “reviviscenza”, parimenti smentisce l’assunto secondo
cui l’espressa abrogazione della Legge n. 135 del 2001 ad opera del D.L.vo n. 79 del 2011 avrebbe
provocato anche la conseguente abrogazione del disposto normativo di cui all’art. 109 TULPS, in
quanto non potrebbe in alcun modo venir meno l’effetto abrogativo-sostitutivo operato sull’art. 109
TULPS dalla Legge n. 135 del 2001, proprio perché già verificatosi.
Del resto, la Suprema Corte, sempre nella medesima pronuncia, contrariamente a quanto sostenuto
nella sentenza in commento, trae proprio dalla sostituzione del solo comma 3° del citato art. 109,
operata come detto dalla novella legislativa del D.L. n. 201 del 2011, la riprova dell’attuale vigenza
dell’intero disposto normativo di cui all’art. 109 nella versione introdotta con la Legge n. 135 del
2001.
Il legislatore della novella, in altre parole, nel modificare solo parzialmente il testo dell’art. 109
(ovvero sostituendone il solo comma 3°), lungi dall’essere in corso in un errore nel non aver tenuto
conto dell’intervenuta abrogazione (mediata) anche dei commi 1° e 2° della medesima disposizione
normativa, ne avrebbe implicitamente confermato la vigenza tout court nella versione introdotta
dalla Legge n. 135 del 2001, anche dopo l’intervenuta abrogazione di tale legge ad opera del D.L.vo
n. 79 del 2011. [Andrea Galli]

1 In tale precedente (Cass. Pen., sez. III, sent. 18 aprile 2007 n. 19037), la Suprema Corte ha affermato che “soltanto in
presenza di una dichiarazione di incostituzionalità che caduchi interamente una disposizione avente come contenuto
unicamente quello di abrogare altra precedente disposizione, è ipotizzabile la reviviscenza di quest'ultima, poiché la
pronuncia caducatoria fa venir meno l'unico contenuto normativo della disposizione caducata, producendo l'effetto di
far rivivere la previgente disposizione”; in senso adesivo, Cass. Civ. SS.UU., sent. 23 ottobre 2007 n. 25551, a tenore
della quale “nel regime di successione delle leggi, mentre l'abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce
quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto può invece predicarsi in caso di abrogazione di una
disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicché ciò che viene meno è
proprio l'effetto abrogativi”.

                                                           11
Tribunale di Agrigento – Giudice per le Indagini Preliminari – Ord. 02.7.2019 – Giudice A. Vella –
Imp. XY

Diritto della Navigazione - Resistenza o violenza contro nave da guerra – nozione di nave da
guerra – vedetta della Guardia di Finanza in acque territoriali – non sussistenza (art. 1100
cod. nav.)
Resistenza a pubblico ufficiale – comportamento giustificato dalla necessità-dovere del
comandante di salvataggio in mare di soggetti naufraghi – causa di giustificazione
(artt. 51, 337 cod. pen., art. 10 Cost., art. 98 l. 689/94)

In presenza del fatto di aver forzato il divieto di ormeggio impartito dalle forze dell’ordine tramite
una vedetta della Guardia di Finanza in porto e, pertanto, entro le acque territoriali, nonché
essendo provata anche l’esistenza degli elementi materiale e soggettivo del delitto di cui all’art.
337 cod. pen., nell’ambito di un’attività, protrattasi per giorni, di salvataggio in mare di naufraghi,
non è configurabile il delitto di cui all’art. 1100 cod. nav. perché il mezzo della Guardia di
Finanza, trovandosi all’interno delle acque territoriali non è qualificabile come “nave da guerra
nazionale”, né è ritenuto sussistere il reato di resistenza a pubblico ufficiale – contestato per i
medesimi fatti materiali – essendo la condotta scriminata per la causa di giustificazione già citata.

NOTA
La vicenda trae origine dal noto evento della nave olandese Sea Watch 3.
Il Giudice per le indagini preliminari, era stato chiamato a decidere in ordine alla convalida
dell’arresto della Comandante – cittadina tedesca - della nave straniera che trasportava da giorni
alcuni cittadini extracomunitari naufraghi, recuperati in acque extra territoriali, per aver compiuto
atti di resistenza e violenza nei confronti di una vedetta della Guardia di Finanza, che aveva tentato
di impedire l’ormeggio in forza di un ordine interministeriale (Ministeri Interno, Difesa e
Infrastrutture e Trasporti) di “divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nelle
acque territoriali italiane”, in conformità al comma 1 ter dell’art. 11 del d. lgs. 286/98, introdotto
con D.L. 14 giugno 2019, n. 532 nelle more tra l’inizio del salvataggio e l’arrivo in porto.
Quanto al delitto di cui all’art. 1100 cod. nav.3, il Gip ha tratto convincimento dalla decisione
35/2000 della Corte Costituzionale4, che aveva implicitamente qualificato le unità della Guardia di
Finanza come navi da guerra solo in determinate condizioni di utilizzo5, escludendo, pertanto, nel
caso di specie la sussistenza del reato, dato che i fatti si erano svolti entro il porto di Lampedusa.

2
  “1-ter. Il Ministro dell'interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1 della legge 1° aprile
1981, n. 121, nell'esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi
internazionali dell'Italia, può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si
tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica
ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all'articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni
delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto
finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è
adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive
competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”.
3
   “Il comandante o l'ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra
nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un
terzo alla metà”.
4
  http://www.giurcost.org/decisioni/2000/0035s-00.html
5
  “le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del
naviglio militare dello Stato (art. 1, primo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1973, n. 1199 - Disciplina per l'iscrizione nel
quadro del naviglio militare dello Stato di unità dell'Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza, del
Corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del Corpo delle capitanerie di porto -); battono "bandiera da guerra" e
sono assimilate a quelle della Marina militare (artt. 63 e 156 del r.d. 6 novembre 1930, n. 1643 - Approvazione del
nuovo regolamento di servizio per la Regia Guardia di finanza -); sono quindi considerate navi militari agli effetti
della legge penale militare (art. 11 del codice penale militare di pace); quando operano fuori delle acque territoriali
ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare esercitano le funzioni di polizia proprie delle "navi da

                                                              12
Quanto al più generale delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cod. pen.), il giudicante ha
preliminarmente elencato la gerarchia delle fonti nazionali e internazionali, che sorvegliano il
provvedimento amministrativo interministeriale citato, norme che si vanno a elencare:
    - Articoli 10 e 117 Costituzione;
    - Legge 689/84 (recepimento Convenzione delle nazioni Unite sul diritto del mare di Montego
        Bay del 10 dicembre 1982 – UNCLOS)6;
    - Convenzione cosiddetta SOLAS resa esecutiva in Italia con legge 313/1980;
    - Convenzione SAR adottata a Amburgo il 27 aprile 1979 e resa esecutiva in Italia con legge
        47/89;
    - Articoli 1158 e 490 codice della navigazione.
Per un più diffuso approfondimento del quadro normativo si suggerisce lo scritto "Gli obblighi di
soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno" di Fulvio Vassallo
Paleologo, in Questione Giustizia, 2/2018, pagg. 215 e seguenti7.
La valutazione del Giudicante, quindi, si è basata anche sulla cronologia dei fatti, così come
ricostruiti nella comunicazione della notizia di reato della Guardia di Finanza (fatti che hanno avuto
inizio il 12.6.2019 e sono terminati il 29.6.2019 con l’approdo a Lampedusa) e come raccontati
dall’indagata, la quale ha precisato in sede di interrogatorio durante l’udienza di convalida che non
ha reputato l’offerta SAR libica quale porto effettivamente sicuro (citando le raccomandazioni del
Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa e alcune decisioni giurisdizionali, tra le
quali la sentenza 23 maggio 2019 del Gip del Tribunale di Trapani, Dott. Pietro Grillo8); né
adeguata l’offerta tunisina, qualificata non sicura a suo dire da comunicazioni ufficiali di Amnesty
International e dalla stessa Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR).
Quanto alla manovra posta in essere dal Capitano, poi indagato, della Sea Watch, il giudicante,
visionati i filmati, ancorché abbia valutato come “molto ridimensionato” l’evento consistito
nell’avvicinamento cauto e poi l’aver forzato il blocco delle unità navali italiane davanti alla
banchina del porto per tentare di impedire l’attracco della nave con i migranti naufraghi a bordo, ha
considerato sussistere sia l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 337 c.p. sia la sua
componente soggettiva.
Ciononostante, stante la natura sovraordinata delle norme che imponevano al Comandante della Sea
Watch 3 di terminare il salvataggio e lo sbarco presso un porto sicuro, valutato come tale per
idoneità e vicinanza il porto di Lampedusa, secondo il giudicante sono inidonee a comprimere detti
obblighi del comandante le direttive ministeriali in materia e il provvedimento interministeriale
specifico di divieto di ingresso, transito e sosta del 15 giugno 2019.
Pertanto l’indagata ha disatteso detti provvedimenti amministrativi in adempimento di un dovere e,
come tale, le sue azioni, sono da considerarsi scriminate ex art. 51 cod. pen.
Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Agrigento, pertanto, non ha convalidato
l’arresto e ha rigettato la richiesta di custodia cautelare.
Evidente che la vicenda è intrisa di significati politici, ma anche si presta a strumentalizzazioni da
parte di ognuna delle tifoserie politiche interessate (e non solo, essendo state coinvolte anche le
forze dell’ordine).
Rimane indubbio, tuttavia, che l’analisi delle fonti applicabili fornisce un quadro che evidenzia una
serie di obblighi del comandante di un’unità in mare che difficilmente potrebbe far propendere per
soluzioni diverse. Si ipotizzi a titolo di esempio il soccorso di naufraghi in acque extraterritoriali da
parte di una normale unità da diporto durante un’uscita domenicale. Potrebbe l’ordinamento

guerra" (art. 200 del codice della navigazione) e nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice
della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della
legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei
tabacchi) …..” (C. Cost. cit.)
6
  http://www.reteambiente.it/normativa/8753/legge-2-dicembre-1994-n-689/
7
   http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-
interno_548.php
8
  https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/06/2019_tribunale_trapani_vos_thalassa.pdf

                                                           13
imporre a quel comandante, oltre al dovere di soccorrere, anche quello di vagare di porto in porto,
discostandosi, anche di parecchie miglia rispetto alla propria destinazione, per evitare di sbarcare i
naufraghi soccorsi nel Paese che non li desidera, accollandosi vitto, alloggio, cure sanitarie e altro,
rischi meteo marini e sanitari, adempimenti per i quali forse non è neppure attrezzato?
Nel caso di specie si tratta in realtà di navi che per scelta si trovano nelle condizioni di incappare in
migranti e richiedenti asilo a rischio naufragio, unità che evidentemente non seguono rotte con
destinazioni lineari, bensì “pattugliano” le acque extra territoriali rimanendo “disponibili” al
soccorso.
E’ parimenti evidente che anche tali transiti, volutamente senza rotte tradizionali, da punto a punto,
sottostanno alle regole internazionali, che, comunque, impongono il soccorso in capo al
comandante.
E’ altrettanto certo che le vicende dovranno essere valutate caso per caso, per poter giudicare se si
rientri in un reale dovere di aiuto che imponga anche di forzare un blocco dell’autorità nazionale per
portare a termine il soccorso (nel caso che qui ci occupa durato dal 12 al 26 giugno, dopo una serie
di valutazioni – asseritamente – attente sull’individuazione del POS - place of safety - e resistenze
delle autorità frontaliere che hanno costretto a una permanenza di marittimi e naufraghi a bordo che
si è protratta quasi al limite delle potenzialità del bordo). [Marco Vianello]

Tribunale Ordinario di Treviso – Giudice Monocratico Penale – Sent. 14.11.2018 – Est. Dott.
Bianco – Imp. XY + altri

Diffamazione a mezzo Facebook ad agenti della Polizia Locale - Individuazione della persona
offesa dal reato - Estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p -
Opposizione della parte civile - Poteri del giudice nell'applicazione della norma.

In tema di diffamazione a mezzo Faebook, in particolare nel caso di specie agli agenti di Polizia
Locale, è innanzitutto necessario individuare la persona offesa/danneggiata dal reato per poi
eventualmente procedere al risarcimento del danno, al fine di determinare il verificarsi dell’effetto
di estinzione del reato previsto dall’art. 162 ter c.p.

NOTA
Nel caso di specie il giudice, prima di decidere su tutte le questioni preliminari, all'udienza di
comparizione ha proceduto ex officio all'audizione di un agente - persona offesa, presente in
udienza, per comprendere sommariamente i fatti ai fini dell'accertamento di quanti e quali agenti
fossero coinvolti nel fatto in contestazione. Nella predetta ordinanza emessa a scioglimento della
riserva sulle questioni preliminari il giudice ha anzitutto indicato il criterio per l'identificazione
della persona offesa dal reato di diffamazione art. 595 co.3 c.p., escludendo per implicito che siano
da considerarsi persone offese tutti gli agenti di un corpo di polizia locale per il solo fatto che le
espressioni diffamatorie siano indirizzate, nei post pubblicati dagli imputati su Facebook,
genericamente ai " vigili" di Treviso. In secondo luogo il giudice ha valutato la congruità delle
condotte riparatorie degli imputati ai fini dell'art. 162 ter c.p. Per consentire un adeguato ristoro
della parte civile ha effettuato una duplice sollecitazione: da un lato ha invitato il comandante della
polizia locale, che tra l'altro era uno dei querelanti, ad indicare al tribunale i nomi degli agenti
coinvolti nei fatti riportati dall'articolo di stampa. Dall'altro nella medesima ordinanza ha indicato la
somma ritenuta congrua per risarcire gli agenti coinvolti, invitando quindi gli imputati a ristorare il
danno ai predetti. Avendo le parti adempiuto a quanto indicato nell'ordinanza, alla successiva
udienza il giudice ha ritenuto congruo il risarcimento e le condotte riparatorie degli imputati. Per
tale ragione ha pronunciato sentenza di non doversi procedere nei confronti degli imputati, non
provvedendo sull'azione civile e non liquidando le spese alla parte civile pur costituita. Ciò in

                                                   14
ragione della ratio dell'articolo 162 ter c.p. a mente del quale il giudice può dichiarare estinto il
reato anche in caso, come questo, di rifiuto della persona offesa di ritenere congrua l'offerta
risarcitoria dell'imputato. Proprio sul ruolo svolto dal giudice in relazione al risarcimento del danno
ed alla condotta riparatoria, l'ordinanza del tribunale di Treviso ha il pregio di aver utilmente
contribuito a superare le critiche già portate all'articolo 162 ter c.p. relativamente al "non ruolo della
persona offesa". Si è, sostanzialmente, contestato che la persona offesa non abbia, secondo la
previsione normativa, alcun ruolo e/o potere di valutazione rispetto alla congruità dell'offerta
risarcitoria, sulla quale unicamente il giudice può pronunciarsi. Anche in ipotesi di rifiuto della
persona offesa il giudice potrebbe comunque dichiarare estinto il reato per la condotta riparatoria
dell'imputato ritenuta congrua. Il giudice del tribunale di Treviso ha dimostrato equilibrio nel far
governo della norma, poiché dando indicazioni sull'ammontare del risarcimento ritenuto congruo
per il danno patito della persona offesa e chiedendo la collaborazione del comandante della polizia
locale nell'individuazione delle persone offese, ha creato i presupposti per un "dialogo" tra le parti
finalizzato alla definizione del processo, secondo la ratio della norma. Si è evitato, in questo modo,
da un lato di tenere l'imputato " ostaggio" di eventuali pretese risarcitorie sesquipedali della persona
offesa-parte civile, dall'altro di frustrare l'aspettativa riparatoria in favore della persona offesa con
offerte miserrime da parte dell'imputato. È stata inoltre preservata anche l'economia processuale e la
finalità deflattiva della norma, posto che in sole due udienze il processo è stato concluso.
[Damiano Beda]

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