BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" LUGLIO 2019 - Amazon AWS
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LUGLIO 2019 CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI” BOLLETTINO 1
Direzione Fabiana DANESIN Segreteria Marco VIANELLO Redazione Fabiana DANESIN Federico CAPPELLETTI - Giovanni COLI Paola LOPRIENO – Marco VIANELLO Comitato Scientifico Damiano BEDA – Gabriele CIVELLO – Mariarosa COZZA Andrea GALLI - Lorenza GAMBARO - Giorgia MASELLO Marianna NEGRO - Elena ZENNARO Referente Giovanni COLI PER IL SITO INTERNET www.camerapenaleveneziana.it 2
SEZIONE PRIMA – DIRITTO PENALE Tribunale Ordinario di Venezia – Sezione del Giudice per l’Udienza Preliminare – Sent. n. 246/2019 del 19.3.2019 (dep. il 9.4.19) – Giudice Stigliano Messuti Delitti contro l’incolumità pubblica – Delitti colposi di comune pericolo – Disastro – Naufragio – Principio di offensività – Principio di colpevolezza – Mancanza accadimento macroscopico e dirompente – Mancanza situazione di rischio tale da porre in pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone – Sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste In tema di naufragio, qualora interessi una piccola imbarcazione da diporto con tre persone a bordo, immediatamente tratte in salvo senza riportare alcuna conseguenza lesiva, affondata a poca distanza dalla terraferma, in una zona e in un periodo dell’anno con ampia visibilità, con moto ondoso normale, non si è in presenza di un accadimento macroscopico e dirompente, né di una situazione di rischio tale da porre in pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. Né può essere obiettato in contrario che la collisione tra di essa e un motoscafo in servizio pubblico di linea ponga in pericolo l’integrità fisica dei passeggeri di quest’ultimo, tenendo conto della notevole differenza di stazza tra le due imbarcazioni. NOTA In una vicenda riguardante la collisione tra un motoscafo adibito al trasporto passeggeri in servizio pubblico di linea e un natante a remi in laguna di Venezia, con successivo affondamento di quest’ultimo e salvataggio dei membri dell’equipaggio, il Pubblico Ministero, all’esito delle indagini, esercitava l’azione penale nei confronti dei rispettivi conducenti per il reato di cui all’art. 449 c.p. (in relazione all’art. 428 c.p.), attribuendo ad entrambi la responsabilità del sinistro. Il G.U.P. verificava previamente la correttezza dell’imputazione con riferimento alla fattispecie di cui al co. 1 dell’art. 449 c.p., in luogo di quella di cui al relativo co. 2, in ragione della natura di imbarcazione non adibita al trasporto di persone del mezzo da diporto in legno coinvolto e a quella prevista all’art. 428 co. 1 c.p., e non co. 3 dello stesso, essendo l’imbarcazione spezzatasi e affondata in proprietà non del soggetto agente, ma altrui. Successivamente, disponeva la separazione delle posizioni dei coimputati, avendo il capitano del motoscafo formalizzato istanza di applicazione pena a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale. Invitava, quindi, le parti del procedimento non stralciato a concludere. Infine, pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti di ambedue gli accusati, respingendo, pertanto, la richiesta di patteggiamento del primo, perché il fatto non sussiste. La decisione oggetto del presente contributo è quella riguardante il poppiere del natante a remi. Prendendo le mosse dalla giurisprudenza più garantistica della Suprema Corte in materia, il Giudice richiamava innanzitutto l’insegnamento secondo il quale “ai fini della configurabilità del delitto di naufragio colposo di natante di altrui proprietà, costituente un reato di pericolo astratto, va comunque accertata l’offensività in concreto del fatto alla luce del criterio della contestualizzazione dell’evento, con giudizio ex ante, verificando se, alla luce degli elementi concretamente determinatisi quali la dimensione del mezzo, il numero di passeggeri che può essere trasportato, il luogo effettivo di naufragio, l’espansività e la potenza del danno materiale, il fatto era in grado di esporre a pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone” (Cfr. Cass. n. 12631/2017). Nello specifico, il Giudice evidenziava come la suddetta sentenza si ponesse nel solco di pronunce di analogo tenore della Corte costituzionale e ne valorizzava il precipitato in materia di offensività e colpevolezza. Segnatamente, ravvisava l’irrimediabile contrasto con tali 3
principi della categoria del pericolo presunto, con ciò imponendosi di rintracciare nel tessuto normativo della fattispecie tipica indici idonei a coprire di concreta attitudine offensiva la condotta contestata. Aderendo a tale ratio interpretativa, del resto, si incorre nella tendenziale sostituzione del pericolo presunto con il pericolo astratto, sicché la conformità al tipo meritevole di censura non coincide con la mera operazione di collimazione tra il fatto e la lettera della norma, ma si richiede, ulteriormente, un’autentica potenzialità offensiva dei beni giuridici dei quali essa si erge a tutela. Laddove il reato come tratteggiato dal legislatore pecchi di tale capacità si dischiude la porta della censura costituzionale. Inoltre, affrontando la magnitudine lesiva nascosta dietro la nozione medesima di disastro, il G.U.P. si faceva ancora forte di un arresto della Corte di Cassazione su tale specifico ambito. In esso, gli Ermellini, confermando una sentenza di merito che aveva escluso il disastro colposo per un caso afferente il mancato blocco automatico della marcia di una cabina funiviaria in corrispondenza della stazione di arrivo, così da cozzare contro il respingente di fine corsa e, dunque, causando il ferimento di diciassette persone, avevano distillato il seguente principio di diritto, relativo all’art. 449 c.p.: “è necessario e sufficiente che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente e quindi caratterizzato, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all’incolumità di numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile” (Cfr. Cass. n. 14859/2015). Compiuto tale excursus giurisprudenziale in tema di rapporto tra i principi di offensività e colpevolezza e i reati di disastro e naufragio, il Giudice procedeva a sussumere i fatti al di sotto delle norme penali rilevanti, così come interpretate dal filone sposato in apertura di motivazione, puntando il faro su determinate circostanze chiave. In particolare, menzionava le dimensioni, la natura e l’equipaggio dell’imbarcazione affondata, il pronto salvataggio dei soggetti interessati, la mancanza di alcuna conseguenza lesiva per gli stessi, la prossimità dell’evento alla terraferma - verificatosi in una zona e in un momento dell’anno caratterizzati da ampia visibilità (si trattava di un pomeriggio del mese di luglio) -, in presenza di un moto ondoso non eccezionale. Alla luce di ciò, approdava alla conclusione che difettassero tanto un accadimento macroscopico e dirompente quanto una situazione di rischio tale da porre in pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. Anticipando una possibile critica cui si offriva tale ultimo profilo della propria argomentazione - riflettente proprio il bene giuridico tutelato dalla norma in considerazione -, il G.U.P. escludeva categoricamente che tale pericolo potesse essere ravvisato con riguardo ai passeggeri del motoscafo in servizio pubblico di linea - non essendo stato possibile, peraltro, desumerne il numero dagli atti - data la notevole differenza di stazza tra le due imbarcazioni coinvolte nel sinistro. A ben vedere, la sentenza qui in commento sembra fare proprie, seppur non in forma esplicita, le conclusioni di una recentissima pronuncia dei Giudici del Palazzaccio in tema di art. 449 c.p. (Cfr. Cass. n. 12631/18), dove la scure di legittimità si era abbattuta su due aspetti trascurati, in allora, della Corte di merito e che, in questa occasione, - merita di essere significato - sono risultati attentamente sondati dal Giudicante, quali la contestualizzazione dell’evento e la valutazione del pericolo per la incolumità delle persone coinvolte. Quanto al primo dei due cardini argomentativi rievocati poiché “nessun accenno è stato posto su altri elementi, pure emersi, che si ponevano in apparente contrasto con la paventata condizione di pericolo, quali il fatto che si è trattato di un naufragio che ha riguardato una imbarcazione da diporto con sei persone a bordo, immediatamente tratte in salvo, affondata a pochi metri dalla costa, d’estate, in pieno giorno e con mare calmo, in prossimità di altre barche di diportisti che avrebbero potuto fornire immediata assistenza; il ricorrente, al riguardo, ha anche allegato il verbale n. 31/2005, contenente le considerazioni della Commissione ministeriale sull’evento, che ha ritenuto come «l’incolumità delle persone a bordo dell’unità non sia stata esposta a un serio, concreto e attuale pericolo»”. Rispetto al secondo, invece, in quanto “al di là dell’affondamento del natante, che costituisce uno dei presupposti oggettivi del reato ma non l’unico a caratterizzarlo sul piano della tipicità, essendo anche necessario, come detto, che il fatto si connoti come “disastro”, e quindi comporti un certo 4
grado di offensività, concretamente apprezzabile, sul piano del pericolo per la vita e la salute delle persone coinvolte (anche solo potenzialmente) nel naufragio”. In tema di principio di offensività, tanto nel suo modello c.d. forte, fedele alla lezione di Franco Bricola, che in quello c.d. debole, destinato a miglior fortuna nella prassi giurisprudenziale, si veda V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005. [Gianmarco Bondi] Tribunale Ordinario di Venezia – Sezione Distrettuale delle misure di Prevenzione – Giud. Estens. Dott. Scaramuzza – Ud. 20.05.2019 (dep. 03.06.2019) – Imp. XY Proposta della Procura di applicazione della Misura della Prevenzione della Sorveglianza Speciale di P.S. con divieto di soggiorno ai sensi dell’art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11 – Richiesta di rigetto della proposta – Illegittimità costituzionale dell’art. 4 co. 1 lett. c) del D.Lvo 159/2011 nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applicano anche ai soggetti indicati nell’art. 1 lett. a) portatori della c.d. “pericolosità generica” – Necessità di garantire una lettura costituzionalmente orientata all’art. 1 lett. b) D.Lvo 159/2011 – Insussistenza di elementi di fatto da cui evincere che il soggetto “viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” - Rigetto della Proposta - Ragioni. (Art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11) “L’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2019 ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 lett. a) del D.Lvo 159/2011 per violazione sia dell’art. 13 della Costituzione che dell’art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU quale norma interposta in relazione all’art. 117 c. 1 della Costituzione, espungendo pertanto dall’ordinamento la categoria dei soggetti che debbono ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi. Quanto invece al disposto di cui all’art. 1 lett. b) del D.Lvo 159/2011 devesi evidenziare che la valutazione sulla sussistenza o meno di elementi di fatto da cui poter desumere che un soggetto “viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” deve essere accurata e deve trovar riscontri oggettivi e concreti, non potendosi desumere dal solo fatto che vi siano mere segnalazioni di polizia, anche se numerose, magari solo per reati arrestatisi allo stato del tentativo”. NOTA Il provvedimento che si ritiene di dover analizzare per la delicatezza delle problematiche sottese rappresenta il caso di un soggetto nei confronti del quale la Procura aveva avanzato Proposta di applicazione della Misura della Prevenzione della Sorveglianza Speciale di P.S. con divieto di soggiorno ai sensi dell’art. 1 lett. a) e b) D.Lvo 159/11, in quanto “abitualmente dedito a traffici delittuosi” ed in quanto ritenuto “vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”. La materia, come a tutti noto, è stata frutto di recenti interventi da parte della Corte Costituzionale nonché di numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Sostanzialmente la misura veniva richiesta per le seguenti ragioni: assenza di attività lavorativa; frequentazione di persone che, nella maggior parte dei casi, hanno precedenti di polizia per reati contro il patrimonio; sussistenza di una serie di segnalazioni; il fatto di essere già stato destinatario di una serie di fogli di via obbligatori. Veniva pertanto acquisita dal Tribunale documentazione attestante il contenuto delle varie segnalazioni, appurando che si trattava di quasi tutte ipotesi di reati arrestatisi allo stato del tentativo. Sulla base della documentazione in atti, integrata anche da quella acquisita, la Difesa si permetteva osservare che trattandosi di una misura di prevenzione personale richiesta per un soggetto nei cui confronti la Procura riteneva di dover ravvisare una c.d. “pericolosità generica”, in 5
assenza di precedenti penali, in presenza di una serie di informative anche contradditorie nella descrizione dei soggetti ritenuti responsabili, peraltro quasi tutte riferite a reati solo tentati e a fatti certamente non definibili di “elevato spessore delinquenziale”, non si potessero assolutamente ritenere integrati e sussistenti i presupposti per l’applicazione della misura richiesta. Sul punto merita richiamarsi l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto” (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015). Si osservava peraltro come la Corte Costituzionale fosse di recente intervenuta con sentenza n. 24 del 2019 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 co. 1 lett. c) del D. Lvo 159/2011 nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applicano anche ai soggetti indicati nell’art. 1 lett. a) portatori della c.d. “pericolosità generica”, in quanto la norma in questione “non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost. quanto in riferimento all’art. 117 co. 1 Cost, dall’art. 2 CEDU”. La lettura della richiamata sentenza della Corte Costituzionale induce a riflettere anche sulla disposizione di cui all’art. 1 lett. b) del medesimo Decreto, avendo la Corte specificato come a tale norma debba essere data una lettura costituzionalmente orientata, al fine di garantire il rispetto dei principi costituzionali: “La locuzione "coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose" è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli "titoli" di reato, quanto di specifiche "categorie" di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l'esigenza - sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l'attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte - di individuazione dei "tipi di comportamento" ("types of behaviour") assunti a presupposto della misura. Le "categorie di delitto" che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito - da provarsi sulla base di precisi "elementi di fatto", di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) - per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano - o abbiano costituito in una determinata epoca - l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito”. Sul punto è evidente che nel caso di specie, trattandosi di quasi tutte segnalazioni per reati tentati e non consumati, peraltro tutti casi in cui il profitto che si sarebbe ricavato sarebbe stato certamente di modesta entità, non si potessero ritenere integrati i requisiti richiesti dalla Corte, ovvero l’esistenza di effettivi profitti in capo al soggetto i quali costituissero l’unico reddito del soggetto o comunque una componente significativa di esso. “Il riferimento ai "proventi" di attività delittuose, di cui alla lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato nel senso di richiedere la "realizzazione di attività delittuose che ... siano produttive di reddito illecito" e dalle quale sia scaturita un'effettiva derivazione di profitti illeciti” (Cass. n. 31209 del 2015). Investito della questione, il Tribunale del Riesame di Venezia – Sezione Distrettuale della Misure di Prevenzione - rigettava la proposta osservando che non si potesse ritenere raggiunta la prova che “il soggetto, privo di precedenti definitivi (salvo una contravvenzione per foglio di via) e privo di carichi pendenti, viva abitualmente, anche in parte, con proventi delittuosi, non potendosi certamente ritenere che il proposto possa aver tratto profitti significativi da due soli delitti, oggetto solo di segnalazione, consumati uno nel 2017 ed uno nel 2018, e produttivi di profitti illeciti, che lo stesso proponente peraltro rileva essere stati scarsi”. Lo stesso Tribunale richiamava le recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “in tema di misure di prevenzione, il concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica deve essere valutato tenendo conto del pregresso accertamento in sede penale, ancorché non definito da una sentenza di 6
condanna, relativo all’accertamento dell’avvenuta commissione di delitti dai quali il proposto avrebbe tratto proventi illeciti” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 53003 del 21/09/2017). E’ d’obbligo in questa sede soffermarsi a riflettere sul fatto che ripetutamente in pronunce giurisprudenziali, anche recenti, la Suprema Corte ritenga che il Tribunale possa “ricostruire in via autonoma la rilevanza dei fatti accertati in sede penale” anche nei casi in cui non abbiano dato luogo ad una sentenza di condanna ed anche nei casi in cui sia stata emessa una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione. Personalmente mi permetto osservare che una siffatta interpretazione debba essere calibrata con attenzione al fine di scongiurare l’ipotesi che la mera presenza di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, magari unita a mere segnalazioni, possa essere sufficiente a ritenere applicabile una misura di prevenzione, una misura preventiva limitativa della libertà che proprio in quanto tale, in onor dei principi fondanti la nostra Costituzione nonché dei principi sottesi alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo, ritengo debba essere uno strumento di limitato ed accurato utilizzo. Il Tribunale di Venezia ha esaminato con attenzione la questione in esame ed ha concluso con il ritenere non applicabile la misura in quanto “NON POSSA fondarsi un giudizio di pericolosità solo in base ad un Decreto Penale di condanna per un’unica violazione a foglio di via obbligatorio, e a mere segnalazioni di polizia per truffe, di cui solo due consumate, e per importi di scarsa entità, ed il resto solo tentate ed oltretutto nessuna accertata giudizialmente”. Non solo. Il Tribunale, poiché il proponente aveva fatto richiamo anche all’art. 1 lett. c) del D.Lgs. 159/2011 per sostenere la propria richiesta di applicazione della misura di Sorveglianza Speciale, ha correttamente motivato anche sul punto ritenendo non integrato il requisito della “comprovata dedizione alla commissione di reati offendenti o ponenti in pericolo la sicurezza o tranquillità pubblica”. L’art. 6 del medesimo decreto, nel ritenere applicabili ai soggetti di cui all’art. 1 la misura di prevenzione, richiede che tali persone “siano pericolose per la sicurezza pubblica”, ed è questo il punto su cui focalizza l’attenzione l’Organo Giudicante, secondo il quale non attribuire un precipuo significato a questa locuzione significherebbe privare di significato la norma, in quanto nulla sarebbe altro che la ripetizione dell’art. 1. Per potersi quindi correttamente ritenere applicabile la misura di prevenzione ai soggetti indicati all’art. 1 lett. c) del D.Lgs. 159/2011 è necessario che tali soggetti abbiano posto a rischio non solo beni giuridici individuali bensì beni giuridici di natura collettiva: “In tema di misure di prevenzione, può ritenersi socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 1, comma 1 lett. c), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il soggetto che risulti dedito in maniera non occasionale alla commissione di fatti criminosi lesivi o, comunque, pericolosi per la sicurezza e la tranquillità pubblica e non di beni giuridici meramente individuali” (Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 9517 del 07/02/2018). [Lorenza Gambaro] Tribunale di Venezia – Sezione Distrettuale Misure di Prevenzione, Presidente dott.ssa Marchiori - Giudice Estens. Dott. Gualtieri, Ud. 18/02/2019 (dep. 12/03/2019) – Imp. XY Misure di Prevenzione ex D. Lgs. 159/2011 – Richiesta basata su c.d. Pericolosità Generica – Presupposti – Difetto – Decreto di Rigetto. “Nel caso di proposte fondate sulla cd. pericolosità generica, i presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione sono i seguenti: in primo luogo è necessario l’esistenza di elementi di fatto che consentano di inquadrare il proposto, con esattezza, in almeno una delle categorie criminologiche di cui all’art. 1 del D. Lgs. 159/2011; in secondo luogo si deve accertare che il proposto risulti, sulla base di elementi obiettivi, pericoloso per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art.6 del medesimo decreto; quindi, è necessario che tale pericolosità sia attuale, ossia sussistente nel momento in cui interviene la decisione. 7
Tutti e tre gli elementi devono coesistere: la mancanza anche di uno solo dei suddetti requisiti impedisce l’applicazione della misura”. NOTA Il decreto di rigetto della misura di prevenzione in esame viene emesso in un procedimento sorto su istanza della Questura di Verona che chiede al Tribunale Distrettuale l’applicazione nei confronti di X della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per 3 anni, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale e con obbligo di presentazione quotidiano all’autorità di controllo. La richiesta viene formulata ai sensi dell’art. 4 e 1 co. 1 lett. a), b) e c) del D. Lgs. 159/2011, vale a dire per essere il soggetto ritenuto abitualmente dedito a traffici delittuosi, per vivere abitualmente anche in parte dei proventi illeciti, per essere dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minori, la sanità, sicurezza o tranquillità pubblica. A sostegno della richiesta vengono elencati i numerosi precedenti penali a carico di X, le pendenze e le segnalazioni di polizia; viene dato atto dell’assenza in toto di qualsivoglia attività lavorativa e del pregresso tenore elevato di vita, dello stato di tossicodipendenza incompatibile con le condizioni economiche di X. Vale una premessa. La norma in esame prevede, in relazione alle misure di prevenzione personale, due tipologie di misure: quelle applicate dal Questore (foglio di via obbligatorio e avviso orale), disciplinate dagli artt. da 1 a 3 e quelle applicate dall’Autorità Giudiziaria, disciplinate dall’art. 4 e ss. I presupposti di queste ultime sono indicati nell’art. 6 D. Lgs. 159/11. I soggetti destinatari sono quelli di cui all’art. 4 del D. Lgs. 159/11, la cui lettera c) rimanda ai presupposti indicati per le misure applicate dal Questore, con unica esclusione dei soggetti di cui all’art. 1 lett. a), vale a dire coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi. La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza 24.01-27.02.2019 ha dichiarato illegittima la lettera c) nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II – misure applicate dall’autorità giudiziaria - si applichino anche ai soggetti indicati nell’art.1 lettera a). La ritenuta abituale dedizione di X a traffici delittuosi sulla base dei precedenti e delle pendenze nonché segnalazioni non può ritenersi presupposto per la applicazione della misura. Non rivestendo più la categoria di cui all’art. 1 lett. a) alcuna rilevanza a seguito dell’intervento della Consulta, il Tribunale ha esaminato la sussistenza dei rimanenti requisiti. Numerosi sono i precedenti penali a carico del proposto: i più gravi e rilevanti commessi in epoca lontana, cui si riferiscono le numerose condanne e segnalazioni. In epoca recente X ha commesso reati di inferiore rilevanza sociale, per lo più furti di biciclette avvalendosi da solo di tecniche rudimentali, aventi ad oggetto beni di modesto valore economico. La modestia dei reati contro il patrimonio, commessi in epoca più recente con metodologie rudimentali da soggetto isolato e non inserito in alcun contesto criminale, aventi per oggetto beni di modesto valore economico (furti di bicilette), commessi da soggetto in condizione di assoluta indigenza, non possono essere valorizzati ai fini di nessuna categoria di cui all’art. 1. La modesta gravità dei fatti recenti commessi, l’assenza di forme di violenza o di modalità particolarmente aggressive o lesive dei beni altrui, le gravi documentate condizioni di salute del proposto che ne limitano l’offensività, non consentono neppure l’inquadramento sub. art. 6 della pericolosità per la sicurezza pubblica, intesa come accertamento di un effettivo pericolo per la collettività. Difettando anche l’elemento imprescindibile dell’attualità la richiesta è stata rigettata per carenza dei tre dati necessari ed assolutamente indefettibili: l’inquadramento nelle categorie di cui all’art.1, la pericolosità di cui all’art. 6 e l’attualità del pericolo. Con riferimento a quest’ultimo requisito si ritiene opportuno aggiungere alcune brevi note. Con la sentenza n. 291 del 02.12.2013 la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’art. 15 del D. Lgs. 159/11 nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di 8
prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione deve valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura. Una cosa è, infatti, la applicabilità della misura a soggetti ristretti in carcere, possibile per orientamento costante, altra cosa è l’esecuzione della misura che deve rimanere sospesa ed è differita sino al momento in cui viene a cessare lo stato di detenzione. Orbene, in detta ipotesi la pericolosità va riverificata a sospensione esaurita. Detta ratio ha portato all’introduzione, con la legge 17.10.2017 n. 161, dell’art. 14 D. Lgs. 159/11 disciplinante, appunto, la decorrenza e la cessazione della sorveglianza speciale. [Mariarosa Cozza] Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari – Sent. n. 655/2018 del 17 ottobre 2018 – Est. Vicinanza – Imp. XY Reati previsti dal TULPS – omessa comunicazione ex art. 109, co. 3° - successione delle leggi penali nel tempo – abrogazione della legge n. 135 del 2001 sostitutiva dell’art. 109 TULPS – abrogazione dell’art. 109 TULPS – reviviscenza della precedente normativa abrogata – esclusione – inapplicabilità dell’art. 109 TULPS L'obbligo per i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricreative di comunicare all'autorità locale di p.s. le generalità delle persone alloggiate entro le ventiquattro ore successive al loro arrivo, previsto dall'art. 109 R.D. 18 giugno 1931 n. 773 (testo unico delle leggi di p.s.) non è più sanzionata penalmente dalla disposizione sussidiaria di cui all'art. 17 dello stesso R.D. n. 773 del 1931, in quanto la Legge n. 135 del 2001, che aveva riformulato la norma eliminando la sanzione amministrativa che era stata introdotta con la depenalizzazione operata dal D.L. n. 97 del 1995 (conv. dalla Legge n. 203 del 1995), è stata abrogata dal D.L.vo n. 79 del 2011 ed il D.L. n. 201 del 2011 (conv. dalla Legge n. 214 del 2011) ha riformulato il solo comma 3°, lasciando immutata l’intervenuta abrogazione dei commi 1° e 2°, con conseguente inapplicabilità tout court del disposto normativo dell’art. 109 TULPS. NOTA La sentenza in commento afferisce ad un procedimento penale nel quale l’imputato era chiamato a rispondere, in qualità di amministratore unico e legale rappresentante di una società gestrice di una struttura ricettiva, della contravvenzione di cui all’art. 109, co. 3° T.U.L.P.S.. Oggetto di addebito era, in particolare, l’omessa comunicazione alla Questura delle generalità delle persone alloggiate nella struttura stessa entro le ventiquattro ore successive al loro arrivo. Il Giudice per le Indagini Preliminari, investito dal Pubblico Ministero della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, ha ritenuto di non poter accogliere siffatta richiesta, pronunciando sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. Il Giudicante ha, innanzitutto, ripercorso sinteticamente il complesso percorso normativo che ha portato all’attuale formulazione della citata norma incriminatrice. Il disposto di cui all’art. 109 TULPS, che nella versione originaria disciplinava la fattispecie come illecito penale (dapprima mediante il richiamo alle pene stabilite dall’ultimo comma dell’art. 665 cod. pen. e, successivamente all’abrogazione della norma codicistica ad opera del D.L.vo n. 480 del 1994, mediante la previsione di specifiche sanzioni penali introdotte nell’ultimo comma del citato art. 109 dal ridetto D.L.vo), aveva subito una prima radicale modifica nel 1995, allorquando con il D.L. n. 97 del 1995 (convertito nella Legge n. 203 del 1995) la medesima fattispecie era stata depenalizzata, prevedendo il nuovo 4° comma della norma in parola che la violazione dell’obbligo 9
di comunicazione fosse punita con la “sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire un milione e lire sei milioni”. Contestualmente, era stato modificato il novero dei soggetti tenuti al ridetto obbligo di comunicazione, ovvero non più “gli albergatori, i locandieri, coloro che gestiscono pensioni o case di salute o altrimenti danno alloggio per mercede”, ma “i gestori delle strutture ricettive di cui all’art. 6 della legge 17 maggio 1983 n. 217, esclusi i rifugi alpini inclusi in apposito elenco approvato dalla regione o provincia autonoma in cui sono ubicati”. Con la successiva novella del 2001, introdotta dall’art. 8 Legge n. 135 del 2001, il legislatore aveva nuovamente criminalizzato la fattispecie in questione, espungendo dal testo del citato art. 109 il comma 4° (che prevedeva, appunto, la predetta sanzione amministrativa), con conseguente applicabilità delle sanzioni penali previste dall’art. 17 TULPS, a mente del quale “(…) le violazioni alle disposizioni di questo testo unico, per le quali non è stabilita una pena od una sanzione amministrativa ovvero non provvede il codice penale, sono punite con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino ad euro 206”. Era stato, altresì, nuovamente modificato il comma 1 della medesima disposizione, individuando quali soggetti sottoposti al ridetto obbligo di comunicazione “i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricettive, comprese quelle che forniscono alloggio in tende, roulotte, nonché i proprietari o gestori di case e di appartamenti vacanze e gli affittacamere, ivi compresi i gestori di strutture di accoglienza non convenzionali, ad eccezione dei rifugi alpini inclusi in apposito elenco approvato dalla regione o provincia autonoma in cui sono ubicati”. Il legislatore è, infine, nuovamente intervenuto in subiecta materia, dapprima con il D.L.vo n. 79 del 2011, il cui art. 3 lett. I) ha integralmente ed espressamente abrogato “la legge 29 marzo 2001, n. 135” e, successivamente, con il D.L. n. 201 del 2011 (convertito nella Legge n. 214 del 2011), il cui art. 40, comma 1° ha modificato il solo comma 3° dell’art. 109 TULPS, prevedendo che “entro le ventiquattro ore successive all’arrivo, i soggetti di cui al comma 1 comunicano alle questure territorialmente competenti, avvalendosi di mezzi informatici o telematici o mediante fax, le generalità delle persone alloggiate, secondo modalità stabilite con decreto del Ministero dell’Interno, sentito il Garante per la protezione dei dati personali”. Ora, è proprio interpretando in via sistematica tali ultime due novelle legislative che il Giudice perviene ad una pronuncia di proscioglimento dell’imputato, in particolare perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. L’effetto ablativo della novella del 2011 (D.L.vo n. 79 del 2011) sulla novella del 2001 (L. n. 135 del 2001) avrebbe, infatti, coinvolto anche l’art. 8 della stessa legge n. 135 del 2001 – ovvero la norma che aveva sostituito il dettato normativo dell’art. 109 TULPS – con la conseguenza che anche l’art. 109 TULPS dovrebbe considerarsi implicitamente abrogato, essendo venuta meno la norma (art. 8, L. n. 135 del 2001) che ne aveva modificato il testo. In altri termini, l’intervenuta abrogazione delle Legge n. 135 del 2001 avrebbe provocato l’abrogazione anche del disposto dell’art. 109 TULPS nella versione introdotta da quest’ultima legge. Né l’ulteriore novella legislativa del 2011 (D.L. n. 201 del 2011), modificando esclusivamente il comma 3° del citato art. 109, avrebbe mutato la situazione, in quanto il legislatore, non avvedendosi dell’intervenuta abolitio dell’intero dettato normativo di cui all’art. 109, si sarebbe limitato a (re)introdurre il comma 3° nell’ambito di una norma priva dei primi due commi. Tale vuoto normativo, sempre secondo il Giudice, nemmeno sarebbe “colmabile” mediante la reviviscenza della versione dell’art. 109 TULPS introdotta dal D.L. n. 97 del 1995, ipotesi del resto esclusa dalla stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Pen., sez. I, sent. 9/04/2014, n. 32777). E, se anche si volesse accedere a siffatta ipotesi interpretativa - conclude il Giudice - ci si troverebbe di fronte all’impossibilità di individuare i soggetti tenuti all’obbligo di comunicazione ai sensi del D.L. n. 97 del 1995, in quanto la Legge n. 135 del 2001 aveva espressamente abrogato la L. n. 217 del 1983, a cui il comma 1 dell’art. 109 TULPS nella versione introdotta dal citato D.L. n. 97 del 1995 faceva espresso riferimento proprio per individuare i soggetti obbligati. 10
Pertanto, facendo il comma 3° dell’art. 109 TULPS riferimento, per l’individuazione dei soggetti obbligati, ad un comma (il 1°) non più vigente, si renderebbero di fatto inapplicabili le sanzioni penali previste dall’art. 17 TULPS per la violazione dell’obbligo di cui al citato comma 3°, con conseguente proscioglimento dell’imputato perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato. La conclusione a cui è pervenuto il Giudice è sicuramente innovativa, in quanto si pone in aperto contrasto con la stessa giurisprudenza di legittimità citata nel provvedimento in commento. Infatti, sebbene la Suprema Corte in tale arresto escluda l’ipotesi di una possibile reviviscenza della versione dell’art. 109 TULPS introdotta dal D.L. n. 97 del 1995, per converso smentisce espressamente l’assunto secondo cui l’art. 109 TULPS sarebbe stato, per effetto dell’intervenuta abrogazione della legge n. 135 del 2001, abrogato “in via mediata”. In particolare, i Giudici di legittimità statuiscono in tale precedente che “la sostituzione in toto della predetta legge (legge n. 135 del 2001) con la novella (D.L.vo n. 79 del 2011) non comporta l’eliminazione dell'effetto abrogativo sostitutivo dell'art. 109 TULPS che si è già verificato e non può derivarne la riviviscenza del testo introdotto con D.L. n. 97 del 1995, che prevedeva la sanzione amministrativa (Sez. 3, n. 19037 del 18/04/2007, Caggegi1). Tanto trova conferma anche nel fatto che il successivo D.L. n. 201 del 2011, conv. nella L. n. 214 del 2011 (decreto semplificazione governo Monti) che all'art. 40, comma 1, prevede la semplificazione degli adempimenti per la registrazione dei clienti nelle strutture ricettizie dell'art. 109 TULPS e modifica il solo comma 3, facendo riferimento al testo di detto articolo formulato dalla L. n. 135 del 2001, che, quindi, considera vigente anche dopo l'intervenuta abrogazione (cfr. Cass. Pen., sez. I, sent. 9/04/2014, n. 32777). In sostanza, sebbene la Corte regolatrice confermi l’assenza di qualsiasi margine per l’applicazione in subiecta materia del fenomeno della cd. “reviviscenza”, parimenti smentisce l’assunto secondo cui l’espressa abrogazione della Legge n. 135 del 2001 ad opera del D.L.vo n. 79 del 2011 avrebbe provocato anche la conseguente abrogazione del disposto normativo di cui all’art. 109 TULPS, in quanto non potrebbe in alcun modo venir meno l’effetto abrogativo-sostitutivo operato sull’art. 109 TULPS dalla Legge n. 135 del 2001, proprio perché già verificatosi. Del resto, la Suprema Corte, sempre nella medesima pronuncia, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza in commento, trae proprio dalla sostituzione del solo comma 3° del citato art. 109, operata come detto dalla novella legislativa del D.L. n. 201 del 2011, la riprova dell’attuale vigenza dell’intero disposto normativo di cui all’art. 109 nella versione introdotta con la Legge n. 135 del 2001. Il legislatore della novella, in altre parole, nel modificare solo parzialmente il testo dell’art. 109 (ovvero sostituendone il solo comma 3°), lungi dall’essere in corso in un errore nel non aver tenuto conto dell’intervenuta abrogazione (mediata) anche dei commi 1° e 2° della medesima disposizione normativa, ne avrebbe implicitamente confermato la vigenza tout court nella versione introdotta dalla Legge n. 135 del 2001, anche dopo l’intervenuta abrogazione di tale legge ad opera del D.L.vo n. 79 del 2011. [Andrea Galli] 1 In tale precedente (Cass. Pen., sez. III, sent. 18 aprile 2007 n. 19037), la Suprema Corte ha affermato che “soltanto in presenza di una dichiarazione di incostituzionalità che caduchi interamente una disposizione avente come contenuto unicamente quello di abrogare altra precedente disposizione, è ipotizzabile la reviviscenza di quest'ultima, poiché la pronuncia caducatoria fa venir meno l'unico contenuto normativo della disposizione caducata, producendo l'effetto di far rivivere la previgente disposizione”; in senso adesivo, Cass. Civ. SS.UU., sent. 23 ottobre 2007 n. 25551, a tenore della quale “nel regime di successione delle leggi, mentre l'abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto può invece predicarsi in caso di abrogazione di una disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicché ciò che viene meno è proprio l'effetto abrogativi”. 11
Tribunale di Agrigento – Giudice per le Indagini Preliminari – Ord. 02.7.2019 – Giudice A. Vella – Imp. XY Diritto della Navigazione - Resistenza o violenza contro nave da guerra – nozione di nave da guerra – vedetta della Guardia di Finanza in acque territoriali – non sussistenza (art. 1100 cod. nav.) Resistenza a pubblico ufficiale – comportamento giustificato dalla necessità-dovere del comandante di salvataggio in mare di soggetti naufraghi – causa di giustificazione (artt. 51, 337 cod. pen., art. 10 Cost., art. 98 l. 689/94) In presenza del fatto di aver forzato il divieto di ormeggio impartito dalle forze dell’ordine tramite una vedetta della Guardia di Finanza in porto e, pertanto, entro le acque territoriali, nonché essendo provata anche l’esistenza degli elementi materiale e soggettivo del delitto di cui all’art. 337 cod. pen., nell’ambito di un’attività, protrattasi per giorni, di salvataggio in mare di naufraghi, non è configurabile il delitto di cui all’art. 1100 cod. nav. perché il mezzo della Guardia di Finanza, trovandosi all’interno delle acque territoriali non è qualificabile come “nave da guerra nazionale”, né è ritenuto sussistere il reato di resistenza a pubblico ufficiale – contestato per i medesimi fatti materiali – essendo la condotta scriminata per la causa di giustificazione già citata. NOTA La vicenda trae origine dal noto evento della nave olandese Sea Watch 3. Il Giudice per le indagini preliminari, era stato chiamato a decidere in ordine alla convalida dell’arresto della Comandante – cittadina tedesca - della nave straniera che trasportava da giorni alcuni cittadini extracomunitari naufraghi, recuperati in acque extra territoriali, per aver compiuto atti di resistenza e violenza nei confronti di una vedetta della Guardia di Finanza, che aveva tentato di impedire l’ormeggio in forza di un ordine interministeriale (Ministeri Interno, Difesa e Infrastrutture e Trasporti) di “divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nelle acque territoriali italiane”, in conformità al comma 1 ter dell’art. 11 del d. lgs. 286/98, introdotto con D.L. 14 giugno 2019, n. 532 nelle more tra l’inizio del salvataggio e l’arrivo in porto. Quanto al delitto di cui all’art. 1100 cod. nav.3, il Gip ha tratto convincimento dalla decisione 35/2000 della Corte Costituzionale4, che aveva implicitamente qualificato le unità della Guardia di Finanza come navi da guerra solo in determinate condizioni di utilizzo5, escludendo, pertanto, nel caso di specie la sussistenza del reato, dato che i fatti si erano svolti entro il porto di Lampedusa. 2 “1-ter. Il Ministro dell'interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell'esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell'Italia, può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all'articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”. 3 “Il comandante o l'ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà”. 4 http://www.giurcost.org/decisioni/2000/0035s-00.html 5 “le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato (art. 1, primo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1973, n. 1199 - Disciplina per l'iscrizione nel quadro del naviglio militare dello Stato di unità dell'Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza, del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del Corpo delle capitanerie di porto -); battono "bandiera da guerra" e sono assimilate a quelle della Marina militare (artt. 63 e 156 del r.d. 6 novembre 1930, n. 1643 - Approvazione del nuovo regolamento di servizio per la Regia Guardia di finanza -); sono quindi considerate navi militari agli effetti della legge penale militare (art. 11 del codice penale militare di pace); quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare esercitano le funzioni di polizia proprie delle "navi da 12
Quanto al più generale delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cod. pen.), il giudicante ha preliminarmente elencato la gerarchia delle fonti nazionali e internazionali, che sorvegliano il provvedimento amministrativo interministeriale citato, norme che si vanno a elencare: - Articoli 10 e 117 Costituzione; - Legge 689/84 (recepimento Convenzione delle nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 10 dicembre 1982 – UNCLOS)6; - Convenzione cosiddetta SOLAS resa esecutiva in Italia con legge 313/1980; - Convenzione SAR adottata a Amburgo il 27 aprile 1979 e resa esecutiva in Italia con legge 47/89; - Articoli 1158 e 490 codice della navigazione. Per un più diffuso approfondimento del quadro normativo si suggerisce lo scritto "Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno" di Fulvio Vassallo Paleologo, in Questione Giustizia, 2/2018, pagg. 215 e seguenti7. La valutazione del Giudicante, quindi, si è basata anche sulla cronologia dei fatti, così come ricostruiti nella comunicazione della notizia di reato della Guardia di Finanza (fatti che hanno avuto inizio il 12.6.2019 e sono terminati il 29.6.2019 con l’approdo a Lampedusa) e come raccontati dall’indagata, la quale ha precisato in sede di interrogatorio durante l’udienza di convalida che non ha reputato l’offerta SAR libica quale porto effettivamente sicuro (citando le raccomandazioni del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa e alcune decisioni giurisdizionali, tra le quali la sentenza 23 maggio 2019 del Gip del Tribunale di Trapani, Dott. Pietro Grillo8); né adeguata l’offerta tunisina, qualificata non sicura a suo dire da comunicazioni ufficiali di Amnesty International e dalla stessa Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR). Quanto alla manovra posta in essere dal Capitano, poi indagato, della Sea Watch, il giudicante, visionati i filmati, ancorché abbia valutato come “molto ridimensionato” l’evento consistito nell’avvicinamento cauto e poi l’aver forzato il blocco delle unità navali italiane davanti alla banchina del porto per tentare di impedire l’attracco della nave con i migranti naufraghi a bordo, ha considerato sussistere sia l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 337 c.p. sia la sua componente soggettiva. Ciononostante, stante la natura sovraordinata delle norme che imponevano al Comandante della Sea Watch 3 di terminare il salvataggio e lo sbarco presso un porto sicuro, valutato come tale per idoneità e vicinanza il porto di Lampedusa, secondo il giudicante sono inidonee a comprimere detti obblighi del comandante le direttive ministeriali in materia e il provvedimento interministeriale specifico di divieto di ingresso, transito e sosta del 15 giugno 2019. Pertanto l’indagata ha disatteso detti provvedimenti amministrativi in adempimento di un dovere e, come tale, le sue azioni, sono da considerarsi scriminate ex art. 51 cod. pen. Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Agrigento, pertanto, non ha convalidato l’arresto e ha rigettato la richiesta di custodia cautelare. Evidente che la vicenda è intrisa di significati politici, ma anche si presta a strumentalizzazioni da parte di ognuna delle tifoserie politiche interessate (e non solo, essendo state coinvolte anche le forze dell’ordine). Rimane indubbio, tuttavia, che l’analisi delle fonti applicabili fornisce un quadro che evidenzia una serie di obblighi del comandante di un’unità in mare che difficilmente potrebbe far propendere per soluzioni diverse. Si ipotizzi a titolo di esempio il soccorso di naufraghi in acque extraterritoriali da parte di una normale unità da diporto durante un’uscita domenicale. Potrebbe l’ordinamento guerra" (art. 200 del codice della navigazione) e nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) …..” (C. Cost. cit.) 6 http://www.reteambiente.it/normativa/8753/legge-2-dicembre-1994-n-689/ 7 http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento- interno_548.php 8 https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/06/2019_tribunale_trapani_vos_thalassa.pdf 13
imporre a quel comandante, oltre al dovere di soccorrere, anche quello di vagare di porto in porto, discostandosi, anche di parecchie miglia rispetto alla propria destinazione, per evitare di sbarcare i naufraghi soccorsi nel Paese che non li desidera, accollandosi vitto, alloggio, cure sanitarie e altro, rischi meteo marini e sanitari, adempimenti per i quali forse non è neppure attrezzato? Nel caso di specie si tratta in realtà di navi che per scelta si trovano nelle condizioni di incappare in migranti e richiedenti asilo a rischio naufragio, unità che evidentemente non seguono rotte con destinazioni lineari, bensì “pattugliano” le acque extra territoriali rimanendo “disponibili” al soccorso. E’ parimenti evidente che anche tali transiti, volutamente senza rotte tradizionali, da punto a punto, sottostanno alle regole internazionali, che, comunque, impongono il soccorso in capo al comandante. E’ altrettanto certo che le vicende dovranno essere valutate caso per caso, per poter giudicare se si rientri in un reale dovere di aiuto che imponga anche di forzare un blocco dell’autorità nazionale per portare a termine il soccorso (nel caso che qui ci occupa durato dal 12 al 26 giugno, dopo una serie di valutazioni – asseritamente – attente sull’individuazione del POS - place of safety - e resistenze delle autorità frontaliere che hanno costretto a una permanenza di marittimi e naufraghi a bordo che si è protratta quasi al limite delle potenzialità del bordo). [Marco Vianello] Tribunale Ordinario di Treviso – Giudice Monocratico Penale – Sent. 14.11.2018 – Est. Dott. Bianco – Imp. XY + altri Diffamazione a mezzo Facebook ad agenti della Polizia Locale - Individuazione della persona offesa dal reato - Estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p - Opposizione della parte civile - Poteri del giudice nell'applicazione della norma. In tema di diffamazione a mezzo Faebook, in particolare nel caso di specie agli agenti di Polizia Locale, è innanzitutto necessario individuare la persona offesa/danneggiata dal reato per poi eventualmente procedere al risarcimento del danno, al fine di determinare il verificarsi dell’effetto di estinzione del reato previsto dall’art. 162 ter c.p. NOTA Nel caso di specie il giudice, prima di decidere su tutte le questioni preliminari, all'udienza di comparizione ha proceduto ex officio all'audizione di un agente - persona offesa, presente in udienza, per comprendere sommariamente i fatti ai fini dell'accertamento di quanti e quali agenti fossero coinvolti nel fatto in contestazione. Nella predetta ordinanza emessa a scioglimento della riserva sulle questioni preliminari il giudice ha anzitutto indicato il criterio per l'identificazione della persona offesa dal reato di diffamazione art. 595 co.3 c.p., escludendo per implicito che siano da considerarsi persone offese tutti gli agenti di un corpo di polizia locale per il solo fatto che le espressioni diffamatorie siano indirizzate, nei post pubblicati dagli imputati su Facebook, genericamente ai " vigili" di Treviso. In secondo luogo il giudice ha valutato la congruità delle condotte riparatorie degli imputati ai fini dell'art. 162 ter c.p. Per consentire un adeguato ristoro della parte civile ha effettuato una duplice sollecitazione: da un lato ha invitato il comandante della polizia locale, che tra l'altro era uno dei querelanti, ad indicare al tribunale i nomi degli agenti coinvolti nei fatti riportati dall'articolo di stampa. Dall'altro nella medesima ordinanza ha indicato la somma ritenuta congrua per risarcire gli agenti coinvolti, invitando quindi gli imputati a ristorare il danno ai predetti. Avendo le parti adempiuto a quanto indicato nell'ordinanza, alla successiva udienza il giudice ha ritenuto congruo il risarcimento e le condotte riparatorie degli imputati. Per tale ragione ha pronunciato sentenza di non doversi procedere nei confronti degli imputati, non provvedendo sull'azione civile e non liquidando le spese alla parte civile pur costituita. Ciò in 14
ragione della ratio dell'articolo 162 ter c.p. a mente del quale il giudice può dichiarare estinto il reato anche in caso, come questo, di rifiuto della persona offesa di ritenere congrua l'offerta risarcitoria dell'imputato. Proprio sul ruolo svolto dal giudice in relazione al risarcimento del danno ed alla condotta riparatoria, l'ordinanza del tribunale di Treviso ha il pregio di aver utilmente contribuito a superare le critiche già portate all'articolo 162 ter c.p. relativamente al "non ruolo della persona offesa". Si è, sostanzialmente, contestato che la persona offesa non abbia, secondo la previsione normativa, alcun ruolo e/o potere di valutazione rispetto alla congruità dell'offerta risarcitoria, sulla quale unicamente il giudice può pronunciarsi. Anche in ipotesi di rifiuto della persona offesa il giudice potrebbe comunque dichiarare estinto il reato per la condotta riparatoria dell'imputato ritenuta congrua. Il giudice del tribunale di Treviso ha dimostrato equilibrio nel far governo della norma, poiché dando indicazioni sull'ammontare del risarcimento ritenuto congruo per il danno patito della persona offesa e chiedendo la collaborazione del comandante della polizia locale nell'individuazione delle persone offese, ha creato i presupposti per un "dialogo" tra le parti finalizzato alla definizione del processo, secondo la ratio della norma. Si è evitato, in questo modo, da un lato di tenere l'imputato " ostaggio" di eventuali pretese risarcitorie sesquipedali della persona offesa-parte civile, dall'altro di frustrare l'aspettativa riparatoria in favore della persona offesa con offerte miserrime da parte dell'imputato. È stata inoltre preservata anche l'economia processuale e la finalità deflattiva della norma, posto che in sole due udienze il processo è stato concluso. [Damiano Beda] 15
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