Associato di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza

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Stato, Chiese e pluralismo confessionale
             Rivista telematica (www.statoechiese.it)
             luglio 2009                                                  ISSN 1971- 8543

                                   Fabio Basile
         (associato di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza
                   dell’Università degli Studi di Milano)

                             Diritto penale e multiculturalismo:
                           teoria e prassi della c.d. cultural defense
                               nell’ordinamento statunitense ∗

SOMMARIO: PARTE PRIMA: CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE - 1. Premessa.
- 2. La società multiculturale degli Stati Uniti. - 3. La cultural defense. - 3.1. Una
definizione ‘di massima’ di cultural defense. - 3.2. La funzione della cultural defense:
la spiegazione della motivazione culturale della condotta dell’imputato. - 3.3.
Cultural defense e reati culturalmente motivati. - 3.4. L’esistenza di alcuni risalenti
casi giurisprudenziali coinvolgenti una cultural defense “ante litteram”. - 3.5. La
cultural defense dal 1985 ad oggi, nella giurisprudenza e nella dottrina. - PARTE
SECONDA: RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA - 4. Premessa: riconduzione dei
reati rispetto ai quali è stata invocata una cultural defense a (poche) categorie
tipologiche. - 4.1. Omicidio dei figli e tentativo di suicidio da parte del coniuge
tradito. - 4.2. Reati di sangue a difesa dell’onore. - 4.2.1. Uxoricidi per causa d’onore
sessuale. - 4.2.2. Altri omicidi per causa d’onore sessuale. - 4.2.3. Omicidi a difesa
dell’onore personale (autostima/reputazione). - 4.3. Altri fatti di sangue
culturalmente motivati. - 4.4. Reati contro la libertà sessuale. - 4.4.1. Abusi sessuali a
danno di minori. - 4.4.1.1. Rapporti sessuali con spose-bambine. - 4.4.1.2. Baci,
carezze e toccamenti alle parti intime di fanciulli. - 4.4.2. Altre violenze sessuali. -
4.5. Reati in materia di sostanze stupefacenti. - 4.6. Porto abusivo di armi. - 4.7.
Altro. - PARTE TERZA: UN BILANCIO DELLA PRASSI E DELLA DOTTRINA
AMERICANA - 5. I vari canali attraverso i quali può assumere rilievo la
motivazione culturale. - 5.1. Rilevanza della motivazione culturale in sede di plea
bargaining. - 5.2. Rilevanza della motivazione culturale in sede dibattimentale al
fine del riconoscimento di una criminal defense tradizionale. - 5.3. Rilevanza della
motivazione culturale in sede di sentencing. - 6. La prova culturale (cultural
evidence). - 6.1. Le modalità con le quali può essere fornita la prova culturale. - 6.2.
Ammissibilità e rilevanza della prova culturale. - 6.2.1. I requisiti di ammissibilità e
di rilevanza della prova culturale concernenti la persona dell’imputato. - 6.2.2. I
requisiti di ammissibilità e di rilevanza della prova culturale concernenti la
relazione tra cultura d’origine e fatto commesso. - 7. Il dibattito dottrinale sulla
opportunità di riconoscere rilevanza alla cultural defense. - 7.1. Argomenti della
dottrina a sostegno della cultural defense. - 7.1.1. Colpevolezza e individualized
justice. - 7.1.2. Pluralismo culturale e diritto alla cultura. - 7.1.3. Mancanza di
esigenze preventive. - 7.2. Argomenti della dottrina contraria alla cultural defense. -
7.2.1. Violazione del principio di uguaglianza a vantaggio degli autori e a discapito
delle vittime dei reati culturalmente motivati. - 7.2.2. Rischio di pregiudizi per le

   ∗
     Il presente saggio è destinato a confluire nella seconda edizione della monografia
BASILE, Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’. Il diritto penale nelle società
multiculturali europee, la cui pubblicazione è prevista per il prossimo inverno.
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donne appartenenti ai gruppi culturali di minoranza. - 7.2.3. Difficoltà concettuali
ed applicative poste dal concetto di “cultura”. - 7.2.4. Rafforzamento e diffusione di
stereotipi culturali negativi sui gruppi di minoranza. - 7.2.5. Pregiudizio per la
funzione di prevenzione generale del diritto penale. - 7.2.6. Effetti negativi sul
processo di integrazione degli immigrati. - 8. Il dibattito dottrinale sulla
opportunità di formalizzare la cultural defense come nuova ed autonoma criminal
defense. - 8.1. Argomenti a sostegno della formalizzazione della cultural defense. -
8.2. Argomenti contrari alla formalizzazione della cultural defense. - 9. Conclusioni.
Alcune indicazioni per l’osservatore italiano.

             PARTE PRIMA – CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

        1. Premessa.

        Le problematiche sollevate dai c.d. “reati culturalmente
motivati” si sono imposte solo di recente all’attenzione della dottrina e
della giurisprudenza italiane: è la crescita dell’immigrazione degli
ultimi anni che le ha rese particolarmente attuali e drammatiche anche
da noi1.
        Tali problematiche, tuttavia, non sono completamente nuove a
livello globale. In particolare, esse sono emerse e sono state affrontate
fin dai decenni scorsi nella società multiculturale ‘per antonomasia’, gli
Stati Uniti, dove la dottrina, sollecitata da un’abbondante casistica
giurisprudenziale, ha avviato un’ampia ed approfondita riflessione sui
reati commessi per motivi culturali dagli appartenenti a gruppi

   1 Ormai ampia è la letteratura italiana in tema di “reati culturalmente motivati”: tra
i contributi più significati, v. BERNARDI, Modelli penali e società multiculturali, Torino,
2006; de MAGLIE, Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Riv. It. Dir.
Proc. Pen. 2005, p. 173; ID., Società multiculturali e diritto penale: la cultural defense, in
Scritti in onore di Marinucci, Milano, 2006, p. 215 ss.; PASTORE-LANZA,
Multiculturalismo e giurisdizione penale, Torino, 2008; GRANDI, Diritto penale e società
multiculturale: stato dell’arte e prospettive de iure condendo, in Ind. Pen. 2007, 245 ss.;
nonché BASILE, Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’. Il diritto penale nelle società
multiculturali europee, Milano, 2008, dove, a p. 53, raccogliendo l’insegnamento di
attenta dottrina, si fornisce la seguente definizione di “reato culturalmente motivato”:
è tale “un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di
minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura
dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale
dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o
addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni”.
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culturali di minoranza (immigrati e, in misura minore, autoctoni
d’America: indiani ed eschimesi).
       Lo studio e l’analisi della prassi giurisprudenziale e della
dottrina statunitensi su tali tematiche potranno quindi presumibilmente
fornire anche all’osservatore italiano utili indicazioni sul trattamento da
riservare a siffatti reati.

        2. La società multiculturale degli Stati Uniti.

       Come è stato di recente rilevato, l’ordinamento americano2
costituisce l’“osservatorio privilegiato” per un’indagine sui rapporti tra
diritto penale e società multiculturale, in quanto gli Stati Uniti
rappresentano la “società multiculturale per eccellenza”3.

        La riprova più immediata ed evidente di tale aspetto della società
americana ci è oggi offerta dalla sua Amministrazione federale: a capo di essa
siede un ‘afro-americano’, figlio di un keniota e di una cittadina americana, il
quale ha trascorso una parte della sua infanzia in Indonesia; ne fanno inoltre
parte, in ruoli di grande rilievo, alcuni discendenti di immigrati asiatici,
ispanici ed europei: tra gli altri, il Secretary of Labor, Hilda Solis, figlia di
immigrati provenienti dal Nicaragua e dal Messico; il Secretary of Energy,
Steven Chu, e il Secretary of Commerce, Gary Faye Locke, entrambi di origine
cinese; il Secretary for Veterans Affairs, Eric Ken Shinseki, di origine giapponese;
l’Attorney General, Eric Holder, afro-americano, il cui padre immigrò in
America dalle Barbados e la cui madre è figlia di una immigrata proveniente
anch’essa dalle Barbados; infine il Secretary of Homeland Security, Janet
Napolitano, il cui cognome tradisce una chiara origine italiana4.
        Questa pluralità culturale della società americana è stata enfaticamente
descritta di recente dal suo Presidente con le seguenti parole: “Gli Stati Uniti
(…) sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo

   2  All’interno di questo saggio gli aggettivi “americano” e “statunitense” saranno
usati come sinonimi.
    3 de MAGLIE, Multiculturalismo e diritto penale, cit., p. 175; nello stesso senso, v.

pure FRISCHKNECHT, «Kultureller Rabatt». Überlegungen zu Strafausschluss und
Strafermässigung bei kultureller Differenz, Bern et a., 2009, p. 31 ss. Sul multiculturalismo
quale tratto tipico della società statunitense, v., ex pluris, WALZER, Pluralism: A
Political Perspective, in The Harvard Encyclopedia of American Ethnic Groups, 1980, p. 781
ss.; KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, Bologna, 1995, p. 22 ss.; CESAREO,
Società multietniche e multiculturalismi, II ristampa, Milano, 2004, p. 41 ss.
    4        Queste         informazioni,          tratte      dal         sito       Internet
http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_Cabinet, trovano agevole riscontro nei
numerosi articoli dei principali quotidiani italiani che hanno accompagnato
l’insediamento alla Casa Bianca del presidente Obama nel gennaio 2009.
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della Terra, e si ispirano ad un unico ideale: E pluribus unum – da molti, uno
solo”5.

        Una siffatta pluralità di culture affermatasi nel sociale, non
poteva rimanere a lungo fuori dalle aule di giustizia6: numerosi sono
pertanto i casi giudiziari di rilevanza penale in cui l’imputato invoca il
suo background culturale, la differenza della sua cultura d’origine dalla
cultura americana di maggioranza, per fornire una spiegazione del suo
comportamento criminoso, nell’aspettativa di ottenere dai giudici un
trattamento più benevolo.
        La dottrina americana, dal canto suo, a partire almeno dalla metà
degli anni Ottanta del secolo scorso ha avviato un ampio dibattito su
casi di tal tipo, la cui carica vitale non accenna ad esaurirsi7.

   5   Discorso di Barack Obama all’Università del Cairo - 6 giugno 2009
(www.huffingtonpost.com/2009/06/04/obama-speech-in-cairo-vid_n_211215.html).
    6 Cfr. de MAGLIE, Società multiculturali e diritto penale, cit., p. 215 ss.; ID.,

Multiculturalismo e diritto penale, cit., p. 185; SORIO, I reati culturalmente motivati: la
cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale
(www.statoechiese.it), novembre 2008, p. 1 ss.
7 Sterminata è infatti la bibliografia americana formatasi in poco più di vent’anni su

questa materia, tra cui spiccano un lavoro monografico (RENTELN, The Cultural
Defense, Oxford, 2004), e un’opera collettanea di ampio respiro (RAMIREZ, a cura di,
Cultural Issues in Criminal Defense, II ed., New York, 2007). Tra gli altri lavori
principali, v. (in ordine alfabetico): ABU-ODEH, Comparatively Speaking: The “Honor” of
the “East” and the “Passion” of the “West”, in Utah Law Review 1997, p. 287; ANONIMO,
The Cultural Defense in the Criminal Law, pubblicato senza indicazione del nome
dell’Autore nella rivista Harvard Law Review 1986 (vol. 99), p. 1293; BRELVI, F., “News
of the Weird”: Specious Normativity and the Problem of the Cultural Defense, in Columbia
Human Rights Law Review 1997 (vol. 28), p. 657; BUCKNER-FIRESTONE, Where the
Public Peril begins: 25 Years After Tarasoff, in Journal of Legal Medicine, 2000, vol. 21, p. 2;
CHIU, D.C., The Cultural Defense: Beyond Exclusion, Assimilation, and Guilty Liberalism,
in California Law Review 1994 (vol. 82), p. 1053; CHIU, E.M., Culture as Justification, not
Excuse, in American Criminal Law Review 2006 (vol. 43), p. 1317; ID., Culture in Our
Midst, in University of Florida Journal of Law & Public Policy 2006 (vol. 17), p. 231; CHOI,
Application of a Cultural Defense in Criminal Proceedings, in Ucla Pacific Basin Law Journal
1990 (vol. 8), p. 80; COLEMAN, D., Individualizing Justice Through Multiculturalism: the
Liberal’s Dilemma, in Columbia Law Review 1996 (vol. 96), p. 1093; ID., Culture, Cloaked in
Mens Rea, in South Atlantic Quaterly 2001 (vol. 100), p. 981; CONVERSE, K., Cultural
Issues in the Defense of Non-U.S. Citizens, in 2004 Immigration Crimes Seminar for Criminal
Justice          Act          Panel          Attorneys           (online          all’indirizzo
www.fd.org/pdf_lib/Converse_Culture_2004.pdf); DELGADO, Shadowboxing: An
Essay on Power, in Cornell Law Review 1992 (vol. 77), p. 813; FISCHER, The Human
Rights Implications of a “Cultural Defense”, in Southern California Interdisciplinary Law
Journal 1998, p. 663; GALLIN, The Cultural Defense: Undermining the Policies Against
                                                                                               4
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Domestic Violence, in British Columbia Law Review 1994 (vol. 35), p. 723; GOEL, Can I
Call Kimura Crazy? Ethical Tensions in the Cultural Defense, in Seattle Journal for Social
Justice 2004 (vol. 3), p. 443; GOLDSTEIN, Cultural Conflicts: Should the American
Criminal Justice System formally Recognise a “Cultural Defense”?, in Dickinson Law Review
1994, p. 152; GORDON, The Implications of Memetics for the Cultural Defense, in Duke
Law Journal 2001 (vol. 50), p. 1809; GREENAWALT, The Cultural Defense: Reflections in
Light of the Model Penal Code and the Religious Freedom Restoration Act, in Ohio State
Jounral of Criminal Law 2008, p. 299; HELD & GRIFFITH FONTAINE, On the Boundaries
of Culture as an Affirmative Defense, in Arizona Law Review 2009 (vol. 51), p. 237;
HOEFFEL, Deconstructing the Cultural Evidence Debate, in University of Florida Journal of
Law & Public Policy 2006, p. 303; HOLMQUIST, Cultural Defense or False Stereotype?
What Happens When Latina Defendants Collide With the Federal Sentencing Guidelines, in
Berkeley Women’s Law Journal 1997 (vol. 12), p. 45; HOWES, Culture in the Domains of
Law, in Canadian Journal of Law and Society 2005 (vol. 20), p. 9; KIM, N.S., The Cultural
Defense and the Problem of Cultural Preemption: A Framework for Analysis, in New Mexico
Law Review 1997 (vol 27), p. 101; KING, N.A., The Role of Culture in Psychology: A Look
at Mental Illness and the “Cultural Defense”, in Tulsa Journal of Comp. & International Law
1999 (vol 7), p. 199; LAM, A.T., Culture as a Defense: Preventing Judicial Bias Against
Asians and Pacific Islanders, in Asian Am. Pac. Islands Law Journal 1993 (vol. 1), p. 49;
LEE, C., Cultural Convergence: Interest Convergence Theory meets the Cultural Defense, in
Arizona Law Review 2007 (vol. 49), p. 912; LEVINE, Negotiating the Boundaries of Crime
and Culture: A Sociolegal Perspective on Cultural Defense Strategies, in Law & Social Inquiry
2003 (vol. 28), p. 39; LI, J., The Nature of the Offense: An Ignored Factor in Determining the
Application of the Cultural Defense, in Hawaii Law Review 1996, p. 765; LY, C., The Conflict
Between Law and Culture: The Case of the Hmong in America, in Wisconsin Law Review
2001 (vol. 2), p. 471; MAGNARELLA, Justice in a Culturally Pluralistic Society: the
Culture Defense on Trial, in The Journal of Ethnic Studies 1991 (vol. 19), p. 67;
MAGUIGAN, Cultural Evidence and Male Violence: Are Feminist and Multiculturalist
Reformers on a Collision Course in Criminal Courts?, in New York University Law Review
1995 (vol. 70), p. 63; MARTIN, All Men are (or should be) created Equal: An Argument
Against the Use of the Cultural Defense in a Post-Booker World, in William & Mary Bill of
Rights Journal 2007 (vol. 15), p. 1305; MATSUMOTO, A Place for Consideration of Culture
in the American Criminal Justice System: Japanese Law and the Kimura Case, in Journal of
International Law & Prac. 1995 (vol. 4), p. 507; NUNN, K., New Explorations in Culture
and Crime: Definitions, Theory, Method, in University of Florida Journal of Law & Public
Policy, 2006, p. vii; PRITCHARD & RENTELN, The Interpretation and Distortion of
Culture: A Hmong “Marriage By Capture” Case in Fresno, California, in South California
Interdisc. Law Journal 1995 (vol. 4), p. 1; REDDY, S., Temporarily Insane: Pathologising
Cultural Difference in American Criminal Courts, in Sociology of Health & Illness 2002 (vol.
24), p. 667; RENTELN, A., A Justification of the Cultural Defense as Partial Excuse, in
South California Review L. & Women’s Stud. 1993 (vol. 2), p. 437; ID., The Use and Abuse
of the Cultural Defense, in Canadian Journal of Law and Society 2005 (vol. 20), p. 47; ID.,
Raising Cultural Defenses, in RAMIREZ (a cura di), Cultural Issues in Criminal Defense,
cit., p. 423; RIMONTE, A Question of Culture: Cultural Approval of Violence Against
Women in the Pacific-Asian Community and the Cultural Defense, in Stan. Law Review 1991

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        3. La cultural defense.

        3.1. Una definizione ‘di massima’ di cultural defense.

        Occorre subito premettere che, negli Stati Uniti, la ‘parola-chiave’
sotto la quale è stato tematizzato il dibattito relativo ai profili di
rilevanza penale della compresenza, in una medesima società, di una
pluralità di culture, è “cultural defense”.
        Si tratta di una formula non ufficiale, bensì di matrice meramente
dottrinale8: al momento non esiste, infatti, alcun riconoscimento
ufficiale della cultural defense, nel senso che essa, de iure condito, non è
prevista da alcuna delle fonti di produzione del diritto penale
statunitense9. “Cultural defense” è piuttosto l’etichetta sotto la quale la

(vol. 43), p. 1311; SACKS, An Indefensible Defense: On the Misuse of Culture in the
Criminal Law, in Arizona Journal of International & Comparative Law 1996 (vol 13), p. 523;
SAMS, J., The Availability of the ´Cultural Defense´ as an Excuse for Criminal Behavior, in
Georgia Journal of International and Comparative Law 1986 (vol. 16), p. 335; SHEYBANI,
Cultural Defense: One Person’s Culture is Another’s Crime, in Loyola of Los Angeles Int’l &
Comp. Law Review 1987 (vol. 9), p. 751; SIKORA, Differing Cultures, Differing
Culpabilities? A Sensible Alternative: Using Cultural Circumstances as a Mitigating Factor
in Sentencing, in Ohio State Law Journal 2001 (vol. 62), p. 702; SING, J.J., Culture as
Sameness: Toward a Synthetic View of Provocation and Culture in the Criminal Law, in Yale
Law Journal 1999 (vol. 108), p. 1845; SPATZ, A “Lesser” Crime: A Comparative Study of
Legal Defenses for Men Who Kill Their Wives, in Colum. J. L. & Soc. Probs. 1991 (vol. 24), p.
597; TAYLOR, D. B., Paying Attention to the Little Man Behind the Curtain: Destroying the
Myth of the Liberal’s Dilemma, in Maine Law Review 1998 (vol. 50), p. 445; TORRY,
Multicultural Jurisprudence and the Culture Defense, in Journal of Legal Pluralism 1999
(vol. 44), p. 127; TREVISON, Changing Sexual Assault Law and the Hmong, in Ind. Law
Review 1993 (vol. 27), p. 393; VOLPP, (Mis)Identifying Culture: Asian Women and the
“Cultural Defense,” in Harvard Women’s Law Journal 1994 (vol. 17), p. 57; ID., Blaming
Culture for Bad Behavior, in Yale Journal of Law & the Humanities 2000 (vol. 12), p. 89;
WANDERER & CONNORS, Kargar and the Existing Framework for a Cultural Defense, in
Buffalo Law Review 1999 (vol. 47), p. 829; WOO, D., The People v. Fumiko Kimura: But
Which People?, in International J. Sociol. Law 1989 (vol. 17), p. 403; ID., Cultural
‘Anomalies’ and Cultural Defenses: Toward an Integrated Theory of Homicide and Suicide, in
International Journal of the Sociology of Law 2004, p. 279. Altri contributi saranno citati
nelle pagine seguenti; segnaliamo che gran parte della dottrina e della giurisprudenza
americane in materia di cultural defense è accessibile grazie alla banca dati LexisNexis.
    8 L’uso, per la prima volta, di tale espressione pare risalire ad un contributo

anonimo del 1986: The Cultural Defense in the Criminal Law, cit., p. 1293 ss.
    9 Cfr. RENTELN, The Cultural Defense, cit., p. 24 s.; CHIU, D.C., The Cultural Defense,

cit., p. 1053 s.; COLEMAN, Individualizing Justice, cit., p. 1094; SIKORA, Differing
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dottrina americana inquadra e discute tutti i possibili momenti di
emersione, durante un processo penale, dei fattori culturali che possono
ridondare a favore di un imputato appartenente ad una cultura di
minoranza10.
       Per la nostra analisi conviene, pertanto, rendere le mosse da una
definizione ampia di cultural defense, che non ne tagli fuori nessuno dei
plurimi profili che, nell’ormai più che ventennale dibattito in materia, vi
sono stati ricondotti. Con tale termine faremo quindi riferimento:

        “all’uso, da parte di un imputato in un processo penale, di una prova
culturale (cultural evidence) per supportare una causa esonerativa o limitativa
della responsabilità (criminal defense) tradizionale, per mitigare l’accusa
(charge) o la pena inflitta (sentence), o per supportare il plea bargaining”11.

        Il termine cultural defense descrive, dunque, una strategia
difensiva utilizzata nel processo penale, basata sull’appartenenza
dell’imputato ad una minoranza culturale12 e rivolta ad ottenere
l’assoluzione o un trattamento sanzionatorio più mite. Essa fa leva
sull’offerta, da parte della difesa, di una “prova culturale (cultural
evidence)”, cioè di una prova attraverso la quale si vuole fornire una
illustrazione della cultura d’origine dell’imputato e dell’influenza avuta
da tale cultura sulla sua condotta13.

Cultures, Differing Culpabilities?, cit., p. 1698; GOLDSTEIN, Cultural Conflicts, cit., p.
143. Segnaliamo fin d’ora che una parte minoritaria della dottrina americana è
favorevole, de iure condendo, ad una formalizzazione della cultural defense quale nuova
ed autonoma causa esonerativa o limitativa della responsabilità penale; sul dibattito
relativo a tale profilo converrà, tuttavia, soffermarsi in un successivo paragrafo (v.
infra, 8), dopo aver illustrato l’attuale rilevanza dei fattori culturali nella prassi
giurisprudenziale statunitense.
    10 Cfr. COLEMAN, Individualizing Justice, cit., p. 1100.

    11 Così la definizione di Cynthia Lee, autrice di origini asiatiche, professoressa di

diritto e procedura penale presso la G. Washington University Law School ed attuale
presidente della Criminal Justice Section of the Association of American Law Schools (LEE,
Cultural Convergence, cit., p. 912).
    12 Si noti fin d’ora che nell’ordinamento americano la cultural defense può essere

invocata, oltre che dagli immigrati, anche dai membri di minoranze nazionali
autoctone (gli indiani e gli eschimesi): ciò è una diretta conseguenza del fatto che il
multiculturalismo americano scaturisce non solo dall’immigrazione, ma anche dalla
originaria presenza sul territorio di minoranze autoctone. La società americana,
pertanto, è multiculturale sia in senso polietnico che in senso multinazionale (per tale
terminologia, che risale a Kymlicka, v. BASILE, Immigrazione e reati ‘culturalmente
motivati’, cit., p. 10 ss.).
    13 COLEMAN, Individualizing Justice, cit., p. 1102; KIM, The Cultural Defense, cit., p.

102.
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      3.2. La funzione della cultural defense: la spiegazione della
motivazione culturale della condotta dell’imputato.

        Attraverso la cultural defense l’imputato chiede di poter spiegare
ai giudici l’influenza che il proprio background culturale avrebbe
esercitato sulla sua condotta, nell’aspettativa che il riconoscimento di
tale influenza possa ridondare a suo favore. Tale spiegazione fa leva su
concezioni, tradizioni, valori, pratiche che, di regola, non sono note ai
giudici appartenenti alla cultura di maggioranza: come è stato
giustamente rilevato, infatti, “la necessità di introdurre una prova sul
background culturale dell’imputato nasce dalla realtà di fatto che le
persone chiamate a prendere decisioni nelle Corti criminali americane
sono spesso culturalmente differenti dalle persone accusate di un
crimine”14.
        L’idea di fondo della cultural defense è, pertanto, quella di
consentire a persone socializzate in una cultura minoritaria, qualora
realizzino un fatto di reato in adesione alle norme di tale cultura, di
esporre, in sede processuale, i presupposti culturali del proprio
comportamento, nell’aspettativa che la motivazione culturale del loro
agire sia compresa dai giudici i quali, se anche non la condivideranno,
potranno riconoscerle una rilevanza pro reo15.

        3.3. Cultural defense e reati culturalmente motivati.

       Già sulla base di questi primi cenni introduttivi, è agevole
rilevare che le tematiche discusse in Italia e in Europa sotto l’etichetta
“reati culturalmente motivati” sono le stesse di quelle affrontate, in
America, sotto l’etichetta “cultural defense”, sicché i due concetti
possono essere senz’altro intesi come le due facce di una stessa
medaglia16: una cultural defense può, infatti, venire in rilievo solo in

   14 MAGUIGAN, Cultural Evidence, cit., p. 58.
   15  MAGNARELLA, Justice, cit., p. 67; CONVERSE, Cultural Issues in the Defense of
Non-U.S. Citizens, cit., p. 21.
    16 Espressamente in tal senso van BROECK, Cultural Defence and Culturally

Motivated Crimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and
Criminal Justice 2001, p. 30; nello stesso senso v. pure FRISCHKNECHT, «Kultureller
Rabatt», cit., p. 31 ss.; EGETER, Das ethnisch-kulturell motivierte Delikt, Zürich, 2002, p. 5
ss.; PHILLIPS, When Culture Means Gender: Issues of Cultural Defence in the British
Courts, in Modern Law Review 2003 (66), p. 510 e ss.; MONTICELLI, Le “Cultural
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relazione ad un reato culturalmente motivato, e d’altra parte solo l’autore
di un reato culturalmente motivato può invocare in sede processuale il
riconoscimento di una cultural defense.
       La differenza nelle etichette, pertanto, non rispecchia alcuna
differenza di sostanza, ma piuttosto di approccio, principalmente
focalizzato, dall’altra parte dell’Atlantico, sull’analisi delle possibili
strategie processuali difensive – in linea, del resto, con la tradizione
giuridica statunitense, che vive e si alimenta di un continuo
“ineliminabile intersecarsi” tra diritto penale sostanziale e diritto penale
processuale17.

      3.4. L’esistenza di alcuni risalenti casi giurisprudenziali
coinvolgenti una cultural defense “ante litteram”.

       Nella letteratura giuridica americana l’espressione “cultural
defense” compare a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo
scorso allorché la dottrina, sollecitata da alcuni eclatanti casi giudiziari
di quegli anni, avviò un ampio dibattito sui reati commessi per motivi
culturali dagli appartenenti a minoranze culturali (v. subito infra, 3.5).
       A ben vedere, tuttavia, casi giudiziari in cui viene in rilievo una
cultural defense “ante litteram” sono rinvenibili, quantunque con minor
frequenza, anche nella giurisprudenza americana precedente al 198518.
Né ciò deve sorprendere: la società americana nasce, infatti, come
società multiculturale19; inevitabile, quindi, che anche andando indietro
nel tempo si possano ritrovare casi in cui gli imputati hanno affermato
di aver commesso il reato in adesione ai parametri della loro cultura –
una cultura di minoranza, diversa dalla cultura, di maggioranza, di chi
li doveva giudicare.

       Così, ad esempio, un’attenta studiosa della cultural defense20 segnala un
caso risalente al 1888 in cui gli imputati – quattro Native Americans – in
esecuzione di un ‘verdetto di morte’ pronunciato dal consiglio della loro tribù,

Defenses” (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”. Possibili divergenze tra
pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen. 2003, p. 539 e ss.
   17 VASSALLI, Presentazione, in BASSIOUNI, Diritto penale degli Stati Uniti d’America

(Substantive Criminal Law), Milano, 1985, p. VII.
   18 Per tale osservazione, v. MAGUIGAN, Cultural Evidence, cit., p. 42 ss., p. 56;

SIKORA, Differing Cultures, Differing Culpabilities?, cit., p. 1695; GOLDSTEIN, Cultural
Conflicts, cit., p. 144 s.
   19 V. Autori citati supra, nota 3.

   20 MAGUIGAN, Cultural Evidence, cit., p. 56.

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avevano ucciso un medico (anch’egli membro della loro tribù), ritenuto, da
quel consiglio, colpevole di aver avvelenato una ventina di persone della
tribù: si trattava di pazienti del medico, morti dopo che questi non era riuscito
a curarli efficacemente. Ebbene, i quattro imputati vennero condannati per il
delitto di omicidio lieve (manslaughter), anziché per il delitto di omicidio grave
(murder) 21, in quanto i giudici ritennero che, in considerazione “della loro
natura di Indiani, delle loro tradizioni, delle loro superstizioni, nonché della
loro ignoranza”, costoro non avrebbero in realtà agito con la malice aforethought
richiesta ai fini della realizzazione di un murder22.
        Ricordiamo poi al lettore che anche noi, in altra sede, abbiamo
segnalato un risalente caso tratto dalla giurisprudenza statunitense in cui
l’imputata invocò la sua cultura d’origine per ‘spiegare’ ai giudici la propria
condotta, nell’aspettativa di ottenere un trattamento sanzionatorio più mite: si
tratta del caso di Josephina Reggio, giudicato a New York nel 1906, la quale
aveva ucciso lo zio per ristabilire “alla maniera siciliana” il suo onore violato
di “ragazza onesta”23.

   21  Come è noto, nel sistema penale degli Stati Uniti sono previste più figure di
omicidio volontario: quella più grave è costituita dal murder; quella meno grave dal
manslaughter. Le due figure si differenziano principalmente per la presenza, nel primo,
della c.d. malice aforethought (una sorta di premeditazione, la quale, tuttavia, non va
affatto intesa in senso letterario): in argomento v. LaFAVE, Criminal Law, St. Paul
(Min.), IV ed., 2003, p. 775, il quale ci informa che nella categoria del manslaughter “si
includono omicidi non abbastanza gravi (bad) per essere considerati murder, ma
troppo gravi (bad) per non essere considerati reato”; v. pure come la distinzione in
parola viene illustrata in un popolare manuale di diritto penale americano
(MOENSSENS, BACIGAL, ASHDOWN, HENCH, Criminal Law - Cases and Comments,
VIII ed., New York, 2008, p. 415 s.):
    - “Murder is the killing of any person with malice aforethought, either express or implied
by law. Malice in this definition, is used in a technical sense, including not only anger, hatred,
and revenge, but every other unlawful and unjustifiable motive. It is not confined to ill-will
towards one or more individual persons, but is intended to denote an action flowing from any
wicked and corrupt motive, a thing done dolo malo, where the fact has been attended with such
circumstances as carry in them the plain indications of a heart regardless of social duty, and
fatally bent on mischief. And therefore malice is implied from any deliberate or cruel act
against another, however sudden.
    - “Manslaughter is the unlawful killing of another without malice; and may be either
voluntary, as when the act is committed with a real design and purpose to kill, but through the
violence of sudden passion, occasioned by some great provocation, which in tenderness for the
frailty of human nature the law considers sufficient to palliate the criminality of the offence; or
involuntary, as when the death of another is caused by some unlawful act accompanied by any
intention to take life”.
    22 United States v. Whaley, Circuit Court, S.D. California, 15 dicembre 1888 (la

sentenza può essere letta per esteso su Lexis-Nexis).
    23 BASILE, Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’, cit., p. 253 s.

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        Infine, vedremo subito che anche nella rassegna di giurisprudenza
sottostante compaiono alcuni casi risalenti agli anni Sessanta e Settanta del
secolo scorso (casi Metallides, Marcelino Rodriguez e Wanrow), in cui viene in
rilievo una cultural defense “ante litteram”.

       3.5. La cultural defense dal 1985 ad oggi, nella giurisprudenza e
nella dottrina.

        Se, dunque, casi giudiziari relativi ad imputati che si difendono
invocando la propria cultura d’origine sono da sempre noti alla prassi
americana, il vero fattore di novità degli ultimi decenni è rappresentato
dalla maggior frequenza e notorietà di casi siffatti, la quale ha
sollecitato un’ampia riflessione dottrinale sui temi connessi alla cultural
defense24.
        Tale recente maggior frequenza e notorietà è dovuta,
presumibilmente, a due fattori25:
        - da un lato, alla rapida espansione dei flussi immigratori diretti
in America provenienti da paesi non europei, che ha determinato l’arrivo
sul suolo americano anche di immigranti portatori di una cultura
significativamente diversa da quella della maggioranza degli Americani
(come si vedrà nelle pagine seguenti, i protagonisti dei casi di cultural
defense degli ultimi venticinque anni sono, in effetti, spesso immigrati
asiatici, in particolare vietnamiti, laotiani, cinesi e afgani)26;

   24  Sul punto v. CHIU, E.M., Culture as Justification, cit., p. 1320, e COLEMAN,
Individualizing Justice, cit., p. 1100.
    25 Per l’individuazione di tali due fattori v. MAGUIGAN, Cultural Evidence, cit., p.

56; SAMS, The Availability of the ´Cultural Defense´ as an Excuse, cit., p. 336, in
particolare nota 6.
    26 La recente crescita dell’immigrazione non-europea, e in particolare asiatica, negli

Stati Uniti va messa in correlazione con la riforma del 1965 delle leggi americane
sull’immigrazione (Immigration and Nationality Act Amendments of 1965, Pub. L. No. 89-
236, 79 Stat. 911), con la quale si abbandonò la politica, a lungo perseguita, di preferire
l’immigrazione di origine europea, ostacolando in vario modo (ad esempio, fissando
quote di ingresso e negando la cittadinanza) l’immigrazione proveniente da paesi
extraeuropei: sul punto v. COLEMAN, Individualizing Justice, cit., p. 1120 e, per
un’accurata ricostruzione dell’evoluzione delle leggi americane in materia di
immigrazione, ONG HING, Beyond the Rhetoric of Assimilation and Cultural Pluralism:
Addressing the Tension of Separatism and Conflict in an Immigration-Driven Multiracial
Society, in California Law Review 1993 (81), p. 863 ss. (il quale tra l’altro segnala che a
seguito della suddetta riforma la presenza degli asiatici in America crebbe, tra il 1970 e
il 1990, del 384,9 %, raggiungendo all’inizio degli anni Novanta il 2,9 % della
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        - dall’altro, alla crescente disponibilità della società americana ad
aprirsi e a confrontarsi con le culture di minoranza nei vari ambiti della
vita pubblica, aule di giustizia comprese.
        In particolare, la data a partire dalla quale si assiste ad una
autentica ‘esplosione’ di interesse per la possibile rilevanza, in sede
processuale, della diversità culturale dell’imputato, e alla conseguente
massiccia proliferazione di note, commenti e altri contributi di dottrina
concernenti la cultural defense, è segnata dal 1985, anno in cui si
svolgono i celeberrimi processi a carico di Fumiko Kimura e Kong
Moua, seguiti, a breve distanza di tempo, dal processo a carico di Dong
Lu Chen27. In tutti e tre i casi le difese degli imputati si basano sulla
rilevanza della loro cultura d’origine, e conducono ad esiti processuali
in un certo senso sbalorditivi: una madre giapponese che annega
nell’Oceano i propri due figlioletti viene condannata solo a un anno di
detenzione e cinque di probation; un giovane laotiano che sequestra e
violenta la sua fidanzata solo a novanta giorni di detenzione; un marito
cinese che uccide a martellate la propria consorte solo a cinque anni di
probation.
        I casi Kimura, Moua e Chen sono, quindi, le micce che hanno
fatto scoppiare, tanto nella pubblica opinione quanto nella letteratura
specialistica, un dibattito amplissimo28, in cui tematiche di rilevanza
strettamente penalistica si sono fin da subito intrecciate con valutazioni
filosofiche e sociologiche concernenti la struttura multiculturale della
società americana, l’esigenza di accogliere la diversità culturale, i limiti
da imporre alla tolleranza di tale diversità, la necessità di assicurare il
principio di uguaglianza tra membri di culture diverse, ma anche tra
uomini e donne (queste ultime spesso vittime dei reati culturalmente
motivati).

popolazione americana totale); da ultimo, su tali tematiche, v. LUCONI-PRETELLI,
L’immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, 2008, p. 13 ss.
    27 Su tali casi, v. subito infra, Parte Seconda.

    28 Risale, infatti, al 1986 il contributo (pubblicato anonimo) dal significativo e

fortunatissimo titolo The Cultural Defense in the Criminal Law, cit., p. 1293 ss.: tale
contributo ha aperto nuove frontiere al dibattito dottrinale penalistico, e si trova
tuttora citato pressoché in ogni testo che affronti le tematiche inerenti la cultural
defense. Nello stesso arco di tempo vengono poi pubblicati, anch’essi sollecitati dai casi
Kimura, Moua e Chen, anche i seguenti contributi: SHERMAN, Legal Clash of Cultures,
in National Law Journal 1985, p. 1; ID., When Cultures Collide, in California Lawyer VI, No.
1, 1986, p. 33; SAMS, J., The Availability of the ´Cultural Defense´ as an Excuse, cit., p. 335;
SHEYBANI, Cultural Defense: One Person’s Culture is Another’s Crime, cit., p. 751, seguiti
poi da numerosi altri scritti (v. supra, nota 7).
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        Peraltro, tale dibattito si arricchisce, fin dall’inizio, anche di
numerosi contributi di studiosi che, nei loro cognomi, tradiscono la loro
origine straniera: figli o nipoti di immigrati, per lo più asiatici (e
soprattutto asiatici del sud-est), ma anche ispanici, e talora pure
italiani29. La società americana risulta, in effetti, essere multiculturale
anche nelle Università, nelle cui facoltà di legge studiano e lavorano
ricercatori e professori di origine straniera, che conservano significativi
legami con i gruppi culturali d’origine e la cui sensibilità alla differenza
culturale sta contribuendo in modo decisivo all’ampio dibattito sulla
cultural defense30.
        Poiché tale dibattito si nutre principalmente del confronto con la
prassi giurisprudenziale31, anche noi seguiremo lo stesso metodo:
pertanto, nella Parte Seconda illustreremo – sentenze alla mano – alcuni
casi tratti dalla giurisprudenza americana, rinviando invece alla Parte
Terza alcune riflessioni critiche sulla cultural defense, sull’opportunità
del suo utilizzo e sulla effettiva rilevanza da essa finora assunta nelle
decisioni dei giudici americani.

        PARTE SECONDA – RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA

      4. Premessa: riconduzione dei reati rispetto ai quali è stata
invocata una cultural defense a (poche) categorie tipologiche.

       1. Come risulterà evidente dalla lettura della casistica riportata
nelle pagine seguenti, i casi tratti dalla giurisprudenza americana in cui
l’imputato ha invocato una cultural defense possono essere tutti
ricondotti, sia pur con qualche schematismo imposto da esigenze
espositive, alle seguenti categorie tipologiche, costruite tenendo conto,
oltre che del tipo di reato commesso e del bene giuridico offeso, anche
dei rapporti tra autore e vittima e/o del movente dell’azione:

   29   Si vedano i vari cognomi asiatici, ispanici e italiani che compaiono nella
bibliografia riportata supra, nota 7.
    30 Per tale rilievo, v. anche RENTELN, A Justification of the Cultural Defense as Partial

Excuse, cit., p. 437.
    31 Tra le più ampie rassegne di giurisprudenza americana in materia di cultural

defense, segnaliamo quelle elaborate da RENTELN, The Cultural Defense, cit., p. 11 ss., e
da HOEFFEL, Deconstructing, cit., p. 303 ss.; in Italia, v. il recente lavoro di SORIO, I
reati culturalmente motivati, cit., p. 1 ss., in cui si analizzano una decina di casi tratti
dalla giurisprudenza americana, coinvolgenti una cultural defense.
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    1. omicidio dei figli e tentativo di suicidio da parte del coniuge
       tradito;
    2. reati di sangue a difesa dell’onore, ed in particolare:
       2.1.    uxoricidi per causa d’onore sessuale;
       2.2.    altri omicidi per causa d’onore sessuale;
       2.3.    omicidi        a      difesa       dell’onore      personale
               (autostima/reputazione);
    3. altri fatti di sangue culturalmente motivati;
    4. reati contro la libertà sessuale, ed in particolare:
       4.1.    abusi sessuali a danno di minori:
           4.1.1. rapporti sessuali con spose-bambine;
           4.1.2. baci, carezze e toccamenti alle parti intime di fanciulli;
       4.2.    altre violenze sessuali;
    5. reati in materia di sostanze stupefacenti;
    6. porto abusivo di armi;
    7. altro32.

       2. È agevole rilevare che le categorie tipologiche cui possono
essere ricondotti i reati rispetto ai quali viene in rilievo – per essere
accolta o respinta – una cultural defense, sono estremamente poche:
potremmo anche parlare di un ‘numero chiuso’ dei reati culturalmente
motivati. Si tratta, infatti, quasi esclusivamente di reati di sangue e di
reati contro la libertà sessuale, e di una manciata di altri reati; spesso,
poi, si tratta di reati commessi nell’ambito familiare, o comunque tra
connazionali.
       Rimangono, invece, completamente estranee alla tematica della
cultural defense altre tipologie di reati: dai reati contro la personalità
dello Stato ai reati contro la pubblica amministrazione; dai reati contro
l’amministrazione della giustizia ai reati contro la fede pubblica; dai
reati contro l’economia pubblica ai reati contro il patrimonio. Pertanto,
l’imputato che agisce spinto dalla sua motivazione culturale non è mai
un “colletto bianco”, non è mai un truffatore, un falsario o un
bancarottiere.
       Tale limitazione tipologica si lascia forse spiegare alla luce dei
seguenti due fattori: per un verso, sono proprio le relazioni interpersonali,
le concezioni in materia di onore e i comportamenti nella sfera sessuale e
riproduttiva a costituire un tema dominante nelle tradizioni e nelle
regole delle diverse culture; per altro verso, la vita familiare e domestica

   32 Sotto questa voce sarà illustrato, in realtà, un solo caso, la cui particolarità
consiste nel fatto che la (presunta) motivazione culturale aveva influito non tanto sulla
condotta delittuosa dell’imputato, quanto sul suo atteggiamento durante il processo.
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costituisce senz’altro la sede primaria in cui tali tradizioni e regole
culturali sono praticate e trasmesse33 – nessuna sorpresa, quindi, che
quando c’è ‘di mezzo’ la famiglia, l’onore, il sesso o le relazioni familiari
e interpersonali, l’impronta lasciata dalla cultura d’origine possa
riemergere in modo prepotente con la sua carica ancestrale34.

      4.1. Omicidio dei figli e tentativo di suicidio da parte del
coniuge tradito.

       Caso Kimura (1985)35, 36
       Fumiko Kimura, una donna di trentadue anni di origine
giapponese, da sedici anni immigrata in America (Los Angeles -
California), dopo aver appreso di una relazione extraconiugale del
marito, si getta, trascinando con sé i due figli di quattro anni e di sei
mesi, nelle acque dell’Oceano Pacifico. In seguito a tale tragico gesto i
due bambini muoiono, mentre la madre viene salvata da alcuni
soccorritori.
       Chiamata a rispondere della morte dei due figli, l’imputata si
difende sostenendo di aver tentato di realizzare l’oyako-shinju, un’antica
pratica giapponese di omicidio-suicidio di figli-genitore, alla quale la
donna ricorrerebbe allorché il tradimento del marito, facendola
precipitare in uno stato di vergogna e di umiliazione, non le lascerebbe

   33  Su tali due fattori, v. OKIN, Multiculturalismo e femminismo. Il multiculturalismo
danneggia le donne?, in Boston Review Ottobre/Novembre 1997, trad. it. a cura di
PIEVATOLO (la traduzione italiana, da cui sono tratte le citazioni, può essere letta
online all’indirizzo http://lgxserver.uniba.it/lei/filpol/okin.htm), p. 4; v. pure FLORIS,
Appartenenza confessionale e diritti dei minori. Esperienze giudiziarie e modelli d’intervento,
in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2000, p. 191.
    34 A ben vedere, il rilievo secondo cui i reati culturalmente motivati si lasciano

ricondurre ad un ‘numero chiuso’ di categorie tipologiche, potrebbe ben essere riferito
anche alla prassi italiana ed europea in materia di reati commessi per motivi culturali
dagli immigrati: in proposito sia consentito rinviare a BASILE, Immigrazione e reati
‘culturalmente motivati’, cit., p. 155 ss.
    35 People v. Kimura, No. A-09113, Los Angeles Superior Court, 21 novembre 1985

(non edita). Come abbiamo accennato (supra, 3.5), si tratta di uno dei casi più celebri in
materia di cultural defense e commentato da decine di Autori, tra cui v. RENTELN, The
Cultural Defense, cit., p. 25; COLEMAN, Individualizing Justice, cit., p. 1109; WOO, The
People, cit., p. 415.
    36 Qui ed in seguito l’anno riportato tra parentesi dopo l’indicazione del nome

dell’imputato si riferisce all’anno in cui è stato emesso il provvedimento
giurisdizionale più rilevante ai fini dell’analisi dell’intera vicenda processuale nella
prospettiva della cultural defense.
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altra alternativa che il proprio suicidio con previa uccisione dei figli,
costituendo questi una diretta ‘estensione’ dei genitori in virtù della
quale essi non solo subirebbero la stessa vergogna e la stessa
umiliazione ricadute sulla madre, ma, in caso di morte di questa, non
potrebbero nemmeno essere adeguatamente cresciuti ed educati
dall’altro genitore fedifrago37.
        In effetti, durante il processo a carico di Kimura la comunità
giapponese di Los Angeles si mobilita a suo favore, raccogliendo più di
25.000 firme per chiedere al prosecutor di non perseguire la donna, in
quanto in Giappone l’oyako-shinju costituirebbe un comportamento
reputato ‘onorevole’ e giudicato con clemenza38.
        Tale iniziativa risulta efficace: in sede predibattimentale, grazie
al plea bargaining39 l’imputazione della signora Kimura viene
derubricata da murder di primo grado e felony child endangerment al solo
voluntary manslaughter40. Inoltre, in considerazione dei suddetti fattori
culturali, alla luce dei quali vengono valutati gli effetti del tradimento
del marito sullo stato mentale della Kimura, la Corte, dopo aver
ascoltato sei psichiatri chiamati a testimoniare dalla difesa, le concede la
defense di temporary insanity41. All’esito del giudizio la donna viene
pertanto condannata ad un anno di pena detentiva (già espiato nelle
more del processo) e a cinque anni di probation42, con l’obbligo di
sottoporsi a consulenza psicologica.

   37  Per un’accurata descrizione della pratica dell’oyako-shinju e dei suoi possibili
significati, v. BRYANT, Oyako- Shinju: Death at the Center of the Heart, in Pacific Basin
Law Journal 1990, p. 1 ss.
    38 Stando a quanto riferito da DOLAN, Two Cultures Collide Over Act of Despair;

Mother Facing Charges in Ceremonial Drowning, in Los Angeles Times del 24 febbraio
1985, p. 3, l’oyako-shinju è sì illegale in Giappone, ma raramente il genitore figlicida che
fallisce il proprio suicidio, viene punito.
    39 Per alcune indicazioni sull’istituto del plea bargaining, v. infra, 5.1.

    40 Sulla distinzione, in tema di omicidio, tra il più grave delitto di murder e il meno

grave delitto di manslaughter, v. supra, nota 21.
    41 Sulla defense di insanity, v. infra, nota 155.

    42 Come è noto, la probation nel diritto americano consiste in una sorta di

sospensione condizionale della pena, concessa al condannato che “potrebbe aver
imparato la lezione per il solo fatto di essere stato preso e dichiarato colpevole, o
qualora risulti che questi potrebbe essere meglio riabilitato stando fuori dalla prigione
piuttosto che all’interno delle sue mura”; tale concessione è subordinata ad una serie
di condizioni (ad es., le restituzioni o il risarcimento del danno), e prevede che per un
determinato periodo (variabile a seconda del tipo di reato) il condannato sia
sottoposto alla supervisione di un probation officer e conservi una condotta corretta
(così MOENSSENS, BACIGAL, ASHDOWN, HENCH, Criminal Law, cit., p. 11 s.; v.
pure PONTI, Compendio di criminologia, IV ed., Milano, 1999, p. 560 e ss.).
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        Caso Helen Wu (1991)43
        Helen Wu, nel 1979, a trentasei anni lascia la Cina e si trasferisce
negli Stati Uniti dietro promessa di Gary Wu, suo connazionale e amico
di gioventù, di sposarla. Una volta giunta in America, tuttavia, Helen
viene in realtà relegata al ruolo di ‘amante segreta’ di Gary, dal quale ha
un figlio, Sidney. All’ennesimo rifiuto di Gary di sposarla, Helen ritorna
in Cina, ma senza il figlioletto Sidney, in quanto teme che se in Cina si
scoprisse la sua relazione extraconiugale, per lei e per il figlio ci sarebbe
solo un destino di disonore e di isolamento sociale. Per sette anni Helen
vive quindi in Cina senza rivedere il figlio e mantenendo contatti solo
telefonici con Gary, finché questi – sperando che Helen lo possa aiutare
finanziariamente a rimettere in sesto la sua attività commerciale in
America – finalmente la prega di tornare in America con la rinnovata
promessa di sposarla.
        Subito dopo il matrimonio, risulta tuttavia chiaro che Gary ha
sposato Helen solo per soldi (soldi che Helen in realtà non ha). Pertanto,
quando una sera Helen apprende da Sidney (che ora ha nove anni) che
Gary ha un’amante e che la casa dove abitano è di proprietà proprio di
questa amante, Helen, profondamente depressa e sconfortata, in preda
ad un trauma psicofisico, con una corda di tapparella strangola Sidney
e, dopo aver cercato invano di strangolarsi con la stessa corda, tenta il
suicidio tagliandosi le vene del polso sinistro.
        Chiamata a rispondere della morte del figlio, in primo grado
Helen viene condannata per murder di secondo grado alla detenzione
da quindici anni a vita.
        Con ricorso in appello, tuttavia, la difesa di Helen lamenta (tra
l’altro) che il giudice di primo grado avrebbe erroneamente omesso di
fornire alla giuria un’istruzione relativa all’“effetto che il suo background
culturale potrebbe aver avuto sul suo stato mentale nel momento in cui
uccise Sidney”44. La difesa di Helen mira in tal modo ad ottenere la

   43  People v. Helen Wu, No. E007993, Court of Appeal of California, Fourth Appellate
District, Division Two, 14 ottobre 1991 (la sentenza può essere letta per esteso su
LexisNexis). Su tale caso, v., ex pluris, RENTELN, The Cultural Defense, cit., p. 27;
GALLIN, The Cultural Defense, cit., p. 731 ss.; VOLPP, (Mis)Identifying Culture, cit., p.
31 ss.; LEE, Cultural Convergence, cit., p. 953.
    44 L’istruzione omessa era la seguente: “You have received evidence of defendant’s

cultural background and the relationship of her culture to her mental state. You may, but are
not required to, consider that evidence in determining the presence or absence of the essential
mental states of the crimes defined in these instructions, or in determining any other issue in
this case”. Il giudice di primo grado aveva rifiutato di fornire tale istruzione, in quanto
“there is no guidance in the appellate courts as far as I know on the issue of cultural jury
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derubricazione dell’accusa da murder a manslaughter45 in quanto la
donna, al momento dei fatti, non avrebbe avuto lo specifico elemento
psicologico (la malice aforethought) richiesto dal reato di murder, giacché
avrebbe agito in uno stato di extreme emotional disturbance46, la cui
sussistenza si lascerebbe spiegare in termini ragionevoli solo alla luce
del suo background culturale.
        Al fine di sostenere tali argomentazioni, già nel processo di
primo grado la difesa aveva chiamato a deporre alcuni esperti di
psicologia transculturale, dalla cui testimonianza risultò che Helen –
umiliata dal tradimento del marito, angosciata per la futura sorte di
Sidney e fortemente convinta dell’esistenza di un aldilà – avrebbe
ucciso il figlio e tentato di uccidere se stessa al fine di ricongiungersi
con lui nel paradiso, e qui dedicarsi devotamente alla sua cura. Secondo
la tesi difensiva, quindi, Helen avrebbe agito per amore e per senso di
responsabilità nei confronti del figlio che, se fosse sopravvissuto a lei,
avrebbe invece avuto un destino di abbandono e di trascuratezza47.
        Il ricorso viene accolto e nel processo d’appello la giuria, istruita
anche sul nesso tra background culturale di Helen e suo stato mentale al
momento dei fatti, nega che la donna possedesse la malice aforethought
necessaria per il reato di murder, riconoscendola colpevole del meno
grave reato di voluntary manslaughter con conseguente riduzione della
pena ad undici anni di detenzione48.

         Caso Bui (1988)49

instructions or cultural defense” (si noti incidentalmente che si tratta della prima
comparsa in assoluto, in un provvedimento giurisdizionale delle Corti americane,
della locuzione “cultural defense”).
    45 Sulla distinzione, in tema di omicidio, tra il più grave delitto di murder e il meno

grave delitto di manslaughter, v. supra, nota 21.
    46 Come ci informa ROBINSON, Criminal Law Defenses, St. Paul (Minn.), 1984 (e

successi aggiornamenti periodici - le citazioni sono tratte dalla terza ristampa del
1999), p. 488 ss., la defense di extreme emotional disturbance, diminuendo la colpevolezza
del soggetto agente, consente il passaggio dall’accusa di murder a quella, più lieve, di
manslaughter.
    47 V. in proposito HOEFFEL, Deconstructing, cit., p. 335, la quale riporta la seguente

affermazione di uno degli esperti chiamati a deporre dalla difesa di Helen: “in her
culture, in her own mind, there are no other options but to kill herself and take the son along
with her so that they could sort of step over to the next world where she could devote herself, all
of herself to the caring of the son, caring of Sidney”.
    48 V. HOEFFEL, Deconstructing, cit., p. 335 s., e LEE, Cultural Convergence, cit., p.

953.
    49 Quang Ngoc Bui v. State, No. 3 Div. 557, Court of Criminal Appeals of Alabama,

23 agosto 1988 (la sentenza può essere letta per esteso su LexisNexis). Un’accurata
                                                                                                 18
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