26 MAGGIO - UFFICIO STAMPA - Libero Consorzio Comunale di Ragusa

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26 MAGGIO
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   26 MAGGIO 2019

                               LA SICILIA
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POLITICA                                                                                                               26/5/2019

LE EUROPEE IN SICILIA

Un’elezione, tante sfide Fra big e outsider volata
all’ultimo voto
In Forza Italia duellano Milazzo e Romano, nella Lega Gelarda e Attaguile Nel M5S la partita è fra
Corrao e Giarrusso. Nel Pd un test per Zingaretti
di Claudio Reale La resa dei conti comincia stanotte. Ed è un match che attraversa trasversalmente tutti i partiti: perché il gioco
delle preferenze, letto in controluce come si apprestano a fare i ras dei voti, permetterà di pesarsi negli scontri interni per un
nuovo equilibrio partorito dalle urne. Da Forza Italia, nella quale ci si scontra per la leadership e anche per la linea, alla Lega,
che cerca un referente forte in Sicilia, fino ad arrivare ai Cinquestelle, al Pd e a Fratelli d’Italia, praticamente nessuno dei partiti
maggiori è esente da sfide fratricide.
In Forza Italia, ad esempio, la tensione è esplosa anche ieri, quando sulla carta si sarebbe dovuto rispettare il silenzio elettorale:
il sindaco di Messina Cateno De Luca, che venerdì ha chiuso la campagna elettorale con Dafne Musolino e il capogruppo
all’Ars Giuseppe Milazzo, ha pubblicato su Facebook un video in cui attacca Saverio Romano, che subito dopo ha fatto sapere
a tutte le redazioni di voler querelare l’alleato-rivale. La sfida, del resto, è calda per vari motivi: Romano porta con sé ampi
pezzi del centrismo redivivo, da Raffaele Lombardo agli eredi del cuffarismo, e lancia dunque un’opa su Forza Italia contro la
quale resiste il commissario del partito Gianfranco Miccichè. Che, a sua volta, si gioca tutte le fiches per la leadership in Sicilia
sul risultato di Milazzo, ma che deve anche garantire un buon numero di preferenze a Silvio Berlusconi, che può accettare solo
un plebiscito da un tradizionale granaio di voti come la Sicilia. Da tenere d’occhio anche le performance di Giorgia Iacolino,
che servirà a pesare nel Catanese Raffaele Lombardo, e Dafne Musolino, che invece servirà come test per De Luca,
intenzionato a correre per la presidenza della Regione dopo Nello Musumeci. La partita, però, non è solo legata alle poltrone: in
ballo c’è anche il ruolo di Forza Italia nel centrodestra, che Miccichè vuole fortemente anti- salviniana («Berlusconi — ha detto
venerdì a Repubblica — vede un’intesa fra popolari e sovranisti. Io non sono d’accordo, ma ovviamente sto con qualsiasi
decisione prendano il partito e Berlusconi»).
Di posizionamenti a destra bisognerà tener conto anche nell’analisi dei voti in Fratelli d’Italia: a dover tenere d’occhio anche la
performance di Raffaele Stancanelli nel partito di Giorgia Meloni è Diventerà bellissima, che l’ex sindaco di Catania ha lasciato
dopo la decisione di mantenere la barra al centro. Fra i sovranisti, però, la partita più interessante è certamente quella che si
gioca in casa Lega: occhi puntati su Igor Gelarda e Angelo Attaguile, che competono per il ruolo di viceré salviniano in Sicilia
portando di fatto in dote due modelli opposti ( esponente della nouvelle vague neo-rottamatrice il poliziotto palermitano,
portatore della tradizione democristiana e della propria dinastia politica l’ex deputato catanese). A giocare il ruolo del terzo
incomodo è Francesca Donato, che porta con sé anche una linea più marcatamente euroscettica.
Un nuovo viceré si cerca anche in casa grillina. Qui la sfida principale riguarda Ignazio Corrao e Dino Giarrusso:
l’eurodeputato uscente è molto vicino a Luigi Di Maio e a Giancarlo Cancelleri, e dunque sarà il termometro del gradimento
del vicepremier e del vicepresidente dell’Ars, mentre l’ex Iena sta cercando di intercettare i mondi dei dissidenti, non attivi
come un tempo ma sempre presenti sotto le ceneri del braciere grillino. Anche in questa partita, però, c’è un terzo incomodo o,

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meglio, una terza incomoda: la sarda Alessandra Todde, di fatto imposta da Di Maio come capolista al posto di Corrao, è una
scommessa personale del vicepremier e come tale sarà letta.
E se sfide minori, legate alla rispettiva sopravvivenza politica, giocano Fabrizio Ferrandelli in + Europa, Corradino Mineo ne
La Sinistra e Nadia Spallitta in Europa Verde, di certo a sinistra bisognerà leggere in filigrana i risultati di Pietro
Bartolo: il medico di Lampedusa, per il quale si sono schierati il vicesegretario Antonio Rubino, l’ex segretario Fausto Raciti e
il presidente dell’Antimafia Claudio Fava, è una scommessa dalla chiara valenza anti- salviniana di Nicola Zingaretti, che però
ha di fatto spinto in lista anche l’uscente Caterina Chinnici, poco gradita a molti dem siciliani. Su Chinnici, però, si misura nel
Catanese anche Luca Sammartino, mentre l’area che fa capo ad Antonello Cracolici, fra i più critici nei confronti del segretario
regionale Davide Faraone, tenta la prova di forza con l’abbinata Michela Giuffrida- Attilio Licciardi.
I conti si faranno stanotte. Ma il
redde rationem è arrivato.
k La giornata I seggi per le elezioni europee si aprono anche in Sicilia alle 7 e si chiudono alle 23 Si vota solo oggi, poi subito
lo spoglio. È possibile dare anche due o tre preferenze ma indicando almeno una donna o almeno un uomo
k Test a destra Manifesti di Forza Italia e Fdi

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POLITICA                                                                                                                     26/5/2019

Effetto urne sui Palazzi Ars e giunta, si
cambia
I risultati elettorali di forzisti, salviniani e centristi avranno ripercussioni Verso un rimpasto. Musumeci
frena: " Fino al 10 giugno non tocco niente"
di Antonio Fraschilla Al voto di oggi guardano in tanti tra Palazzo d’Orleans e Palazzo dei Normanni. Vi guarda con interesse il
governatore Nello Musumeci, ma anche gli assessori e gli inquilini di Sala d’Ercole. Perché, come sussurra un fidato collaboratore del
presidente della Regione, « dalle urne potrebbe venire fuori una nuova geografia del centrodestra, dove la nostra area, con Diventerà
bellissima, Lega e Fratelli d’Italia, potrebbe passare dal 10 per cento delle scorse regionali a oltre il 25, mentre quella di Forza Italia,
Mpa e centristi potrebbe scendere dal 25 al 10 per cento». Certo, può anche accadere che l’area centristi-Forza Italia ottenga un
successo. Di certo c’è che da domani ci sarà un cambio di assetti che avrà conseguenze dentro i Palazzi del potere siciliano: con la
richiesta pressante di un rimpasto, anche se il governatore ne farebbe volentieri a meno, e con nuovi gruppi che potrebbero nascere
all’Ars.
Le grandi manovre sono cominciate. Se davvero le cose andranno come sussurra il collaboratore di Musumeci, è evidente che l’area
centrista difficilmente potrà giustificare da domani la presenza in giunta di quattro assessori tra area Romano e area Udc. Qualcuno
dovrà fare posto. In questo senso il leader dell’Mpa, Raffaele Lombardo, è già corso ai ripari per evitare di finire nel calderone, con una
doppia mossa: da un lato conterà le sue forze su una triade chiara alle urne, composta da Romano, Giorgia Iacolino e Silvio Berlusconi.
Dall’altro sta lavorando, sotto traccia, per allargare il gruppo dei Popolari e autonomisti all’Ars, magari con qualche scontento di Forza
Italia: si fa il nome di Tommaso Calderone, ad esempio, ma non solo. È in uscita, poi, Luigi Genovese, che lascerà Forza Italia per
entrare in un altro gruppo, magari con il deputato della Lega Tony Rizzotto, Marianna Caronia e altri.
Sul fronte opposto, un successo dell’asse Miccichè-Sicilia futura-Cateno De Luca che si misura sui candidati Giuseppe Milazzo e Dafne
Musolino, aprirebbe alla costituzione di un gruppo satellite agli azzurri: il nome dell’assessore, in questo caso, potrebbe essere quello
dell’ex deputato Giuseppe Picciolo.
Da questi nuovi possibili assetti arriveranno richieste di un assessore in giunta. Non a caso Musumeci in queste ore, sapendo bene che
dovrà in qualche modo fare un rimpasto, ha fatto trapelare che prima del 10 giugno non si muoverà foglia: per quel giorno è in
programma una celebrazione in ricordo dell’assessore ai Beni culturali Sebastiano Tusa, scomparso in un incidente aereo. Proprio
sull’assessorato di Tusa si sono accesi i riflettori. Lombardo vorrebbe questo assessorato e ci manderebbe Antonio Scavone, oggi alla
Famiglia. Altro assessorato nel mirino è quello del Turismo: Sandro Pappalardo è in uscita dopo la nomina all’Enit.
Poi ci sono gli assessori in bilico causa possibile riduzione del gruppo di riferimento all’Ars. L’Udc potrebbe perderne uno tra Girolamo
Turano e Alberto Pierobon. E anche l’area Romano, che indica Toto Cordaro e Roberto Lagalla, potrebbe dovere rinunciare a uno dei
due in caso di una batosta alle urne e di nuovi assetti: entrambi, udc ed ex cuffariani, per fare posto al « nuovo centrodestra ». Proprio in
questo scenario Musumeci, che formalmente non ha schierato Diventerà bellissima alle urne, è pronto a rimettere in moto la macchina
politica del movimento per saldare l’asse con la Lega di Salvini: per il 12 giugno è in programma un grande evento di piazza del
movimento del governatore che sancirà anche la fase due: non solo di Diventerà bellissima ma anche del governo regionale.
k La coalizione Il governatore Nello Musumeci con assessori e leader alleati

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27/5/2019                                                                     Stampa Articolo

MONDO                                                                                                                          26/5/2019

Italia La Lega cerca il ribaltone di governo a
chi scende sotto il 20% Pd e M5S, guai
di Goffredo De Marchis

ROMA — I numeri del ribaltone sono noti: Salvini vicino o oltre il 30 per cento e Di Maio più prossimo al 20 che al 30. Così avremmo
veramente nuovi rapporti di forza, una Lega padrona del suo destino e di quello dell’Italia, libera di rivendicare altre poltrone e forse
Palazzo Chigi o di andare a elezioni politiche.
La sfida della campagna elettorale si è consumata intorno a questo scenario, che è diventato lo spauracchio dei 5 stelle. Da lì la rincorsa
scriteriata, gli scontri quotidiani, il tentativo grillino di aggrapparsi ai piedi dell’alleato per trascinarlo giù, con tutti i mezzi, almeno a
una distanza di sicurezza. Adesso Matteo Salvini dice: «Un voto in più del 18 per cento è una vittoria ». Si riferisce al dato del 4 marzo.
Mette le mani avanti insomma. Ma ci sono stati giorni, in cui i sondaggi si potevano pubblicare, che il simbolo del Carroccio era
affiancato a percentuali da capogiro: 36 per cento, 32 quando andava male.
Quindi, il ministro dell’Interno ha cominciato a fare la bocca a un esito con il 3 davanti, da Capitano del Paese, da unico leader in campo
come avvenne 5 anni fa per Matteo Renzi. Le aspettative sono molto grandi, le amministrative e le regionali hanno fatto da apripista a un
risultato che molti credono sorprendente. Alla fine però andrà letto nella competizione con il ministro dello Sviluppo economico.
Fa sorridere come si possono valutare le cifre con occhi diversi. Il Movimento, che alle politiche fece il botto (32 per cento), prende
come punto di riferimento le Europee del 2014, quando venne travolto dal ciclone Renzi e si arrestò al 21 per cento. Loro partono da
questo numeretto. Chiaramente, se lo confermassero o lo migliorassero anche di poco, sarebbe un disastro, una sconfitta epocale dopo il
trionfo di appena un anno fa, dopo il reddito di cittadinanza, dopo i mille strappi rispetto alla virtù delle origini compiuti sull’altare del
consenso e dell’alleanza di governo. In realtà, il primo obiettivo dei 5 stelle è ridurre la forbice con la Lega dando per scontato gli altri
arriveranno sopra. Andrebbe benone 28 a 25, anche 30 a 25. Fermo restando che altri numeri assolutamente reali recitano così: il
Movimento ha 326 parlamentari in Italia (ovvero nel posto che a loro interessa, altro che Strasburgo), la Lega 181. Una bella differenza.
La Lega dunque vince se supera il 30 o se sta sotto di poco (28) ma distanziando i grillini. Il M5s ha una soglia psicologica del 20 per
cento, ma la sua soddisfazione dipende da quanto si avvicina all’alleato. L’altro intreccio è tra il Movimento e il Partito democratico. Se
c’è il sorpasso è la vittoria vera del Pd e il panico di Di Maio. Il secondo posto in questo caso diventa cruciale. I dem sperano di ripetere
le esperienze di Abruzzo e Sardegna dove la vittoria è andata al centrodestra, ma alle spalle è arrivata la coalizione del centrosinistra
battendo il candidato di Grillo. Ma il Pd fa anche una corsa solitaria che muove dal pessimo 18 per cento di un anno fa. Nicola Zingaretti
ha fissato l’asticella almeno al 20 per cento: il 2 davanti. Il vero obiettivo è una percentuale oscillante tra il 23 e il 25. Altrimenti non si
spiega lo sforzo della lista unitaria. Al segretario sarebbe piaciuto lanciare un appello al voto utile, “contro” Più Europa e Verdi — Italia
in comune, che difficilmente raggiungeranno il quorum del 4 per cento. Ma lo ha evitato perché potrebbero essere gli alleati di domani
nel voto anticipato, lo slogan della sua campagna.
Forza Italia lotta invece contro l’irrilevanza. Con il 10 per cento (la doppia cifra) ha ancora carte da giocare nel duello con Salvini. Sotto
invece può cominciare una fuga verso i lidi leghisti o quelli di Fratelli d’Italia, tanto più se la Meloni dovesse tallonare Berlusconi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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POLITICA                                                                                                               26/5/2019

Il reportage

La campagna con il fiatone del Capitano il forzato
dei comizi e dei selfie
di Brunella Giovara

MILANO — Fresco come una rosa appassita, Matteo Salvini è salito l’altra sera sull’ultimo palco, Castel San Giovanni,
nell’Emilia Romagna «che non sarà più rossa», l’ha promesso in una bella serata tra i leghisti della Val Tidone, l’ultima del
tour. Dai primi di aprile ha zigzagato follemente per l’Italia, lui e la scorta, anche sull’aereo della polizia e dei Vigili del fuoco,
poi sulla Passat blindata, su per le montagne, giù in pianura, quattro, cinque incontri pubblici al giorno, con punte di otto. Un
forzato del comizio, un maratoneta che consuma molte Clark, uno che il 9 aprile, al Salone del Mobile, ha girato una dozzina di
stand per poi accasciarsi in quello Gibus, tende da sole, allo smart lunch offerto dai proprietari Bellin. E a loro confessava «io
ormai sono uno zingaro, faccio una vita da zingaro», poi ha trangugiato al volo una mezza dozzina di panini farciti e un
prosecco, inaugurato una mostra su Leonardo e via verso Roma. Che naja. «Il Capitano è stanco », diceva il presentatore di
Pavia o Putignano o Sassuolo, soprattutto verso sera, quando il peso dei chilometri si faceva sentire, ma rieccolo balzare sul
palco, appena il tempo di mettere la felpa con il nome di Messina, Grosseto, Bari, talvolta esibendo torace e pancia, come a
Forlì. Era la volta dell’uscita dal balcone del Duce, gli è valsa molti cori di «buffone» dalla piazza a cui ha risposto urlando
«zecche dei centri sociali!». Quel 3 maggio, cinque tappe: Fidenza, Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Forlì. A Modena la
contestazione plateale, la gente ha preso coraggio: “Fascista!”, lenzuola, cartelli, fino allo Zorro milanese.
C’è stato di peggio, ed era il 13 maggio. Otto appuntamenti, da stroncare un mulo, l’ha detto lui: «Sono stanco morto, come un
mulo ». Alle 9 a Brembate, dove lo aspettava lo striscione «non sei il benvenuto». Ore 10, Zingonia, cantiere per l’abbattimento
di una torre già luogo di spaccio. Ore 11,15 Dalmine. Ore 13 Lumezzane, in cima alla Val Trompia. Ore 15 Montichiari, ore 17
Legnago, provincia di Verona, ore 19 Schio, ore 21 Bassano del Grappa, pioveva, «e queste sono le lacrime della Fornero…»,
freddura sempre buona per i giorni di maltempo. Luca Zaia gli ricorda l’autonomia, lui è stanco ma prevale lo spirito del
battutaro: «Questo microfono non funziona, forse è di sinistra ». Il giorno dopo ancora Veneto: alle 9 Montecchio Maggiore,
Cantina Colli Vicentini, alle 10 a Arzignano, giro al mercato. Alle 11 a Verona, inaugurazione sede Cassa depositi e prestiti. Poi
Negrar, accolto da un gruppetto di tifosi della curva del Verona, a braccio teso e fumogeni verdi. Nella nebbia arrivano frasi
come «aiutateci a difendere la mamma», e «ormai non si può più dire nero, e parole come onore, rispetto disciplina, sono
fuorilegge ». Quindi San Bonifacio, poi di nuovo Verona, all’Automotive Dealer Day, raduno dei concessionari d’auto. A
Verona c’era già stato per il Vinitaly, e ci è tornato pure per Vapitaly, fiera della sigaretta elettronica, fiere saloni e mercati sono
posti buoni per i selfie, c’è gran massa di gente, così come i paesi, Concorezzo, Giussano, il comizio di solito è in fondo a una
strada, l’effetto “folla sotto il palco” è sicuro.
«Salutiamo il nostro conduttore! », ha detto il presentatore di Fossano, forse nel senso di duce, o dell’imbonitore televisivo. Lui
sale e la tecnica è: 1), foto con il cellulare alla gente là sotto, 2) salutare a mani giunte, come il Dalai Lama, 3) elencare «cosa
abbiamo fatto», «e sono solo 10 mesi di governo», «e abbiamo ridotto gli sbarchi del 90 per cento», che altrove diventa il 91 e
anche il 93. In fine ha accelerato, i tempi si sono ristretti, comizi di 10 minuti e via andare, altro paese o città, quindi più che

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comizi, dei rap, «abbiamo il sacrosanto diritto alla legittima difesa», «viva la mamma », «zanzare rosse», «castrazione
chimica!». Attorno i fidi Paganella e Morisi, a Monza il 15 aprile, ricevimento in prefettura, Morisi spiegava che a un
funzionario che «ovunque Matteo vada, è folla». Ma a Torino c’erano solo 400 persone, a Bari anche meno. Matteo però, «mai
mulà », migliaia di chilometri, maschie strette di mano, carezze ai bambini, foto con madri, nonne, venditori di auto, ambulanti,
florovivaisti, poliziotti, alpini. Ma chi l’ha mai visto un ministro così da vicino, che lo puoi toccare, anche baciare, oppure
urlargli «dove sono i 49 milioni? », da lì in avanti c’è un addetto alle foto, oppure lui stesso scatta e semmai cancella. «La
campagna elettorale mi ha fatto bene», raccontava l’altra sera ai fedeli di Castel San Giovanni. «Non fumo da due mesi, ho
perso tre chiletti, ho un’abbronzatura da strada, mica da Sardegna, io». E «sì, sono stanco morto, adesso però facciamo le foto».
Un selfie, un voto.

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ECONOMIA                                                                                                              26/5/2019

IL DOSSIER

Fondi europei finora speso solo il 23% quasi tutto
al Sud
Su oltre 75 miliardi di risorse ne abbiamo utilizzate poco più di 17 L’Italia versa ogni anno a
Bruxelles 15 miliardi e ne prende 9

di Valentina Conte

ROMA — L’Italia dà più di quanto riceve dall’Europa: 15 miliardi contro 9 all’anno, in media. Eppure non ha ancora imparato
a spendere bene quel che incassa, nei tempi giusti e per fare le cose importanti. Sin qui ha presentato a Bruxelles "scontrini" per
soli 17,3 miliardi su 75,2 di fondi strutturali e di investimento del ciclo 2014-2020. Il 23%, appena un miliardo certificato ogni
quattro assegnati.
Una tradizione di lentezza e indolenza figlia anche di un sistema amministrativo elefantiaco e inadeguato. Con un finale già
scritto, che si ripete ad ogni settennato di programmazione dei soldi Ue: si cincischia per anni, si corre solo alla fine, col fiato
sul collo di dover restituire risorse preziose. Eppure senza quei fondi Ue il Sud, che ne beneficia all’85%, sprofonderebbe.
L’Italia tutta avrebbe meno strade, ponti, scuole, sanità, metropolitane, fibra ottica, ciclovie, bus ecologici. Potrebbe fare meno
assistenza agli anziani, al territorio sfibrato dal dissesto idrogeologico, agli edifici pubblici da rendere eco-efficienti. Le aziende
rinuncerebbero a crediti di imposta e incentivi. Le politiche per l’occupazione a Garanzia Giovani e bonus Sud, lo sgravio
contributivo che ha portato 240 mila nuovi assunti stabili nel 2017-2018.
Il nuovo Parlamento che si elegge oggi tra i primi impegni dovrà mettere mano al Piano finanziario pluriennale 2021-2027, alle
politiche di coesione e alla Pac, la politica agricola. Difficili stravolgimenti, ma anche qui l’Italia latita. Il Piano è quello
proposto dalla commissione Ue nel maggio di un anno fa. Quando a Roma Luigi Di Maio minacciava l’impeachment a
Mattarella e Matteo Salvini spingeva per Paolo Savona alla guida dell’Economia. Lo spread veleggiava, nel timore di Italexit,
una clamorosa uscita del Paese dall’euro. A un anno di distanza, nulla di questo è avvenuto. Ma intanto la proposta della
Commissione ha fatto passi avanti, discussa ed emendata. E l’Italia? Assente. Non ha neppure un ministro per le Politiche
europee (solo un interim al premier Conte), dopo l’addio frettoloso di Savona che l’ha gestito come contentino prima di
trasferirsi alla guida di Consob, la Commissione per la Borsa.
Eppure in quei documenti c’è anche un pezzo del nostro futuro. Lì si è deciso come ripartire 1.279 miliardi di bilancio europeo.
Contraendo le politiche di coesione - quasi tutte dirottate ai paesi più deboli, quelli dell’Est, oggi sovranisti - e le politiche
agricole (l’Italia avrà quasi 5 miliardi in meno). A favore di più fondi per gli immigrati, sebbene valutati sulle richieste di asilo
che l’Italia ha nel frattempo contratto, non sugli sbarchi. E incrementando le risorse per ricerca, innovazione, digitalizzazione,
servizio civile. Per rientrare dagli ammanchi di una possibile Brexit - la fuoriuscita del Regno Unito - e mantenere le risorse
immutate rispetto agli anni passati, la Commissione propone tre tasse: una webtax sui colossi del tech, una verde sulle
emissioni e un’altra sulla plastica. Il Parlamento uscente suggerisce poi di alzare i contributi dei singoli paesi al bilancio com
une dall’1,1 all’1,3% del reddito nazionale lordo. Ma di questi temi, almeno nella nostra campagna elettorale, non si è parlato.
Gli italiani non sanno come sono spesi i soldi che l’Italia dà all’Europa e che poi vengono distribuiti secondo il principio di

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27/5/2019                                                                     Stampa Articolo

sussidiarietà, soccorrendo i paesi più deboli. E non conoscono neppure come vengono usate le risorse che poi ci tornano
indietro.
Nel settennato 2007-2013 i 91,7 miliardi di fondi europei - assegnati all’Italia, compreso il cofinanziamento nazionale, senza il
quale quei soldi non possono essere spesi - sono finiti in 949.556 progetti, dalle fioriere ai corsi di formazione. Una
polverizzazione che non ci rende orgogliosi. Ne abbiamo restituito per insipienza 52 milioni. Pochi se si guarda il totale. E
comunque uno spreco. Al 31 dicembre del 2018 - dati elaborati dal centro studi della Uil, Servizio politiche territoriali - sono
già tre i programmi che non hanno raggiunto il target prefissato, per 71 milioni. Tra questi il Pon inclusione, un programma che
il ministro del Lavoro Di Maio voleva usare per finanziare il reddito di cittadinanza (ipotesi irrealistica), ora sul punto di
ritornare a Bruxelles per 25 milioni. Una discreta somma, se si pensa che l’intero decreto Crescita ne vale 500. «Le debolezze
italiane sono note, quando si parla di fondi Ue: burocrazia, sistemi amministrativi fragili, codice appalti che cambia in
continuazione », riflette Ivana Veronese, segretaria confederale della Uil. «Ma l’Italia dovrebbe invece battersi a Bruxelles per
scorporare il cofinanziamento dal deficit: il vincolo rallenta la spesa delle Regioni. Non scordiamoci che il 70% dei 43 miliardi
di investimenti pubblici annui dell’Italia è fatto anche grazie ai fondi Ue».
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