176 Il ruolo degli attori mediorientali nella questione del Nilo e nella crisi del Tigray.

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176 Il ruolo degli attori mediorientali nella questione del Nilo e nella crisi del Tigray.
Il ruolo degli attori
                  mediorientali nella
                  questione del Nilo e nella
                  crisi del Tigray.

Giugno 2021   176

              A cura del Centro Studi Internazionali
176 Il ruolo degli attori mediorientali nella questione del Nilo e nella crisi del Tigray.
IL RUOLO DEGLI ATTORI
MEDIORIENTALI NELLA QUESTIONE
  DEL NILO E NELLA CRISI NEL
                      TIGRAY

     Di Giuseppe Dentice (CeSI – Centro Studi Internazionali)

                    GIUGNO 2021
INDICE

Executive Summary ........................................................................................................................... 3
Introduzione ....................................................................................................................................... 4
1. La “corsa” degli attori del Golfo nel Corno d’Africa ................................................................. 8
   1.1 La presenza multiforme degli attori arabi del Golfo tra Mar Rosso e GHoA ....... 10
   1.2 Il ruolo degli attori africani nella competizione mediorientale ............................... 15
2. Crisi del Nilo e nel Tigray: due tappe fondamentali nei fragili equilibri regionali ................ 19
   2.1 La questione del Nilo ......................................................................................................... 19
   2.2 La crisi nel Tigray .............................................................................................................. 21
3. L’engagement del Golfo nelle due crisi ...................................................................................... 23
   3.1 La partita mediorientale (e del Golfo) nella questione nilota .................................. 23
   3.2 L’ambivalenza del Golfo nella crisi in Tigray ............................................................. 25
Prospettive e conclusioni.................................................................................................................. 28
Executive Summary

Sin dal post-Primavere Arabe del 2011, la regione del Corno d’Africa ha attratto molti attori
internazionali interessati a sfruttare i numerosi fattori geo-economici e strategici che la
caratterizzano. Tra questi, un ruolo particolare lo hanno assunto le Monarchie arabe del Golfo che,
per precipui motivi economici e di sicurezza (Arabia Saudita), per ambizioni di status internazionale
(Emirati Arabi Uniti) o per eminenti termini politici e ideologici (Qatar), hanno visto nell’area
allargata del Corno d’Africa (GHoA) una regione straordinariamente interessante da penetrare e
interconnettere ai prismi di azione mediorientale.

Una connessione accresciuta da peculiarità specifiche di grado geografico e strategico che hanno di
fatto favorito una diretta interdipendenza tra le rive arabe e africane del Mar Rosso. Se il
collegamento risponde primariamente a fattori multidimensionali di cooperazione e competizione tra
gli attori mediorientali, il crescente legame tra questi e i Paesi africani ha tuttavia aumentato la
capacità dei player regionali nel porsi non solo in termini ricettivi e passivi rispetto a determinate
dinamiche, ma anche come soggetti in grado di influenzare, incidere e in alcuni casi determinare e
rivedere le scelte politiche della potenza esterna di turno.

Di conseguenza, la regione del Corno d’Africa risulta essere il teatro in cui si incrociano e
soprappongo due dinamiche contemporanee: quella del confronto tra il blocco saudita-emiratino da
un alto e turco-qatariota dall’altro e quella della conflittualità regionale tra Etiopia, Sudan, Somalia,
Kenya ed Eritrea. Oggi, tali linee di cooperazione e competizione trovano nelle crisi del Nilo e del
Tigray due cornici in cui misurare ambizioni e capacità di tutti gli attori coinvolti, sia ad est sia ad
ovest del Mar Rosso.

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Introduzione
Generalmente, quando si parla di Corno d’Africa si intende un’area ben precisa dell’Africa Orientale,
ossia la parte terminale della penisola comprendente Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia. Tuttavia, in
letteratura esistono diverse definizioni, nelle quali spesso e volentieri rientrano anche realtà contigue
in termini sociali, culturali, linguistiche, economiche e tribali come Sudan, Sud Sudan e Kenya. Un
contesto estendibile ulteriormente ad altre realtà accomunate da medesimi fattori, minacce di tipo
securitario e interessi geopolitici. In questo lavoro si è deciso di adoperare una definizione quanto più
ampia possibile, riconducibile al concetto di Grande Corno d’Africa (GHoA), poiché riesce a definire
in profondità le esigenze geopolitiche, economiche e strategiche a cui i territori sono sottoposti e
soprattutto gli interessi portati da attori extra-regionali nelle dinamiche di area. Pertanto,
nell’analizzare tali dinamiche si intenderà osservare una porzione di Africa Orientale comprendente
Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Sudan, Sud-Sudan, a cui innegabilmente vanno aggiunti anche i
contesti di Kenya e Uganda. In pratica, i membri dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo
(IGAD). Questa è un’organizzazione internazionale che accoglie molti degli obiettivi in termini
economici e di sicurezza al centro delle iniziative dei principali attori mediorientali, i quali, sin dal
post-Primavere Arabe del 2011, hanno lanciato una propria offensiva diplomatica nel tentativo di
modellare e definire nel GHoA un’area sempre più compenetrata sia nel sistema economico MENA
(e in particolare del Golfo Persico), sia in termini di blocco politico coeso e vicino agli interessi di
parte della comunità araba (che nella fattispecie specifica risponde alle visioni di Arabia Saudita ed
Emirati Arabi Uniti). Una connessione accresciuta da peculiarità specifiche di grado geografico e
strategico che hanno di fatto favorito una diretta interdipendenza tra le rive arabe e africane del Mar
Rosso. Tale tendenza è divenuta palese sin dal 2015, quando il GHoA è stato percorso dall’evoluzione
di numerosi dossier politici, economici e securitari che hanno condizionato l’agenda sia degli Stati
della regione sia quella degli attori internazionali decisi a proiettare la propria influenza in quelle
aree, tra tutti: le tensioni tra Egitto, Etiopia e Sudan sull’atavica questione della ripartizione delle
acque del Nilo, i possibili sviluppi di pace in Sud Sudan, la corsa alle infrastrutture strategiche sulle
rive africane del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano Occidentale, gli impatti molteplici della crisi
provocata dal Covid-19, il conflitto in Tigray, le tensioni confinarie di Sudan e Somalia con Etiopia,
le incertezze relative al processo di transizione sudanese dopo la destituzione di Omar al-Bashir e,
infine, le minacce asimmetriche portate dal terrorismo jihadista e dall’estremismo violento.


 L’autore vuole ringraziare per i consigli utili e i preziosi riferimenti Marco Di Liddo, Senior Analyst e Responsabile del
Desk Africa del Centro Studi Internazionali (CeSI).

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Di fatto, il Corno d’Africa si è trasformato da area instabile e poco attraente in termini strategici in
un territorio sempre più rilevante e dall’alto potenziale geopolitico, contraddistinto, però, sia da
compositi livelli di vulnerabilità, che hanno reso più incerti il margine di sviluppo economico e la
stabilità politico-sociale, sia da una estrema eterogeneità delle realtà locali, che ha messo in luce una
certa persistenza di fragilità connaturate al tessuto statuale di determinati Paesi dell’area. Una
complessità che ha avuto effetti notevoli soprattutto in termini di mancato consolidamento dei
processi di state-building e nation-building, con importanti ripercussioni sui diversi scenari operativi
a livello continentale e internazionale.

Una sorta di contraddizione in termini, se si considera la robusta crescita economica della regione
rispetto alla media continentale. Infatti, secondo dati 2018 dell’African Development Bank, la regione
ha conosciuto una fase di espansione sociale, economica e politica molto accentuata, con un tasso
medio di crescita del PIL regionale pari al 5,8%, ben superiore alla media continentale (4,1%). Un
trend favorito soprattutto dallo sviluppo etiope (il cui PIL è cresciuto in maniera altalenante ma
costante nel corso dell’ultimo decennio di oltre 9 punti percentuali secondo i dati della Banca
Mondiale) e dall’attrazione di investimenti esteri (circa 4,8 miliardi di dollari) nel comparto dei
servizi e delle infrastrutture (civili e militari), con energia e agro-alimentare a trainare il processo. A
contribuire a queste performance hanno partecipato anche l’ampia disponibilità e l’estrazione di
risorse naturali (petrolio, potassio, rame e altri minerali), che hanno prodotto sì sviluppi positivi a
livello macro e micro, ma che non hanno potuto porre rimedio alle gravi iniquità socio-economiche
ancora esistenti (si pensi ad esempio alle profonde disparità di ricchezza interne ai singoli contesti1
oppure i ritardi cronici nello sviluppo di filiere agricole e nell’utilizzo di sistemi alternativi e tecniche
produttive differenti nella produzione delle colture tradizionali)2. A coronamento di questo contesto
di trasformazione, tra il 2018 e il 2019, la regione ha vissuto anche cambiamenti politici positivi,
come la pace siglata a Jeddah (Arabia Saudita) tra Etiopia ed Eritrea, che ha messo fine ad un conflitto
ventennale (1998-2018) – seppur a bassa intensità – o la transizione politica avviata in Sudan con la
destituzione del regime islamista di Omar al-Bashir (2019).

Benché, almeno in linea teorica, tali eventi avessero un potenziale enorme per inaugurare una fase di
maggiore stabilità e crescita economica per l’intera regione, questi progressi si sono rivelati
1
  Anche in questo caso, l’Etiopia si mostra un esempio lampante. Secondo le elaborazioni della Banca Mondiale, a fronte
di una crescita importante, il Paese fa ancora registrare tassi di povertà elevati (che colpisce il 24% della popolazione
totale, nonostante un calo consistente rispetto al 38% del 2010) e una ricchezza pro-capite (reddito di 850 dollari a
persona) tra i più bassi dell’intero continente.
2
  African Development Bank, “Investing in Transition States: The Horn of Africa Opportunity. A briefing note for South
Korean investors”, 2018.

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estremamente fragili poiché soggetti alle dinamiche interne ai singoli Stati, a loro volta influenzabili
reciprocamente sia in termini intra-regionali, sia in relazione alle diverse sensibilità da garantire e
gestire nel rapporto non sempre lineare con i partner internazionali. Una condizione di trasformazione
potenziale che ha conosciuto un netto stop allorquando, nel corso del 2020, si sono manifestati in
maniera evidente i primi impatti sociali ed economici del Covid-19 che hanno prodotto un generale
arretramento democratico nell’intera regione.

Sempre in termini di fattori esogeni, i Paesi del GHoA si sono mostrati ricettori differenti di diverse
istanze a livello regionale e globale. Se Sudan, Etiopia, Kenya e Somalia hanno intercettato le
maggiori attenzioni degli attori internazionali in virtù di dimensioni geografiche enormi e di risorse
economiche e naturali decisamente superiori a quelle di altri Paesi limitrofi, divenendo di fatto dei
poli di attrazione multidimensionali, anche Stati come Gibuti e, in parte, Eritrea sono stati in grado
di sfruttare il contesto regionale e il rinnovato interesse esterno verso l’area per condizionare e/o
alimentare politiche ad hoc di importanti attori mediorientali, specie dal versante arabo del Golfo
Persico.

Proprio in virtù di ciò, nel corso dell’ultimo decennio il rapporto politico, economico e strategico tra
il Medio Oriente e l’Africa Orientale si è cementato enormemente, creando di fatto nel GHoA un’area
geo-strategicamente rilevante per gli interessi sia degli attori locali sia di quelli mediorientali. Lo
testimoniano i grandi presidi militari a Gibuti o la presenza di infrastrutture logistiche e portuali con
doppia destinazione (civile e militare) in Somaliland, così come i grandi investimenti nell’agro-
alimentare (sovente si è parlato di land grabbing) e nel comparto energetico (eolico e solare) tra
Sudan ed Etiopia. Un’influenza che dalla dimensione puramente geo-economica si è gradatamente
espansa al piano politico, tanto da avere una presenza ben strutturata di attori come Turchia, Arabia
Saudita, EAU, Qatar, Egitto e Iran (seppur in tono minore negli ultimi anni), oltre a quelle più
consolidate di Cina, Stati Uniti e Unione Europea. Un contesto plasticamente celebrato con la firma
degli accordi di pace tra Etiopia ed Eritrea a Riyadh (2018). Un evento simbolico dal valore politico
rilevantissimo in quanto ha dichiarato in maniera palese l’importanza dell’area per gli attori
mediorientali, in particolare per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU), autori principali della
mediazione. Un processo che puntava di fatto a costruire intorno a questa distensione un nuovo clima
di interdipendenze a carattere strategico tra GHoA e Medio Oriente. Tale interesse ha contribuito ad
alimentare una condizione di rinnovata dinamicità che ha prodotto anche una mutazione nei rapporti
tra i Paesi dell’area e i vicini nordafricani. Oggi queste relazioni sono diventate più intense e non
meno conflittuali del passato in virtù di trend di ampio respiro che investono le aree africane tout-

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court (demografia, migrazioni e cambiamenti climatici) e per la presenza di temi strettamente legati
a dinamiche securitarie di potenza, come ad esempio il conflitto attorno alle acque del Nilo – che
grava sui rapporti tra Egitto, Etiopia e Sudan – o le tensioni sempre più trans-regionalizzate nella crisi
tra governo centrale di Addis Abeba e istituzioni locali del Tigray.

Ecco, quindi, che la presenza contemporanea di più situazioni di instabilità ha reso questa penisola
dalla forma triangolare sì una meta ambita, ma altresì esposta ad una propagazione di tensioni esterne,
che, se mal gestite o lasciate sfogare in maniera incontrollata, potrebbero vanificare anche i recenti
tentativi di stabilizzazione. Una prospettiva che tramuterebbe di fatto il Corno d’Africa da possibile
avanguardia geo-strategica in una retrovia dei disequilibri geopolitici.

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1. La “corsa” degli attori del Golfo nel Corno d’Africa
Sin dall’immediato post-Primavere Arabe, il Corno d’Africa ha acquisito una nuova centralità nelle
politiche e nelle strategie delle principali potenze mediorientali. Un legame non nuovo, ma che
affonda le sue origini in rapporti quasi ancestrali, che vedono collegati i territori più orientali
dell’Africa con i popoli e le culture dell’altra sponda del Mar Rosso e Mar Arabico. Una storia antica
che solo dagli anni Novanta, con il superamento delle logiche della Guerra Fredda, ha visto il GHoA
entrare gradatamente nel raggio di azione e interessi (spesso contrapposti) delle potenze mediorientali
e, in particolare, del Golfo Persico, le quali hanno replicato in questa regione le tensioni tipiche del
Medio Oriente contemporaneo. Questo scivolamento ha quindi portato Stati del calibro di Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia, Iran, e più di recente anche Egitto e Israele, a
promuovere politiche ad hoc che hanno generato una crescita esponenziale di fenomeni di
cooperazione o competizione tra gli attori regionali, tanto locali quando esterni. Un movimento da
Est verso Ovest, dal cuore del cosiddetto Medio Oriente verso le coste del GHoA nel quale il
coinvolgimento degli attori mediorientali ha già oggi un peso importante in termini politici,
economici e di sicurezza in una regione molto eterogenea al suo interno e già caratterizzata da
molteplici spinte, tensioni domestiche, instabilità politica e processi di militarizzazione. Di fatto, e
anche sulla base di queste evidenze, è emersa una netta interconnessione tra le due sponde del Mar
Rosso, nel quale si è cementato un rapporto di stretta dipendenza tra la Penisola Arabica e il Grande
Corno d’Africa3.

Tale interesse si è rinsaldato in tempi recenti in virtù dell’importanza geopolitica e strategica che i
Paesi (specie quelli costieri) del GHoA hanno assunto nell’ottica araba: che sia la ricerca di una
migliore proiezione internazionale o la necessità di una maggiore diversificazione delle rispettive
strutture economiche, questi attori hanno lanciato nell’area quella che molti commentatori e analisti
hanno definito una “moderna corsa” all’influenza in Africa. In questa azione, le principali potenze
del Golfo hanno manifestato un coinvolgimento, a tratti aggressivo, teso a proteggere il proprio
investimento estero.

Il legame tra le due sponde del Mar Rosso si è inizialmente strutturato nei primi anni Duemila, quando
i Paesi del Golfo hanno cercato di estendere la loro influenza nella regione nel tentativo di garantire
interessi a breve e lungo termine. All’inizio, la dinamica di contrapposizione tra Arabia Saudita ed
EAU da una parte e Iran dall’altra ha dominato la scena, almeno fino al 2015, anno del nuclear deal
3
 F. Donelli, G. Dentice, “Fluctuating Saudi and Emirati Alignment Behaviours in the Horn of Africa”, The International
Spectator, 55:1, 2020, pp. 126-142

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tra i Paesi del P5+1 (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Germania) e Repubblica
Islamica, allorquando l’obiettivo dichiarato degli attori arabi del Golfo era quello di riuscire a rompere
il sistema di relazioni politico-militari costruito dall’Iran grazie all’appoggio garantito alle fazioni
Houthi in Yemen e ai rapporti proficui con i governi di Sudan, Eritrea e Somalia. Tale passaggio e
soprattutto gli aiuti economici-militari promessi da sauditi ed emiratini in favore di Eritrea, Gibuti e
Sudan hanno portato questi attori africani a rompere i ponti con Teheran e a sposare un progetto di
lealtà ai principi di leadership regionale arabo-sunnita sotto la bandiera saudita (ed emiratina).

Questa tendenza ha poi assunto una forma molto più accentuata soprattutto nel 2017, quando la
tensione interna al Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) ha rimescolato le carte e non solo ha
ingolfato le agende politiche degli attori locali, ma ha contribuito a ridefinire molti degli equilibri e
delle alleanze costruite negli anni. L’intensificarsi della crisi intra-Golfo ha così visto scontrarsi Qatar
da un lato e Arabia Saudita ed EAU dall’altro, decretando una rivalità molto accesa che si è riverberata
su nuove fratture interne agli Stati del Corno4. A subire in primis queste trasformazioni sono stati
soprattutto Etiopia, Somalia e Sudan, i quali per motivi differenti hanno visto accrescere l’influenza
di Arabia Saudita ed EAU aventi l’obiettivo di restringere, e possibilmente estromettere, Turchia e
Qatar da questi contesti cruciali nella lotta competitiva tra area MENA e GHoA.

Per Riyadh e Abu Dhabi, l’Etiopia è la potenza egemone (economica e politica) regionale, la Somalia
un contraltare da sfruttare nelle strategie africane in funzione anti-etiope qualora determinate scelte o
iniziative non prendessero la giusta strada, mentre il Sudan è un attore fondamentale in molte delle
dinamiche securitarie transregionali (si pensi solo all’invio di uomini e mezzi da parte di Khartoum
nel conflitto in Yemen nel 2016). Senza un loro diretto coinvolgimento in qualsiasi iniziativa
riguardante l’area, il rischio è di non poter raggiungere alcun tipo di risultato, né tantomeno di poter
costruire alcun processo di integrazione tra le due sponde del Mar Rosso. Non è un caso, infatti, che
il primo passo della strategia saudito-emiratina sia partito proprio dall’Etiopia, con la stipula
dell’accordo di pace firmato con l’Eritrea del 2018 e il tentativo di riconfigurare lo spazio geopolitico
regionale in una visione più sensibile e vicina agli interessi dei due player arabi, andando così a
rintuzzare l’asse turco-qatarino già coinvolto, seppur in un piano precipuamente economico, in molte
dinamiche etiopi. Un passaggio altrettanto importante è stata la Somalia, dove EAU e Arabia Saudita
hanno usato tutta la loro influenza contro il polo turco-qatariota, nella convinzione che un
4
 A. al-Faisal, The Gulf’s interest in the Horn of Africa: Influence and Economic Ties, International Institute for Middle
East and Balkan Studies (IFIMES), August 31, 2019.

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consolidamento di uno Stato somalo unito e forte andrebbe anche a svantaggio dell’operazione di
rafforzamento della stessa leadership etiope nella regione.

Tuttavia, il momento cruciale di questa dinamica competitiva tra attori del Golfo, trasposta sulle rive
del Mar Rosso si è avuta soprattutto nella transizione sudanese del 2019. La fine del regime quasi
trentennale di Omar al-Bashir ha spinto tutto i big della politica mediorientale a scendere in campo
nel tentativo di orientare la transizione nel Paese con l’idea di inserire il Sudan all’interno delle
dinamiche contrapposte tra blocco arabo (tenuto in vita da Arabia Saudita, EAU ed Egitto) e il
duopolio turco-qatarino. In questo modo gli Stati arabi del Golfo hanno affiancato ai loro interessi
strategici da preservare anche una dimensione economica, costituita da prestiti bancari5, aiuti
alimentari (come le 540.000 tonnellate di grano spedite per affrontare la crisi alimentare), forniture
mediche (per un valore di 20 milioni di dollari) e iniziative politico-securitarie (esercitazioni militari
congiunte) volte a tirare Khartoum al proprio fianco. Con la rimozione di al-Bashir e l’insediamento
di un nuovo governo di transizione civile-militare, l’equilibrio infatti sembra essersi spostato
decisamente verso l’asse saudita-emiratino, lasciando Qatar e Turchia in una posizione
apparentemente di secondo piano nel Paese. Tanti elementi che hanno quindi dato avvio ad una feroce
competizione nell’area.

1.1 La presenza multiforme degli attori arabi del Golfo tra Mar Rosso e GHoA
Gli interessi degli attori del Golfo risultano essere diversificati e ben radicati in un impianto
securitario declinabile in una dinamica duplice di natura politico-militare ed economico-
commerciale. In altre parole, l’ostentazione e la ricerca di un soft-power, a tratti anche aggressivo, è
solo un’espressione parziale di agende nazionali ambiziose in politica estera mosse da esigenze
politiche e di sicurezza sia dei singoli attori, sia in termini di equilibri extra-regionali (come, ad
esempio, la strategia araba di contenimento all’Iran e all’Islam politico dell’asse turco-qatarino). Allo
stesso tempo, queste connessioni mostrano come ogni singolo attore persegua un proprio specifico
interesse nazionale che il più delle volte confligge e si sovrappone con le agende politiche ed
economiche dei partner del Golfo nel Corno d’Africa. È evidente, quindi, come questo impianto di
5
 Sin dal 2019, sauditi ed emiratini hanno versato circa 5 miliardi di dollari in depositi bancari presso l’istituto finanziario
sudanese.

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penetrazione economico-commerciale mascheri una competizione latente di tipo geo-economica
esistente tra Arabia Saudita, EAU e Qatar6.

Il Regno degli al-Saud, ad esempio, ha investito nel GHoA 4,9 miliardi di dollari in oltre 250 progetti
(dati Clingendael 2018), per lo più riguardanti i settori agricolo e manifatturiero, disseminati
soprattutto tra Etiopia e Sudan. Nell’ottica di Riyadh, la costa africana del Mar Rosso gioca a specchio
con gli investimenti mastodontici in territorio saudita, come quelli nelle città futuristiche/industriali
come NEOM o King Abdullah Economic City, o i progetti di riqualificazione territoriale e turistica
nell’area tra Jeddah e Jizan. Tutti elementi che rispondono ad esigenze di carattere interno legato alla
cosiddetta “visione saudita 2030”, che, oltre a garantire una transizione verso un’economia post-
petrolifera – con innegabili riflessi politici domestici volti a modernizzare radicalmente la società e
l’idea di Stato costruite dalla famiglia al-Saud –, mira anche a definire passaggi fondamentali
nell’ambito esterno, in cui emergono chiare ambizioni geopolitiche identificabili per lo più nel
cosiddetto “Red Sea Alliance” (RSA). Il progetto è nato nel 2018 su impulso saudita-egiziano al fine
di porre un accento importante sull’importanza marittima e strategica del Mar Rosso, aggravata dai
calcoli derivanti dall’impegno di Riyadh nel conflitto in Yemen. Dal gennaio 2020 questa iniziativa
si è trasformata in un forum informale che riunisce otto Paesi costieri (Arabia Saudita, Sudan, Gibuti,
Somalia, Eritrea, Egitto, Yemen, Giordania), che si struttura al pari di un’organizzazione
internazionale. La RSA pone la sicurezza come obiettivo cardine del soggetto in termini di: lotta alla
pirateria, contrabbando, terrorismo, crimine transfrontaliero, migrazione illegale. Apparentemente il
consesso sembra mostrarsi come una contro-alleanza nei confronti del Qatar e degli EAU, ma serve
essenzialmente a centrare il focus saudita sulle due sponde del Mar Rosso intendendo in ciò una
regione strategica per la sicurezza economica, marittima ed energetica di Riyadh. Infatti, i piani
infrastrutturali come NEOM e quelli gemelli nel Mar Rosso saudita servono a migliorare sì i legami
tra sauditi, egiziani e giordani (facilitando ulteriormente le relazioni di Riyadh con Israele), ma
contestualmente gli stessi progetti hanno un valore geopolitico enorme in quanto investono un’area
altamente instabile, minacciata dall’instabilità del Sinai a Nord e dalle attività belliche a Sud degli
Houthi lungo la costa occidentale dello Yemen. In questo senso, in un contesto nel quale non emerge
un chiaro egemone, Riyadh punta a costruire una strada differente rispetto alla militarizzazione
imperante nell’area del Mar Rosso (basi militari, accordi di cooperazione, esercitazioni militari). In
altre parole, attraverso un’architettura di sicurezza regionalizzata i sauditi puntano a sviluppare una
strategia di soft securitization e di brand diplomacy nell’area utile a favorire, sul piano esterno,
6
 Intra-Gulf Competition in Africa’s Horn: Lessening the Impact, Report, International Crisis Group, 206, September
2019.

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maggiore influenza diplomatica e a rafforzare l’interdipendenza economico-commerciale con gli
attori del consesso, garantendo allo stesso tempo trasformazioni e stabilità sul piano interno al
Regno7.

Analogamente alla postura saudita, anche gli EAU hanno sviluppato negli anni un’ambiziosa strategia
economica parte di una più ampia politica estera che ha guardato sempre più a Ovest, specie verso
l’Africa Mediterranea e Orientale. In questa proiezione, Abu Dhabi ha svolto un’attenta opera di
posizionamento marittimo non solo lungo la costa africana (in particolare con gli investimenti portuali
ad Assab in Eritrea8, Doraleh a Gibuti, Berbera in Somaliland e Bosaso in Puntland che hanno
alimentato la narrazione della cosiddetta “geopolitica dei porti”), ma anche attraverso una
differenziazione degli investimenti nell’area (in particolare nel bancario, turismo, alimentari,
intrattenimento). Una strategia ampia, condotta da attori privati e statuali, che ha visto destinare nel
GHoA 5,1 miliardi di dollari in 133 progetti (sempre secondo i dati 2018 del Clingendael) volti a
espandere la propria proiezione esterna (e non solo commerciale) dal Medio Oriente verso l’Africa
Orientale, ma anche a rispondere a necessità concrete di carattere domestico di sicurezza alimentare
ed economica. Emblematici in tal senso sono da un lato gli investimenti economici in Etiopia e Sudan
(soprattutto nell’agro-alimentare e nel manifatturiero), dall’altro la costruzione di porti civili-militari
a Berenice (Egitto) e Port Sudan (Sudan). La doppia natura di questi collocamenti garantisce sia
precise esigenze di power protection e di proiezione emiratina di potenza tra Africa Mediterranea
(con destinazione finale Libia e competizione gasifera nel Mar del Levante) e Orientale (in ottica
Yemen per combattere l’insorgenza delle milizie Houthi), sia la salvaguardia e la protezione dei propri
interessi sfaccettati, tra cui: il contenimento delle potenze rivali (Turchia e Qatar, ma anche sauditi ed
egiziani); la lotta contro i movimenti che si richiamano all’Islam politico; la libertà di navigazione tra
Mediterraneo Orientale e Oceano Indiano Occidentale; l’acquisizione di risorse naturali; una
maggiore integrazione emiratina nella rotta marittima della Belt and Road Initiative cinese. In tal
senso soft e hard power diventano strumenti geopolitici complementari e necessari per proteggere i
propri interessi commerciali nel quadrante afro-asiatico e per favorire alternative geo-strategiche utili
ad aggirare l’influenza saudita nel Grande Medio Oriente e ad ergersi a contrappeso politico degli
equilibri del Medio Oriente allargato9.

7
  Z. Vertin, Toward a Red Sea forum: The Gulf, the Horn of Africa, and architecture for a new regional order, Analysis
Paper, Brookings Doha Center, 27, November 3, 2019.
8
  Inaugurata nel 2019, la base di Assab è stata smantellata nel febbraio 2021; la stessa è stata a lungo usata da EAU e
Arabia Saudita per colpire in mare e terra le postazioni dei ribelli Houthi nel conflitto in Yemen.
9
  G. Palazzo, Arabia Saudita-Emirati Arabi Uniti, tra geo-economia e competizione geopolitica, CeSI Update, Centro
Studi Internazionali (CeSI), 25 febbraio 2021.

                                                                                                                    12
Terzo attore, ma non meno rilevante, è il Qatar, che in cooperazione con la Turchia, è operante
soprattutto tra le aree del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano Occidentale (in pratica lungo il crinale
tra Sudan-Etiopia-Somalia). L’azione del Qatar solitamente si tende ad inquadrare in parallelo a
quella della Turchia sia perché i loro interessi e programmi sono stati in una certa misura sovrapposti
negli anni (risultando in alcuni casi di cooperazione, se non sempre coordinamento, come in Somalia),
sia perché entrambi hanno cercato di perseguire più agende apertamente politiche nel Corno d’Africa
rispetto agli altri Stati del Golfo (si veda soprattutto il caso del Sudan fino al 201910). Spesso si è
tenuto a considerare l’azione qatarina (e quindi anche quella turca) come una postura mossa da
determinanti ideologiche in supporto all’Islam politico e a quei Paesi che hanno dato ospitalità a tali
movimenti. Tuttavia, come per le altre realtà del Golfo, seppur con pesi inferiori, anche il Qatar (così
come la Turchia) si è mosso nell’area seguendo motivazioni economiche e di sicurezza in una
pragmatica logica multilaterale volta a impedire una sua dipendenza politica da Riyadh e Abu Dhabi.
Benché la presenza nel GHoA sia più contenuta rispetto a quella di sauditi ed emiratini, Doha ha un
ruolo politico molto delicato come mediatore di dispute locali (come avvenuto agli inizi degli anni
Duemila nelle tensioni in Darfur o nelle questioni confinarie tra Gibuti ed Eritrea) e attore economico,
in supporto alla Turchia, in Sudan, Etiopia e Somalia. Se in quest’ultimo teatro è di fatto palese il
coordinamento del combinato turco-qatarino che ha garantito la sopravvivenza del Paese, gli
investimenti di Doha in Sudan (soprattutto durante l’era Bashir) ed Etiopia hanno risposto per lo più
ad esigenze di sicurezza alimentare ed economica. Qui, infatti, grazie alla Qatar Investment Authority
e al Qatar Fund for Development, si sono registrati la gran parte degli investimenti (600 milioni di
dollari in 18 progetti secondo le elaborazioni 2018 del Clingendael) nei settori agricolo, minerario e
bancario. Anche qui emerge una strategia politica ed economica che ha puntato a rendere il Qatar una
sorta di battitore libero nelle dinamiche intra-Golfo, esportando questo suo status fino al GHoA11.

Di fatto, si è passati dagli investimenti in settori tradizionali come l’energia ad un allargamento delle
destinazioni degli IDE verso comparti “nuovi” come l’agro-alimentare, il finanziario e bancario, il
10
   Il regime personalistico su cui si è retto il Sudan per quasi un trentennio è stato per lo più dovuto al ruolo e all’influenza
politica e ideologica dell’Islam politico, tendenza, questa, che è stata sposata più termini di opportunità che per cieca
ideologia dal regime di Omar al-Bashir, Presidente del Paese dal 1981 al 2019. Proprio la cosiddetta “rivoluzione
sudanese” del 2019 ha posto fine al suo potere e all’installazione di una giunta civile-militare attualmente vicina alle
sensibilità saudite ed emiratine e incaricata di guidare la transizione nazionale. Ciò ha significato prima di tutto una presa
di posizione forte nei confronti dell’Islam politico, tanto da far arrestare alcuni leader dei partiti islamisti sudanesi che
hanno sostenuto a lungo il regime di al-Bashir, come Ali al-Haj, leader del Partito del Congresso Popolare (PCP), il partito
islamista fondato da Hassan al-Turabi. In secondo luogo, però, queste iniziative erano rivolte contro quegli attori come
Qatar e Turchia che hanno sostenuto queste tendenze nell’area MENA e del GHoA.
11
   J. Mosley, Turkey and the Gulf States in the Horn of Africa: Fluctuating dynamics of engagement, investment and
influence, Rift Valley Institute, May 28, 2021, pp. 27-35.

                                                                                                                             13
manifatturiero, l’ospitalità (anche di lusso), società immobiliari, stabilimenti industriali e comparto
logistico-marittimo. È chiaro che l’investimento economico a supporto delle strutture dei Paesi
africani è accompagnato anche da una visione politica, in parte riconducibile anche al fattore
migratorio enormemente impattante nei Paesi del Golfo12. Infatti, gli investimenti arabi fatti in Africa
Orientale sono serviti anche a impedire che vi fosse un ulteriore afflusso di manodopera non araba,
non qualificata e a basso costo, che potesse giungere nella Penisola Arabica andando a ingolfare le
rotte dell’immigrazione clandestina. Infatti, l’afflusso di migranti irregolari ha accresciuto le tensioni
interne ai Regni del Golfo, creando alcuni spaccati sociali tesi tra locali e immigrati. Non è un caso
che proprio Arabia Saudita ed EAU abbiano espulso dai loro territori diverse migliaia di migranti
africani13 e rafforzato le rispettive politiche nazionali del lavoro, salvaguardando il più possibile il
valore dei nationals. Allo stesso tempo, questi stessi Paesi hanno usato il fattore migratorio per
esercitare pressioni nei confronti dei Paesi africani, anche al fine di guidarne traiettorie e indirizzi
politici. Un chiaro esempio di ciò è quel che è accaduto tra il 2017 e il 2018 in Etiopia, quando Riyadh
e Abu Dhabi hanno imposto al partner africano di sacrificare i suoi affari con Doha minacciando in
caso contrario l’espulsione di massa dei lavoratori (regolari e non) etiopi dai rispettivi territori14.

Tutto ciò ha comportato quindi una più profonda compenetrazione di interessi e ambizioni tra i Paesi
del GHoA e quelli della Penisola Arabica, con i primi che hanno beneficiato degli investimenti esteri
per sviluppare le proprie strutture economiche e massimizzare i ricavi, mentre i secondi hanno puntato
a sviluppare nuove visioni e realtà politico-economiche fortemente dipendenti dalla capacità di
attrarre e destinare IDE15. Un intreccio di questioni politiche, economiche e di sicurezza tra gli Stati
del Corno d’Africa e le Monarchie del Golfo che, tuttavia, potrebbe conoscere nel prossimo futuro
una parziale riconsiderazione degli impegni assunti, in virtù degli impatti economici pesanti causati
dal Covid-19 e dal basso prezzo dell’energia su scala globale, i quali stanno mettendo a dura prova le
rispettive risorse finanziarie16 e riducendo la capacità immediata di impegno (militare e
12
   Secondo dati diffusi dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) il numero di migranti che ha
attraversato lo Yemen dal Corno d’Africa è sceso da un massimo di 138.213 nel 2019 a 37.537 nel 2020. Ad ogni modo,
secondo stime 2019 dell’UNDESA, i migranti irregolari del GHoA nel Golfo erano circa 3.561.000 persone, di cui 2,7
milioni concentrati solo in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Per maggiori dettagli, si veda:
https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/data/estimates2/estimates19.asp.
13
   Secondo stime dell’IOM, il Regno saudita avrebbe espulso circa 200.000 migranti africani (di cui 158.000 etiopi) dal
suo territorio tra il 2019 e il 2020.
14
   Le rimesse dei lavoratori migranti rimangono una voce di entrata molto importante per le economie dei Paesi del Corno
d’Africa.
15
   A. al-Faisal, The Gulf’s interest in the Horn of Africa, cit.
16
   Secondo il Gulf Tracker dell’American Enterprise Institute, gli investimenti diretti esteri degli EAU verso Gibuti,
Egitto, Etiopia, Giordania, Libano, Oman, Pakistan, Sudan e Yemen sono diminuiti del 71% tra il 2019 e 2020. Anche gli
aiuti diretti e gli IDE concessi dal Qatar, avvenuti nel medesimo periodo di riferimento e considerando gli stessi Paesi

                                                                                                                    14
infrastrutturale) arabo nel Grande Corno d’Africa. Un ripensamento strategico acuito anche dal
cambio di Amministrazione negli USA, che ha portato anche ad una détente intra-Golfo e
all’inaugurazione di un processo di riallineamento più generalizzato tra Turchia e mondo arabo-
musulmano, nonché dall’interesse saudita ed emiratino a ridurre la loro sovraesposizione in Yemen.
Qui, in particolar modo, i due attori arabi hanno ridotto la necessità immediata di un punto d’appoggio
militare nel GHoA. Ecco spiegato per l’appunto l’interesse degli Emirati Arabi Uniti a declassare la
loro presenza militare nella base di Assab in Eritrea. Per quel che riguarda, invece, gli investimenti
infrastrutturali, questi si sono mostrati estremamente complessi nella loro realizzazione. Gli EAU, ad
esempio, hanno ridimensionato le loro ambizioni di stabilire una base militare a Berbera, in
Somaliland, così come hanno avuto problemi nel portare a compimento il rinnovamento del porto e
del relativo aeroporto. Non meno difficoltoso si è mostrato lo sviluppo del porto di Hobyo, nel
Galmudug (Somalia), intrapreso dal Qatar nel 2019 e successivamente gestito dalla Turchia, il quale
non ha ancora visto una piena realizzazione. Altrettanto improbabile, infine, risulta essere la
costruzione di una base militare saudita a Gibuti, almeno nell’immediato, dato che da cinque anni dal
suo annuncio, il progetto prosegue a rilento17.

Tutti questi elementi fotografano, dunque, l’attuale stato di difficoltà dei Paesi mediorientali (e arabi
in particolare modo) nel poter continuare a gestire un’agenda internazionale così ambiziosa e assertiva
come avvenuto nel recente passato.

1.2 Il ruolo degli attori africani nella competizione mediorientale
Specularmente all’intraprendenza araba, anche gli attori dell’area africana hanno definito il proprio
modus operandi rispetto alla penetrazione politico-economica del Golfo. In questa dinamica, i Paesi
del GHoA hanno visto nelle controparti arabe un’opportunità per massimizzare nel breve termine i
vantaggi ottenuti dalle partnership. Infatti, da questa condizione i Paesi del GHoA hanno tratto chiari
benefici in termini di sviluppo infrastrutturale, agricolo e militare. Ciononostante, la competizione

destinatari, sono calati rispettivamente del 64% e del 31%. Nel caso del Kuwait il calo degli IDE è stato del 44%. Inoltre,
secondo stime 2020 della Commissione Economica e Sociale per l’Asia Occidentale (ESCWA) e della Conferenza delle
Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), gli investimenti esteri nel mondo arabo si sono contratti del
45% rispetto al 2019, raggiungendo una quota di 17,8 miliardi di dollari. Un dato non marginale soprattutto se confrontato
a livello mondiale, dove l’incidenza del calo di IDE nell’area MENA rappresenta poco meno del 2% del valore totale su
scala globale. Per dettagli, si veda: K. Young, Updates to AEI’s Gulf trackers, American Enterprise Institute (AEI),
February 3, 2021.
17
   C. Lons, Gulf countries reconsider their involvement in the Horn of Africa, Analysis, The International Institute for
Strategic Studies (IISS), June 1, 2021.

                                                                                                                       15
mediorientale traslata nel Corno ha anche contribuito ad esacerbare le fratture politiche africane già
esistenti, alimentando i personalismi e le ambizioni di alcune élites di governo locali. Altrettanto
importante è l’impatto indiretto che la competizione mediorientale ha avuto sulle agende politiche di
tutti i Paesi dell’area. Realtà quali Eritrea, Sudan, Gibuti, ma anche Somalia ed Etiopia, hanno subìto
numerose pressioni nel corso dell’ultimo decennio per rivedere e/o ampliare il proprio schema di
alleanze a causa delle necessità politiche dell’attore esterno di turno in chiave anti-iraniana, anti-
qatarina (e turca) o contro le policy di sauditi ed emiratini. Sebbene l’evoluzione delle relazioni abbia
approfondito la natura dei rapporti tra le parti africana e araba – la quale è rimasta comunque in una
condizione non paritaria – è emersa tuttavia un’attitudine degli attori del GHoA a sfruttare le proprie
peculiarità come fattori di influenza. In sostanza, sarebbe riduttivo e troppo semplicistico considerare
i Paesi locali africani come attori passivi o come parte del classico meccanismo di patron-client. A
differenza anche del passato della Guerra Fredda, nel quale il rapporto era decisamente sbilanciato in
favore dei player mediorientali, la relazione odierna vive di maggiore autonomia – più cercata che
garantita – da parte degli Stati africani, i quali si muovono nel contesto intra- ed extra-continentale
alla costante ricerca di spazi di manovra che garantiscano una certa libertà d’azione, al fine di
consolidare una determinata postura di neutralità politica (Etiopia) o di creare nuovi equilibri sia in
funzione agli interessi del partner esterno (come nei casi di Eritrea, Gibuti, Sudan e Somalia che
hanno rivisto i propri rapporti con l’Iran e il Qatar in funzione di appoggio al blocco arabo trainato
da sauditi ed emiratini) sia nell’ottica del gioco di potenza continentale18.

In queste dinamiche sono emblematici, per motivi differenti, i casi di Etiopia, Sudan e Gibuti, i quali
hanno puntato nel corso degli anni a costruirsi una reputazione dentro e fuori i confini continentali
con il dichiarato intento di preservare la propria neutralità. Un processo in parte raccolto e maturato
con strategie e strumenti diversi, ma anche partendo da basi completamente differenti e in parte
influenzate dai fattori domestici. Ad esempio, Addis Abeba è stata in grado di consolidare il suo status
di potenza africana e di interlocutore privilegiato dei partner mediorientali grazie ai buoni risultati
conseguiti in economia nel corso degli ultimi 15 anni, che hanno permesso al Paese africano di
conseguire sia maggior peso politico nelle dinamiche interne al continente sia leverage e influenza
negoziale nelle relazioni commerciali e securitarie con i diversi attori mediorientali, senza quindi
dover necessariamente accettare imposizioni dall’esterno. Si pensi alla capacità etiope di tessere
relazioni ampie con quasi tutti i Paesi costieri vicini al fine di superare il gap strategico costituito
dalla mancanza di uno sbocco diretto al mare. Nondimeno, è anche la stessa capacità dell’Etiopia di
18
     Intra-Gulf Competition in Africa’s Horn, cit.

                                                                                                      16
giocare un ruolo totalmente libero nelle crisi regionalizzate dal grande impatto internazionale (come,
ad esempio, nel Tigray o nella questione del Nilo), riuscendo a resistere alle pressioni mediorientali
tendenzialmente favorevoli alle richieste sudanesi ed egiziane (con l’eccezione turca e qatarina che
gioca di sponda con gli etiopi contro Il Cairo)19.

Diversamente, il Sudan (e analogamente anche l’Eritrea), ha giocato a lungo sul suo ruolo geografico
e tendenzialmente pivotale nelle dinamiche strategiche del Mar Rosso per bilanciare diverse relazioni
– sia prima sia dopo la transizione del 2019 – con più attori contemporaneamente (sauditi, emiratini,
egiziani, turchi, qatarini e in passato anche iraniani) nel tentativo di allentare l’isolamento
internazionale imposto dall’Etiopia e dalle sanzioni USA e le difficoltà interne politiche ed
economiche aggravate anche dalla gestione di diversi conflitti (come con il Sud Sudan, nel Darfur o
nel Blue Nile). In questa prospettiva Khartoum si è mossa sullo scenario africano e mediorientale in
maniera molto ambigua, giostrando legami e vincoli con i diversi partner con un classico approccio
transazionale in grado di garantire la sopravvivenza del sistema personale di Omar al-Bashir e poi
dopo il 2019 del regime civile-militare nato con la transizione. Questo modello è stato visibile sia con
l'affidamento in gestione del porto di Suakin a Turchia e Qatar, sia con le firme degli accordi con gli
EAU per lo sviluppo civile e militare dell’area di Port Sudan. In altre parole, queste iniziative si
mostrano come delle scelte volte a massimizzare il beneficio derivante dalla competizione
mediorientale partendo dalla consapevolezza che il Paese, ieri come oggi, è affetto da una fragilità
strutturale20.

Infine, vi è il caso Gibuti, una realtà potenzialmente suscettibile di subire le influenze e i diktat
provenienti dagli attori più importanti dentro e fuori il continente. Tuttavia grazie alla sua posizione
geostrategica all’imbocco tra il Mar Rosso e Bab al-Mandeb (da cui transitano oltre il 10% del
commercio mondiale – di cui il 40% è rappresentato dai flussi diretti verso i mercati europei – e circa
6,2 milioni di barili di petrolio al giorno secondo le stime 2018 dell’US Energy Information
Administration, EIA21), il piccolo Gibuti ha ricevuto molte attenzioni dalle maggiori potenze
mediorientali e mondiali, riuscendo in qualche modo a salvaguardarsi dalle competizioni incrociate
tra attori esterni, usando con ognuno di essi “il bastone e la carota”, al fine di preservare soprattutto
la sua stabilità a fronte di un contesto regionale esplosivo. Una strategia pianificata e voluta da Gibuti
19
   G. Gebreluel, “The tripartite alliance destabilising the Horn of Africa”, Opinions, al-Jazeera, May 10, 2021.
20
   A. al-Taweel, Sudan – Red Sea basin: Four ways to make or break stability, Red Sea Dynamics, The Africa Report,
Part 8, November 25, 2020.
21
   US Energy Information Administration, “The Bab el-Mandeb Strait is a strategic route for oil and natural gas
shipments”, August 27, 2019.

                                                                                                               17
per impedire possibili rappresaglie. Benché sia sempre un pericolo ospitare soldati stranieri22, la
presenza militare di diversi Paesi a Gibuti salvaguarda il governo locale da qualsiasi azione offensiva
o iniziativa volta a destabilizzarlo. Questo ha permesso al Presidente Ismail Omar Guelleh di
rescindere accordi commerciali con gli EAU, di rivedere le proprie posizioni benevole con Iran e
Qatar e di aprirsi ad uno spazio internazionale più ampio23.

In definitiva, i Paesi del Corno d’Africa hanno accresciuto la propria capacità di influenzare le scelte
degli attori esterni, riuscendo sì a contenere gli impulsi politici dei partner nelle rispettive agende
politiche nazionali, ma non riuscendo a contenere le spinte disgregative da loro in parte fomentate.

22
   Sono 13 le missioni internazionali presenti a Gibuti con 5 basi militari permanenti di USA, Cina, Giappone, Francia e
Italia.
23
   J.P. Wilhelm, “Tiny but mighty: Djibouti's role in geopolitics”, Deutsche Welle (DW), April 4, 2021.

                                                                                                                     18
2. Crisi del Nilo e nel Tigray: due tappe fondamentali nei fragili equilibri
          regionali
In un sistema regionale complesso e interconnesso, la crisi nel Tigray e la questione del Nilo
rappresentano due differenti minacce al fluido e già fragile equilibrio di potere costruito attorno agli
accordi di pace tra Etiopia ed Eritrea del 2018. Un contesto tanto ampio quanto articolato nel quale
Addis Abeba e Khartoum risultano essere direttamente coinvolte fungendo da principali chiavi
interpretative non solo per le dinamiche regionali ma anche per comprendere come determinati quadri
di crisi africani siano diventati, nel corso di un arco di tempo molto ridotto, degli offshoot
mediorientali.

2.1 La questione del Nilo
Benché l’origine della contesa risalga alla fine dell’Ottocento, quando i britannici iniziarono a erigere
un invaso ad Assuan, solo dal 1954 la questione assunse una dimensione più simile a quella attuale
per via della proposta egiziana di costruire una diga ad Assuan (operativa dal 1970) che modificò in
parte il corso del fiume. Oggi come allora le motivazioni che hanno originato le tensioni rispondono
ad esigenze di tipo demografico e climatico che hanno avuto impatti ampi sia sull’economia (in
particolare sull’agricoltura) sia sulla normale quotidianità. Di fatto, la crescente richiesta di risorse
idriche ha alimentato una generale tendenza alla securitizzazione del bene idrico da parte di Egitto,
Sudan ed Etiopia. Questi Paesihanno quindi sfruttato al massimo la risorsa per far fronte a qualsiasi
minaccia o rischio riconducibile ad esigenze di sicurezza alimentare e idrica ammantate da narrazioni
politiche nazionaliste, a volte incendiarie. Politiche, queste, in parte giustificabili, specie per i Paesi
a valle (Egitto e Sudan) con motivazioni di carattere esistenziale, essendo il bene necessario per
qualsiasi attività lavorativa, industriale, economica e ordinaria. Non a caso, l’attuale sfruttamento
intensivo delle acque del Nilo risponde ad esigenze di tipo urbano e demografiche, ma anche agricole.
Infatti, la lavorazione dei campi, anche in aree periferiche o prossime al deserto, è necessaria per
impedire l’abbandono dei campi e l’esplosione della popolazione nei grandi centri urbani24.

Tutta questa premessa costituisce l’impalcatura della tensione latente tra Egitto, Sudan ed Etiopia, la
quale ha conosciuto una nuova vita dal 2009, quando il governo di Addis Abeba ha deciso di puntare
sull’idroelettrico e di investire nella costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD),
consegnando nel 2011 al gruppo italiano Salini-Impregilo (oggi Webuild) il compito di gestire una
24
     A. Youssef, Egyptian farmers living in the shadow of Ethiopia’s dam, The Africa Report, October 13, 2020.

                                                                                                                 19
commessa da cinque miliardi di dollari. Nello specifico, la costruzione del complesso del GERD –
una serie di dighe e invasi artificiali capaci di contenere fino ad un massimo di 74 miliardi di m3
d’acqua – lungo il Nilo Azzurro dovrebbe vedere una piena funzionalità entro il 2025. Una impresa,
quindi, in grado di stravolgere la portata dell’affluente principale del Nilo, andando ad impattare
direttamente sulle necessità idriche egiziane e sudanesi. Dal luglio 2020, l’Etiopia ha iniziato a
riempire il bacino idroelettrico del GERD, sbarrando il corso del fiume a Beninshangul-Ghumuz, e
nel luglio 2021, inizierà la seconda fase di riempimento mirata a garantire una piena operatività
dell’infrastruttura. Non a caso tutti i tentativi di mediazione (ricominciati intorno al 2019) tra Egitto,
Etiopia e Sudan sono falliti, così come l’ultima iniziativa presentata il 9 maggio 2021 da Felix
Tshisekedi, Presidente della Repubblica Democratica del Congo e al momento Presidente di turno
dell’Unione Africana. Un risultato in parte dettato dalla mancanza di volontà delle parti di trovare
una qualche minima convergenza che potesse permettere un ritorno al dialogo25.

Al di là della retorica militaresca usata dagli attori, il vero nodo dello scontro non è la diga in sé, ma
la velocità con cui l’Etiopia intende riempire il bacino. Addis Abeba ha fretta di mettere in funzione
la centrale idroelettrica e vuole farlo in 4-7 anni. Egitto e Sudan, invece, si oppongono sostenendo
che il piano impoverirebbe la portata del Nilo e provocherebbe una gravissima emergenza economica
e sociale e per questi motivi chiedono un dilungamento delle operazioni di riempimento (tra i 12 e i
21 anni). Se la portata del Nilo dovesse scendere, anche rapidamente, l’Egitto dovrebbe far fronte a
una situazione di emergenza che metterebbe a repentaglio non solo l’agricoltura ma tutto il sistema-
Paese. Il Cairo considera irrinunciabili i 55 miliardi di m3 di acqua che preleva annualmente, che
coprono il 90% del suo fabbisogno e valgono il 15% del PIL. Di converso, l’Etiopia punta a strappare
milioni di cittadini dalla povertà, garantendo loro infrastrutture e servizi di base, ma per far ciò è
necessario procedere all’elettrificazione di ampie aree del Paese. Al contempo, l’Etiopia non può
rischiare di ridurre alla sete o di creare impatti devastanti alle economie di Sudan, e in particolare,
dell’Egitto senza mettere in conto la possibilità di un conflitto armato e tenendo in considerazione le
difficoltà e il peso militare delle battaglie in corso nel Tigray26.

25
   A. Ziccardi, Egitto e Sudan tornano a discutere del Nilo a Parigi: quale il possibile ruolo della Francia?, CeSI Update,
Centro Studi Internazionali (CeSI), 21 maggio 2021.
26
   T. von Lossow, L. Miehe, S. Roll, Nile Conflict: Compensation Rather Than Mediation. How Europeans Can Lead an
Alternative Way Forward, SWP Comment, German Institute for International and Security Affairs (SWP), 2020/C 11,
March 2020.

                                                                                                                       20
2.2 La crisi nel Tigray
Il 4 novembre 2020, il governo federale etiope ha lanciato un’operazione militare nella regione
settentrionale del Tigray. A confrontarsi sono stati l’Esercito federale etiope e le forze del Fronte di
Liberazione Popolare del Tigray (TPLF), i quali hanno spinto una crisi politica preesistente in una
nuova dimensione militare. All’origine di questa nuova fase di tensioni vi sarebbe stato un attacco –
non rivendicato ma presumibilmente riconducibile alle frange del Partito per l’Indipendenza del
Tigray (TIP) – contro un’istallazione dell’Esercito federale nella regione. Una situazione che ha
trovato la sua acme nel settembre 2020, quando il TPLF ha organizzato le elezioni regionali
nonostante il divieto del governo centrale che aveva già rimandato le elezioni su scala nazionale a
causa della pandemia da Covid-19. In risposta a ciò, il Premier Ahmed aveva deciso di tagliare i
sussidi federali alla regione del Tigray e aveva sospeso qualsiasi attività ufficiale di cooperazione con
le istituzioni locali. Una condizione che lentamente ha indotto le parti al conflitto. Infatti, il casus
belli sarebbe esploso da lì a poco con un episodio avvenuto sul finire di ottobre, pochi giorni prima
dell’attacco di Mekelle (4 novembre 2020), allorquando le autorità locali del Tigray avevano impedito
ad un Generale di brigata di raggiungere la base appena assegnatagli dal governo federale di Addis
Abeba, dichiarando che le nuove nomine nelle Forze Armate nelle regioni settentrionali sarebbero
state considerate illegittime in quanto non concordate con il TPLF27. L’evento nel suo complesso non
ha fatto altro che rendere esplicito lo scontro etnico e politico tra il Tigray ed il governo centrale di
Addis Abeba, nel quale è emersa la chiara contrapposizione tra l’etnia tigrina un tempo dominante e
la componente Oromo (34% della popolazione totale), a cui appartiene il Premier, che con il processo
di pacificazione inaugurato nel 2018 con la sua scalata al potere ha ribaltato gli equilibri settari
nazionali proprio a favore degli Oromo28.

Il conflitto benché possa definirsi militarmente esaurito nella sua dimensione convenzionale con la
riconquista della capitale Mekelle e dei principali centri nevralgici della regione da parte delle Forze
Armate etiopi risulta essere ancora ben lontano da una soluzione politica. Inoltre, il coinvolgimento
nel conflitto di milizie armate su base etnica e delle Forze Armate eritree ha contribuito a intensificare
ulteriormente lo scontro, provocando una acuta crisi umanitaria29. La grande incognita politica dietro
27
   M. Gavin, The Conflict in Ethiopia’s Tigray Region: What to Know, Council on Foreign Relations (CFR), February 21,
2021.
28
   S. Gianesello, Etiopia, il Premier Abyi Ahmed invia le forze armate nel Tigré, CeSI Update, Centro Studi Internazionali
(CeSI), 5 novembre 2021.
29
   Da mesi si segnalano, soprattutto sui social media, gravi accuse di genocidio, di violenze sessuali nei confronti della
popolazione locale da parte delle truppe eritree, nonché di un tentativo del governo federale di voler affamare la
popolazione, bloccando oltre l'80% degli aiuti umanitari. Da parte sua, il governo federale etiope insiste sul fatto che stia
fornendo aiuti a 4,2 milioni di persone nella regione. Tutti i dati sono tuttavia difficilmente verificabili data la non

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