Politiche educative e di welfare. Due letterature a confronto.
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Politiche educative e di welfare. Due letterature a confronto. di Chiara Agostini Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 Assegnista di ricerca Università di Bologna - Forlì chiara.agostini5@unibo.it
Introduzione Con la parziale eccezione della letteratura anglosassone, che ha spesso considerato l’educazione come parte integrante del sistema di protezione sociale, i principali contributi europei sul welfare hanno tralasciato il tema delle politiche educative. Gli anni novanta in particolare hanno segnato una frattura netta fra i due settori poiché, nel corso di questo decennio, si è consolidata l’idea di considerare le assicurazioni sociali come il nucleo storico del welfare state. Il dibattito europeo di questi anni si è dunque polarizzato sulla costruzione di classificazioni e tipologie che hanno considerato prevalentemente i trasferimenti monetari di tipo assicurativo (Esping-Andersen 1990; Leibfried 1992; Castles e Mitchell 1992; Ferrera 1993; Bonoli 1997) D’altra parte, a fronte dei cambiamenti sociali ed economici in atto, il legame fra politiche educative e di welfare ha più recentemente ricevuto una maggiore attenzione. Nel quadro dell’economia della conoscenza, le organizzazioni internazionali stanno sostenendo l’implementazione di politiche centrate sullo sviluppo del capitale umano. L’integrazione fra educazione e welfare diventa allora necessaria per garantire la competitività delle economie. Inoltre, sempre di più si è affermato l’argomento che la sostenibilità dei sistemi di protezione sociale dipenda dal raggiungimento di elevati livelli di occupazione (Palier, 2006). Tale obiettivo è perseguito attraverso il ricorso a politiche, che si basano sull’integrazione fra educazione e welfare, e sono volte ad incrementare l’occupabilità. In questo contesto, il paper ricostruisce l’evoluzione storica della frattura prima e del dialogo poi fra la letteratura sul welfare e sull’educazione. L’obiettivo è quello di individuare i principali limiti - teorici ed analitici - di quegli approcci che stanno promuovendo l’integrazione fra i due settori e di delineare prospettive di ricerca utili allo sviluppo del dialogo fra educazione e welfare. Il paper è diviso in tre sezioni. La prima si concentra sull’origine storica della scissione fra educazione e welfare, a partire dall’analisi di quegli studi che hanno evidenziato la presenza di un trade-off fra i due settori. L’educazione e le assicurazioni sociali sono state considerate come programmi alternativi che hanno favorito lo sviluppo di modelli di welfare basati in un caso sull’uguaglianza delle opportunità e nell’altro su quella delle condizioni. Oltre a richiamare l’origine storica della scissione fra le due letterature questa prima sezione illustra l’incongruenza fra il presupposto teorico del trade-off e l’evidenza empirica 2
raccolta. Differenti ricerche mostrano infatti che l’enfasi che alcuni paesi (quelli anglosassoni) hanno tradizionalmente attribuito all’educazione non è in grado di assicurare la maggiore mobilità sociale. Altri paesi, (quelli scandinavi) mostrano infatti livelli di mobilità sociale superiori e ciò è dovuto alle caratteristiche dei loro sistemi di welfare. La seconda sezione si concentra sulle diverse proposte di modellizzazione delle politiche educative e di welfare. L’elaborazione di tali modelli rappresenta uno dei tentativi di superare l’incomunicabilità fra le due letterature. La terza sezione è invece dedicata all’analisi di quegli approcci che stanno promuovendo l’integrazione fra i due settori, e dunque una più stretta comunicazione fra le letterature in oggetto. È il caso in primo luogo della prospettiva delle “varietà di capitalismo” (VcO) . Questo approccio ha posto in primo piano la complementarietà istituzionale fra domanda di competenze e sistemi di protezione sociale e ha portato all’elaborazione di una modellistica che integra regimi delle competenze e di welfare. In secondo luogo, viene esaminata la prospettiva dell’investimento sociale che promuove lo sviluppo di interventi centrati sul rafforzamento delle competenze di chi è escluso dal mercato del lavoro, attraverso l’erogazione di servizi professionali ed educativi. In terzo luogo, vengono analizzate le politiche attive. Queste politiche possono essere distinte in due categorie, da un lato, troviamo quelle che perseguono l’obiettivo di accrescere il capitale umano e che appaiono coerenti con la prospettiva dell’investimento sociale, dall’altro, abbiamo invece quelle che mirano esclusivamente a favorire il passaggio dall’assistenza all’occupazione. Infine, l’analisi si concentra sull’approccio delle capacità che ha trovato applicazione in diversi campi tra i quali le politiche educative e di welfare. Il paper si conclude con alcune riflessioni critiche sulle principali prospettive analitiche richiamate. 1. Il trade-off educazione- welfare e la mobilità sociale L’idea di considerare le assicurazioni sociali come nucleo storico del welfare state è stata criticata nel 1983 da Flora e Heidenheimer i quali – pur non affrontando direttamente la questione dell’educazione - hanno evidenziato che fin dalle origini dello 3
Stato sociale altre istituzioni hanno affiancato le assicurazioni 1 . Con specifico riferimento al settore educativo, anche quella letteratura che lo ha considerato come parte integrante della protezione sociale ne ha individuato delle specificità in grado di contraddistinguerlo rispetto agli altri settori di welfare. Questa impostazione è emersa chiaramente nel 1975 quando Wilensky - pur individuando l’essenza del welfare nel fatto che il governo riconosca e garantisca standard minimi di reddito, alimentazione, salute, alloggio e istruzione – ha distinto i programmi che mirano ad incoraggiare l'uguaglianza assoluta, da quelli che perseguono l'obiettivo di garantire l'uguaglianza delle opportunità. Il nucleo del welfare è da lui individuato nello sforzo della nazione verso la salute e il benessere, in modo da garantire l'uguaglianza assoluta, mentre lo sforzo educativo costituisce un contributo all'uguaglianza delle opportunità, intesa come accresciuta possibilità di mobilità sociale. Wilensky ha posto dunque alla base del welfare una tensione fra valori meritocratici ed egualitari, ed ha evidenziato che nel comparto educativo la componente meritocratica è molto più importante che nel resto del welfare state. Successivamente, anche Castles (1989) ha riconosciuto una specificità propria del settore educativo. L’autore ha ritenuto che esso offra protezione sociale in modo diverso rispetto agli altri settori di welfare. Le politiche educative infatti perseguono l'obiettivo di garantire l'uguaglianza delle opportunità piuttosto che delle condizioni. Di recente Busemeyer e Nikolai (2010) hanno poi evidenziato che l’idea di Wilensky di concepire e indagare l’educazione separatamente rispetto agli altri settori di welfare è condivisibile poiché tre differenze principali separano questi due settori. In primo luogo le assicurazioni sociali hanno bisogno di strutture istituzionali, spesso nazionali, che definiscano i confini della solidarietà e della redistribuzione. Al contrario l’educazione può essere fornita in maniera molto più decentrata non essendo direttamente redistributiva. In secondo luogo, l’educazione, in misura maggiore rispetto alle altre politiche sociali, produce benefici individuali contribuendo alla creazione del capitale 1 In particolare Flora e Heidenheimer evidenziano ciò considerando: a) che l'assistenza ai poveri ha conservato nel tempo una rilevanza importante anche se le sue caratteristiche e la sua importanza sono modificate nel corso del tempo, b) che i controlli di fabbrica e la legislazione protettiva hanno preceduto le assicurazioni sociali, c) che l'istituzione di altri sistemi con i medesimi obiettivi si è realizzata contemporaneamente allo sviluppo delle assicurazioni sociali. E' il caso dell’introduzione delle imposte progressive sul reddito, dell'estensione dell'istruzione primaria in alcuni paesi e della riforma dell'istruzione secondaria in altri, d) che anche se le politiche nazionali in materia di casa e occupazione si sono sviluppate solo nel primo dopoguerra l'intervento dei comuni in questi due settori è antecedente. 4
umano. Infine, l’educazione influenza la primaria distribuzione del reddito nel mercato del lavoro piuttosto che intervenire a posteriori compensando le diseguaglianze. L’educazione e la previdenza sociale sono state anche interpretate come programmi alternativi che hanno segnato traiettorie diverse nello sviluppo dello Stato sociale (Heidenheimer, 1983). La differente importanza che i paesi hanno attribuito all'istruzione o ai programmi previdenziali è frutto dell'adozione di strategie alternative di sviluppo dei sistemi di protezione sociale nazionali. In particolare, Heidenheimer ha considerato il caso degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei (Germania, Svezia e Inghilterra) e la sua posizione riflette l’idea di un trade-off di lungo periodo. Utilizzando le parole di Esping-Andersen (2002a) tale dinamica può essere interpretata come il frutto di concezioni differenti riguardo a cosa sia una «buona società»2. Infatti, se in Europa è prevalsa la domanda di uguaglianza delle condizioni, negli Stati Uniti è prevalsa quella di uguaglianza delle opportunità e ciò ha dato vita a due contrapposti modelli di Stato sociale che in nessun caso vedono l’integrazione fra politiche educative e sociali. Il modello americano si fonda sull’individuo e sul mercato e l’ideale di giustizia si basa sul principio del merito che si accompagna all’idea di uguaglianza delle opportunità. In questo quadro, l’educazione è considerata lo strumento principale per perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza e consentire la mobilità sociale. Nello Stato sociale americano le politiche educative acquistano quindi una posizione privilegiata rispetto a quelle sociali e del lavoro, le quali assumono un carattere perlopiù residuale. Il modello europeo di welfare si fonda invece su un criterio di giustizia che è individuato nel bisogno piuttosto che nel merito. Storicamente, l’obiettivo dei sistemi di protezione europei era infatti quello di proteggere gli individui e le famiglie dai rischi connessi alla disoccupazione, alla malattia, all’invalidità e alla vecchiaia. L’origine di questo modello è quindi individuabile non nella competizione meritocratica – che caratterizza il modello americano – ma nella solidarietà diffusa fra i membri di una determinata categoria occupazionale o fra gli individui appartenenti ad una medesima società. In questo caso, gli interventi di welfare sono individuati nelle assicurazioni sociali e nell’assistenza ai bisognosi. Nel contesto europeo l’istruzione – che peraltro si 2 In particolare Esping-Andersen utilizza questa espressione con riferimento ai modelli di welfare europei sostenendo che essi si distinguono l’uno dall’altro proprio perché ciascun paese ha seguito percorsi diversi nell’individuazione dei modelli di “buona società”. Infatti anche se l’obiettivo, in tutti i casi, era quello di risolvere la questione sociale e di porre fine alle disuguaglianze, le soluzioni adottate sono state diverse proprio perché basate su una differente idea di buona società. 5
sviluppa molto più lentamente rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti - non si accompagna a ideali quali la giustizia e l’equità ma, almeno in origine, risponde ad altre esigenze che riguardano la formazione delle classi dirigenti, la riproduzione delle classi sociali e la tutela dell’identità nazionale (Benadusi, 2006). La questione del trade-off fra educazione e welfare è stata successivamente ripresa da Hokenmaier (1998) e da Hega e Hokenmaier (2002) che si sono posti l’obiettivo di verificarne l’esistenza considerando il modello dei tre mondi (Esping-Andersen, 1990). Hega e Hokenmaier evidenziano che il trade-off fra politiche educative e sociali è particolarmente evidente fra i regimi conservatori e quelli liberali. I primi tendono infatti ad attribuire maggiore enfasi alle assicurazioni sociali a scapito delle politiche educative, i secondi - al contrario - dedicano maggiore attenzione al settore educativo, che è considerato strategico per la promozione della mobilità sociale e alternativo rispetto ai programmi assicurativi. L'analisi dei dati di spesa evidenzia che i regimi socialdemocratici spendono di più rispetto a quelli liberali e conservatori sia per le assicurazioni sociali che per le politiche educative. I regimi conservatori spendono meno di quelli socialdemocratici ma più di quelli liberali per le assicurazioni sociali. La spesa educativa nei regimi liberali è invece vicina a quelli socialdemocratici e decisamente più alta rispetto a quelli conservatori. Il trade-off fra educazione e welfare è stato infine analizzato con specifico riferimento all’higher education (Pechar H., Andres Lesley A., 2011). Anche in questo caso la sua presenza è sostanzialmente confermata dalla comparazione fra regimi liberali e conservatori. All’interno di questi regimi è infatti possibile individuare l’esistenza di un trade-off fra investimenti finalizzati a rinforzare le opportunità di accesso all’educazione terziaria e i programmi assicurativi. In particolare, i paesi che mirano a garantire l’uguaglianza delle condizioni investono meno nell’educazione di terzo livello rispetto a quelli che mirano a garantire l’uguaglianza delle opportunità o entrambe le forme di uguaglianza. In linea con la prospettiva teorica del trade-off, i paesi che pongono l’enfasi sull’educazione dovrebbero registrare elevati livelli di mobilità sociale. Tuttavia, differenti ricerche mostrano che l’enfasi posta dai paesi liberali sull’eguaglianza delle opportunità non è in sé sufficiente ad assicurare una maggiore mobilità sociale. La riduzione dell’eredità intergenerazionale è infatti garantita quando educazione e welfare 6
sono considerati come elementi di una strategia unica di protezione sociale, come avviene nei paesi scandinavi. Beller e Hout (2006) evidenziano infatti che il legame fra “origine” e “destinazione” è meno significativo nei regimi socialdemocratici piuttosto che in quelli liberali, conservatori o misti. In sé, un più ampio accesso all’educazione non è infatti in grado di garantire una maggiore uguaglianza delle opportunità e di influenzare in maniera diretta l’uguaglianza delle opportunità occupazionali. Concentrandosi sul ruolo giocato dalla numerosità familiare, Xu (2008) ha invece evidenziato che la generosità dei benefici rivolti alle famiglie riduce l’influenza che le caratteristiche della struttura familiare possono avere sul successo educativo. Il legame fra numerosità della famiglia di origine e percorsi educativi è più debole nei regimi socialdemocratici piuttosto che in quelli corporativi, liberali e mediterranei. L’importanza delle politiche familiari nella promozione della mobilità sociale è evidenziata anche da Søresen (2006). La maggiore uguaglianza delle opportunità propria dei paesi scandinavi è data infatti, da un lato, dal basso livello di ineguaglianza sociale ed economica che caratterizza la popolazione e, dall’altro, dalla presenza di politiche per la famiglia che favoriscono l’uguaglianza delle condizioni dei bambini in età formativa. La questione era già stata affrontata da Esping-Andresen e Mestres (2003) i quali criticano l’idea secondo cui la sede principale per la trasmissione dell'eredità sociale risieda nell'istruzione. In particolare, Esping-Andersen e Mestres evidenziano che il peso dell'eredità generazionale non è connesso al livello di investimenti nel campo dell'istruzione, ma piuttosto si lega al capitale culturale proprio delle famiglie di origine. Dal loro punto di vista la ricerca sulla riduzione dell'eredità generazionale deve quindi orientarsi verso le famiglie - e in particolare verso le misure di welfare rivolte alla prima infanzia - piuttosto che sui sistemi educativi. Questa tesi è sostenuta anche considerando che le politiche di attivazione e apprendimento permanente non sono in grado di rimediare agli svantaggi ereditati, poiché non consentono di colmare il gap cognitivo che può crearsi nella prima infanzia. 2. Modelli educativi e regimi di welfare Parte degli studi comparati sull’educazione si è concentrata sulle relazioni fra modelli educativi e di welfare. Questa letteratura rappresenta un tentativo di avvicinare i due 7
settori ed evidenzia la loro stretta interdipendenza. Ai tre mondi del welfare tendono infatti a corrispondere sistemi educativi con caratteristiche peculiari. In questo quadro si colloca il lavoro di Busemeyer e Nikolai (2010) i quali hanno evidenziato la presenza di gruppi di paesi con sistemi educativi relativamente omogenei e hanno poi individuato le corrispondenze fra regimi educativi e di welfare. I regimi educativi individuati sono tre “nord-europei”, “mediterranei”, “anglosassoni” e all’interno del primo tipo sono individuati tre sottogruppi. Del primo gruppo appartenente al regime nord-europeo fanno parte i paesi scandinavi nei quali troviamo un elevato livello di spesa educativa, un basso livello di spesa privata e un’elevata quota di popolazione con un titolo di studio secondario superiore. In questi paesi l’accesso all’higher education è aperto e la formazione professionale è pienamente integrata con il sistema scolastico. La Germania e l’Austria, all’interno dei regimi nord-europei, si caratterizzano per un basso livello di spesa privata per l’educazione primaria, secondaria e terziaria, un’elevata quota di popolazione con un titolo di scuola secondaria superiore e una particolare enfasi sulla formazione professionale. A differenza dei paesi scandinavi però la formazione professionale è caratterizzata da un sistema duale che coinvolge sia le imprese sia le scuole professionali e la spesa pubblica per l’educazione è significativamente più bassa. Inoltre, la Germania e l’Austria si caratterizzano per la presenza di un sistema di istruzione secondaria che si orienta verso la formazione successiva - accademica o professionale – limitando fortemente le possibilità di cambiare percorso formativo. Il terzo gruppo di paesi che fa parte del cluster nord-europeo comprende la Francia, l’Olanda e il Belgio, ai quali si aggiunge l’Irlanda che si correla tuttavia anche ai paesi scandinavi e di lingua tedesca. Questi paesi si caratterizzano per un livello medio, ma in alcuni casi anche superiore, di spesa pubblica per l’educazione di primo e secondo livello e per un basso livello di spesa privata. La quota di popolazione che ha conseguito un titolo di studio secondario è inferiore alla media e proprio questo fattore colloca tali paesi lontano da quelli scandinavi e di lingua tedesca. Il secondo cluster comprende invece i paesi mediterranei (Italia, Spagna e Portogallo) che si contraddistinguono per un basso livello di spesa - sia pubblica che privata - in particolare per quanto attiene l’educazione di terzo livello e per il fatto che la quota di 8
popolazione in possesso di un titolo di studio di secondo e terzo livello è inferiore alla media. Il terzo cluster comprende infine i paesi di lingua inglese (Canada, Stati Uniti, Australia, New Zealand e Inghilterra) ai quali si aggiunge il Giappone. Le caratteristiche di questo cluster riguardano l’elevato livello di spesa privata associata ad una bassa quota di finanziamento pubblico dell’educazione. La quota di popolazione in possesso di un titolo di studi di terzo livello è alta. Per quanto riguarda le corrispondenze fra questi regimi educativi e i mondi del welfare, Busemeyer e Nikolai evidenziano in primo luogo il fatto che i paesi mediterranei costituiscono un gruppo ben definito corrispondente al regime sud-europeo di welfare. Infatti la copertura disomogenea, la selettività e il dualismo di questi modelli di welfare (Ferrera, 1996) si riflette nella presenza di un modello educativo selettivo considerando il basso livello di spesa e di partecipazione all’higher education. All’estremo opposto si collocano invece i paesi scandinavi nei quali ad un modello di welfare socialdemocratico ed universalistico corrisponde un regime educativo basato sul diritto di accesso ad un’educazione egualitaria riconosciuto a tutti i cittadini. La corrispondenza fra educazione e welfare è inoltre individuabile considerando i regimi di welfare conservatori e il sottogruppo nord-europeo che comprende Francia, Belgio, Olanda e Irlanda ai quali, pur appartenendo ad un altro sottogruppo si aggiunge la Germania. In primo luogo, i privilegi riconosciuti all’educazione cattolica mostrano una certa equivalenza con le politiche sociali di matrice cristiano-democratica. In secondo luogo, la stratificazione occupazionale delle assicurazioni sociali bismarckiane si riflette nella presenza di un sistema educativo caratterizzato da percorsi differenziati che conducono all’acquisizione di un determinato status sociale. La dipendenza dal mercato e la residualità delle politiche sociali che caratterizza i regimi liberali appare infine coerente con l’enfasi che questi paesi attribuiscono all’educazione come strumento utile per la protezione dai rischi connessi al mercato del lavoro. Nei paesi anglosassoni sia l’educazione che le politiche sociali registrano i più alti tassi di spesa privata rilevati nei paesi OCSE. L’analisi realizzata da Busemeyer e Nikolai evidenzia quindi che, all’interno dei diversi paesi, i sistemi educativi e di welfare condividono caratteristiche simili mostrando quindi una certa coerenza. Ciò mina la tesi del trade-off per la quale potremmo aspettarci che l’enfasi posta sull’uguaglianza delle opportunità garantisca un 9
accesso inclusivo ed egualitario all’educazione attraverso un’ingente quota di investimenti pubblici in questo settore. Ciò non avviene nei paesi liberali nei quali la spesa pubblica è piuttosto bassa. Un’altra modellizzazione che ha tenuto conto delle caratteristiche proprie dei sistemi di welfare è stata elaborata con specifico riferimento all’higher education da Pechar e Andres Lesley (2011). L’obiettivo degli autori in questo caso era quello di verificare l’esistenza del trade-off fra educazione e welfare. Pechar e Andres Lesley evidenziano in particolare che i paesi che si caratterizzano per la presenza di un welfare liberale minimizzano lo sforzo di garantire l’equità delle condizioni di vita, ma investono molto nel capitale umano e registrano elevati tassi di partecipazione all’higher education. Tuttavia la quota di popolazione che non accede alla formazione terziaria è significativa e i sistemi di formazione alternativi a quelli universitari sono deboli. Questi due elementi, unitamente alla residualità delle politiche di protezione sociale, determinano una situazione in cui le possibilità relative allo status e alla posizione nel mercato del lavoro di chi non accede alla higher education sono molto più precarie rispetto a quelle dei medesimi gruppi negli altri regimi di welfare. Ciò rinforza la generale tendenza di questi paesi a tollerare elevati livelli di ineguaglianza delle condizioni di vita. Nei regimi liberali, caratterizzati da un basso livello di demercificazione, gli individui sono chiamati a sostenere autonomamente i costi della propria formazione e, nell’ultimo ventennio, questo costo è cresciuto molto più rapidamente rispetto al reddito medio delle famiglie. In sintesi, i regimi liberali offrono significative opportunità a quanti vogliono conformarsi ai requisiti propri della società della conoscenza ma coloro che non si conformano pagano costi ingenti. I regimi conservatori mirano a garantire l’uguaglianza delle condizioni e offrono opportunità migliori a quanti non hanno conseguito un titolo di studio di terzo livello. In generale, l’educazione in questi paesi rappresenta un potente strumento di riproduzione sociale. In questo caso infatti è spesso dato per scontato che persone in possesso di un differente background sociale ed educativo intraprendano diverse carriere educative. Al contrario di quanto avviene nei regimi liberali, il sistema di formazione professionale offre una buona alternativa alla formazione universitaria. Coloro che seguono percorsi educativi non universitari hanno infatti maggiori opportunità di formazione rispetto a quanto avviene nei paesi liberali e questo garantisce un maggior livello di eguaglianza 10
sociale. Infine, i regimi socialdemocratici mirano a garantire sia l’uguaglianza delle opportunità che delle condizioni e l’enfasi attribuita al rafforzamento del capitale umano consente l’espansione dell’higher education senza trascurare le condizioni di coloro che non vi accedono. In sintesi, anche la modellizzazione elaborata da Pechar e Andres Lesley sembra evidenziare, più che la presenza di trade-off, la coerenza fra sistemi educativi e di welfare. Questo emerge in particolare considerando i paesi liberali che si caratterizzano per un elevato livello di ineguaglianza delle condizioni di vita dovuto alla residualità dell’intervento pubblico sia nel settore educativo che di welfare. Un’ulteriore modellizzazione relativa alle competenze è stata elaborata da Allmendinger e Leibfried (2003). Le variabili utilizzate riguardano, da un lato, il livello medio delle competenze acquisite - che può essere “alto” o “basso”- e, dall’altro, la loro differenziazione fra le persone, che è “bassa” nei sistemi educativi egualitari e “alta” in quelli non-egualitari. Considerando i regimi di welfare e i modelli di competenze così delineati, Allmendinger e Leibfried sottolineano che i paesi scandinavi tendono ad essere molto più omogenei nella distribuzione delle competenze rispetto ai paesi anglosassoni. I paesi conservatori tendono invece ad essere maggiormente differenziati sia rispetto a quelli scandinavi che a quelli anglosassoni. Considerando invece le competenze, i paesi anglosassoni mostrano il livello più alto e sono seguiti da quelli scandinavi e da quelli conservatori che si collocano invece al livello più basso. 3. Prospettive di ricerca sull’interazione fra educazione e welfare Nell’ultimo ventennio la complementarietà fra educazione e welfare ha ricevuto una crescente attenzione da parte degli analisti e dei decisori politici. In letteratura, differenti approcci teorici - adottando una prospettiva olistica e/o multidimensionale - hanno evidenziato di volta in volta singoli elementi di questa interazione. Nelle pagine che seguono verranno indagati in particolare quattro differenti prospettive: le varietà di capitalismo, l’investimento sociale, le politiche attive, l’approccio delle capacità. 11
3.1 L’approccio delle varietà di capitalismo Nell’approccio delle varietà di capitalismo (VcO) la questione della formazione - o più specificatamente la domanda di formazione dei datori di lavoro, in interazione con le istituzioni politiche ed economiche - è il fattore che spiega la divergenza dei percorsi di sviluppo del welfare state e dei regimi di produzione. Questo approccio rende quindi concreta l’ipotesi secondo cui c’è una complementarietà istituzionale fra la formazione delle competenze e il welfare state (Busemeyer, Trampusch, 2011). L’approccio delle varietà di capitalismo ha favorito lo sviluppo di una modellistica che ha integrato “regimi di welfare” e “regimi delle competenze”. Questi ultimi sono concettualizzati come un insieme di istituzioni interconnesse in materia di istruzione e formazione professionale, relazioni industriali, mercato del lavoro e politiche di welfare che modellano gli incentivi dei lavoratori e delle imprese ad investire in differenti tipi di formazione delle competenze e i relativi impatti sui sistemi economici (Busemeyer, 2009). In questo quadro si colloca il lavoro di Estevez-Abe, Iversen e Soskice (2001) che, riferendosi all’insieme delle strategie di mercato, delle traiettorie di acquisizione delle competenze, delle istituzioni sociali, economiche e politiche che mirano a sostenere i lavoratori e i datori di lavoro, individuano quattro distinti welfare production regimes. Questo lavoro si concentra in particolare sugli incentivi e sui disincentivi che spingono gli individui ad investire nell’acquisizione di competenze specialistiche. L’idea di fondo è che differenti modelli di welfare influenzano la disponibilità individuale ad investire in determinati tipi di skills definendo in questo modo il profilo delle competenze di ciascun sistema economico. Estevez-Abe, Iversen e Soskice individuano in particolare tre tipi di skills che si associano a differenti strategie di produzione. I “firm-specific skills” che sono acquisiti attraverso la formazione sul lavoro e si caratterizzano per la ridotta portabilità. Questi skills sono molto preziosi per i datori di lavoro che hanno contribuito alla loro acquisizione ma non sono spendibili presso altri datori di lavoro. Gli “industry-specific skills” sono invece acquisiti attraverso l’apprendistato e le scuole di formazione professionali. Questi skills, specialmente quando sono ufficialmente certificati, sono riconosciuti da tutti i datori di lavoro di uno specifico settore. I “general skills” sono invece riconosciuti da tutti i datori di lavoro indipendentemente dal settore. 12
Per quanto riguarda le istituzioni di welfare Estevez-Abe, Iversen e Soskice distinguono fra la “employment protection”, che offre elevati livelli di protezione dell’occupazione ma una bassa tutela rivolta a coloro che perdono il lavoro nei periodi di crisi economica e la “unemployment protection” che protegge invece principalmente dalla perdita del reddito connessa alla disoccupazione e contribuisce a ridurre l’incertezza salariale nel corso di tutta la carriera lavorativa 3 . Elevati livelli di employment protection incoraggiano l’investimento in firm-specific skills. Dato che tali competenze sono prive di valore al di fuori dell’impresa, i lavoratori sono disponibili ad investirvi solo se hanno garanzia dell’occupazione nel lungo termine e possono quindi rientrare dal proprio investimento. La sicurezza dell’occupazione deve crescere e/o l’insicurezza legata alla perdita del lavoro deve essere ridotta. La unemployment protection garantisce invece il mantenimento di skills elevati incoraggiando gli individui ad investire in essi anche quando la loro offerta rischia di eccedere sulla domanda. Inoltre, questo tipo di protezione sociale permette agli individui di rifiutare le offerte di lavoro estranee al proprio settore di competenza. In assenza di tutele contro la disoccupazione i lavoratori sarebbero obbligati ad accettare qualsiasi impiego e conseguentemente fortemente disincentivati ad investire in competenze specifiche. In generale, se la protezione sociale – sia essa rivolta agli occupati che ai disoccupati - è bassa l’investimento in skills generici rappresenta la migliore garanzia contro i rischi connessi al mercato. Tali competenze possono essere valorizzate in differenti settori. Solo nel caso in cui le imprese ricorrono a skill generalisti, bassi livelli di protezione sociale possono garantire la competitività delle imprese. Nel 2008, Iversen e Stephens muovendo da una sintesi fra la “power resourch theory” (PRT) – secondo cui la generosità e la struttura dei sistemi di welfare è funzione della forza storica dei partiti di sinistra e delle alleanze con la classe media – e la “welfare production regime theory” (WPR) ritengono che i diversi sistemi di welfare sono funzione di differenti modelli di produzione capitalistica. Iversen e Stephens si concentrano in particolare sulle coalizioni politiche e sulla loro influenza sull’investimento nel capitale umano ed individuano tre differenti mondi di formazione del capitale umano che corrispondono ai tre mondi del welfare. 3 Estevez-Abe, Iversen e Soskice individuano anche la “wage protection” che riguarda i meccanismi istituzionali che mirano a proteggere il reddito dalle fluttuazioni del mercato. Questo tipo di protezione sociale è tuttavia trattata separatamente rispetto alle altre. 13
Il primo modello riguarda i paesi caratterizzati da economie di mercato liberali e sistemi elettorali maggioritari. In questi paesi i governi di centro o di centro-destra investono relativamente poche risorse per l’educazione primaria e prescolastica. La maggior parte della spesa pubblica è diretta verso programmi educativi che interessano perlopiù la classe media, mentre la classe medio-alta investe prevalentemente nell’educazione privata. Poiché le assicurazioni sociali sono scarse e la redistribuzione è bassa la classe media e quella medio alta tendono a privilegiare un’educazione “generalista” che garantisce una maggiore mobilità orizzontale all’interno dei sistemi economici dato che le imprese richiedono questo tipo di competenze. Il mercato del lavoro è estremamente fluido e le imprese che hanno una scarsa produttività possono trarre vantaggio dall’erogazione di bassi salari e dalla possibilità di licenziare i lavoratori nei periodi di crisi. Il sistema di formazione professionale è debole e i gruppi sociali maggiormente svantaggiati hanno poche opportunità di acquisire competenze professionali di valore. Il sistema educativo è quindi fortemente biforcato e si riflette su una struttura salariale estremamente diseguale. Il secondo mondo della formazione del capitale umano attiene invece ai paesi caratterizzati da un’economia di mercato coordinata, da istituzioni elettorali proporzionali e dall’assenza di forti partiti cristiano-democratici. In questi paesi i governi di centro sinistra favoriscono lo sviluppo di un sistema fortemente redistributivo, sostengono rilevanti investimenti nell’educazione primaria e secondaria, nelle politiche attive del lavoro, nell’educazione prescolastica e nei servizi di assistenza pubblica. La combinazione fra un elevato livello di spesa pubblica per l’educazione e un ben sviluppato sistema di formazione professionale favorisce la creazione di competenze molto più specialistiche rispetto a quelle che caratterizzano le economie di mercato liberali. In questo caso, i lavoratori più deboli hanno competenze maggiori rispetto a quelli dei paesi liberali e la combinazione di elevate competenze tecniche e di una solida formazione di base permette alle imprese di avere successo nei mercati internazionali di nicchia. Infine il terzo mondo della formazione del capitale umano riguarda i paesi caratterizzati da un’economia di mercato coordinata, da istituzioni elettorali proporzionali e dalla presenza di forti partiti cristiano-democratici. In questi paesi le coalizioni di governo sostengono lo sviluppo delle assicurazioni sociali e di altre forme 14
di tutela del lavoro. L’elevato livello di protezione sociale facilita gli investimenti delle imprese in competenze specifiche. Ad eccezione della Francia, tutti questi paesi sono poi caratterizzati dalla presenza di ben sviluppati sistemi di formazione professionale e dalla contrattazione collettiva. In generale la presenza di partiti cristiano democratici favorisce i lavoratori qualificati e in gran parte ignora quelli poco o semi qualificati. Gli investimenti nell’educazione prescolare e di primo livello rivolta a soggetti svantaggiati sono bassi, se comparati al precedente gruppo di paesi, tuttavia in questo caso lo sviluppo della formazione professionale offre un’opportunità di acquisire competenze che è assente nei paesi liberali. Un’ulteriore analisi dei regimi delle competenze propri delle economie di mercato coordinate è stata sviluppata da Busemeyer (2009) secondo il quale questi regimi non possono essere indagati esclusivamente ricorrendo alla dicotomia fra competenze generaliste e specialistiche. Busemeyer propone di considerare invece due dimensioni che riguardano il grado di coinvolgimento delle aziende nella formazione delle competenze e la specificità professionale del sistema di istruzione. Quest’ultima è analizzata considerando il livello di autorevolezza delle certificazioni professionali. Dall’incrocio fra queste due variabili emergono quattro distinti modelli che evidenziano la presenza di tre differenti regimi delle competenze propri delle economie di mercato coordinate. Tratto comune dei regimi di competenze delle economie di mercato coordinate è la maggiore enfasi attribuita alla formazione professionale rispetto a quanto avviene nelle economie liberali. Concentrandosi sui sistemi a economia coordinata, Busemeyer approfondisce in particolare il caso del Giappone, della Svezia e della Germania. Il Giappone si caratterizza per la presenza di un “segmentalist skill regime” in cui la formazione professionale vede protagoniste le aziende. Le competenze in questo caso sono ampie, ma la loro reale portabilità è fortemente contrastata dalle istituzioni del mercato del lavoro. Alla Svezia attiene invece un “integrationist skill regime” che – contrariamente al Giappone - pone l’enfasi sul sistema scolastico. La formazione professionale è infatti integrata in un modello comprensivo di scuola secondaria superiore. Infine, il caso tedesco è definito come “differentiated skill regime”. La differenziazione fra formazione accademica e professionale caratterizza tutti i livelli di educazione, le aziende tendono a preservare la loro autonomia rispetto alle autorità 15
pubbliche, ma le competenze professionali sono certificate a livello nazionale e questo contribuisce a garantire una maggiore mobilità rispetto al Giappone. L’approccio delle varietà di capitalismo ha certamente il merito di rendere evidente la complementarietà fra educazione e welfare, ma presenta tuttavia dei limiti. Il VoC dice poco rispetto ai cambiamenti che i sistemi di protezione sociale dovrebbero concretamente intraprendere ed è quindi lontano da una logica normativa. Per il suo carattere olistico questo approccio presuppone infatti la possibilità di equilibri distinti e individua la coerenza interna dei differenti sistemi economici risultando per questo anche fortemente path dependet. I cambiamenti sono sempre considerati interni alla logica di funzionamento dei diversi sistemi e, conseguentemente, l’analisi delle trasformazioni che rompono con tale logica trova poco spazio. 3.2 L’approccio dell’investimento sociale La prospettiva dell’investimento sociale è emersa gradualmente nel corso degli anni novanta con il duplice obiettivo di rispondere ai nuovi rischi sociali e di garantire la sostenibilità politica e finanziaria del welfare, riconciliando gli obiettivi economici e sociali (Vandenbroucke, Hemerijck, Palier; 2011). Questa prospettiva poggia su tre pilastri principali che riguardano: 1) la convinzione che l’apprendimento rappresenti la base dell’economia e della società del futuro. 2) L’orientamento verso il futuro piuttosto che verso il presente, che porta a focalizzarsi sulla necessità di investire sulle giovani generazioni e in particolare sui bambini. 3) L’idea che il successo dei singoli individui è un beneficio per la comunità nel suo insieme sia nell’immediato che nel futuro (Jenson, 2010). L’investimento sociale sostiene la necessità di rafforzare gli interventi pubblici nel campo della salute, dell’educazione e della sicurezza sociale. L’enfasi è posta sull’attivazione e la produttività dei cittadini, le politiche sociali sono quindi politiche attive che si focalizzano sull’occupabilità degli individui (Abrahamson, 2009; 2010). In particolare, l’attivazione mira a rafforzare le competenze di chi è escluso dal mercato del lavoro attraverso l’erogazione di servizi professionali ed educativi. In generale, l’investimento sociale è orientato verso la prevenzione piuttosto che verso la compensazione delle conseguenze connesse alla perdita del reddito. Nella strategia dell’investimento sociale i sistemi di protezione dovrebbero investire di più sui giovani, 16
anche a scapito degli anziani, e in particolare due tipi di interventi appaiono particolarmente rilevanti. Da un lato è necessario assicurare a tutte le famiglie un reddito di base in modo da ridurre la povertà, dall’altro bisogna garantire servizi educativi di qualità per i bambini, al fine di prevenire l’esclusione sociale. Lo sviluppo di servizi sociali rivolti all’infanzia favorirebbe inoltre la crescita dei tassi di occupazione femminile (Palier, 2006), con conseguenze positive non solo sulla riduzione del rischio di povertà infantile ma anche sullo sviluppo economico (Ferrera, 2008). L’approccio dell’investimento sociale è stato interpretato come la terza fase dell’evoluzione del welfare (Abrahamson, 2009; 2010; Palier, 2006), che segue all’epoca del trentennio d’oro e quella del ridimensionamento. Quest’ultima fase è stata caratterizzata dalla diffusione di politiche neoliberiste sostenute da organizzazioni internazionali come l’OCSE (Abrahamson, 2009; 2010), ma i loro limiti economici, sociali e politici hanno ora aperto la strada all’affermazione della prospettiva dell’investimento sociale (Jenson, 2010). Questa prospettiva offre anche una nuova soluzione al problema di garantire il bilanciamento fra crescita economica e giustizia sociale ed è sostenuta e promossa da organizzazioni internazionali come l’Unione Europea e l’OCSE che stanno svolgendo un ruolo di primo piano nel favorire l’inserimento delle questioni dell’investimento - nella ricerca, nello sviluppo e nel rafforzamento del capitale umano - nel dibattito di policy (Taylor-Gooby, 2008). L’affermarsi di un modello economico sempre più basato sulla conoscenza necessita infatti dello sviluppo di un nuovo modello di welfare. La principale contraddizione dell’economia della conoscenza è data dal fatto che essa prospera sulla coesione sociale mentre i meccanismi che operano al suo interno tendono a minarla. Questo è vero ad esempio se si considera che i lavoratori low-skill possono incontrare molte difficoltà ad accedere al mercato del lavoro. L’investimento nella formazione diventa quindi cruciale per la sostenibilità dell’economia della conoscenza. In tale quadro la distribuzione egualitaria dei redditi potrebbe allora non essere il migliore indicatore per valutare l’eguaglianza sociale che dovrebbe essere invece misurata considerando anche le opportunità di accesso all’apprendimento (Lundvall, Lorenz; 2009) 17
La prospettiva teorica che più si avvicina a quanto promosso dall’OCSE a partire dalla metà degli anni novanta è quella di Esping-Andersen (2002b), per il quale una strategia di investimento sociale fortemente orientata verso i bambini è in grado di garantire l’inclusione sociale e lo sviluppo di un’economia della conoscenza competitiva. La nozione di investimento sociale di Esping-Andersen si differenzia rispetto a quella elaborata da Anthony Giddens (1998) il quale ha sostenuto la necessità di costruire uno “Stato dell’investimento sociale” basato appunto sull’investimento in capitale umano e sociale. La formulazione di Giddens è molto vicina al New Labour di Tony Blair e rispetto a quella di Esping-Andersen appare molto più limitata e maggiormente orientata dal lato dell’offerta (Jenson, 2010). Le tre prospettive di welfare – keynesiana, neo-liberale e dell’investimento sociale – seguendo Jenson (2010) riflettono concezioni differenti rispetto agli obiettivi sociali, alla visione dell’uguaglianza e alla copertura dei rischi. Se nella prospettiva keynesiana gli obiettivi sociali riguardano la fornitura di protezione sociale, in quella neo-liberale prevale la volontà di promuovere l’autonomia per evitare la dipendenza dalle istituzioni pubbliche, mentre nel caso dell’investimento sociale l’obiettivo principale è quello di investire nella prevenzione e nell’aumento del capitale umano e sociale al fine di garantire la crescita. Per quanto riguarda invece la concezione dell’uguaglianza, la prospettiva keynesiana la interpreta considerando condizioni e opportunità, quella neo- liberale assume che l’ineguaglianza è intrinseca al mercato, mentre l’investimento sociale si basa sull’uguaglianza delle opportunità. Infine, considerando i rischi coperti la prospettiva keynesiana si pone l’obiettivo di proteggere dalla disoccupazione, dalla disabilità, dalla malattia e dalla perdita del reddito dovuta al pensionamento o all’assenza del “male breadwinner”. La prospettiva neo-liberale mira invece a proteggere dai rischi connessi alla disabilità, alla malattia, all’invecchiamento e alla minaccia del crimine e del disordine sociale. L’investimento sociale offre invece protezione contro il lavoro a basso reddito o per altri motivi insostenibile, mira a bilanciare l’attività lavorativa con quella di cura e a far fronte ai cambiamenti demografici. I regimi liberali e quelli socialdemocratici mostrano una maggiore capacità di adattamento alla prospettiva dell’investimento sociale rispetto a quelli continentali (Jenson, 2010). Probabilmente ciò è dovuto al fatto che l’investimento sociale si 18
configura come un nuovo modello ibrido che combina tendenze liberali/neo-liberali e socialdemocratiche (Lister, 2004). Tuttavia se assumiamo che la prospettiva dell’investimento emerge anche a seguito del tentativo dei sistemi di welfare di rispondere ai nuovi rischi sociali, la loro capacità di adattamento a questa prospettiva è anche analizzabile considerando la “time issue” (Bonoli 2007; Fargion 2000). I paesi nord-europei hanno sperimentato i cambiamenti legati all’avvento della società post- industriale prima degli altri paesi. Nel Nord-Europa la domanda di protezione dai nuovi rischi è stata fin dagli anni settanta in competizione con la domanda di protezione dai rischi connessi alla società industriale e per questo i welfare nord-europei sono oggi maggiormente in grado di rispondere - attraverso l’investimento sociale - ai nuovi bisogni rispetto a quelli continentali e del sud. Grazie all’adozione di una prospettiva multidimensionale al problema dell’inclusione sociale, la complementarietà fra educazione e welfare gioca un ruolo di primo piano nell’approccio dell’investimento sociale. Questo è vero in particolare quando l’investimento sociale si allontana dalla prospettiva neo-liberale e si avvicina invece alla tradizione socialdemocratica. Inoltre, ponendo l’enfasi sull’uguaglianza delle opportunità, l’investimento sociale getta le basi per il superamento della frattura fra educazione e welfare. Quest’ultimi sono infatti concettualizzati come elementi costitutivi di una strategia univoca di protezione sociale. Il principale limite di questo approccio risiede tuttavia nel suo carattere fortemente normativo. L’investimento sociale sembra infatti rappresentare una fase di sviluppo auspicabile piuttosto che in essere. Cambiamenti volti a promuovere un welfare più attivo sono riscontrabili in Olanda, Germania, Francia, Inghilterra, Irlanda e Spagna. I paesi sud-europei – Italia, Grecia e Portogallo – insieme ai paesi dell’Europa dell’est sembrano invece lontani dall’adottare la prospettiva dell’investimento sociale (Vandenbroucke, Hemerijck, Palier; 2011). I paesi nord-europei mostrano invece una maggiore capacità di adattamento a questa prospettiva. Tuttavia l’investimento sociale in questo caso non segna l’avvento di una nuova fase storica dato che l’enfasi sul capitale umano e sulle politiche per la famiglia ha tradizionalmente caratterizzato questi regimi di welfare. 19
3.3 Le politiche attive Le politiche attive del lavoro hanno differenti origini e perseguono diversi scopi. In Svezia queste politiche sono state introdotte nel corso degli anni cinquanta, in un contesto di espansione economica, con l’obiettivo di favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, attraverso il finanziamento di programmi di formazione professionale. Una variante completamente diversa delle politiche attive del lavoro si è sviluppata invece, a partire dagli anni ottanta, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Questi paesi hanno infatti adottato strategie di “welfare to work” o “workfare” che combinano una serie di incentivi, positivi e negativi, volti a favorire l’accesso al mercato del lavoro. Politiche di workfare sono state adottate da governi conservatori ed hanno assunto un carattere punitivo e di controllo sociale tanto da essere spesso interpretate come uno dei principali segni dell’attacco allo Stato sociale (Bonoli, 2009). Il divario fra l’esperienza anglosassone e quella nord-europea evidenzia la presenza di due orientamenti profondamente differenti alle politiche attive del lavoro. Da un lato troviamo infatti politiche che mirano ad accrescere il capitale umano dei destinatari, dall’altro politiche che perseguono l’obiettivo di favorire la transizione delle persone dall’assistenza sociale all’occupazione. In proposito, Nicaise (2002) ha ad esempio evidenziato come il welfare attivo, per come è stato realizzato nei diversi paesi, può essere posizionato lungo un asse i cui estremi sono rappresentati dal “workfare” e da “l’approccio dell’inclusione sociale”. L’approccio del workfare è basato sulla convinzione che gli interventi di sostegno del reddito contribuiscono a rafforzare la dipendenza dei beneficiari dalle istituzioni. In particolare, l’idea di fondo è che le persone tendono ad adattare il loro comportamento al fine di ottenere o conservare i benefici di welfare. L’obiettivo del workfare è quindi quello di combattere la “cultura della dipendenza” (Nicaise, 1998), attraverso la restrizione del diritto di accesso alle prestazioni. Nella sua forma pura il workfare consiste nell’obbligo di svolgere un lavoro per poter beneficiare delle prestazioni di welfare. Altre varianti di questo modello pongono invece l’enfasi sugli incentivi piuttosto che sugli obblighi. Al contrario, l’approccio dell’inclusione sociale si basa sull’idea che il sostegno finanziario in sé non sia sufficiente a combattere l’esclusione sociale, le cui cause non sono individuate nella diffusione di una cultura della dipendenza ma piuttosto nei 20
meccanismi di esclusione che influenzano differenti aspetti della vita degli individui. La protezione sociale in questo caso non deve assicurare solo il sostegno del reddito, ma deve essere finalizzata anche a garantire il diritto all’integrazione sociale degli individui. Nella sua versione pura quest’approccio mira a garantire ad ogni individuo il diritto ad una serie di servizi volti a favorire l’inclusione. A partire dall’analisi dell’esperienza danese e confrontandola con quella inglese e americana Torfing (1999) distingue invece fra l’”offensive workfare” e il “defensive workfare”. Il governo danese, ispirandosi all’esperienza della Svezia, ha separato il workfare dai principi neo-liberali propri della variante inglese e americana. Come risultato il workfare danese si differenzia rispetto a quello anglosassone perché: 1) mira all’attivazione piuttosto che alla riduzione dei benefici, 2) si pone l’obiettivo di rafforzare le competenze professionali dei destinatari piuttosto che accrescere la loro mobilità e la loro capacità di inserirsi nel mercato del lavoro, 3) punta sull’educazione e sul training piuttosto che sullo svolgimento di un lavoro come condizione necessaria per l’accesso ai benefici, 4) è basato sull’empowerment dei cittadini piuttosto che sul controllo e la punizione, 5) si fonda su programmi inclusivi piuttosto che su interventi specifici rivolti esclusivamente ai disoccupati. La dicotomia fra questi modelli di politiche attive è utile per individuare quegli interventi che possono trovare spazio all’interno dell’approccio dell’investimento sociale. Chiaramente solo le politiche di attivazione finalizzate all’accrescimento del capitale umano possono considerarsi parte di questo approccio, tuttavia – come evidenziato da Bonoli (2009) - la classificazione delle politiche attive porta con sé tre differenti ordini di problemi. In primo luogo, è necessario considerare che in molti casi queste politiche si basano sia sul rafforzamento del capitale umano che sulla presenza di incentivi volti ad incoraggiare l’inserimento nel mercato del lavoro. In secondo luogo, la dicotomia dell’attivazione è utile per individuare la logica propria delle diverse strategie, ma se si considerano i singoli programmi non sempre è possibile distinguere fra quelli orientati al rafforzamento del capitale umano e quelli basati sugli incentivi. Infine, è utile considerare che le politiche attive non sempre raggiungono gli obiettivi prefissati e che questo può rendere complesso distinguere fra gli interventi che investendo nel capitale umano mostrano interesse per i beneficiari e quelli che perseguono esclusivamente l’obiettivo di contenere i costi, favorendo l’occupazione 21
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