Politiche educative e di welfare. Due letterature a confronto.

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Politiche educative e di welfare.
                   Due letterature a confronto.

                                  di

                            Chiara Agostini

                  Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
               Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011

Assegnista di ricerca
Università di Bologna - Forlì
chiara.agostini5@unibo.it
Introduzione
  Con la parziale eccezione della letteratura anglosassone, che ha spesso considerato
l’educazione come parte integrante del sistema di protezione sociale, i principali
contributi europei sul welfare hanno tralasciato il tema delle politiche educative. Gli
anni novanta in particolare hanno segnato una frattura netta fra i due settori poiché, nel
corso di questo decennio, si è consolidata l’idea di considerare le assicurazioni sociali
come il nucleo storico del welfare state. Il dibattito europeo di questi anni si è dunque
polarizzato sulla costruzione di classificazioni e tipologie che hanno considerato
prevalentemente i trasferimenti monetari di tipo assicurativo (Esping-Andersen 1990;
Leibfried 1992; Castles e Mitchell 1992; Ferrera 1993; Bonoli 1997)
  D’altra parte, a fronte dei cambiamenti sociali ed economici in atto, il legame fra
politiche educative e di welfare ha più recentemente ricevuto una maggiore attenzione.
Nel quadro dell’economia della conoscenza, le organizzazioni internazionali stanno
sostenendo l’implementazione di politiche centrate sullo sviluppo del capitale umano.
L’integrazione fra educazione e welfare diventa allora necessaria per garantire la
competitività delle economie. Inoltre, sempre di più si è affermato l’argomento che la
sostenibilità dei sistemi di protezione sociale dipenda dal raggiungimento di elevati
livelli di occupazione (Palier, 2006). Tale obiettivo è perseguito attraverso il ricorso a
politiche, che si basano sull’integrazione fra educazione e welfare, e sono volte ad
incrementare l’occupabilità.
  In questo contesto, il paper ricostruisce l’evoluzione storica della frattura prima e del
dialogo poi fra la letteratura sul welfare e sull’educazione. L’obiettivo è quello di
individuare i principali limiti - teorici ed analitici - di quegli approcci che stanno
promuovendo l’integrazione fra i due settori e di delineare prospettive di ricerca utili
allo sviluppo del dialogo fra educazione e welfare. Il paper è diviso in tre sezioni.
  La prima si concentra sull’origine storica della scissione fra educazione e welfare, a
partire dall’analisi di quegli studi che hanno evidenziato la presenza di un trade-off fra i
due settori. L’educazione e le assicurazioni sociali sono state considerate come
programmi alternativi che hanno favorito lo sviluppo di modelli di welfare basati in un
caso sull’uguaglianza delle opportunità e nell’altro su quella delle condizioni. Oltre a
richiamare l’origine storica della scissione fra le due letterature questa prima sezione
illustra l’incongruenza fra il presupposto teorico del trade-off e l’evidenza empirica

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raccolta. Differenti ricerche mostrano infatti che l’enfasi che alcuni paesi (quelli
anglosassoni) hanno tradizionalmente attribuito all’educazione non è in grado di
assicurare la maggiore mobilità sociale. Altri paesi, (quelli scandinavi) mostrano infatti
livelli di mobilità sociale superiori e ciò è dovuto alle caratteristiche dei loro sistemi di
welfare.
  La seconda sezione si concentra sulle diverse proposte di modellizzazione delle
politiche educative e di welfare. L’elaborazione di tali modelli rappresenta uno dei
tentativi di superare l’incomunicabilità fra le due letterature.
  La terza sezione è invece dedicata all’analisi di quegli approcci che stanno
promuovendo l’integrazione fra i due settori, e dunque una più stretta comunicazione fra
le letterature in oggetto. È il caso in primo luogo della prospettiva delle “varietà di
capitalismo” (VcO) . Questo approccio ha posto in primo piano la complementarietà
istituzionale fra domanda di competenze e sistemi di protezione sociale e ha portato
all’elaborazione di una modellistica che integra regimi delle competenze e di welfare. In
secondo luogo, viene esaminata la prospettiva dell’investimento sociale che promuove
lo sviluppo di interventi centrati sul rafforzamento delle competenze di chi è escluso dal
mercato del lavoro, attraverso l’erogazione di servizi professionali ed educativi. In terzo
luogo, vengono analizzate le politiche attive. Queste politiche possono essere distinte in
due categorie, da un lato, troviamo quelle che perseguono l’obiettivo di accrescere il
capitale umano e che appaiono coerenti con la prospettiva dell’investimento sociale,
dall’altro, abbiamo invece quelle che mirano esclusivamente a favorire il passaggio
dall’assistenza all’occupazione. Infine, l’analisi si concentra sull’approccio delle
capacità che ha trovato applicazione in diversi campi tra i quali le politiche educative e
di welfare. Il paper si conclude con alcune riflessioni critiche sulle principali prospettive
analitiche richiamate.

  1. Il trade-off educazione- welfare e la mobilità sociale
  L’idea di considerare le assicurazioni sociali come nucleo storico del welfare state è
stata criticata nel 1983 da Flora e Heidenheimer i quali – pur non affrontando
direttamente la questione dell’educazione - hanno evidenziato che fin dalle origini dello

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Stato sociale altre istituzioni hanno affiancato le assicurazioni 1 . Con specifico
riferimento al settore educativo, anche quella letteratura che lo ha considerato come
parte integrante della protezione sociale ne ha individuato delle specificità in grado di
contraddistinguerlo rispetto agli altri settori di welfare. Questa impostazione è emersa
chiaramente nel 1975 quando Wilensky - pur individuando l’essenza del welfare nel
fatto che il governo riconosca e garantisca standard minimi di reddito, alimentazione,
salute, alloggio e istruzione – ha distinto i programmi che mirano ad incoraggiare
l'uguaglianza assoluta, da quelli che perseguono l'obiettivo di garantire l'uguaglianza
delle opportunità. Il nucleo del welfare è da lui individuato nello sforzo della nazione
verso la salute e il benessere, in modo da garantire l'uguaglianza assoluta, mentre lo
sforzo educativo costituisce un contributo all'uguaglianza delle opportunità, intesa come
accresciuta possibilità di mobilità sociale. Wilensky ha posto dunque alla base del
welfare una tensione fra valori meritocratici ed egualitari, ed ha evidenziato che nel
comparto educativo la componente meritocratica è molto più importante che nel resto
del welfare state. Successivamente, anche Castles (1989) ha riconosciuto una specificità
propria del settore educativo. L’autore ha ritenuto che esso offra protezione sociale in
modo diverso rispetto agli altri settori di welfare. Le politiche educative infatti
perseguono l'obiettivo di garantire l'uguaglianza delle opportunità piuttosto che delle
condizioni.
    Di recente Busemeyer e Nikolai (2010) hanno poi evidenziato che l’idea di Wilensky
di concepire e indagare l’educazione separatamente rispetto agli altri settori di welfare è
condivisibile poiché tre differenze principali separano questi due settori. In primo luogo
le assicurazioni sociali hanno bisogno di strutture istituzionali, spesso nazionali, che
definiscano i confini della solidarietà e della redistribuzione. Al contrario l’educazione
può essere fornita in maniera molto più decentrata non essendo direttamente
redistributiva. In secondo luogo, l’educazione, in misura maggiore rispetto alle altre
politiche sociali, produce benefici individuali contribuendo alla creazione del capitale

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  In particolare Flora e Heidenheimer evidenziano ciò considerando: a) che l'assistenza ai poveri ha
conservato nel tempo una rilevanza importante anche se le sue caratteristiche e la sua importanza sono
modificate nel corso del tempo, b) che i controlli di fabbrica e la legislazione protettiva hanno preceduto
le assicurazioni sociali, c) che l'istituzione di altri sistemi con i medesimi obiettivi si è realizzata
contemporaneamente allo sviluppo delle assicurazioni sociali. E' il caso dell’introduzione delle imposte
progressive sul reddito, dell'estensione dell'istruzione primaria in alcuni paesi e della riforma
dell'istruzione secondaria in altri, d) che anche se le politiche nazionali in materia di casa e occupazione si
sono sviluppate solo nel primo dopoguerra l'intervento dei comuni in questi due settori è antecedente.

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umano. Infine, l’educazione influenza la primaria distribuzione del reddito nel mercato
del lavoro piuttosto che intervenire a posteriori compensando le diseguaglianze.
    L’educazione e la previdenza sociale sono state anche interpretate come programmi
alternativi che hanno segnato traiettorie diverse nello sviluppo dello Stato sociale
(Heidenheimer, 1983). La differente importanza che i paesi hanno attribuito
all'istruzione o ai programmi previdenziali è frutto dell'adozione di strategie alternative
di sviluppo dei sistemi di protezione sociale nazionali. In particolare, Heidenheimer ha
considerato il caso degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei (Germania, Svezia e
Inghilterra) e la sua posizione riflette l’idea di un trade-off di lungo periodo. Utilizzando
le parole di Esping-Andersen (2002a) tale dinamica può essere interpretata come il
frutto di concezioni differenti riguardo a cosa sia una «buona società»2. Infatti, se in
Europa è prevalsa la domanda di uguaglianza delle condizioni, negli Stati Uniti è
prevalsa quella di uguaglianza delle opportunità e ciò ha dato vita a due contrapposti
modelli di Stato sociale che in nessun caso vedono l’integrazione fra politiche educative
e sociali. Il modello americano si fonda sull’individuo e sul mercato e l’ideale di
giustizia si basa sul principio del merito che si accompagna all’idea di uguaglianza delle
opportunità. In questo quadro, l’educazione è considerata lo strumento principale per
perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza e consentire la mobilità sociale. Nello Stato
sociale americano le politiche educative acquistano quindi una posizione privilegiata
rispetto a quelle sociali e del lavoro, le quali assumono un carattere perlopiù residuale.
Il modello europeo di welfare si fonda invece su un criterio di giustizia che è
individuato nel bisogno piuttosto che nel merito. Storicamente, l’obiettivo dei sistemi di
protezione europei era infatti quello di proteggere gli individui e le famiglie dai rischi
connessi alla disoccupazione, alla malattia, all’invalidità e alla vecchiaia. L’origine di
questo modello è quindi individuabile non nella competizione meritocratica – che
caratterizza il modello americano – ma nella solidarietà diffusa fra i membri di una
determinata categoria occupazionale o fra gli individui appartenenti ad una medesima
società. In questo caso, gli interventi di welfare sono individuati nelle assicurazioni
sociali e nell’assistenza ai bisognosi. Nel contesto europeo l’istruzione – che peraltro si

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 In particolare Esping-Andersen utilizza questa espressione con riferimento ai modelli di welfare europei
sostenendo che essi si distinguono l’uno dall’altro proprio perché ciascun paese ha seguito percorsi
diversi nell’individuazione dei modelli di “buona società”. Infatti anche se l’obiettivo, in tutti i casi, era
quello di risolvere la questione sociale e di porre fine alle disuguaglianze, le soluzioni adottate sono state
diverse proprio perché basate su una differente idea di buona società.

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sviluppa molto più lentamente rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti - non si
accompagna a ideali quali la giustizia e l’equità ma, almeno in origine, risponde ad altre
esigenze che riguardano la formazione delle classi dirigenti, la riproduzione delle classi
sociali e la tutela dell’identità nazionale (Benadusi, 2006).
  La questione del trade-off fra educazione e welfare è stata successivamente ripresa da
Hokenmaier (1998) e da Hega e Hokenmaier (2002) che si sono posti l’obiettivo di
verificarne l’esistenza considerando il modello dei tre mondi (Esping-Andersen, 1990).
Hega e Hokenmaier evidenziano che il trade-off fra politiche educative e sociali è
particolarmente evidente fra i regimi conservatori e quelli liberali. I primi tendono
infatti ad attribuire maggiore enfasi alle assicurazioni sociali a scapito delle politiche
educative, i secondi - al contrario - dedicano maggiore attenzione al settore educativo,
che è considerato strategico per la promozione della mobilità sociale e alternativo
rispetto ai programmi assicurativi. L'analisi dei dati di spesa evidenzia che i regimi
socialdemocratici spendono di più rispetto a quelli liberali e conservatori sia per le
assicurazioni sociali che per le politiche educative. I regimi conservatori spendono
meno di quelli socialdemocratici ma più di quelli liberali per le assicurazioni sociali. La
spesa educativa nei regimi liberali è invece vicina a quelli socialdemocratici e
decisamente più alta rispetto a quelli conservatori.
  Il trade-off fra educazione e welfare è stato infine analizzato con specifico riferimento
all’higher education (Pechar H., Andres Lesley A., 2011). Anche in questo caso la sua
presenza è sostanzialmente confermata dalla comparazione fra regimi liberali e
conservatori. All’interno di questi regimi è infatti possibile individuare l’esistenza di un
trade-off fra investimenti finalizzati a rinforzare le opportunità di accesso
all’educazione terziaria e i programmi assicurativi. In particolare, i paesi che mirano a
garantire l’uguaglianza delle condizioni investono meno nell’educazione di terzo livello
rispetto a quelli che mirano a garantire l’uguaglianza delle opportunità o entrambe le
forme di uguaglianza.
  In linea con la prospettiva teorica del trade-off, i paesi che pongono l’enfasi
sull’educazione dovrebbero registrare elevati livelli di mobilità sociale. Tuttavia,
differenti ricerche mostrano che l’enfasi posta dai paesi liberali sull’eguaglianza delle
opportunità non è in sé sufficiente ad assicurare una maggiore mobilità sociale. La
riduzione dell’eredità intergenerazionale è infatti garantita quando educazione e welfare

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sono considerati come elementi di una strategia unica di protezione sociale, come
avviene nei paesi scandinavi.
  Beller e Hout (2006) evidenziano infatti che il legame fra “origine” e “destinazione” è
meno significativo nei regimi socialdemocratici piuttosto che in quelli liberali,
conservatori o misti. In sé, un più ampio accesso all’educazione non è infatti in grado
di garantire una maggiore uguaglianza delle opportunità e di influenzare in maniera
diretta l’uguaglianza delle opportunità occupazionali.
  Concentrandosi sul ruolo giocato dalla numerosità familiare, Xu (2008) ha invece
evidenziato che la generosità dei benefici rivolti alle famiglie riduce l’influenza che le
caratteristiche della struttura familiare possono avere sul successo educativo. Il legame
fra numerosità della famiglia di origine e percorsi educativi è più debole nei regimi
socialdemocratici piuttosto che in quelli corporativi, liberali e mediterranei.
L’importanza delle politiche familiari nella promozione della mobilità sociale è
evidenziata anche da Søresen (2006). La maggiore uguaglianza delle opportunità
propria dei paesi scandinavi è data infatti, da un lato, dal basso livello di ineguaglianza
sociale ed economica che caratterizza la popolazione e, dall’altro, dalla presenza di
politiche per la famiglia che favoriscono l’uguaglianza delle condizioni dei bambini in
età formativa. La questione era già stata affrontata da Esping-Andresen e Mestres
(2003) i quali criticano l’idea secondo cui la sede principale per la trasmissione
dell'eredità sociale risieda nell'istruzione. In particolare, Esping-Andersen e Mestres
evidenziano che il peso dell'eredità generazionale non è connesso al livello di
investimenti nel campo dell'istruzione, ma piuttosto si lega al capitale culturale proprio
delle famiglie di origine. Dal loro punto di vista la ricerca sulla riduzione dell'eredità
generazionale deve quindi orientarsi verso le famiglie - e in particolare verso le misure
di welfare rivolte alla prima infanzia - piuttosto che sui sistemi educativi. Questa tesi è
sostenuta anche considerando che le politiche di attivazione e apprendimento
permanente non sono in grado di rimediare agli svantaggi ereditati, poiché non
consentono di colmare il gap cognitivo che può crearsi nella prima infanzia.

  2. Modelli educativi e regimi di welfare
  Parte degli studi comparati sull’educazione si è concentrata sulle relazioni fra modelli
educativi e di welfare. Questa letteratura rappresenta un tentativo di avvicinare i due

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settori ed evidenzia la loro stretta interdipendenza. Ai tre mondi del welfare tendono
infatti a corrispondere sistemi educativi con caratteristiche peculiari.
  In questo quadro si colloca il lavoro di Busemeyer e Nikolai (2010) i quali hanno
evidenziato la presenza di gruppi di paesi con sistemi educativi relativamente omogenei
e hanno poi individuato le corrispondenze fra regimi educativi e di welfare. I regimi
educativi individuati sono tre “nord-europei”, “mediterranei”, “anglosassoni” e
all’interno del primo tipo sono individuati tre sottogruppi.
  Del primo gruppo appartenente al regime nord-europeo fanno parte i paesi scandinavi
nei quali troviamo un elevato livello di spesa educativa, un basso livello di spesa privata
e un’elevata quota di popolazione con un titolo di studio secondario superiore. In questi
paesi l’accesso all’higher education è aperto e la formazione professionale è pienamente
integrata con il sistema scolastico.
  La Germania e l’Austria, all’interno dei regimi nord-europei, si caratterizzano per un
basso livello di spesa privata per l’educazione primaria, secondaria e terziaria,
un’elevata quota di popolazione con un titolo di scuola secondaria superiore e una
particolare enfasi sulla formazione professionale. A differenza dei paesi scandinavi però
la formazione professionale è caratterizzata da un sistema duale che coinvolge sia le
imprese sia le scuole professionali e la spesa pubblica per l’educazione è
significativamente più bassa. Inoltre, la Germania e l’Austria si caratterizzano per la
presenza di un sistema di istruzione secondaria che si orienta verso la formazione
successiva - accademica o professionale – limitando fortemente le possibilità di
cambiare percorso formativo.
  Il terzo gruppo di paesi che fa parte del cluster nord-europeo comprende la Francia,
l’Olanda e il Belgio, ai quali si aggiunge l’Irlanda che si correla tuttavia anche ai paesi
scandinavi e di lingua tedesca. Questi paesi si caratterizzano per un livello medio, ma in
alcuni casi anche superiore, di spesa pubblica per l’educazione di primo e secondo
livello e per un basso livello di spesa privata. La quota di popolazione che ha conseguito
un titolo di studio secondario è inferiore alla media e proprio questo fattore colloca tali
paesi lontano da quelli scandinavi e di lingua tedesca.
  Il secondo cluster comprende invece i paesi mediterranei (Italia, Spagna e Portogallo)
che si contraddistinguono per un basso livello di spesa - sia pubblica che privata - in
particolare per quanto attiene l’educazione di terzo livello e per il fatto che la quota di

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popolazione in possesso di un titolo di studio di secondo e terzo livello è inferiore alla
media.
  Il terzo cluster comprende infine i paesi di lingua inglese (Canada, Stati Uniti,
Australia, New Zealand e Inghilterra) ai quali si aggiunge il Giappone. Le
caratteristiche di questo cluster riguardano l’elevato livello di spesa privata associata ad
una bassa quota di finanziamento pubblico dell’educazione. La quota di popolazione in
possesso di un titolo di studi di terzo livello è alta.
   Per quanto riguarda le corrispondenze fra questi regimi educativi e i mondi del
welfare, Busemeyer e Nikolai evidenziano in primo luogo il fatto che i paesi
mediterranei costituiscono un gruppo ben definito corrispondente al regime sud-europeo
di welfare. Infatti la copertura disomogenea, la selettività e il dualismo di questi modelli
di welfare (Ferrera, 1996) si riflette nella presenza di un modello educativo selettivo
considerando il basso livello di spesa e di partecipazione all’higher education.
All’estremo opposto si collocano invece i paesi scandinavi nei quali ad un modello di
welfare socialdemocratico ed universalistico corrisponde un regime educativo basato sul
diritto di accesso ad un’educazione egualitaria riconosciuto a tutti i cittadini. La
corrispondenza fra educazione e welfare è inoltre individuabile considerando i regimi di
welfare conservatori e il sottogruppo nord-europeo che comprende Francia, Belgio,
Olanda e Irlanda ai quali, pur appartenendo ad un altro sottogruppo si aggiunge la
Germania. In primo luogo, i privilegi riconosciuti all’educazione cattolica mostrano una
certa equivalenza con le politiche sociali di matrice cristiano-democratica. In secondo
luogo, la stratificazione occupazionale delle assicurazioni sociali bismarckiane si riflette
nella presenza di un sistema educativo caratterizzato da percorsi differenziati che
conducono all’acquisizione di un determinato status sociale. La dipendenza dal mercato
e la residualità delle politiche sociali che caratterizza i regimi liberali appare infine
coerente con l’enfasi che questi paesi attribuiscono all’educazione come strumento utile
per la protezione dai rischi connessi al mercato del lavoro. Nei paesi anglosassoni sia
l’educazione che le politiche sociali registrano i più alti tassi di spesa privata rilevati
nei paesi OCSE. L’analisi realizzata da Busemeyer e Nikolai evidenzia quindi che,
all’interno dei diversi paesi, i sistemi educativi e di welfare condividono caratteristiche
simili mostrando quindi una certa coerenza. Ciò mina la tesi del trade-off per la quale
potremmo aspettarci che l’enfasi posta sull’uguaglianza delle opportunità garantisca un

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accesso inclusivo ed egualitario all’educazione attraverso un’ingente quota di
investimenti pubblici in questo settore. Ciò non avviene nei paesi liberali nei quali la
spesa pubblica è piuttosto bassa.
  Un’altra modellizzazione che ha tenuto conto delle caratteristiche proprie dei sistemi
di welfare è stata elaborata con specifico riferimento all’higher education da Pechar e
Andres Lesley (2011). L’obiettivo degli autori in questo caso era quello di verificare
l’esistenza del trade-off fra educazione e welfare. Pechar e Andres Lesley evidenziano
in particolare che i paesi che si caratterizzano per la presenza di un welfare liberale
minimizzano lo sforzo di garantire l’equità delle condizioni di vita, ma investono molto
nel capitale umano e registrano elevati tassi di partecipazione all’higher education.
Tuttavia la quota di popolazione che non accede alla formazione terziaria è significativa
e i sistemi di formazione alternativi a quelli universitari sono deboli. Questi due
elementi, unitamente alla residualità delle politiche di protezione sociale, determinano
una situazione in cui le possibilità relative allo status e alla posizione nel mercato del
lavoro di chi non accede alla higher education sono molto più precarie rispetto a quelle
dei medesimi gruppi negli altri regimi di welfare. Ciò rinforza la generale tendenza di
questi paesi a tollerare elevati livelli di ineguaglianza delle condizioni di vita. Nei
regimi liberali, caratterizzati da un basso livello di demercificazione, gli individui sono
chiamati a sostenere autonomamente i costi della propria formazione e, nell’ultimo
ventennio, questo costo è cresciuto molto più rapidamente rispetto al reddito medio
delle famiglie. In sintesi, i regimi liberali offrono significative opportunità a quanti
vogliono conformarsi ai requisiti propri della società della conoscenza ma coloro che
non si conformano pagano costi ingenti.
  I regimi conservatori mirano a garantire l’uguaglianza delle condizioni e offrono
opportunità migliori a quanti non hanno conseguito un titolo di studio di terzo livello. In
generale, l’educazione in questi paesi rappresenta un potente strumento di riproduzione
sociale. In questo caso infatti è spesso dato per scontato che persone in possesso di un
differente background sociale ed educativo intraprendano diverse carriere educative. Al
contrario di quanto avviene nei regimi liberali, il sistema di formazione professionale
offre una buona alternativa alla formazione universitaria. Coloro che seguono percorsi
educativi non universitari hanno infatti maggiori opportunità di formazione rispetto a
quanto avviene nei paesi liberali e questo garantisce un maggior livello di eguaglianza

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sociale.
  Infine, i regimi socialdemocratici mirano a garantire sia l’uguaglianza delle
opportunità che delle condizioni e l’enfasi attribuita al rafforzamento del capitale umano
consente l’espansione dell’higher education senza trascurare le condizioni di coloro che
non vi accedono.
  In sintesi, anche la modellizzazione elaborata da Pechar e Andres Lesley sembra
evidenziare, più che la presenza di trade-off, la coerenza fra sistemi educativi e di
welfare. Questo emerge in particolare considerando i paesi liberali che si caratterizzano
per un elevato livello di ineguaglianza delle condizioni di vita dovuto alla residualità
dell’intervento pubblico sia nel settore educativo che di welfare.
  Un’ulteriore modellizzazione relativa alle competenze è stata elaborata da
Allmendinger e Leibfried (2003). Le variabili utilizzate riguardano, da un lato, il livello
medio delle competenze acquisite - che può essere “alto” o “basso”- e, dall’altro, la
loro differenziazione fra le persone, che è “bassa” nei sistemi educativi egualitari e
“alta” in quelli non-egualitari. Considerando i regimi di welfare e i modelli di
competenze così delineati, Allmendinger e Leibfried sottolineano che i paesi scandinavi
tendono ad essere molto più omogenei nella distribuzione delle competenze rispetto ai
paesi anglosassoni. I paesi conservatori tendono invece ad essere maggiormente
differenziati sia rispetto a quelli scandinavi che a quelli anglosassoni. Considerando
invece le competenze, i paesi anglosassoni mostrano il livello più alto e sono seguiti da
quelli scandinavi e da quelli conservatori che si collocano invece al livello più basso.

  3. Prospettive di ricerca sull’interazione fra educazione e welfare
  Nell’ultimo ventennio la complementarietà fra educazione e welfare ha ricevuto una
crescente attenzione da parte degli analisti e dei decisori politici. In letteratura,
differenti approcci teorici - adottando una prospettiva olistica e/o multidimensionale -
hanno evidenziato di volta in volta singoli elementi di questa interazione. Nelle pagine
che seguono verranno indagati in particolare quattro differenti prospettive: le varietà di
capitalismo, l’investimento sociale, le politiche attive, l’approccio delle capacità.

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3.1 L’approccio delle varietà di capitalismo
  Nell’approccio delle varietà di capitalismo (VcO) la questione della formazione - o
più specificatamente la domanda di formazione dei datori di lavoro, in interazione con
le istituzioni politiche ed economiche - è il fattore che spiega la divergenza dei percorsi
di sviluppo del welfare state e dei regimi di produzione. Questo approccio rende quindi
concreta l’ipotesi secondo cui c’è una complementarietà istituzionale fra la formazione
delle competenze e il welfare state (Busemeyer, Trampusch, 2011).
  L’approccio delle varietà di capitalismo ha favorito lo sviluppo di una modellistica
che ha integrato “regimi di welfare” e “regimi delle competenze”. Questi ultimi sono
concettualizzati come un insieme di istituzioni interconnesse in materia di istruzione e
formazione professionale, relazioni industriali, mercato del lavoro e politiche di welfare
che modellano gli incentivi dei lavoratori e delle imprese ad investire in differenti tipi di
formazione delle competenze e i relativi impatti sui sistemi economici (Busemeyer,
2009).
  In questo quadro si colloca il lavoro di Estevez-Abe, Iversen e Soskice (2001) che,
riferendosi all’insieme delle strategie di mercato, delle traiettorie di acquisizione delle
competenze, delle istituzioni sociali, economiche e politiche che mirano a sostenere i
lavoratori e i datori di lavoro, individuano quattro distinti welfare production regimes.
Questo lavoro si concentra in particolare sugli incentivi e sui disincentivi che spingono
gli individui ad investire nell’acquisizione di competenze specialistiche. L’idea di fondo
è che differenti modelli di welfare influenzano la disponibilità individuale ad investire
in determinati tipi di skills definendo in questo modo il profilo delle competenze di
ciascun sistema economico.
  Estevez-Abe, Iversen e Soskice individuano in particolare tre tipi di skills che si
associano a differenti strategie di produzione. I “firm-specific skills” che sono acquisiti
attraverso la formazione sul lavoro e si caratterizzano per la ridotta portabilità. Questi
skills sono molto preziosi per i datori di lavoro che hanno contribuito alla loro
acquisizione ma non sono spendibili presso altri datori di lavoro. Gli “industry-specific
skills” sono invece acquisiti attraverso l’apprendistato e le scuole di formazione
professionali. Questi skills, specialmente quando sono ufficialmente certificati, sono
riconosciuti da tutti i datori di lavoro di uno specifico settore. I “general skills” sono
invece riconosciuti da tutti i datori di lavoro indipendentemente dal settore.

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Per quanto riguarda le istituzioni di welfare Estevez-Abe, Iversen e Soskice
distinguono fra la “employment protection”, che offre elevati livelli di protezione
dell’occupazione ma una bassa tutela rivolta a coloro che perdono il lavoro nei periodi
di crisi economica e la “unemployment protection” che protegge invece principalmente
dalla perdita del reddito connessa alla disoccupazione e contribuisce a ridurre
l’incertezza salariale nel corso di tutta la carriera lavorativa 3 . Elevati livelli di
employment protection incoraggiano l’investimento in firm-specific skills. Dato che tali
competenze sono prive di valore al di fuori dell’impresa, i lavoratori sono disponibili ad
investirvi solo se hanno garanzia dell’occupazione nel lungo termine e possono quindi
rientrare dal proprio investimento. La sicurezza dell’occupazione deve crescere e/o
l’insicurezza legata alla perdita del lavoro deve essere ridotta. La unemployment
protection garantisce invece il mantenimento di skills elevati incoraggiando gli
individui ad investire in essi anche quando la loro offerta rischia di eccedere sulla
domanda. Inoltre, questo tipo di protezione sociale permette agli individui di rifiutare le
offerte di lavoro estranee al proprio settore di competenza. In assenza di tutele contro la
disoccupazione i lavoratori sarebbero obbligati ad accettare qualsiasi impiego e
conseguentemente fortemente disincentivati ad investire in competenze specifiche. In
generale, se la protezione sociale – sia essa rivolta agli occupati che ai disoccupati - è
bassa l’investimento in skills generici rappresenta la migliore garanzia contro i rischi
connessi al mercato. Tali competenze possono essere valorizzate in differenti settori.
Solo nel caso in cui le imprese ricorrono a skill generalisti, bassi livelli di protezione
sociale possono garantire la competitività delle imprese.
    Nel 2008, Iversen e Stephens muovendo da una sintesi fra la “power resourch theory”
(PRT) – secondo cui la generosità e la struttura dei sistemi di welfare è funzione della
forza storica dei partiti di sinistra e delle alleanze con la classe media – e la “welfare
production regime theory” (WPR) ritengono che i diversi sistemi di welfare sono
funzione di differenti modelli di produzione capitalistica. Iversen e Stephens si
concentrano in particolare sulle coalizioni politiche e sulla loro influenza
sull’investimento nel capitale umano ed individuano tre differenti mondi di formazione
del capitale umano che corrispondono ai tre mondi del welfare.

3
  Estevez-Abe, Iversen e Soskice individuano anche la “wage protection” che riguarda i meccanismi
istituzionali che mirano a proteggere il reddito dalle fluttuazioni del mercato. Questo tipo di protezione
sociale è tuttavia trattata separatamente rispetto alle altre.

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Il primo modello riguarda i paesi caratterizzati da economie di mercato liberali e
sistemi elettorali maggioritari. In questi paesi i governi di centro o di centro-destra
investono relativamente poche risorse per l’educazione primaria e prescolastica. La
maggior parte della spesa pubblica è diretta verso programmi educativi che interessano
perlopiù la classe media, mentre la classe medio-alta investe prevalentemente
nell’educazione privata. Poiché le assicurazioni sociali sono scarse e la redistribuzione è
bassa la classe media e quella medio alta tendono a privilegiare un’educazione
“generalista” che garantisce una maggiore mobilità orizzontale all’interno dei sistemi
economici dato che le imprese richiedono questo tipo di competenze. Il mercato del
lavoro è estremamente fluido e le imprese che hanno una scarsa produttività possono
trarre vantaggio dall’erogazione di bassi salari e dalla possibilità di licenziare i
lavoratori nei periodi di crisi. Il sistema di formazione professionale è debole e i gruppi
sociali maggiormente svantaggiati hanno poche opportunità di acquisire competenze
professionali di valore. Il sistema educativo è quindi fortemente biforcato e si riflette su
una struttura salariale estremamente diseguale.
  Il secondo mondo della formazione del capitale umano attiene invece ai paesi
caratterizzati da un’economia di mercato coordinata, da istituzioni elettorali
proporzionali e dall’assenza di forti partiti cristiano-democratici. In questi paesi i
governi di centro sinistra favoriscono lo sviluppo di un sistema fortemente
redistributivo, sostengono rilevanti investimenti nell’educazione primaria e secondaria,
nelle politiche attive del lavoro, nell’educazione prescolastica e nei servizi di assistenza
pubblica. La combinazione fra un elevato livello di spesa pubblica per l’educazione e un
ben sviluppato sistema di formazione professionale favorisce la creazione di
competenze molto più specialistiche rispetto a quelle che caratterizzano le economie di
mercato liberali. In questo caso, i lavoratori più deboli hanno competenze maggiori
rispetto a quelli dei paesi liberali e la combinazione di elevate competenze tecniche e di
una solida formazione di base permette alle imprese di avere successo nei mercati
internazionali di nicchia.
  Infine il terzo mondo della formazione del capitale umano riguarda i paesi
caratterizzati da un’economia di mercato coordinata, da istituzioni elettorali
proporzionali e dalla presenza di forti partiti cristiano-democratici. In questi paesi le
coalizioni di governo sostengono lo sviluppo delle assicurazioni sociali e di altre forme

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di tutela del lavoro. L’elevato livello di protezione sociale facilita gli investimenti delle
imprese in competenze specifiche. Ad eccezione della Francia, tutti questi paesi sono
poi caratterizzati dalla presenza di ben sviluppati sistemi di formazione professionale e
dalla contrattazione collettiva. In generale la presenza di partiti cristiano democratici
favorisce i lavoratori qualificati e in gran parte ignora quelli poco o semi qualificati. Gli
investimenti nell’educazione prescolare e di primo livello rivolta a soggetti svantaggiati
sono bassi, se comparati al precedente gruppo di paesi, tuttavia in questo caso lo
sviluppo della formazione professionale offre un’opportunità di acquisire competenze
che è assente nei paesi liberali.
  Un’ulteriore analisi dei regimi delle competenze propri delle economie di mercato
coordinate è stata sviluppata da Busemeyer (2009) secondo il quale questi regimi non
possono essere indagati esclusivamente ricorrendo alla dicotomia            fra competenze
generaliste e specialistiche. Busemeyer propone di considerare invece due dimensioni
che riguardano il grado di coinvolgimento delle aziende nella formazione delle
competenze e la specificità professionale del sistema di istruzione. Quest’ultima è
analizzata considerando il livello di autorevolezza delle certificazioni professionali.
Dall’incrocio fra queste due variabili emergono quattro distinti modelli che evidenziano
la presenza di tre differenti regimi delle competenze propri delle economie di mercato
coordinate.
  Tratto comune dei regimi di competenze delle economie di mercato coordinate è la
maggiore enfasi attribuita alla formazione professionale rispetto a quanto avviene nelle
economie liberali. Concentrandosi sui sistemi a economia coordinata, Busemeyer
approfondisce in particolare il caso del Giappone, della Svezia e della Germania.
  Il Giappone si caratterizza per la presenza di un “segmentalist skill regime” in cui la
formazione professionale vede protagoniste le aziende. Le competenze in questo caso
sono ampie, ma la loro reale portabilità è fortemente contrastata dalle istituzioni del
mercato del lavoro. Alla Svezia attiene invece un “integrationist skill regime” che –
contrariamente al Giappone - pone l’enfasi sul sistema scolastico. La formazione
professionale è infatti integrata in un modello comprensivo di scuola secondaria
superiore. Infine, il caso tedesco è definito come “differentiated skill regime”. La
differenziazione fra formazione accademica e professionale caratterizza tutti i livelli di
educazione, le aziende tendono a preservare la loro autonomia rispetto alle autorità

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pubbliche, ma le competenze professionali sono certificate a livello nazionale e questo
contribuisce a garantire una maggiore mobilità rispetto al Giappone.
  L’approccio delle varietà di capitalismo ha certamente il merito di rendere evidente la
complementarietà fra educazione e welfare, ma presenta tuttavia dei limiti. Il VoC dice
poco rispetto ai cambiamenti che i sistemi di protezione sociale dovrebbero
concretamente intraprendere ed è quindi lontano da una logica normativa. Per il suo
carattere olistico questo approccio presuppone infatti la possibilità di equilibri distinti e
individua la coerenza interna dei differenti sistemi economici risultando per questo
anche fortemente path dependet. I cambiamenti sono sempre considerati interni alla
logica di funzionamento dei diversi sistemi e, conseguentemente, l’analisi delle
trasformazioni che rompono con tale logica trova poco spazio.

  3.2 L’approccio dell’investimento sociale
  La prospettiva dell’investimento sociale è emersa gradualmente nel corso degli anni
novanta con il duplice obiettivo di rispondere ai nuovi rischi sociali e di garantire la
sostenibilità politica e finanziaria del welfare, riconciliando gli obiettivi economici e
sociali (Vandenbroucke, Hemerijck, Palier; 2011). Questa prospettiva poggia su tre
pilastri principali che riguardano: 1) la convinzione che l’apprendimento rappresenti la
base dell’economia e della società del futuro. 2) L’orientamento verso il futuro piuttosto
che verso il presente, che porta a focalizzarsi sulla necessità di investire sulle giovani
generazioni e in particolare sui bambini. 3) L’idea che il successo dei singoli individui è
un beneficio per la comunità nel suo insieme sia nell’immediato che nel futuro (Jenson,
2010).
  L’investimento sociale sostiene la necessità di rafforzare gli interventi pubblici nel
campo della salute, dell’educazione e della sicurezza sociale. L’enfasi è posta
sull’attivazione e la produttività dei cittadini, le politiche sociali sono quindi politiche
attive che si focalizzano sull’occupabilità degli individui (Abrahamson, 2009; 2010). In
particolare, l’attivazione mira a rafforzare le competenze di chi è escluso dal mercato
del lavoro attraverso l’erogazione di servizi professionali ed educativi. In generale,
l’investimento sociale è orientato verso la prevenzione piuttosto che verso la
compensazione delle conseguenze connesse alla perdita del reddito. Nella strategia
dell’investimento sociale i sistemi di protezione dovrebbero investire di più sui giovani,

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anche a scapito degli anziani, e in particolare due tipi di interventi appaiono
particolarmente rilevanti. Da un lato è necessario assicurare a tutte le famiglie un
reddito di base in modo da ridurre la povertà, dall’altro bisogna garantire servizi
educativi di qualità per i bambini, al fine di prevenire l’esclusione sociale. Lo sviluppo
di servizi sociali rivolti all’infanzia favorirebbe inoltre la crescita dei tassi di
occupazione femminile (Palier, 2006), con conseguenze positive non solo sulla
riduzione del rischio di povertà infantile ma anche sullo sviluppo economico (Ferrera,
2008).
  L’approccio dell’investimento sociale è stato interpretato come la terza fase
dell’evoluzione del welfare (Abrahamson, 2009; 2010; Palier, 2006), che segue
all’epoca del trentennio d’oro e quella del ridimensionamento. Quest’ultima fase è stata
caratterizzata dalla diffusione di politiche neoliberiste sostenute da organizzazioni
internazionali come l’OCSE (Abrahamson, 2009; 2010), ma i loro limiti economici,
sociali e politici hanno ora aperto la strada all’affermazione della prospettiva
dell’investimento sociale (Jenson, 2010).
  Questa prospettiva offre anche una nuova soluzione al problema di garantire il
bilanciamento fra crescita economica e giustizia sociale ed è sostenuta e promossa da
organizzazioni internazionali come l’Unione Europea e l’OCSE che stanno svolgendo
un ruolo di primo piano nel favorire l’inserimento delle questioni dell’investimento -
nella ricerca, nello sviluppo e nel rafforzamento del capitale umano - nel dibattito di
policy (Taylor-Gooby, 2008). L’affermarsi di un modello economico sempre più basato
sulla conoscenza necessita infatti dello sviluppo di un nuovo modello di welfare. La
principale contraddizione dell’economia della conoscenza è data dal fatto che essa
prospera sulla coesione sociale mentre i meccanismi che operano al suo interno tendono
a minarla. Questo è vero ad esempio se si considera che i lavoratori low-skill possono
incontrare molte difficoltà ad accedere al mercato del lavoro. L’investimento nella
formazione diventa quindi cruciale per la sostenibilità dell’economia della conoscenza.
In tale quadro la distribuzione egualitaria dei redditi potrebbe allora non essere il
migliore indicatore per valutare l’eguaglianza sociale che dovrebbe essere invece
misurata considerando anche le opportunità di accesso all’apprendimento (Lundvall,
Lorenz; 2009)

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La prospettiva teorica che più si avvicina a quanto promosso dall’OCSE a partire
dalla metà degli anni novanta è quella di Esping-Andersen (2002b), per il quale una
strategia di investimento sociale fortemente orientata verso i bambini è in grado di
garantire l’inclusione sociale e lo sviluppo di un’economia della conoscenza
competitiva. La nozione di investimento sociale di Esping-Andersen si differenzia
rispetto a quella elaborata da Anthony Giddens (1998) il quale ha sostenuto la necessità
di costruire uno “Stato dell’investimento sociale” basato appunto sull’investimento in
capitale umano e sociale. La formulazione di Giddens è molto vicina al New Labour di
Tony Blair e rispetto a quella di Esping-Andersen appare molto più limitata e
maggiormente orientata dal lato dell’offerta (Jenson, 2010).
  Le tre prospettive di welfare – keynesiana, neo-liberale e dell’investimento sociale –
seguendo Jenson (2010) riflettono concezioni differenti rispetto agli obiettivi sociali,
alla visione dell’uguaglianza e alla copertura dei rischi. Se nella prospettiva keynesiana
gli obiettivi sociali riguardano la fornitura di protezione sociale, in quella neo-liberale
prevale la volontà di promuovere l’autonomia per evitare la dipendenza dalle istituzioni
pubbliche, mentre nel caso dell’investimento sociale l’obiettivo principale è quello di
investire nella prevenzione e nell’aumento del capitale umano e sociale al fine di
garantire la crescita. Per quanto riguarda invece la concezione dell’uguaglianza, la
prospettiva keynesiana la interpreta considerando condizioni e opportunità, quella neo-
liberale assume che l’ineguaglianza è intrinseca al mercato, mentre l’investimento
sociale si basa sull’uguaglianza delle opportunità. Infine, considerando i rischi coperti la
prospettiva keynesiana si pone l’obiettivo di proteggere dalla disoccupazione, dalla
disabilità, dalla malattia e dalla perdita del reddito dovuta al pensionamento o
all’assenza del “male breadwinner”. La prospettiva neo-liberale mira invece a
proteggere dai rischi connessi alla disabilità, alla malattia, all’invecchiamento e alla
minaccia del crimine e del disordine sociale. L’investimento sociale offre invece
protezione contro il lavoro a basso reddito o per altri motivi insostenibile, mira a
bilanciare l’attività lavorativa con quella di cura e a far fronte ai cambiamenti
demografici.
  I regimi liberali e quelli socialdemocratici mostrano una maggiore capacità di
adattamento alla prospettiva dell’investimento sociale rispetto a quelli continentali
(Jenson, 2010). Probabilmente ciò è dovuto al fatto che l’investimento sociale si

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configura come un nuovo modello ibrido che combina tendenze liberali/neo-liberali e
socialdemocratiche (Lister, 2004). Tuttavia se assumiamo che la prospettiva
dell’investimento emerge anche a seguito del tentativo dei sistemi di welfare di
rispondere ai nuovi rischi sociali, la loro capacità di adattamento a questa prospettiva è
anche analizzabile considerando la “time issue” (Bonoli 2007; Fargion 2000). I paesi
nord-europei hanno sperimentato i cambiamenti legati all’avvento della società post-
industriale prima degli altri paesi. Nel Nord-Europa la domanda di protezione dai nuovi
rischi è stata fin dagli anni settanta in competizione con la domanda di protezione dai
rischi connessi alla società industriale e per questo i welfare nord-europei sono oggi
maggiormente in grado di rispondere - attraverso l’investimento sociale - ai nuovi
bisogni rispetto a quelli continentali e del sud.
  Grazie all’adozione di una prospettiva multidimensionale al problema dell’inclusione
sociale, la complementarietà fra educazione e welfare gioca un ruolo di primo piano
nell’approccio dell’investimento sociale. Questo è vero in particolare quando
l’investimento sociale si allontana dalla prospettiva neo-liberale e si avvicina invece alla
tradizione   socialdemocratica.    Inoltre,   ponendo   l’enfasi   sull’uguaglianza   delle
opportunità, l’investimento sociale getta le basi per il superamento della frattura fra
educazione e welfare. Quest’ultimi sono infatti concettualizzati come elementi
costitutivi di una strategia univoca di protezione sociale. Il principale limite di questo
approccio risiede tuttavia nel suo carattere fortemente normativo. L’investimento
sociale sembra infatti rappresentare una fase di sviluppo auspicabile piuttosto che in
essere.
  Cambiamenti volti a promuovere un welfare più attivo sono riscontrabili in Olanda,
Germania, Francia, Inghilterra, Irlanda e Spagna. I paesi sud-europei – Italia, Grecia e
Portogallo – insieme ai paesi dell’Europa dell’est sembrano invece lontani dall’adottare
la prospettiva dell’investimento sociale (Vandenbroucke, Hemerijck, Palier; 2011). I
paesi nord-europei mostrano invece una maggiore capacità di adattamento a questa
prospettiva. Tuttavia l’investimento sociale in questo caso non segna l’avvento di una
nuova fase storica dato che l’enfasi sul capitale umano e sulle politiche per la famiglia
ha tradizionalmente caratterizzato questi regimi di welfare.

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3.3 Le politiche attive
  Le politiche attive del lavoro hanno differenti origini e perseguono diversi scopi. In
Svezia queste politiche sono state introdotte nel corso degli anni cinquanta, in un
contesto di espansione economica, con l’obiettivo di favorire l’incontro fra domanda e
offerta di lavoro, attraverso il finanziamento di programmi di formazione professionale.
Una variante completamente diversa delle politiche attive del lavoro si è sviluppata
invece, a partire dagli anni ottanta, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Questi paesi hanno
infatti adottato strategie di “welfare to work” o “workfare” che combinano una serie di
incentivi, positivi e negativi, volti a favorire l’accesso al mercato del lavoro. Politiche di
workfare sono state adottate da governi conservatori ed hanno assunto un carattere
punitivo e di controllo sociale tanto da essere spesso interpretate come uno dei
principali segni dell’attacco allo Stato sociale (Bonoli, 2009).
  Il divario fra l’esperienza anglosassone e quella nord-europea evidenzia la presenza di
due orientamenti profondamente differenti alle politiche attive del lavoro. Da un lato
troviamo infatti politiche che mirano ad accrescere il capitale umano dei destinatari,
dall’altro politiche che perseguono l’obiettivo di favorire la transizione delle persone
dall’assistenza sociale all’occupazione.
  In proposito, Nicaise (2002) ha ad esempio evidenziato come il welfare attivo, per
come è stato realizzato nei diversi paesi, può essere posizionato lungo un asse i cui
estremi sono rappresentati dal “workfare” e da “l’approccio dell’inclusione sociale”.
L’approccio del workfare è basato sulla convinzione che gli interventi di sostegno del
reddito contribuiscono a rafforzare la dipendenza dei beneficiari dalle istituzioni. In
particolare, l’idea di fondo è che le persone tendono ad adattare il loro comportamento
al fine di ottenere o conservare i benefici di welfare. L’obiettivo del workfare è quindi
quello di combattere la “cultura della dipendenza” (Nicaise, 1998), attraverso la
restrizione del diritto di accesso alle prestazioni. Nella sua forma pura il workfare
consiste nell’obbligo di svolgere un lavoro per poter beneficiare delle prestazioni di
welfare. Altre varianti di questo modello pongono invece l’enfasi sugli incentivi
piuttosto che sugli obblighi.
   Al contrario, l’approccio dell’inclusione sociale si basa sull’idea che il sostegno
finanziario in sé non sia sufficiente a combattere l’esclusione sociale, le cui cause non
sono individuate nella diffusione di una cultura della dipendenza ma piuttosto nei

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meccanismi di esclusione che influenzano differenti aspetti della vita degli individui. La
protezione sociale in questo caso non deve assicurare solo il sostegno del reddito, ma
deve essere finalizzata anche a garantire il diritto all’integrazione sociale degli
individui. Nella sua versione pura quest’approccio mira a garantire ad ogni individuo il
diritto ad una serie di servizi volti a favorire l’inclusione.
  A partire dall’analisi dell’esperienza danese e confrontandola con quella inglese e
americana Torfing (1999) distingue invece fra l’”offensive workfare” e il “defensive
workfare”. Il governo danese, ispirandosi all’esperienza della Svezia, ha separato il
workfare dai principi neo-liberali propri della variante inglese e americana. Come
risultato il workfare danese si differenzia rispetto a quello anglosassone perché: 1) mira
all’attivazione piuttosto che alla riduzione dei benefici, 2) si pone l’obiettivo di
rafforzare le competenze professionali dei destinatari piuttosto che accrescere la loro
mobilità e la loro capacità di inserirsi nel mercato del lavoro, 3) punta sull’educazione e
sul training piuttosto che sullo svolgimento di un lavoro come condizione necessaria per
l’accesso ai benefici, 4) è basato sull’empowerment dei cittadini piuttosto che sul
controllo e la punizione, 5) si fonda su programmi inclusivi piuttosto che su interventi
specifici rivolti esclusivamente ai disoccupati.
  La dicotomia fra questi modelli di politiche attive è utile per individuare quegli
interventi che possono trovare spazio all’interno dell’approccio dell’investimento
sociale. Chiaramente solo le politiche di attivazione finalizzate all’accrescimento del
capitale umano possono considerarsi parte di questo approccio, tuttavia – come
evidenziato da Bonoli (2009) - la classificazione delle politiche attive porta con sé tre
differenti ordini di problemi. In primo luogo, è necessario considerare che in molti casi
queste politiche si basano sia sul rafforzamento del capitale umano che sulla presenza di
incentivi volti ad incoraggiare l’inserimento nel mercato del lavoro. In secondo luogo,
la dicotomia dell’attivazione è utile per individuare la logica propria delle diverse
strategie, ma se si considerano i singoli programmi non sempre è possibile distinguere
fra quelli orientati al rafforzamento del capitale umano e quelli basati sugli incentivi.
Infine, è utile considerare che le politiche attive non sempre raggiungono gli obiettivi
prefissati e che questo può rendere complesso distinguere fra gli interventi che
investendo nel capitale umano mostrano interesse per i beneficiari e quelli che
perseguono esclusivamente l’obiettivo di contenere i costi, favorendo l’occupazione

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