Verso la montagna sacra - Alberto Paleari - In cammino da Orta al Sacro Monte di Varallo - MonteRosa Edizioni
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Indice Racconti Una sera al Sacro Monte di Orta pag. 6 Mattino del primo giorno: Orta, Sacro Monte, S. Giulio pag. 11 Pomeriggio del primo giorno: la Riviera d’Orta pag. 32 Secondo giorno: da Auzate a Cellio pag. 43 Il Monte Fenera pag. 53 Il parroco di Cellio pag. 60 Mattino del terzo giorno: da Cellio alle porte di Varallo pag. 68 Pomeriggio del terzo giorno: Varallo e il Sacro Monte pag. 72 La nube pag. 106 Quarto giorno: da Varallo a Orta per il passo della Colma pag. 110 Itinerari Itinerario del primo giorno: da Orta ad Auzate pag. 124 Itinerario del secondo giorno: da Auzate a Cellio pag. 128 Itinerario del terzo giorno: da Cellio a Varallo pag. 132 Itinerario del quarto giorno: dal Sacro Monte di Varallo a Orta pag. 136 Itinerario del Monte Fenera pag. 137 Cartine Cartina generale pag. 122 Cartina primo giorno pag. 125 Cartina secondo giorno pag. 130 Cartina terzo e quarto giorno pag. 134 Bibliografia pag. 140 Indice delle fotografie pag. 142
Sacro Monte Varallo Passo della Colma Civiasco A Cilimo Alpe Vella Roccapietra M. Briasco m 1183 Cavaglia Sella Crosiggia Castagneia Breia Cadarafagno Quarona Cellio Agua Arva Cereto Orcarale Valduggia Cantone Arlezze Borgosesia Rasco Ca M. Fenera m 899 Colma Fenera Ara 122.
. Armeno Arola Miasino Orta Pella Legro Colazza Boleto Isola di San Giulio Ameno Vacciago Lortallo Corconio Monte Mesma Bolzano Pogno Gozzano P.sso della Cremosina Auzate Soriso Legenda Gargallo Percorso Soliva Navigazione Autostrada o Strada regionale astagnola Strada provinciale Strada secondaria 0 1 2 4 Km Ferrovie Borgomanero 123.
Mattino del primo giorno: Orta, Sacro Monte, San Giulio Partiti di buon mattino dal borgo di Sannazzaro sprofondato nelle risaie della Lomellina, a Gozzano i coniugi Gibella scesero dal treno, a Buccione s’imbarcarono sul battello per Orta, dove arrivarono che già annottava. Livia ed io, alpinisti ciabattoni come i due bottegai della bassa, giungemmo invece a Orta in macchina, che lasciammo nella frazione di Legro, presso la stazione ferroviaria e a meno di un chilometro dal centro. Poiché abitiamo a venti minuti da Legro non ci fu nemmeno bisogno di alzarsi presto per esser lì già alle sette. Legro ha una caratteristica, anzi, a dir la verità ne ha molte, ma la prima che si nota giungen- dovi è quella di essere diviso a metà dalla ferrovia Novara-Domodossola lungo la quale ho abitato qualche anno anch’io, ma non a Legro. Erano i tempi delle littorine a gasolio, treni passeggeri che di notte non viaggiavano: il primo era alle cinque e mezza ed è forse per que- sto che sono ancora mattiniero. Oggi la linea è stata elettrificata ed è percorsa soprattutto da convogli intermodali, cioè da quei treni carichi di TIR che viaggiano a tutte le ore, soprattutto di notte, ma è vero che ci si abitua a tutto e poi con la crisi il traffico è diminuito. Delle altre caratteristiche parlerò poi perché da Legro ci dovremo ripassare, infatti il nostro progetto, dopo aver visitato Orta e l’Isola di San Giulio, è di percorrere la riviera di Orta fino a Gozzano e da qui inoltrarci tra le colline di Auzate, Soriso, Gargallo, dove pensiamo di passare la prima notte. Il secondo giorno vorremmo entrare in quell’hic sunt leones che è il Parco Na- turale del Fenera, scendere a Valduggia, dove nacque Gaudenzio Ferrari, e pernottare a Cellio, nella cui chiesa c’è il quadro più sconvolgente di Tanzio da Varallo. La terza tappa prevede la traversata del Monte Briasco (m 1183) cima più alta del nostro cammino, base di Cino Mo- scatelli e della sua brigata partigiana, da qui scendere a Civiasco e raggiungere Varallo e il suo Sacro Monte lungo la strada della Colma. L’ultimo giorno torneremo a Orta per il passo della Colma, attraversando il lago col battello a Pella. È vero che i pellegrini sono sempre andati da Orta a Varallo, e viceversa, in giornata, ma noi non siamo mica pellegrini, non dobbiamo far penitenza o guadagnare indulgenze, il nostro cammino ha l’arbitrarietà e l’inutilità, anche se non la difficoltà, di un’impresa alpinistica, il vero motivo del nostro viaggio chissà qual’è, forse solo che ci piace camminare, oppure che voglia- mo raccontarlo. Le cose succedono perché se ne possa parlare. Per scendere a Orta seguiamo la via della Prisciola, un viottolo tra muraglioni di grandi parchi. Mi piace credere che Prisciola stia per Parusciola, che nel nostro dialetto vuol dire cinciallegra, anche perché una volta qui c’erano dei roccoli per l’uccellagione. Ho provato a chiedere in giro, nessuno ha saputo dirmi se è proprio così ma fino a prova contraria prendiamola per buona. L’incrocio con la Strada Provinciale del Lago d’Orta merita una citazione di Mario Bonfantini, scrittore novarese, saggista, critico letterario e traduttore di Stendhal e di Baudelaire; amico di Mario Soldati, partecipò alla resistenza e fu membro della Giunta della Repubblica dell’Ossola: si arriva in breve a un crocicchio, segnalato dalle bizzarre linee della ex villa Crespi… essa sorge in un luogo chiamato a lungo «il casino», per memoria del piccolo precedente edificio dove so- stavano le vetture postali, pel cambio dei cavalli, fino al 1884, quando arrivò anche qui, con la stazione di Orta-Miasino, la ferrovia. Questo quadrivio, o crociera; è infatti «la chiave di Orta», situata com’è fra la penisola dove si trova la capitale del lago e il suo retroterra, vasta e movi- mentata pendice folta di piante da sembrar tutta un bosco: vista tanto più lieta quanto purtroppo rara nelle nostre Prealpi. 12.
Al contrario del Bonfantini, che per entrare a Orta, dopo il minareto prende la via di sinistra, noi scegliamo quella che scende al lago sulla destra (la passeggiata), incontrandovi, come lui quasi cinquant’anni fa, palazzi aggrappati direttamente alla roccia, bambù che assumono proporzioni tropicali e fiori che fiammeggiano, pendendo sulla strada come cortine, ville dal solido disegno, costruite nella seconda metà dell’Ottocento, animate da terrazze e da qualche capriccioso ornamento; e i loro parchi si fondono quasi in un unico bosco: alte conifere ammor- bidite dalle magnolie e rallegrate da camelie, azalee, rododendri nelle varie gradazioni del rosso, fra cui spiccano i folti mazzi celesti delle ortensie, che sono il vero fiore dell’Orta e forse in nessun altro luogo danno così maestose bordure. Oltrepassata villa Curioni-Mazzetti, inglobata nella quale dovrebbe esserci la grotta dell’Or- chera, appare l’Isola di San Giulio, grande, vicinissima, da distinguere le piante degli stretti giar- dini che la circondano, ma sempre con quella paradossale leggerezza, quella maestosa dolcezza d’una grande nave. Ci sediamo sulle panchine della riva a guardarla, un’anatra entra in acqua per il bagno mat- tutino seguita dalla sua nidiata, tra noi e l’isola passano avanti e indietro sulle loro barchette i pescatori con la tirlindana. 13.
Pomeriggio del primo giorno: la Riviera d’Orta Subito dobbiamo fare una scelta: per risalire la Riviera passiamo dalla continuazione della Pri- sciola, e quindi da Corconio, o da Vacciago? Sia Livia che io abbiamo fatto entrambi i percorsi e il dubbio non è quale seguire ma quale consigliare. Corconio ha due pregi: il primo è che tra il 1934 e il 1936 vi abitò Mario Soldati (per sfuggire a storte vicende sentimentali) e vi scrisse America primo amore. Con Soldati c’era anche Mario Bonfantini. Partiti in bicicletta da Novara per fare senza dubbio e per sempre, il viaggio più importante della loro vita, attraversarono il Vergante e l’alta valle dell’Agogna da cui cominciarono a scendere verso il lago. E qui giunti, scrive Soldati, guardavamo estasiati, ascoltavamo il silenzio, senza sapere perché trattenevamo il fiato. E in quell’aria, in quel silenzio che era lo stesso che di solito gli uccelli con i loro versi non turbano, non interrompono ma quasi sottolineano e corteggiano, ecco voci fem- minili, voci fresche, tranquille nell’aria tranquilla, e così vicine che istintivamente, alzandoci con la punta di un piede sulla pedivella, cercammo di vedere le ragazze. Inutilmente. Non abbiamo visto nessuno: era un orto, un campicello, qualche albero di frutta. E le voci continuavano, sparse, vaghe, allegre, ridenti, come se fosse soltanto l’aria, una leggera brezza, a allontanarle o a avvici- narle. Mario e io non ci siamo detti niente, allora. Ma il cuore ci batteva a tutti e due. Ce lo siamo detti molto tempo dopo, quando tutto era già un ricordo. Se fosse solo per questo, di un ricordo di un altro, di un ricordo di un ricordo, Corconio sa- rebbe importante solo per me e per quelli che come me amano particolarmente Mario Soldati, e andarci sarebbe solo un pellegrinaggio letterario, invece Corconio è ancora oggi un posto bello e tranquillo, poco toccato dalla oscenità moderna, e in più: in più c’è il piccolo nucleo settecentesco composto dalla villa Bonola e dalla chiesa di Santo Stefano che, come scrive il Bonfantini: formano in breve spazio un complesso che si direbbe destinato ad esprimere nel modo più compiuto il vero stile dell’Orta. Ecco dunque il secondo pregio, il secondo motivo per passare da Corconio; anche senza sa- pere nulla di Soldati, di Bonfantini e neppure di Giorgio Bonola, il più importante artista di una ricca famiglia locale che espresse nei secoli pittori, mercanti d’arte, commercianti, uomini di cultura, prelati, vissuti a Milano e in altri luoghi d’Italia, ma che sempre rimasero legati alla loro Riviera, sempre tornarono a respirarne l’aria: arrivare qui, sedersi sul parapetto della piccola chiesa, godere anche noi, magari solo per pochi minuti, di quell’aria, di quel silenzio, di quella pace, di tutta quella bellezza. Invece Livia e io prendemmo la via di Vacciago, cioè la preferimmo, o se si vuole, è quella che consigliamo. Non so perché, credo per il timore che l’oggetto amato non sia all’altezza delle aspettative: immaginate di tornare a casa da un paese lontano con l’amore conosciuto laggiù; della vostra patria le avete raccontato meraviglie che solo voi conoscete e apprezzate, e ora l’aereo sta per atterrare… Livia invece so come la pensa: Corconio è un gioiello ma la strada per arrivarci è a volte mo- lesta per alcune villette di cattivo gusto, per un certo disordine suburbano, per un cantiere delimitato dalla solita rete di plastica arancione. Insomma, alla fine prendemmo per Vacciago. La stradina è una galleria ombreggiata dai castagni, un po’ sterrata, un po’ selciata, un po’ asfaltata, che sale ripidissima a tornanti stretti: ricordo durante una perlustrazione in bicicletta che dal gran frenare in discesa mi facevano male le mani, due ragazzi neri, giovanissimi, sa- livano scherzando tra loro, in maglietta e pantaloncini da calciatore, ai piedi però avevano le infradito. Quasi li prendo sotto e loro sono saltati uno di qua e uno di là, ridendo. 32.
Pomeriggio del terzo giorno: Varallo e il Sacro Monte La diligenza ci scaricò a poche decine di metri dall’entrata della Pinacoteca Civica e da Santa Maria delle Grazie, davanti alla sede dell’ASL dov’ero già stato a far vaccinare mia figlia. Di solito Valentina alla sola vista della siringa sveniva, quella volta mi ricordai di dirlo all’infer- miera che mi propose di sdraiarla sul lettino, ma Valentina disse: “vedrai papà, ormai sono grande, non svengo”. Invece crollò a terra mentre ancora l’infermiera stava prelevando il vaccino dalla provetta. Poi non andammo a vedere il tramezzo di Gaudenzio in Santa Maria delle Grazie, non per lo svenimento, ché da quello Valentina si riprese subito, ma perché allora il tramezzo non sapevo neppure che esistesse, e di Gaudenzio Ferrari sapevo a malapena che era un pittore. Tutto il mio amore per gli artisti valsesiani è nato solo un paio di anni fa, quando mi imbattei in due pale d’altare di Tanzio da Varallo, il San Carlo di Domodossola e la Visitazione di Vagna. Da allora ho passato due anni a pensare sempre agli artisti valsesiani, mi sono documentato, ho letto, studiato, ho fatto centinaia di chilometri per vedere le loro opere sparse in mezza Italia, ho scritto un romanzo su Tanzio, ma sono sicuro che di arte non capirò mai niente, mi mancano i fondamentali. Però l’arte mi piace, mi piace sempre più, soprattutto la pittura lombarda tra la fine del Quat- trocento e l’inizio del Cinquecento. Non so perché, credo sia come la salvezza per i protestanti: l’amore per l’arte proviene da Dio, non dalle opere o dalle preghiere; è una grazia che ti capita tra capo e collo, se ce l’hai te la tieni, se non ce l’hai però non ti devi preoccupare, il mondo è bello lo stesso. Livia e io andammo subito a visitare la pinacoteca perché lei non c’era mai stata ed erano due anni che le facevo una testa così, soprattutto sui quadri di Tanzio, ma anche per chiedere se era possibile fare qui la presentazione ufficiale del mio romanzo intitolato: L’angelo che scese a piedi dal Monte Rosa. Lasciati gli zaini in deposito nella biglietteria ci affidammo per la visita a una studentessa delle superiori; questa ragazza proveniva dalla scuola alberghiera di Varallo, era competente, informata, spigliata e simpatica, ma anche le studentesse che mi avevano accompagnato le altre volte erano brave. È incredibile che ci siano delle vere e proprie professionalità affidate al volontariato, e che sia professionalità posso affermarlo con certezza: in meno di un anno ho visitato la pinacoteca tre volte, la conosco quindi bene, e sono sempre venuto preparato da letture non superficiali, eppure queste ragazze di sedici, diciassette anni, hanno sempre saputo dirmi cose che non conoscevo, ma non solo, la mia ultima guida, quando si accorse dalle domande e dai miei commenti che la sapevo lunga, ha continuato lo stesso, quadro dopo quadro, a fare la sua lezione, con l’atteggiamento di una persona conscia di esser lì a compiere un lavoro e di do- verlo comunque compiere meglio che può. Ma soprattutto questa ragazza mi incantò quando le chiesi quale fosse la sua preferita tra le tele di Tanzio della pinacoteca, rispose che era il San Francesco in preghiera sulla Verna: un piccolo quadro raffinatissimo, quasi notturno, con un paesaggio montuoso azzurrino sullo sfondo. Non me lo sarei aspettato da una adolescente, con i due David di Tanzio qui esposti, uno più bello dell’altro, da innamorarsene subito, spero che finita la scuola alberghiera non smetta di studiare ma si iscriva a lettere per diventare una storica d’arte. Il percorso segue un ordine cronologico: si comincia dalle statue lignee di scultori walser del quattrocento provenienti da Alagna e dalle chiese delle valli limitrofe che, nella loro arcaicità, 77.
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Dopo esserci riposati un’oretta, lavati e cambiati, uscimmo nell’aria ancora tiepida e appena mossa dalla brezza del tardo pomeriggio per visitare la meta del nostro viaggio. Superato l’arco della grande porta entrammo nella Nuova Gerusalemme. Nella seconda metà del Quattrocento, caduta Costantinopoli e l’Impero Romano d’Oriente per mano dei turchi, anche Gerusalemme e i luoghi santi erano diventati di difficile accesso per i pellegrini che desideravano visitarli. Nel 1478 fra’ Bernardino Caimi, vicario dell’ordine dei frati minori del Comune di Milano, essendo appena morto Giacomo d’Alessandria, guardiano del Monte Sion, fu inviato in Terra Santa dal suo ordine in qualità di commissario incaricato delle elezioni del nuovo guardiano. Durante il viaggio avventuroso e la permanenza in Palestina il Caimi constatò la crescente difficoltà di recarsi in quei luoghi.Tornato in patria, concepì l’idea di riprodurli all’interno dei confini del ducato, in modo che tutti avessero l’opportunità di conoscerli senza pericolo. Il 21 dicembre 1486 il Caimi, ottenuta da papa Innocenzo VII l’autorizzazione ad accettare la donazione dei terreni da parte dei maggiorenti locali, e dal nobile di Varallo Milanino Sca- rognini, i fondi necessari per dare avvio al cantiere, non senza l’appoggio del reggente del ducato di Milano Ludovico il Moro, iniziò la costruzione della Nuova Gerusalemme. Furono subito costruiti il convento dei francescani e la chiesa di Santa Maria delle Grazie, alla base della parete del Sacro Monte, e, nel 1491, la prima cappella sopra la parete, quella del Sepolcro. Nel 1493 la comunità di Varallo donò al Caimi, il convento e la chiesa della Madonna 94.
delle Grazie e, sul Monte, il romitorio del Sepolcro e le cappelle sotto la Croce e dell’Ascensio- ne, primi nuclei del complesso religioso che si stava costruendo. Nell’introduzione della sua preziosa Guida del Sacro Monte di Varallo che Elena De Filippis, direttrice dell’Ente Sacri Monti Piemontesi, mi donò nell’ottobre 2016 in occasione della pre- sentazione ufficiale del mio romanzo, avvenuta al Sacro Monte, la storica dell’arte scrive: Le esigenze dei francescani che volevano riprodotta la Terra Santa, popolata da scene coinvolgen- ti e comunicative, per aiutare il raccoglimento e la preghiera, trovarono felice risposta, a partire dal primo Cinquecento, nelle straordinarie capacità narrative e comunicative del pittore, scultore e architetto Gaudenzio Ferrari… Fu lui a dare un ruolo sempre maggiore alla scena sacra all’in- terno delle cappelle e ad organizzare il racconto in modo che le sculture a grandezza naturale narrassero il tema principale, e i personaggi dipinti sulle pareti completassero la narrazione… Grazie ad uno stile apparentemente molto naturale e comprensibile a tutti, in realtà frutto di una cultura complessa, l’artista ha popolato le scene di personaggi tratti dalla vita di tutti i giorni: il gozzuto, figura molto diffusa nelle vallate alpine, la nobildonna, il valligiano, l’anzia- no sdentato, di tutte le età ed estrazioni sociali, favorendo l’immedesimazione e arricchendo la narrazione. I personaggi sono definiti con estrema immediatezza, non solo nei tratti fisici, ma anche negli aspetti emotivi. Nel tardo Cinquecento, mi affido ancora, riassumendole e citandole, alle pagine della De Filip- pis, Giacomo d’Adda, ricco milanese sposato all’ultima discendente degli Scarognini, finanziò un nuovo progetto dell’architetto perugino Galeazzo Alessi, che voleva trasformare il Sacro 95.
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