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Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Studi in Beni storico-artistici, musicali, cinematografici e teatrali Munari e i bambini: laboratori per uno sviluppo creativo della personalità. Candidata: Heléna Beckel Relatore: prof. Massimo Squillacciotti Anna Accademico 2012-2013 1
Indice Introduzione p. 3 Capitolo I Ma chi è Bruno Munari? p. 5 Capitolo II Bruno Munari bambino p. 7 Capitolo III "Io penso invece che la gente voglia capire". Alla p. 9 ricerca della fantasia e dei suoi meccanismi. Cos'è la fantasia? Ha delle regole? Come stimolarla? A che pro? Capitolo IV Metodo-Munari p. 13 Bruno, il Giappone e i gatti p. 13 Il castello di Tokyo p. 17 Capitolo V Un lontano pomeriggio del 1956. I laboratori. p. 19 Il laboratorio di Brera, 1977 p. 19 Il laboratorio di Faenza, 1978 p. 22 Il laboratorio tattile, Milano 1977 p. 24 Laboratori di un giorno p. 26 Munarità-telecronache p. 27 Primi approcci con la creta p. 27 Le videocassette: laboratori “giocare con l’arte” p. 30 Tecnica versus creatività? P. 36 Capitolo VI Di-sogno. Teorie e grafiche sui sogni in una p. 38 classe di prima elementare p. 38 Relazione della maestra Chiara sulla classe Tabella "italianità" p. 40 Sul laboratorio e sul disegno p. 41 Fare laboratorio: spazio, tempo, materiali, relazioni p. 44 2
Introduzione Ho scritto questa tesi perché volevo sondare in lungo e in largo la maniera generosa di insegnare al bambino ma anche ad un adulto “pentito” di un «Peter Pan di levatura leonardersca»1: Bruno Munari. «Aiutami a fare da me»2 ha scritto la Montessori ed è questo motto che Munari ha il pregio di vedere in ogni bambino che gli sta di fronte. Munari a mio parere riesce a capire come inserirsi in quella che Vygotsky chiama “zona di sviluppo prossimale”3. Munari, di fronte al bambino, si colloca appunto "un po' più in là" – "più avanti" non sarebbero state le sue parole; "più in là" indica un passo diverso dal consueto – della conoscenza del bambino. La sua “arma” è l'azione. Munari si mostra semplicemente in azione davanti al bambino che, per la sua innata curiosità, lo osserverà attentamente e sarà naturalmente spinto ad imitare. Imitare, non copiare. Imitare la maniera, spingersi, a partire da questa, verso nuove scoperte, proprie. «Capire facendo», coniato dall'americano Dewey4, è il ritornello del suo lavorare con i bambini. In questa tesi raccolgo i laboratori stimolanti la creatività, stimolanti il pensiero visivo come lo intende Arnheim, descritti dallo stesso Munari nei suoi testi. Inoltre, siccome penso che il successo del metodo Munari sia dovuto non poco alla sua personalità, al suo non imporsi (Munari amava ripetere ai suoi collaboratori la massima del saggio Lao Tse: «Azione senza appropriazione di Sè. Sviluppo senza sopraffazione»), ho trascritto quasi per intero le parole – poche ma dense della delicatezza e intelligenza che chi lo conosceva gli attribuisce – e le azioni “gentili” di Munari conservate nella serie di videocassette Giocare con l'arte, pubblicate nel 1990, usurate dal tempo e consultabili al Museo Pecci di Prato. Nella seconda parte del mio lavoro presento l' esperienza di laboratorio che ho avuto modo di fare in una prima elementare di una scuola di di Bologna. Non potendo sapere se si sarebbe ripresentata la possibilità di lavorare in un contesto scolastico, ho unito il desiderio di sperimentare con mano la “fattibilità” di un laboratorio-simil-Munari con la curiosità di scoprire cosa sognano i bambini di oggi5. Così è nato Di-sogno: laboratorio per 1 Pierre Restany, “Un Peter Pan di statura leonardesca”, in Su Munari, Abitare Segesta Cataloghi, a cura di Beppe Finessi, Milano 2002, cit., p. 254. 2 Citato in: Beba Restelli, Giocare con tatto. Per una educazione plurisensoriale secondo il metodo Bruno Munari, FrancoAngeli/Le Comete, Milano 2002, p. 29. 3 J. Bruner, La mente a più dimensioni, Editori Laterza, Bari 2003, p. 91. 4 Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1993, p. 137. 5 Sia per la breve durata dell'esperienza didattica sia per le mie lacune pedagogiche, questa seconda parte di tesi 4
sperimentare attività stimolanti la creatività e per parlare del sogno. non ha pretese scientifiche. 5
CAPITOLO I Ma chi è Bruno Munari? «Quello nato a Milano nel 1907. Quello delle Macchine inutili del 1930. Quello dei nuovi libri per bambini del 1945. Quello dell’Ora X del 1945. Quello delle Scritture illeggibili di popoli sconosciuti del 1947. Quello dei Libri illeggibili del 1949. Quello delle Pitture negative-positive del 1950. Quello delle Aritmie meccaniche del 1951. Quello delle Proiezioni a luce polarizzata del 1952. Quello delle fontane e dei giochi d’acqua del 1954. Quello delle Ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari del 1956. Quello del Portacenere cubico del 1957. Quello delle Forchette parlanti del 1958. Quello del design. Quello delle Sculture da viaggio del 1958. Quello dei Fossili del Duemila del 1959. Quello delle Strutture continue del 1961. Quello delle Xerografie originali del 1964. Quello degli Antenati del 1966. Quello del corso di design alla Harvard University USA del 1967. Quello della Flexy del 1968. Quello della grafica editoriale Einaudi. Quello dell’Abitacolo del 1971. Quello dei Giochi didattici di Danese. Quello dei colori nelle Curve di Peano del 1974. Quello dei Messaggi tattili per non vedenti del 1976. Quello dei bonsai. Quello dei Laboratori per bambini al museo del 1977. Quello delle rose nell’insalata. Quello della lampada di maglia. 6
Quello dell’Olio su tela del 1980. Quello dei Filipesi del 1981. Quello dell’Alta tensione del 1991. Quello degli Ideogrammi materici del 1993. Ognuno conosce un Munari diverso»6. 6 Autobiografia redatta da Bruno Munari. Consultabile sul sito dell'Associazione Bruno Munari: www.brunomunari.it/index_munari.htm, consultato il 20/12/2012. 7
CAPITOLO II Munari bambino All'improvviso, senza essere stato avvisato da alcuno, mi ritrovai completamente nudo, in piena città di Milano, la mattina del 24 ottobre 1907. Mio padre aveva contatti con le più alte personalità della città, essendo cameriere al Gambrinus. Mia madre si dava delle arie ricamando ventagli7. La famiglia di Bruno si trasferisce poco dopo nella campagna milanese, fonte di sempre nuovi stimoli visivi, olfattivi e tattili per un bambino, come lui stesso si definisce, "sperimentatore". Racconta Munari come da ragazzino trascorresse molte ore accanto alla «Macchina galleggiante sull'acqua del fiume Adige ad ammirare lo spettacolo continuo dei colori, delle luci, dei movimenti della grande ruota»8. Osservava la grande ruota che pescava penne di gallina, pezzi di carta, foglie di alberi, alghe ed erbe acquatiche verdi come il vetro morbido. «Curioso di vedere cosa si poteva fare con una cosa, oltre a quello che si poteva fare normalmente»9 il bambino Munari si divertiva a giocare con tutto quello che trovava in natura: piume e semi di acero da fare volare; cordicelle e mollette a cui appendere messaggi per gli amici; specchietti per catturare i raggi del sole; gocce di acqua da lasciare cadere su varie superfici per ascoltarne il suono; bastoncini flessibili di bambù che potavano diventare una frusta da fare schioccare o un arco per lanciare le frecce, o ancora un amo per andare a pesca, un bastoncino da passeggio, una fionda, una catapulta, una molla. Un bambino immerso nella natura con tutti i suoi sensi, contemplatore attivo, attento alla natura in movimento, all’azione dell’acqua e dell’aria. Raccoglitore di suggestioni che saprà poi trasformare in creazioni artistiche, fette di mondo da noi spesso ignorate o dimenticate. Che anche il contesto rurale abbia contribuito allo sviluppo della creatività di Munari è molto probabile. Infatti, come vedremo in seguito trattando dei laboratori, le scenografie e gli allestimenti giocano una parte fondamentale nella stimolazione del bambino. All'età di diciotto anni Bruni Munari si trasferisce in città, Milano. 7 Citazione di Munari tratta da una biografia redatta dalla sua collaboratrice Pia Antonini e reperibile alla pagina web http://www.isamunari.it/joomla151/templates/munari/doc/chi_munari.pdf, consultata il 28/12/2012. 8 Citazione riportata in Beba Restelli, Giocare con tatto. Per una educazione plurisensoriale secondo il metodo Bruno Munari, FrancoAngeli/Le Comete, Milano 2002, p. 29. 9 Ibidem, p. 30. 8
CAPITOLO III «Io penso invece che la gente voglia capire». Alla ricerca della fantasia e dei suoi meccanismi. Cos'è la fantasia? Ha delle regole? Come stimolarla? A che pro? Io penso invece che la gente voglia capire e quindi mi accingo a cercare di spiegare, sperando che altri più competenti di me, continuino questo modesto inizio di conoscenza di fenomeni che interessano a tutti, per un maggiore sviluppo della creatività e quindi della personalità10. Contro la segretezza di cui si ammanta il mondo artistico, contro un arte che si mostra solo nel suo prodotto finito, contro chi pensa ad un arte per pochi, Munari oppone il suo pensare l’arte come un mondo di esplorazione e messa in atto dei processi della mente, un mondo per tutti. Munari cerca di capire il funzionamento della creatività, procedendo induttivamente e "facendo". Nel libro Fantasia11, Munari fa una sorta di casistica di fantasie artistiche famose. Ad ogni caso l'osservatore-lettore sarà affetto da un de-placement cognitivo che lo porterà o semplicemente a sorridere, a storcere la bocca con fare altezzoso, oppure a provare nuove sensazioni, a stupirsi per una cosa mai immaginata. "Cambio di peso; cambio di colore; cambio di funzione, ecc..": il cambiamento come motore della fantasia. Il cambiamento come strategia per "svegliarsi". Il mutamento è assente non soltanto nelle cose immobili, ma anche nelle cose che ripetano la medesima azione ininterrottamente, o perseverino in essa incessantemente. Gli psicologi notano che gli animali cessano di reagire quando un dato stimolo li investe incessantemente12. Provocare, creare mutamento per non morire (di noia): per esempio con un cambio delle regole. Regole all'incontrario. S-regole che danno centinaia di verdi: “senza ragione 1+1=2 lontano è il sentimento dal calcolo giallo + blu=centinaia di verdi lontana è la ragione dall’arte”13 Di seguito, in forma sintetica, altri esempi relativi al "cambio" di regole. 10 B. Munari, Fantasia, Edizioni Laterza, Bari 1977, p. 18. 11 B. Munari, Fantasia, Edizioni Laterza, Bari 1977. 12 R. Arnheim, Pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974, p. 27. 13 B. Munari, Teoremi sull’arte, Corraini, Mantova 2003, p. 47. 9
Moltiplicazione degli arti-mostro a sette teste14 Affinità visive-manubrio+sellino=toro (Picasso)15 Forchette=mani (Munari) Pennellessa=donnina (Munari) (Fig. 1) Cambio colore-un pane blu16 Cambio di materia-un martello di sughero17 Cambio di luogo-il letto in piazza-s-piazzare (Munari)18 (Fig.2) Come un piccione-nel cappello del prestigiatore. Cartoline di Milano-col mare. Scolabottiglie-in un museo (Duchamp). Cambio di funzione-modellino di cesso come portacenere19 Cappello messicano-decorazione al muro. Scarpa-porta monete (Chaplin-Charlot). Cambio di moto-tempo-alla Ridolini20 Oppure "se i vigili del fuoco si muovessero come la burocrazia!"21. Cambio di dimensione22 Enormi tubi di dentifricio (Pop-art). Fantasia come movimento di pensiero, capacità di combinare cose solitamente, concettualmente, spazialmente, lontane, capacità di mettere in relazione. Le relazioni possono complicarsi con ulteriori "manomissioni" all'oggetto che possono portare alla creazione di "esseri o cose" suscitanti nuove sensazioni: relazioni tra relazioni. Esempio: un gatto blu (cambio di colore) talmente leggero che ha bisogno di essere ancorato altrimenti vola (cambio di peso) alto venti metri (cambio di dimensione) che si muove tra le fiamme (cambio di 14 B. Munari, Fantasia, Edizioni Laterza, Bari 1977, p. 49. 15 Ibidem, p. 6. 16 Ibidem, p. 68. 17 Ibidem, p. 71. 18 Ibidem, p. 79. 19 Ibidem, p. 83. 20 Ibidem, p. 86 21 Ibidem, p.88. 22 Ibidem, p. 91. 10
luogo) 23. Dopo aver fatto alcuni esempi per spiegare la regola del "come" attraverso il ribaltamento delle regole, bisogna passare al "con che cosa". Munari offre l'esempio chiarificatore di questo punto della ricerca: Pensate quanta gente vede una faccia nella luna. Perché solamente una faccia? Perché non un pavone? Un copride [coleottero che si nutre di escrementi]? Perché il copride non l’ha mai visto, non lo ha memorizzato e quindi non può riconoscerlo. Mentre la faccia umana è la prima cosa che un genere umano vede venendo al mondo. È la prima immagine che viene memorizzata, che tutti memorizzano, e quindi dire che là si vede una faccia, è una relazione tra le più semplici che si possono fare. Solo qualcuno vede una balena che si trasforma in cammello24. La fantasia, come prodotto di relazioni tra ciò che si conosce, è quindi più o meno fervida se l’individuo avrà più o meno la possibilità di fare relazioni, se avrà visto più o meno cammelli o balene. Dopo il "come" che ribaltava le regole d'uso e il "che cosa" che permette di aumentare la creatività e quindi le connessioni tra gli oggetti e le esperienze, arriva il momento del "perché" scrivere sulla fantasia. Usando le parole di Rodari, altro rivoluzionario della creatività e collaboratore di Munari: Per cambiare una società basata sul mito della produttività ( e sulla realtà del profitto), che ha bisogno di uomini a metà-fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà. Per cambiarla occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione25. perché un individuo creativo è una persona che di fronte ai problemi sarà capace di vedere con occhi diversi (ricordo a tal proposito il libro di Munari "Guardiamoci negli occhi"26, dove il lettore può cambiare il colore degli occhi ai vari volti disegnati nel testo), di escogitare diverse soluzioni; un individuo creativo ha un' intelligenza elastica, affronta ogni circostanza, stimola e fa crescere la comunità in cui vive, non smette di conoscere e confrontarsi con i più svariati campi. Sia per il carattere gentile che per lo sconforto e la sfiducia nel mondo degli adulti, in cui tutti i 23 B. Munari, Fantasia, op. cit., p. 117. 24 B. Munari, Fantasia, Edizioni Laterza, Bari 1977, p. 22. 25 G. Rodari, Grammatica della fantasia, edizioni EL, Trieste 1997, p. 179. 26 B.Munari, Guardiamoci negli occhi, Giorgio Lucini, Milano 1970. 11
sensi sono annichiliti fatta eccezione per la "reattività" all'odor del denaro, Munari volgerà gran parte delle sue energie di uomo creativo al mondo dei bambini, gli adulti del futuro. Munari intervistato da Marco Meneguzzo, fondatore di Reggio Children, centro di studi, di formazione e di azione per lo sviluppo della creatività nei bambini, dichiara: Pensa a quante cose non riusciamo a capire perché siamo travolti da un modo sbagliato di vivere, da pensieri effimeri, futili, da mode. È questo quello che cerco di contrastare e di cambiare nei miei laboratori per bambini27. 27 Marco Meneguzzo, Bruno Munari, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 21. 12
CAPITOLO IV Metodo-Munari Bruno, il Giappone e i gatti Che i nomi portino con sé la propria eredità, un passato tramandato, una mala o buona fama è noto, ma ritrovare il significato della propria essenza, il proprio haiku conciso poetico esatto dall'altra parte del mondo, è sorprendente! E chi più di Munari, amante e costruttore di sorprese, sarà stato più felice (perché stupirsi significa serbare ancora lo spirito bambino) nello scoprire che il suo cognome sillabato MU-NA-RI significasse in Giappone FARE-DAL-NULLA! Come spesso ammoniva Munari "semplificare è più difficile di complicare". Ed è proprio di semplicità, di leggerezza (anche nel significato di ironia) che ci parlano le sue opere. Una scrittura dalle regole molto simili alle sue, pare che, come testimonia Renzo Zorzi, apparve a Munari proprio in Giappone, in un piccolo negozio. Era il 1964 e Russoli, Castellani, Zorzi e Munari si trovavano a Kyoto. Lasciate le grandi vie, Zorzi e Munari presero per una stradina sconnessa che li condusse in un piccolo ambiente pieno di mercanzia venuta da chissà dove...piccolissimi oggetti quasi arcani, minuscoli contenitori per trasportare due uova o un peso minimo, leggeri e quasi volanti nella loro struttura essenziale, innocente [...] striscioline di cuoio presentate separatamente, ma che formavano, intrecciate, altri contenitori: quasi una sorta di creatività senza limiti [...] fazzolettini trattenuti da piccole stecche di bambù, gabbiette forse per grilli, tutto costruito a perfezione e finalizzato a uno scopo, insieme del tutto assurdo e irraggiungibile. Veniva voglia di restare in quel minuscolo negozietto per sempre [...] come forse in un regno salvatosi per rendere testimonianza di una possibilità. Il suo [di Munari] viso fine passava sopra agli oggetti, senza bisogno di toccarli; gli bastava mostrarceli, come una prova di esistenza28. Semplicità ed essenzialità connotano il "fare" di Munari non solo nelle sue creazioni artistiche, ma ancor di più quando si rivolge ai bambini. In specifico, il metodo progettuale dei suoi laboratori didattici potrebbe trovare largo consenso nel mondo del Karate (nato in Giappone), condividendo infatti le stesse modalità e finalità. Nel Karatè il maestro si chiama SHU HA RI, nel cui nome sono racchiuse le tappe attraverso cui 28 Renzo Zorzi in Su Munari, a cura di Beppe Finessi, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2002, pp. 66-67. 13
passa l’allievo nel percorso verso la conoscenza. SHU significa rispettare le regole e corrisponde alla prima tappa (kata), caratterizzata dallo studio. L’allievo osserva l’arte e cerca di riprodurla nel suo profondo, accomodandola alla propria costituzione e alle proprie doti personali. È la fase dell' osservazione dell’appropriazione e dell’assimilazione fisica. Nel laboratorio questo step potrebbe corrispondere alla sperimentazione degli strumenti, alla comprensione delle tecniche artistiche e al consolidamento dell’esperienza, ma anche al ritrovare l’azione fisica, motoria. HA significa infrangi le regole, ovvero l’allievo deve distruggere il modello per vedere cosa c’è dietro. Distruggendo la sacralità delle regole e di conseguenza la sicurezza che le regole danno, l' allievo sperimenta l’indipendenza, può vedere cosa succede se fa in maniera diversa. E’ un momento caratterizzato da una dimensione cognitiva, da una presa di coscienza. Nel laboratorio ciò si traduce nell'esplorazione delle varianti, della misurazione dei limiti, della trasformazione delle organizzazioni. RI significa vai oltre, e non è la fase conclusiva ma una tappa di una crescita senza fine perché le tre fasi sono cicliche. Dopo lunga esperienza si dimentica il Kata perché si è diventati il Kata (cioè il sapere). È il momento della creatività, del “dimenticare a memoria”29. Delineato il percorso di formazione, si pone la questione di come il maestro di un laboratorio dovrebbe comportarsi. Munari dice che i bambini sono un po' come i gatti: «Per entrare nel mondo di un bambino (o di un gatto) bisogna almeno sedersi per terra, non disturbare il bambino nelle sue occupazioni e lasciare che si accorga della vostra presenza»30. Se il bambino "a quattro zampe" sarà stato libero di toccare, di sperimentare diverse sensazioni tattili, di saltare da un piano all'altro e di "vedere nel buio" avrà immagazzinato numerosi dati sensoriali che lo avvantaggeranno nella comprensione del mondo. Impedire ad un bambino di "gattonare" significa privarlo di sensazioni, privarlo delle metafore con cui esprimere sensazioni fisiche. Crescendo, bisognerà cercare di favorire la "raccolta" di nuove informazioni che, se apprese direttamente, ovvero facendone esperienza, rimarranno salde nella memoria e saranno materiale vivo per nuove costruzioni di pensiero. Ampliare quindi la conoscenza plurisensoriale ("I sensi sono gli organi di «prensione» delle immagini del mondo esterno, necessari all’intelligenza”31), perfezionare le sensazioni per formare un individuo non isolato dall' ambiente, è un cardine del pensiero di Munari. Il mezzo è l' azione («Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco», antico proverbio cinese che ritorna 29 “Progettare differenze ovvero progettare per ottenere opere sempre variabili o sempre diverse. Obiettivo perseguito da Munari con lucidità e disinvoltura, acquisendo regole per poterle superare dopo averle accuratamente analizzate, e prendendosi il lusso di dimenticarle a memoria.” B. Finessi, Bruno Munari, Tuttotondo Tuttoquadro, Corraini, 2007, p.19. 30 B. Munari in Giocare col tatto, B. Restelli, collana “Le Comete”, Franco Angeli, Milano 2002, p. 30. 31 Maria Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 1970, pp. 162-163. 14
spesso nei testi di Bruno Munari). Per chiarire definitivamente l' importanza dell' azione nel processo di conoscenza cito qui le parole di Alberto Munari, figlio di Bruno e professore di Epistemologia Operativa: Non basta far parlare un bambino su di un tema dato per capire cosa ne pensa: occorre far agire il bambino su quel tema, che deve essere una situazione concreta, manipolabile, io dico agibile. Affinché egli possa agire il proprio pensiero. Sempre grazie al processo di interiorizzazione l' adulto è diventato molto abile nel giocare con i concetti e con le parole, in modo tale che a volte è in grado di dire qualsiasi parola a proposito di qualsiasi cosa [...] e quindi di occultare più o meno volontariamente il procedere effettivo del pensiero. Con l' azione invece è più difficile scivolare tra le maglie dell'ambiguità. Un'azione è o non è. Risalire dalla parola al gesto (che l' ha prodotta e poi interiorizzata) è una strategia efficace per far emergere i processi effettivi di elaborazione della conoscenza32. Anche il maestro userà l' azione per essere d' esempio ai bambini. Attraverso azioni-gioco, usando l'"effetto sorpresa" e l' ironia, il maestro verrà immediatamente seguito dagli alunni. La pedagogia di Munari si può definire "pedagogia attiva", come quella di J. Piaget, pedagogista e psicologo svizzero che fonda il suo pensiero sulla contrarietà nei confronti di un’imposizione dall’alto e sull’importanza di un apprendimento basato sul "fare" e sulla scoperta del mondo circostante in modo autonomo33. Il maestro si deve porre come un regista e deve porsi in quella zona che Vygotsky chiama "zona di sviluppo prossimale"34, ossia il maestro dovrà innanzitutto comprendere "su quale gradino" della conoscenza si trova il bambino e collocare di conseguenza la scenografia e il "copione" su un gradino "prossimo" a quello di "partenza". È anche l' atteggiamento di una buona madre che «si mantiene sempre sul confine della competenza del bambino»35. Scenografia e copione dovranno costituire il quadro motivazionale, perciò dovranno essere il più stimolanti possibile, per adempiere al compito di «collante fra piano emozionale e cognitivo, fra attività pratica e teorica»36. Inoltre in un laboratorio sarà sempre molto importante, annota Munari, mantenere uno sguardo attento ed avere la sana pratica di confrontare i propri sguardi con quelli 32 A. Munari in Laboratorio "giocare con l'arte", quaderno n. 7, a cura del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Faenza 1984, p. 96. 33 Tale pensiero è sviluppato in: Jean Piaget, Lo sviluppo e l’educazione dell’intelligenza, Loescher, Torino 1974. 34 J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Bari 2003, p. 91. 35 Ibidem, p. 96. 36 P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell'animazione, Guerini studio, Milano 2006, p. 144. 15
degli altri organizzatori: «Ogni collaboratore potrà fare le sue osservazioni, e se queste sono riconosciute valide da tutti, andranno a modificare il metodo di apprendimento»37 . Se come metodologia didattica Piaget e Munari sono tangenti, penso che per quanto riguarda l' ambito delle attività "artistiche" ( intese come attività nelle quali si usano gli strumenti degli artisti) Munari fosse più vicino al pensiero di Arnheim. Piaget infatti concepisce lo sviluppo cognitivo come una progressione verso una specifica meta: nel pensiero quel traguardo è il ragionamento logico-matematico; nelle arti visive è il realismo ottico. A Munari ed Arnheim non interessa affatto il risultato finale, poiché il "risultato" è costantemente ottenuto nell'atto di percepire: percezione come conoscenza. "Pensare esige qualcosa di più che pensare i concetti e assegnare loro certi compiti. Esige che si svelino relazioni, che si scopra una struttura in se stessa elusiva. L' attività produttiva di immagini serve a dar senso al mondo". 37 B. Munari, Il laboratorio per bambini a Brera, Zanichelli, Bologna 1981, p. 44. 16
Il castello di Tokyo Quasi vent' anni dopo il primo viaggio in Giappone Munari vi ritorna, perché invitato a mostrare le sue azioni didattiche agli operatori ed educatori del Kodomo-No-Shiro (Castello dei bambini), un palazzo costruito per i bambini a Tokyo, fortemente voluto dal ministero per la Salute e il Benessere del Bambino. Si tratta di un edifico di diciassette piani: ogni piano è adibito a laboratori per la comunicazione visiva, per la musica, per l’elettronica o per altre attività legate al mondo dell’infanzia. Al piano terra inoltre è presente un teatro rotondo, in cui lo spazio si può via via creare a seconda delle esigenze, senza difficoltà poiché le gradinate intorno al palco sono mobili. Un altro spazio in cui si manifesta la tecnologia nipponica è quella del piano che offre ai bambini una parete enorme ricoperta di mattonelle bianche sulle quali dipingere liberamente a seconda dell' altezza; a fine incontro un rivolo d' acqua scende dall' alto della superficie di mattonelle e “lava” via il colore, presentando così la parete di nuovo pronta all'incontro successivo. Gli ambienti sono luminosi e “componibili”, grazie a pareti in cartongesso. In molti spazi il soffitto è attrezzato con pertiche, alle quali agganciare pannelli, attrezzi, scampoli di diversi tessuti. Mentre i bambini giocano e sperimentano, i genitori sostano in una sala dove solitamente si dilettano con l' arte degli origami. Bruno Munari ripropone quindi i laboratori che vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo: i segni, la texture, la prospettiva cromatica, il collage, i formati diversi, i colori, le costruzioni, le composizioni tattili, le forme componibili, disegnare un albero, modellare la creta. Fa sorridere vedere (come ho avuto modo di osservare nell'unico pezzo integro di videocassetta che registra appunto Munari al Kodomo-No-Shiro) come le sue azioni-gioco rendano quasi superfluo il ruolo del traduttore al suo fianco. Molto interessanti sono le idee educative che Munari apprende da questa esperienza. Scopre che nelle scuole materne il messaggio principale da far passare è che ognuno deve esporre il proprio pensiero ma non imporlo; e che quando una persona parla si deve ascoltarla, poi rispondere. Segue nel testo a queste osservazioni una critica acuta e pesante della società italiana: «Paese di furbi dove ognuno cerca di rubare qualcosa agli altri [...]società di rapinatori; anche da noi le persone educate non interrompono, ma spesso nemmeno ascoltano, ti lasciano parlare e poi parlano loro»38. 38 B. Munari, Il castello dei bambini a Tokyo, Einaudi Ragazzi, Trieste 1995, p. 19. 17
CAPITOLO V Un lontano pomeriggio del 1956. I laboratori. «Ogni collaboratore potrà fare le sue osservazioni, e se queste sono riconosciute valide da tutti, andranno a modificare il metodo di apprendimento»39 Un lontano pomeriggio del 1956 dalla televisione escono queste parole: «Buon giorno a tutti anche a quelli che invece di andare a pescare sono stati a casa a guardare la trasmissione. Quando torneranno quelli che sono andati a pescare […] resteranno molto meravigliati nel vedere che voi,che oggi ci state a vedere, avrete alla fine pescato un pesce enorme. Grande come questo! Questo che vedete è infatti il pesce giapponese che costruiremo»40. É un giovane Bruno Munari che spiega nella trasmissione “Costruire è facile” come, con un po' di carta velina e colla, sia possibile creare un pesce. Conclude con un' immagine del Giappone a lui così caro:« In Giappone, proprio in questo periodo dell'anno, i ragazzi costruiscono centinaia di pesci come questi, poi li appendono a lunghe canne di bambù e li lasciano fuori dalle finestre o sui tetti fino a consumazione. Questa manifestazione è per loro la festa della giovinezza, perché questo pesce rappresenta la carpa che è simbolo della perseveranza giovanile»41. Il laboratorio di Brera, 1977 In molti musei di vari paesi esistono dei parcheggi per bambini dove questi sono lasciati "liberi" di fare quello che vogliono, avendo di fronte alcune riproduzioni a colori delle opere esposte nel museo. Lasciarli liberi vuol dire abbandonarli all'imitazione, per cui alla fine i bambini avranno provato la loro incapacità di imitare i maestri, si sentiranno stanchi e delusi, non avendo imparato nulla di utile al loro sviluppo42. Il progetto del laboratorio nasce da una serie di seminari organizzati dalla Fondazione Rizzoli negli anni 1975/76, ai quali partecipano esperti di varie nazioni sul tema “Museo Vivo”, con l’intento di trasformare il Museo da luogo esclusivamente di conservazione di opere d’arte a strumento di comunicazione e sperimentazione visiva. Munari, nella sua relazione all’interno dei seminari 39 B.Munari (a cura di), Il laboratorio per bambini a Brera, Zanichelli, Bologna 1981, p.44. 40 Pia Antonini in Su Munari, a cura di Beppe Finessi, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2002, p. 236. 41 Ibidem, p. 237. 42 B. Munari (a cura di), Il laboratorio per bambini a Brera, Zanichelli, Bologna 1981, p. 4. 18
Rizzoli, propose l'idea del "laboratorio", come strumento per entrare nell' opera d'arte, dalla "porta" della sua matericità, del suo "essere fatta di, essere fatta come". Non tutti i visitatori di un museo sanno vedere le opere d'arte visiva. Gran parte di essi, a causa di una educazione basata soprattutto sulla letteratura, cerca il racconto nell' arte visiva e non "vede", perché non conosce i problemi, le regole di tutto ciò che dà corpo a un' opera d' arte visiva43. Quando questa proposta operativa fu accettata dalla direzione del Museo, si formò il gruppo di pre- progettazione (con Metta Gislon, Coca Frigerio, Marielle Muheim, Tonino Milite) che scelse di rivolgersi ai bambini (Munari: "Siccome è quasi impossibile modificare il pensiero di un adulto, noi dovremo occuparci dei bambini"44) nella fascia di età relativa alle scuole elementari. Scelta motivata dal pensiero che il lavoro avrebbe potuto facilmente adattarsi e modificarsi sia in funzione della scuola materna sia in funzione della scuola media. La base da cui partire era l’analisi delle varie tecniche delle opere d’arte di ogni epoca per ricavarne gli elementi da fornire ad esperti di stimolazione della creatività, affinché fossero trasformati in giochi. Per meglio comprendere il "gioco", le tecniche e le regole sono espresse con riproduzioni d' arte e pannelli esplicativi con il massimo di immagini e il minimo di parole. Sotto a queste spiegazioni ed esemplificazioni visive il bambino trova gli strumenti giusti "per provare anche lui a fare"45. Nasce così il gioco "che colore vedi da lontano?" (tra i pannelli esplicativi uno mostra una macchia formata di puntini giallo e blu, che ad una certa distanza viene percepita dall'occhio come un "verde mobile") per capire il divisionismo; il gioco del "è il segno che fa il disegno", ovvero a diverso strumento e diversa maniera di usare lo strumento, corrispondono diverse "comunicazioni" (come mostrano i vari pannelli di artisti); il gioco del "ricalco", ovvero come "catturare" la texture delle cose; il gioco del "lontano vicino", per avvicinarsi alla prospettiva, non quella Albertiana (rinascimentale di punti di fuga e reticoli complessi), ma quella cromatica che ogni bambini può "afferrare" davanti a un paesaggio "profondo"; il gioco del "cosa ti sembra?" per mezzo di fogli di formati diversi che suggeriranno nuovi disegni (di fronte ai bambini un'opera duccesca su tavola tripartita); il gioco del "collage" con una particolare attenzione all'uso "materico" e "3d" che assume la carta, quando questa viene variata: stropicciata, piegata (alle pareti esempi di composizioni di Braque e Picasso); il gioco delle "forme componibili", utilizzando pezzetti di carta colorata tagliati 43 B. Munari (a cura di), Il laboratorio per bambini a Brera, Zanichelli, Bologna 1981, p. 4. 44 bidem, p. 5. 45 Ibidem, p. 6. 19
ad hoc. Un' altra attività proposta a Brera è quella di dipingere con un colore soltanto. Ma, se solitamente i bambini hanno nelle loro scatole di colori una o massimo due variazioni dello stesso colore, in questo laboratorio trovano tantissimi colori diversi per ogni "famiglia cromatica". Ogni bambino conoscerà così "nuovi" colori e svilupperà la propria personalità scegliendo quelli che più gli piacciono. In breve: conoscenza di nuove tecniche per un ampliamento delle possibilità di sperimentazione. Molte delle attività sopra descritte sono divenute parte integrante o sono state ispiratrici di altre attività stimolatrici di creatività nei testi della collana pedagogica "Disegnare costruire colorare", altre sono state "ripetute" e filmate per la collana di videocassette "Giocare con l'arte". Non ho approfondito in questo paragrafo le attività di Brera proprio perché "ritorneranno", in maniera più fresca e diretta, nel paragrafo "Munarità-telecronaca", nato appunto dalla visione delle videocassette "Giocare con l'arte". 20
Il laboratorio di Faenza, 1978 Capire cos'è l'arte è una preoccupazione (inutile) dell'adulto. Capire come si fa a farla è invece un interesse autentico del bambino46. Come a Brera, il Laboratorio nel Museo Internazionbale delle Ceramiche di Faenza nasce per rompere la diffidenza, l'indifferenza che coglie molte persone "non del mestiere" davanti all'opera d'arte e al museo in generale. Creare familiarità con l'opera attraverso il "fare ceramica" è l'idea che unisce ceramisti professionisti, insegnanti dell'Istituto Statale D'Arte "Gaetano Ballardini" e Bruno Munari e che fa sì che il progetto dalla carta passi all'azione. Munari aderisce al progetto anche perché a partire dalla ceramica, uno strumento malleabile e al servizio della fantasia, è possibile fare leva su quei recettori tattili che i tanti "non toccare!" dei genitori e tanti divieti hanno chiuso. Anche l’esperienza di Faenza si basa sull’individuazione di quelle tecniche che meglio si adattano all'età dei partecipanti e che meglio di altre possono essere declinate sotto forma di gioco. Come a Brera i bambini trovano sui piani di lavoro all’interno del laboratorio la riproduzione di alcune opere d’arte esposte nel museo e le fotografie di tutte le operazioni funzionali all’attività proposta: si privilegia così il principio di massima comunicazione visiva e si evitano lunghe spiegazioni. Il compito del "maestro" è di mostrare ed eventualmente aiutare i bambini a capire le varie tecniche offerte, senza però intromettersi nel loro pensiero progettuale: un assistente tecnico, che non dice cosa fare ma aiuta a capire "come". Il laboratorio ebbe un grande successo tant'è che pochi anni dopo la sua nascita anche gli adulti, insegnanti e non, chiesero di potervi partecipare. Tra gli adulti che presero parte alle attività didattica in molti espressero il loro entusiasmo nei termini di un ricongiungimento con il mondo dell'infanzia. Il laboratorio di Faenza per i più piccoli organizzato da Ivana Ancorelli, principale organizzatrice e ancora oggi, vent'anni dopo la sua nascita, prima responsabile del laboratorio, è quello che ritengo il più interessante e che esemplifica più degli altri cosa significhi lavorare con la creta. Questo laboratorio verrà riportato integralmente nel paragrafo successivo "Munarità-Telecronache". Ma come funzionano i laboratori di Faenza? Con i bambini più piccoli (nido e scuola materna) la sperimentazione inizia direttamente dal luogo di provenienza della creta: la cava. Poi seguono le sperimentazioni, i "paciughi" con la materia, come ben descritto nella telecronaca della Ancorelli. 46 B. Munari, Fantasia, Edizioni Laterza, Bari 1977, p. 116 21
Ai bambini più grandi vengono presentate le seguenti tecniche: le impronte, le tracce, le texture, la sfoglia, la trafila, il lucignolo, il rilievi, l'ingobbio, le perle, le terre colorate, la colorazione. I laboratori per le scuole elementari si pongono i seguenti obiettivi: superare gli stereotipi figurativi; maturare la capacità creativa; usare il linguaggio visuale in modo consapevole e personale; approfondire ed ampliare conoscenza ed esperienza tecnica; acquisire la terminologia specifica della materia. Tra i lavori proposti per raggiungere gli obiettivi elencati c'è quello del "vaso" che sviluppa e affina nel bambino la capacità compositiva e cromatica, il concetto di tridimensionalità, quello corrispondenza e di forma, la nozione di grandezze graduate, di positivo e negativo, di modulo e di progettazione. 22
Il laboratorio tattile, 1977 NON TOCCARE! Quante volte i bambini si sentono ripetere questa imposizione. Nessuno direbbe mai: non guardare, non ascoltare, ma pare che il tatto sia diverso, molti pensano che se ne possa fare a meno47. Munari rimase negativamente stupefatto quando chiese agli organizzatori della mostra "Le mani guardano" – mostra al Beaburg di Parigi in cui i fruitori dovevano lasciarsi guidare dal senso del tatto per "esplorare" modelli di architettura e opere d'arte tattili – se avevano esposto anche le tavole tattili del movimento futurista ma «quei signori non sapevano cosa fossero queste tavole»48. Quando la mostra fu riproposta a Milano venne chiesto a Munari di allestire un laboratorio tattile nel quale questa volta non mancarono le tavole tattili di ispirazione futurista. Anche se per certi versi lontano dal funzionalismo del movimento futurista, Munari condivideva con Marinetti l'importanza dell'esperienza tattile nella vita quotidiana come in quella artistica ai fini di «una migliore comprensione tra gli esseri umani»49. A riprova di questa vicinanza, nel suo testo I laboratori tattili, Munari riporta per intero le categorie di valori tattili come le aveva concepite Marinetti50. Il laboratorio fu realizzato in una sala collegata con la mostra di Milano: per accedervi bisognava attraversare una porta “chiusa” con delle strisce di materiali diversi: strisce di plastica, di stoffa, di corde, di nastri51. Questo stratagemma per accedere al laboratorio ricorda la formula di apertura delle favole: con "C'era una volta" si chiede all'ascoltatore di credere a ciò verrà detto, di abbandonare per un pò la realtà. La "realtà", ovvero l'allestimento del laboratorio era composto da tavoli che avevano al centro dei vassoi colmi di ritagli di materiali da toccare: cartone ondulato, pelliccia, plastica, pezzi di moquette, carta vetrata. Materiali molto diversi che i bambini potevano cercare, toccare, guardare e 47 B. Munari, I laboratori tattili (1985), Edizioni Corraini, Mantova 2004, p. 3. 48 B. Munari, Laboratorio "giocare con l'arte ", a cura del Museo Internazionale delle Ceramiche Faenza, Bologna, Zanichelli, 1988, p. 6. 49 Filippo Tommaso Marinetti, Il Tattilismo, pubblicato la prima volta dalla rivista “Comoedia”, gennaio 1921. Il testo qui riportato è tratto da: Viviana Birilli (a cura di), Manifesti del Futurismo, Abscondita, Milano 2008, p. 188. 50 La prima categoria comprendeva il tatto sicurissimo, astratto, freddo, con materiali come carta vetrata di varie gradazioni e la carta argentata. La seconda il tatto senza calore, persuasivo, ragionante, con materiali tipo seta liscia e crespo di seta. La terza categoria comprendeva il tatto eccitante, tiepido, nostalgico, con materiali tipo velluto, lana, crespo di seta-lana. La quarta era relativa al tatto quasi irritante, caldo, volitivo e comprende i materiali come la seta granulosa, intrecciata, la stoffa spugnosa. La quinta categoria si riferiva al tatto caldo, morbido, umano e i materiali erano la pelle scamosciata, i peli di cavallo o di cane, capelli e peli umani, marabù. Infine la sesta categoria era relativa al tatto caldo, sensuale, spiritoso, affettivo e si riferiva a due tipi di materiale: uno il ferro ruvido, la spazzola leggera, la spugna, la spazzola di ferro. L’altro gruppo era composto da peluria di uccello, peluche, peluria della carne e della pesca. 51 Ibidem, pp. 6-9. 23
poi attaccare con una colla non molto adesiva su dei listelli di compensato e disporli in modo tale da comunicare sensazioni, racconti tattili. Nello spazio del laboratorio erano appese al muro tavole strette di legno, sulle quali erano incollati tanti materiali in scala tattile, ad esempio dal materiale più morbido a quello più duro. Ritorna come nel laboratorio di Brera e di Faenza, l'exemplum ben visibile, la varietà di strumenti (in questo caso i materiali) conoscibili. Il ruolo dell'adulto è quello di suggerire la sperimentazione di materiali opposti per le caratteristiche tattili (ruvido-liscio, duro-morbido, per esempio), di provare a mettere in fila materiali in base alla scala tattile, di familiarizzare con le terminologia. Espletato il ruolo di "suggeritore", la funzione dell'adulto sarà quella di essere d' aiuto nelle problematiche "tecniche" (mostrare per esempio il modo più giusto di incollare), ma non dovrà mai fornire indicazioni "artistiche". Oltre alle tavole tattili i bambini potevano costruire messaggi tattili fatti con tante corde diverse alle quali si potevano legare pezzetti di materiale: messaggi da “leggere” con le mani, anche provando a tenere gli occhi chiusi. Per Bruno Munari tutti gli uomini nascono forniti di un apparato plurisensoriale, che con il passare degli anni viene atrofizzato perché l’individuo «dà la prevalenza alla logica e alla letteratura»52 e privilegia il senso della vista e dell’udito, perdendo il piacere ma anche le possibilità di conoscenza proprie del tatto. I laboratori tattili aiutano a riconquistare questo strumento di conoscenza che la natura ci ha dato e a conservare la globalità sensoriale per una maggiore e più diretta conoscenza dei fenomeni. Laboratori di un giorno Molti sono i laboratori che si susseguono dopo il successo dei primi, tra questi é interessante segnalare quello di Aosta in occasione della Fiera degli artigiani, durante la quale i bambini avevano a disposizione migliaia di forme diverse di legno (scarti della lavorazione degli “artigiani- falegnami”); quello di Imperia, del 1982, “Giocare con la stampa”: un’ esperienza attraverso la quale il bambino sperimentava le tecniche della stampa; “Aria e carta“ nel 1983 Mantova dove Munari lanciava da una torre “origami” di carta e annotava le diverse traiettorie delle carte. Il “laboratorio Lego” svoltosi a Milano nel 1987 in occasione della mostra “L’architettura è un gioco stupendo” con un' intera sala colma di pezzetti di lego a disposizione dei bambini; il laboratorio 52 B. Munari, cit. in Beba Restelli, Giocare con tatto, collana “Le Comete”, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 49. 24
“Giocare con la natura” realizzata a Milano nel 1988, nel quale i bambini giocavano con i diversi tipi di materiali della natura raccolti in un parco; sempre a Milano, “Il laboratorio di sperimentazione dei materiali” ideato in questo caso per giovani allievi dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Al senso dell' udito Munari si accosta durante la Triennale di Milano del 1989, dove presenta una sperimentazione ludica con i suoni, proposta poi nel 1988 nella scuola elementare “Sauro” di Lecco. L' azione-gioco di costruzione di un albero partendo da grandi fogli di carta via via dimezzati a creare i rami più giovani, è stata sperimentata con grande entusiasmo e partecipazione dai bambini di alcune scuole elementari a Milano alla fine degli anni Settanta; così come il laboratorio “Rose nell' insalata”, ovvero come trasformare verdure in matrici da inchiostrare. Sempre nelle scuole, Munari ha proposto l' uso del proiettore di diapositive nella funzione “altra” di creatore di nuove immagini, partendo da semplici composizioni di piccoli frammenti di origine organica o non inseriti nei telaietti. Tutti questi laboratori portano la cifra di Munari: lo stupore che porta la sperimentazione, la semplicità della regola che si interiorizza facilmente, l' uso di procedimenti che invitano il bambino ad esprimersi con le immagini, senza paura di sbagliare. 25
Munarità-telecronache Primi approcci con la creta Di seguito un incontro-tipo di Ivana Ancorelli con bimbi della scuola materna al Museo Internazionale delle Ceramiche a Faenza. La creta è un elemento naturale. Qui da noi a Faenza ci sono dei luoghi da cui già l'uomo dell'antichità traeva la creta: dalle cave allo stato secco, dai fiumi allo stato plastico, e ne ricavava manufatti. Dentro questa terra, sapete cosa c'è che la mantiene così plastica, così morbida? L'acqua, l'elemento essenziale che la rende docile alle nostre mani. Oltre ad essere plastica, la creta è quindi anche malleabile, duttile. Tutti: "cosa vuol dire?" . Malleabile vuol dire che si può manipolare, e duttile che si può trasformare e ridurre come ci piace. Sono tre dunque le caratteristiche della creta: è plastica, duttile, malleabile. Ma che cosa succede quando si cuoce? Finché è cruda, allo stato plastico, si può darle una forma, poi distruggere questa forma e rifarne una dopo l'altra ,centomila; ma quando questa forma si cuoce rimane definitivamente quella. Plastico significa, allora, modificabile. E ancora: allo stato plastico la creta è infrangibile, si può buttare per terra e non si rompe. Dopo che è stata cotta invece diventa frangibile, cioè si può rompere agli urti. Altra differenza: cruda ha un colore grigiastro, cotta diventa rossa. Questo perché nella sua composizione vi è una sostanza che le dà il colore rosso che si chiama "ossido di ferro". Continuiamo con le differenze: quando è cruda, non assorbe; dopo la cottura, poiché l'acqua non c'è più, diventa porosa e capace di assorbire. Cambia anche il nome: prima si chiama creta, argilla, terra; dopo è terracotta. Ecco, a questo punto cominciamo ad usare la creta e a fare quello che vi dico. Noi ora non useremo gli attrezzi che avete davanti, ma useremo solo le nostre mani, che sono degli strumenti naturali del nostro corpo. Fate una pizza. Questa pallottola di terra trasformatela, battendo coi pugni molto forte. Avete visto che abbiamo fatto una superficie. Con la mano, tocchiamo questa superficie: com'è? È liscia oppure ruvida? Tutti: "liscia". Molto bene. Adesso facciamo un'altra trasformazione, usando prima i due pollici, poi i due indici, i due medi, i due anulari, e per ultimo i due mignolini; e via, riempiamo tutta la superficie con questi "buchi". Attenti a muover le dita simultaneamente! (Questo è un esercizio molto utile perché sviluppa la capacità del bambino di usare contemporaneamente le due dita chiamate ed è un'ottima ginnastica di scioglimento per le mani). Sapete, è importante saper usare tutte e due le mani insieme, specialmente in questo campo. Di solito adoperiamo molto di più la destra, ma dobbiamo far fare allenamento anche alla sinistra! E così abbiamo trasformato la superficie. Prima era liscia; e invece adesso sentite piano piano, percorretela tutta con la mano senza spingere, vi accorgerete che è ruvida. Adesso giochiamo con la fantasia ( É importante non solo imparare ad usare mani ed attrezzi, ma anche far uscire la nostra mente dagli stereotipi soliti per arricchirla di più. Quelle che abbiamo tracciato sono impronte, "buchi"; ma facciamo riflettere il bambino sulle 26
immagini che le impronte possono evocargli). Sulla superficie abbiamo lasciato un insieme di segni. A cosa vi fanno pensare? Tutti: "sono bolle d'acqua...mele...cappelli....nasi...fragole". E adesso una terza trasformazione. La prima era una sfoglia liscia, la seconda una sfoglia con le impronte; ora faremo una sfoglia a rilievo. Ma prima, bisogna tornare a rendere liscia la nostra pizzetta. Premetela col palmo, con le nocche, col pugno. Forza! (Questo esercizio, oltre a dare un'esperienza della riplasmabilità della creta, è importante perché permette al bambino di liberare la sua aggressività naturale. Mentre vi è impegnato, è bene che gli si permetta di scatenarsi quanto vuole; e niente paura se, com'è probabile, il rumore sarà assordante. Solo al momento di fornire ulteriori spiegazioni sarà richiesto il silenzio). Ora che la superficie è tornata liscia, pizzicottiamola tutta col pollici e l'indice come se fosse una guancia. Le dita tirano su verso l'alto la creta, per cui sulla superficie si formano dei rilievi. Che cosa sembrano a voi questi rilievi? "Sembrano tante creste...squame di pesce...". (Forse qualche bambino già condizionato alla passività, in un primo tempo stenterà ad abbandonarsi a questo gioco. Immaginare qualcosa oltre il dato visivo immediato può costargli fatica, ma una volta superata la barriera si sentirà più libero e ricco). Adesso, resa di nuovo liscia la pizzetta, facciamola sottile sottile, quasi come un foglio di carta. Se è così, possiamo arrotolarla: infatti si lascia arrotolare benissimo. Teniamola verticale sul tavolo, che cosa sembra? "Camino...un tubo...una gamba storta..." E invece teniamola orizzontale. Che cosa sembra adesso? "tunnel...treno...". Dunque uno stesso oggetto, messo orizzontale, verticale oppure storto, suscita immagini diverse. Abbiamo arrotolato. Si potrà srotolare? Sì! E da questo pezzo unico e grande, proviamo a farne tanti, piccoli piccoli. Rimettiamo insieme i pezzettini: avremo di nuovo l'unità. Ma qualcosa è cambiato. Dopo avere per tanto tempo manipolato la creta, essa non risponde più come prima. É più secca. È naturale: ha perduto un po' d'acqua. Se la vogliamo far tornare malleabile come all'inizio del gioco, cosa dovremo fare? "Metterci dell'acqua!" (La creta, per riacquistare freschezza, deve essere addizionata ad acqua e impastata a fondo, fino ad impregnarsene. I bambini sono abituati spesso a giochi asettici e quasi già completi in sè che non lasciano grande spazio al suo intervento liberatorio) Quindi qualcuno è un po' imbarazzato, perché il "paciugo" fa schifo. E oltre a tutto evoca il ricordo di proibizioni e rimproveri. Ma poi si sblocca e ride nel piacere della trasgressione e nella soddisfazione del ritorno all'ordine e alla pulizia. Intanto, ha imparato qualcosa sulla chimica della creta. E ora sulla creta liscia appoggiamo la nostra mano e, ben allargata, senza più muoverla, premiamola sulla superficie. Anzi, anche l'altra mano libera la spingerà, prima sul dorso poi sulle dita. La mano lascia la sua impronta. Impronta è quindi un segno 27
lasciato da un corpo che preme su una superficie più morbida rimanendo fermo. Se invece la punta del dito preme sulla sfoglia, ma in movimento, percorrendola tutta, lascia quella che si chiama una traccia. Traccia è un segno lasciato da un corpo che preme, in movimento, su una superficie più morbida. Il primo segno è statico, il secondo è dinamico. Il gioco delle impronte si può fare anche con le scarpe. (Dopo, a seconda dell'impronta lasciata, i bambini si divideranno in gruppi e questo sarà spunto per esercizi di insiemistica e logica-matematica). E arriviamo all'ultimo gioco di questo primo incontro con la creta. Se nascondiamo un pezzetino di argilla in mezzo alle nostre palme e ruotiamo le mani, così una sopra l'altra, come a volte facciamo con la mollica o la gomma da masticare aprendo le mani troveremo una pallina. Possiamo fare tante palline di tante misure diverse e disporle per ordine di grandezza sulla nostra pizza di creta; perché rimangano attaccate alla pizza usiamo una specie di colla che si chiama "barbottina": è sempre argilla ma c'è dentro molta più acqua del solito. Invece delle palline si possono anche fare i colombini, cilindretti che si ottengono facendo scivolare sotto le mani, che vanno avanti e indietro, la creta posta sul tavolo. Fate tanti colombini grandi e piccoli, messi in fila. Vi siete divertiti? Tutti: “sì!”53 53 Ivana Ancorelli in Laboratorio "giocare con l'arte", quaderno n. 3, a cura del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, luglio 1983, pp. 8-12. 28
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