UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI “M.FANNO” CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E MANAGEMENT PROVA FINALE “La valutazione della performance dei Consigli di Amministrazione: metodi e criteri” RELATORE: CH.MO PROF. Antonio Parbonetti LAUREANDA: Federica Zaffalon MATRICOLA N. 1022133 ANNO ACCADEMICO 2013 –2014
INDICE INTRODUZIONE ....................................................................................................................1 CAPITOLO PRIMO ................................................................................................................3 LE CARATTERISTICHE DEL BOARD E IL RUOLO DI CONTROLLO .....................3 1. Il ruolo di controllo...........................................................................................................4 2. L’indipendenza .................................................................................................................5 3. CEO turnover ...................................................................................................................8 4. La dimensione del Board .................................................................................................9 5. Altri studi: diversity ........................................................................................................11 6. Conclusioni......................................................................................................................12 CAPITOLO SECONDO ........................................................................................................13 MODELLI DINAMICI PER L’EFFICIENZA DEL BOARD ..........................................13 1. Il ruolo di servizio e il ruolo strategico .........................................................................14 2. Il capitale intellettuale ....................................................................................................15 3. Le variabili intermedie...................................................................................................18 4. Innovazione e creazione di valore .................................................................................20 5. Conclusioni......................................................................................................................22 CAPITOLO TERZO..............................................................................................................23 IL PROCESSO DI VALUTAZIONE DEL BOARD ..........................................................23 1. Le normative principali in Europa e negli Stati Uniti.................................................23 2. Decidere di intraprendere un processo di valutazione................................................25 2.1 La definizione degli obiettivi....................................................................................25 2.2 Chi e che cosa sarà valutato.....................................................................................26 2.3 Quali tecniche utilizzare...........................................................................................27 2.4 Come utilizzare i dati raccolti..................................................................................28 3. Autovalutazione e valutazione esterna .........................................................................29 4. I benefici ..........................................................................................................................30 5. I questionari di valutazione del Board: alcuni esempi ................................................32 5.1 La valutazione secondo Deloitte ..............................................................................32 5.2 La valutazione secondo KPMG ...............................................................................40 CONCLUSIONI .....................................................................................................................50 BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................................51
INTRODUZIONE Questo lavoro nasce dalla curiosità suscitatami da un articolo pubblicato dall’Economist intitolato “The doofus factor”. L’articolo racconta come il 6 settembre 2011 il CEO di Yahoo, Carol Bartz, fosse stata licenziata per telefono; pochi giorni dopo, in un’intervista esclusiva a Fortune magazine, Bartz rivelererà che “il board era così spaventato dal fatto di essere classificato come il peggior Board del Paese” tanto da licenziarla “per dimostrare di non essere gli incompetenti che sono in realtà.” Il dibattito attorno alla corporate governance è diventato uno dei temi più trattati degli ultimo 15-20 anni. Scandali come il caso Enron negli anni 90, Barings Bank, Parmalat, solo per citarne alcuni, hanno infatti portato alla luce alcune corporate mispractises quali l’utilizzo di pratiche contabili ad altissimo rischio e diffusione di dati falsi, operazioni in conflitto di interesse, remunerazione eccessiva e mancanza di indipendenza del Board of Directors, e evidenziato la necessità di una forte risposta normativa su vari livelli. Dal 2008 poi la crisi economica non ha fatto che aumentare la rilevanza di temi centrali alla governance come la tutela dei mercati e degli investitori. Il Consiglio di Amministrazione ha un ruolo chiave nella governance di un’impresa, e dopo aver letto l’articolo dell’Economist, è spontaneo chiedersi quali siano i criteri che consentano di valutare l’efficacia di un Board. Valutare correttamente la performance del Consiglio di Amministrazione significa comprendere e esaminare un organo in grado di determinare il successo di un’organizzazione così come di impedire scandali che posso avere ripercussioni sull’intera economia di un Paese. Per questi motivi nella prima parte del mio lavoro cercherò di definire il concetto di efficienza del board, rispondendo cioè alla domanda “come deve essere composto e come agisce un board efficace?”; successivamente nella seconda parte invece descriverò quali sono in pratica i principali metodi e le procedure di valutazione della performance che utilizzano i Consigli di Amministrazione delle società anche attraverso alcuni esempi. 1
CAPITOLO PRIMO LE CARATTERISTICHE DEL BOARD E IL RUOLO DI CONTROLLO Il Board of Directors costituisce un argomento di interesse per gli accademici, la comunità finanziaria, il mondo del business e la società nel complesso. Al centro del dibattito sulla corporate governance è il fatto che il board agisca come un guardiano degli interessi degli investitori (Dalton et al., 1998). Tuttavia il board è stato aspramente criticato per aver fallito nell’adempiere alle proprie responsabilità. Negli Stati Uniti, grazie anche alla pressione di investitori istituzionali come Calpers e TIAA-CREF, la legge ha risposto alle crescenti necessità di trasparenza e controllo. Il Sarbanes-Oxley Act, firmato da George W. Bush del 2002 in seguito al clamoroso scandalo Enron, non solo crea il Public Company Accounting Oversight Board, un organo di sorveglianza delle società di revisione, ma impone anche al board la presenza di un comitato di audit composta esclusivamente da amministratori indipendenti; il Dodd-Frank Wall Street Reform and Customer Potection Act firmato da Barack Obama del 2010 è un complesso intervento legislativo volto a promuovere una migliore e completa protezione del settore finanziario, e prevede anche che gli azionisti abbiano la possibilità di votare la remunerazione del management (il cosiddetto say-on-pay vote). L’interesse della comunità economica nell’efficienza del board ha stimolato la ricerca accademica, guidata da una domanda comune, ossia in che modo il board of directors abbia un impatto sulla performance (Levrau, Van den Berghe 2007). Gran parte di questa ricerca si è concentrata nell’identificare l’efficienza attraverso una relazione diretta tra le caratteristiche del board e la performance dell’organizzazione, ponendosi domande come “un board più indipendente migliora la performance?”. Gli studiosi hanno così individuato determinati requisiti che un board efficace dovrebbe soddisfare. Utilizzando la performance finanziaria come proxy, gli accademici hanno testato in questo modo l’efficacia del board nel proteggere gli interessi degli shareholders. L’efficacia in sé è anche misurata attraverso alcuni indicatori come ad esempio il CEO turnover, a individuare il grado di disciplina imposta al CEO o al top management (John, Senbet 1998). Prima misurare una performance è però necessario definirne gli obiettivi; la letteratura ha individuato tre ruoli fondamentali del board (Levrau e Van den Berghe 2007 citano Zahra e Pearce, 1989; Maassen 1999): il ruolo di controllo, di servizio, strategico (gli ultimi due saranno presentati nel capitolo successivo). 3
1. Il ruolo di controllo La ragion d’essere primaria della corporate governance è la separazione tra proprietà e controllo: la corporate governance si occupa infatti dei meccanismi con la quale gli stakeholders di una società esercitano il loro controllo sul management della stessa in modo che i propri interessi siano protetti. Gli azionisti infatti, specie nelle società a proprietà molto diffusa, non hanno né risorse né gli incentivi necessari a esercitare un controllo efficace sulla gestione della società. Qualunque azionista che voglia esercitare del controllo sulla società deve farsi carico di tutti i costi per solo una piccola porzione dei benefici; ciò da luogo al cosiddetto free rider problem. La separazione tra proprietà e controllo insomma genera enormi possibilità di crescita e sviluppo ma crea anche sfide nella gestione della relazione tra l’assetto proprietario e i manager. Tali problematiche possono essere spiegate attraverso la teoria dell’agenzia, elaborata da Jensen e Meckling (1976). Questi definiscono una relazione di agenzia come “un contratto in base al quale una persona (il principale) obbliga un’altra persona (l’agente) a ricoprire per conto suo una data mansione, che implica una delega di potere all’agente”. Ciò genera un’asimmetria informativa tra le parti, in quanto l’agente (nel nostro caso il manager) ha più informazioni del principale (gli azionisti) sul compito da svolgere, e il principale non è in grado di controllare completamente l’agente. L’opportunismo delle parti porta a un uso delle asimmetrie informative a proprio vantaggio, generando due problemi: la selezione avversa e l’azzardo morale (Jensen e Meckling, 1976, Fama e Jensen 1983). Un corretto equilibrio tra i diversi soggetti operanti in una società non è semplice: se da un lato i manager devono avere il potere di prendere decisioni, e di farlo velocemente, dall’altro la proprietà deve essere sicura che questo potere non sarà abusato (Monks, Minow 2011). Il consiglio di amministrazione si inserisce in questo contesto agendo come un fulcro, fornendo cioè equilibrio e mediazione dei conflitti tra il gruppo di manager e la proprietà. Il controllo del Board può essere considerato con sfumature differenti a seconda dell’ambiente che si considera: nei Paesi anglosassoni caratterizzati dalla presenza di public company a proprietà polverizzata tra una miriade di investitori gli amministratori devono prevenire comportamenti pericolosi e dannosi del management per massimizzare il ritorno agli investitori. In questi Paesi in particolare il ruolo fiduciario del Board è altamente enfatizzato: è la legge stessa ad imporre agli amministratori il dovere fiduciario di assicurare che la società sia gestita nell’interesse a lungo termine della proprietà, gli shareholders che forniscono il capitale (Monks, Minow 2011); in particolare, gli amministratori hanno il dovere legale di loyalty e care, lealtà e diligenza. In Europa, in cui le società sono caratterizzate dalla presenza 4
di shareholder di controllo, il focus è su una adeguata rappresentazione e protezione degli azionisti di minoranza e altri diversi stakeholders. Secondo questo primo approccio dunque, il consiglio di amministrazione è una “istituzione economica che aiuta a risolvere i problemi di agenzia che riguardano qualsiasi organizzazione” (Hermalin and Weisbach 2000), un sistema di controllo interno che ha il compito di far convergere gli interessi di proprietà e management nella stessa direzione. 2. L’indipendenza Il compito primo degli amministratori è quello di sorvegliare il management. Per valutare in modo critico le proposte del management e guardare in maniera distaccata gli interessi e i valori dei manager è chiaro che essi debbano essere indipendenti. Il concetto di indipendenza degli amministratori è un tema ampiamente discusso e una questione centrale per la corporate governance. Tuttavia, non vi è un’unica e costante definizione del termine “indipendenza”. Anche qui, le sfumature nascono innanzitutto dal contesto considerato, se una public company anglosassone o una società dell’Europa continentale. Secondo Monks e Minow (2011) un amministratore indipendente non ha nessun’altra connessione con la società oltre al lavoro svolto nel Board. Questo non esclude solo gli impiegati della società, ma anche i familiari degli impiegato e gli avvocati, banchieri, consulenti della società stessa. Alcune definizioni includono persone connesse ai fornitori, ai clienti, debitori o creditori della società, o amministratori che siedono in altri Board (i cosiddetti interlocking directors). In Italia, il Comitato per la Corporate Governance (2011) definisce indipendenti quegli amministratori non esecutivi che non intrattengono, né hanno hanno di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con l'emittente o con soggetti legati all'emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l'autonomia di giudizio. Mentre nelle società a proprietà diffusa (tipicamente le public company anglosassoni) l’indipendenza è da riferirsi esclusivamente al management e l’aspetto più delicato sussiste nell’allineamento degli interessi degli amministratori esecutivi con quelli degli azionisti, anche il Codice di Autodisciplina sottolinea come “negli emittenti a proprietà concentrata, o dove sia comunque identificabile un gruppo di controllo, emerga altresì l’esigenza che alcuni amministratori siano indipendenti anche dagli azionisti di controllo”. 5
Il Comitato fornisce una serie di ipotesi secondo la quale, di norma, un amministratore non appare indipendente. Tali ipotesi non sono tassative, a sottolineare il fatto che il Consiglio debba valutare l’indipendenza “avendo più riguardo alla sostanza che alla forma”. È infatti importante considerare la differenza tra un’indipendenza formale, data dal rispetto di alcuni prerequisiti, e l’indipendenza di giudizio, non influenzata da legami professionali o personali. Sempre secondo il Comitato, “l’indipendenza di giudizio è un atteggiamento richiesto a tutti gli amministratori, esecutivi e non esecutivi”. Parte della ricerca parte dall’assunzione che l’efficienza del board sia una funzione dell’indipendenza dal management, e alcuni autori hanno prodotto risultati che confermano l’impatto positivo dell’indipendenza del board sulla ricchezza degli azionisti. In ogni caso, l’impossibilità di osservare e misurare l’indipendenza e altri problemi legati ai modelli econometrici utilizzati rendono difficili le ricerche così come l’interpretazione dei risultati. Rosenstein e Wyatt (1990) misurano l’effetto finanziario dell’annuncio della nomina di un nuovo amministratore indipendente nel periodo 1980-85, scoprendo che questo è associato a un aumento della ricchezza degli investitori in modo statisticamente significativo. Brickley et al. (1994) esaminano la questione se davvero gli amministratori indipendenti perseguano gli interessi degli stakeholder, attraverso i dati da un campione di società che hanno adottato delle poison pills. Le poison pills possono potenzialmente danneggiare o beneficiare gli azionisti, essendo adottate dal board senza un voto da parte della proprietà. Secondo gli autori boards affiliati al management usano le poison pills per respingere un’Offerta Pubblica di Acquisto, mentre boards che promuovono gli interessi degli azionisti usano le poison pills per aumentare il più possibile i termini dell’offerta. Se gli amministratori indipendenti perseguono gli interessi della proprietà, la probabilità di usare una poison pill per danneggiare gli shareholders diminuisce con il numero di indipendenti nel board. Poiché il mercato può osservarne la struttura, questo effetto è incorporato nella reazione nel prezzo delle azioni dopo l’adozione della poison pill, che per ipotesi è positiva se gli amministratori indipendenti costituiscono la maggioranza del board. Se gli amministratori indipendenti non rappresentano gli interessi degli shareholders, la probabilità di adottare una poison pill per danneggiare gli investitori non varierà con il numero di amministratori indipendenti sul board. Il principale risultato del lavoro di Brickley, Coles (1994) è una relazione positiva e statisticamente significativa tra la reazione del prezzo delle azioni dopo l’adozione della poison pill e la frazione di amministratori indipendenti. I risultati suggeriscono dunque che gli amministratori indipendenti agiscono nell’interesse degli azionisti. Altra parte della ricerca invece trova risultati contrastanti, se non opposti ai precedenti. 6
John e Senbet (1998) fanno riferimento a Fosberg (1989) che testa la relazione tra la la proporzione di amministratori indipendenti e varie misure della performance di un’impresa. Fosberg afferma che se questi sono efficaci nel disciplinare il management, allora dovrebbero esserci differenze in misure come i cashflow o il return on equity tra le società in cui il controllo del board è forte e quelle in cui è debole. Tuttavia, non è in grado di confermare questa ipotesi attraverso i suoi risultati. Non vi è infatti una relazione significativa tra la proporzione di amministratori indipendenti e le altre variabili considerate; ad esempio, le società il cui board non è a maggioranza indipendente ha un ROE maggiore dell’1.1% rispetto a quelle il cui board è a maggioranza indipendente (una differenza comunque statisticamente non significativa). Hermalin e Weisbach (1991) misurano l’impatto della composizione del board e della struttura proprietaria sulla peformance, utilizzando un campione di 142 società quotate alla Borsa di New York. Non risulta alcun effetto della composizione del board sulla performance, mentre risultati statisticamente significativi sono ottenuti per la struttura proprietaria. La performance infatti migliora (o nell’ottica della teoria dell’agenzia, “i costi di agenzia diminuiscono”) aumentando la quota di proprietà del management quando questa è inferiore al 20%, mentre peggiora aumentando la quota di proprietà del management quando questa è sopra il 20%. Ciò accade perché se il management stesso è proprietario di quote della società si eliminano le asimmetrie informative, in quanto il rapporto di agenzia viene a mancare; tuttavia oltre determinate soglie di proprietà del management i costi di agenzia potrebbero aumentare nei confronti dei piccoli azionisti di minoranza. Gani e Jermias (2006) infine propongono un approccio nuovo per comprendere meglio la relazione tra indipendenza del board e performance. Essi dimostrano infatti che l’indipendenza del board ha un effetto maggiore per le società che perseguono una strategia di efficienza dei costi che per quelle che perseguono una strategia di innovazione. Ciò accade perché dato che le imprese che si impegnano in una strategia di efficienza enfatizzano il controllo dei costi, esse beneficeranno di più dall’indipendenza del board in quanto amministratori indipendenti monitoreranno il management in modo più efficace, impedendo qualunque comportamento opportunistico e incoraggiandoli a gestire la società in modo efficiente. Questo tipo di controllo invece potrebbe limitare le iniziative dei manager a intraprendere azioni creative e innovative e nuovi investimenti, elementi chiave in una strategia dell’innovazione. I risultati di questa ricerca hanno implicazioni importanti dal punto di vista politico e pratico: se da un lato supportano le recenti riforme atte a migliorare il monitoraggio del management da parte del board, dall’altro suggerisce come l’impatto di una maggiore indipendenza del 7
board non sia lo stesso per tutte le imprese, e che quindi questa non debba essere vista come un rimedio che migliori la performance di qualunque società. Come vedremo per la composizione del board, il grado di indipendenza appare come una caratteristica guidata dalle forze dall’ambiente competitivo in cui l’impresa opera, una caratteristica dunque endogena, che non può essere determinata a priori in modo ottimale per tutte le società. 3. CEO turnover L’efficacia del board nelle sue funzioni di monitoring si manifesta anche nelle decisioni di licenziamento o assunzione di nuovo management, e infatti uno dei compiti del board più discussi è la scelta del CEO o Amministratore Delegato e la sua eventuale sostituzione. Per questo motivo alcuni studi hanno utilizzato il CEO turnover come una misura dell’efficacia del board. In generale esiste una relazione positiva tra il CEO turnover e una performance non soddisfacente, nelle grandi società così come in altri tipi di organizzazione (Hermalin, Weisbach 2003): quando la performance non è buona, è più probabile che il Consiglio decida di sostituire il CEO. Per comprendere meglio questa relazione, Weisbach (1988) inserisce in questa relazione la composizione del consiglio, esaminando la relazione tra cattiva performance e CEO turnover per due distinti gruppi di boards: quelli a maggioranza indipendenti e a maggioranza composti da esecutivi. In questo modo l’autore è in grado di verificare l’ipotesi che amministratori esecutivi e indipendenti agiscono in modo differente nelle decisioni di sostituzione del management. Le carriere degli amministratori esecutivi infatti sono legate al CEO e perciò questi non possono o non vogliono sostituire l’amministratore delegato; se d’altro canto anche gli amministratori indipendenti possono essere stati scelti dal management, continua Weisbach, questi sono generalmente personaggi importanti nel mondo accademico o del business, le cui reputazioni risentono di un’esperienza in una società mal gestita. Per gli amministratori indipendenti lavorare in una società di successo segnala la loro competenza al mercato. Lo studio di Weisbach si riferisce al periodo 1974-1983 utilizzando la lista delle 500 società più grandi di Forbes; utilizza un modello LOGIT per stimare la probabilità di licenziamento del CEO in relazione al rendimento dell’azione, agli utili e alla composizione del board. I risultati indicano che la performance gioca un ruolo importante nelle scelte di sostituzione del CEO quando il consiglio è a maggioranza indipendente, mentre tali decisioni non sono 8
altrettanto sensibili alla performance quando il consiglio è per la maggior parte composto da esecutivi. Nel primo caso, la probabilità varia dal 7% per le società dalla performance peggiore all’1.3% per quelle migliori; nel secondo caso la probabilità varia dal 3.6% al 5.7%. Possiamo quindi affermare che quando gli amministratori sono più vigili e pronti a sostituire il management, dovrebbe esserci creazione di valore per gli azionisti e il turnover del CEO, quando è collegato alla performance, può aiutarci a comprendere se il consiglio sta svolgendo adeguatamente il proprio ruolo di controllo. 4. La dimensione del Board Un’altra carateristica del board sul quale si sono concentrati gli studiosi verificandone l’impatto sulla performance è la dimensione. Se ad oggi il numero di amministratori è significativamente diminuito, arrivando a 10 (Monks e Minow, 2011), il dibattito sull’argomento rimane complesso. All’aumentare del numero di amministratori infatti migliora la capacità di monitoraggio del board, ma aumenta anche il costo di una comunicazione più difficile e un percorso più complesso di presa di decisioni. (John, Senbet 1998). Per questo motivo diminuire il numero di amministratori può aumentarne l’efficacia, come dimostrano Lipton e Lorsch (1992), Jensen (1993), Yermack (1996). Tuttavia i risultati riguardo la relazione tra dimensione del board e performance sono contrastanti, come dimostrano studi più recenti. Coles, Naveen D.D., Naveen L. (2008) sostengono che le imprese più complesse, in base a criteri quali la dimensione e la diversificazione, debbano avere un board più numeroso, in quanto hanno una maggiore necessità di controllo e in quanto un maggior numero di amministratori apporti più conoscenza e esperienza. I risultati ottenuti confermano questa ipotesi: utilizzando una variabile binomiale per rappresentare la complessità dell’impresa, la dimensione stimata del board per una società complessa è maggiore del 12% rispetto a un’impresa semplice. Boone, Field, Karpoff e Raheja (2007) si interrogano quindi sulle forze che determinano la dimensione e la composizione del board. Essi individuano tre forze fondamentali: in primo luogo, la struttura del board è determinata dalla complessità delle operazioni del board, la cosiddetta scope of operation hypothesis; successivamente, è determinata dall’ambiente in cui l’impresa opera e dal costo delle informazioni necessarie per gestire le operazioni, la monitoring hypothesis; infine, secondo la negotiation hypothesis, il board è anche il risultato della negoziazione e delle dinamiche tra il CEO e gli amministratori indipendenti. 9
Ciascuna di queste ipotesi è utile per predire la dimensione di un board: la scope of operations hypothesis suggerisce che il board cresce all’aumentare della complessità (dimensione dell’impresa, anni di attività, numero di segmenti nella quale opera), in risposta ai benefici di un maggiore controllo e una maggiore specializzazione degli amministratori; la monitoring hypothesis invece considera il trade off correlato ad un maggiore controllo da parte del board, sostenendo che la dimensione del board è correlata negativamente alle diverse proxy per il costo di tale monitoraggio: maggiori i costi, minore sarà la dimensione del board. La negotiation hypothesis si concentra invece sul numero di amministratori indipendenti, sostenendo che il numero di indipendenti è negativamente correlato alle misure dell’influenza del CEO, come ad esempio la sua quota di proprietà o la durata del mandato. Gli autori utilizzano un campione di società che si sono quotate nel periodo 1988-1992 e utilizzano la dimensione, gli anni di attività e la diversificazione come misure della complessità delle operazioni. La prima delle ipotesi, la scope of operations hypothesis, è soddisfatta: la dimensione del board aumenta mentre la società cresce, matura, diversifica le proprie attività e diventa più complessa. È verificata anche la monitoring hypotesis attraverso ben sette variabili. Le prime tre variabili riguardano le opportunità per i manager di ottenere dei benefici privati: i free cash flows, la concentrazione del settore in cui l’impresa opera, e la presenza di meccanismi contro le offerte di acquisto. Maggiori le opportunità di comportamenti opportunistici da parte dei manager, maggiore sarà il numero di amministratori. Le altre quattro variabili misurano il costo del monitoraggio da parte di amministratori indipendenti e maggiori sono i costi, minore è il numero di amministratori nel board. Società con alto market-to-book ratio (il rapporto tra il valore di mercato e valore contabile del capitale proprio) o elevati costi di ricerca e sviluppo hanno maggiori prospettive di crescita futura e sono più difficili da valutare adeguatamente e controllare da parte di amministratori non esecutivi e quindi non coinvolti nelle attività, così come un’elevata volatilità del prezzo delle azioni rappresenta incertezza riguardo al futuro della società, e una conseguente difficoltà nel giudicarne la performance. Infine, anche la quota di proprietà del CEO è utilizzata come proxy dei costi di monitoraggio anche se non collegata direttamente ad un aumento di tali costi. Come in Coles, Naveen (2008) i risultati ottenuti indicano quindi come non esista una dimensione o una composizione ideale per determinare un board efficace in senso assoluto, ma queste riflettono degli aggiustamenti endogeni ed efficienti all’ambiente competitivo in cui l’impresa opera. Tali caratteristiche del board sono quindi modellate da una combinazione di fattori, come per esempio la complessità delle operazioni e ai benefici e costi del monitoraggio del management, sono quindi il risultato di un processo competitivo. 10
Per questo motivo, concludono Boone, Field, Karpoff e Raheja (2007), è poco probabile che regole o linee guida generali sulla governance, come limitazioni della dimensione del board, creino valore allo stesso modo per tutte le imprese. 5. Altri studi: diversity La board diversity si riferisce al grado di eterogeneità all’interno del consiglio per alcune caratteristiche informative o demografiche (Levrau, Van den Berghe 2007) quali conoscenze, capacità e competenze. Avere amministratori con diversi background nell’educazione o nell’esperienza professionale è un fattore importante per un board, per diversificare le proprie risorse disponibili e rispondere in modo efficace alle dinamiche dell’ambiente competitivo. Vi è un crescente interesse nella diversificazione del board, grazie anche alla pressione di investitori istituzionali come TIAA-CREF o altri attivisti. Tale interesse è spiegato in due modi: parte della ricerca approccia il problema da un punto di vista morale ed etico e si concentra sull’iniquità sociale per identificare pratiche discriminatorie sul posto di lavoro verso le donne o le minoranze etniche; altri studi considerano la diversificazione da un punto di vista organizzativo ed economico esaminandone gli effetti sull’attività di un’impresa (Levrau, Van den Berghe 2007). Dal punto di vista della teoria della dipendenza da risorse infatti, un board più diversificato aiuta l’organizzazione ad ottenere le risorse critiche per la sua sopravvivenza (Pfeffer, Salancick 1978). Tra i pochi studi che trattano l’argomento, Kim e Lim (2008) studiano l’effetto di caratteristiche come l’età, il tipo di educazione e la diversità degli amministratori indipendenti nelle società koreane. Gli amministratori indipendenti in Korea sono diventati infatti un gruppo più variegato e numeroso dopo le riforme in materia di corporate governance nel 1988 con le Securities Listing Regulations promosse dal governo. Utilizzando una forma modificata dell’indice di Herfindal per misurare il grado di diversità, i due autori sono in grado di ricavare una relazione positiva tra il grado di diversità e la valutazione della società espressa dal Tobin Q. Società con amministratori di età differente e con un tipo di formazione diversa hanno quindi una valutazione migliore. Altri studiosi sostengono invece che un eccessivo grado di diversità possa rendere più complessa la comunicazione all’interno del board, creando inefficienza, rendendo difficile il lavoro del board e impedendo le decisioni strategiche importanti in tempi di turbolenza nell’ambiente esterno (Clegg 1990; Powell 1991; Jensen e meckling 1976; Adams e Ferreira, 11
2003). Tuttavia non esiste evidenza empirica su una relazione negativa tra diversità e performance (Kim, Lim 2008). 6. Conclusioni In questo primo capitolo abbiamo affrontato un approccio “tradizionale” alla valutazione del Consiglio di Amministrazione osservando come gli studiosi, nel tentativo di individuare i requisiti di un board efficiente, abbiano verificato l’impatto di diverse caratteristiche alla base di un consiglio (indipendenza, dimensione, diversità, grado di monitoraggio del management) sulla performance dell’impresa. Tuttavia i risultati sono spesso contrastanti e inconcludenti, fino al punto che alcuni hanno iniziato a definire tali caratteristiche come endogene, cioè siano il risultato di un adattamento all’ambiente esterno per garantirne la sopravvivenza e il successo. Difficilmente quindi è possibile individuare una regola universalmente valida per definire a priori un board efficiente. Da qui sembra quindi inevitabile dover tentare un approccio diverso alla valutazione del board, considerando altri fattori e utilizzando una visione più ampia di quest’organo per comprendere meglio come funzioni e quale sia il suo ruolo all’interno di un’organizzazione. 12
CAPITOLO SECONDO MODELLI DINAMICI PER L’EFFICIENZA DEL BOARD Levrau, Van den Berghe (2007) e McCahery, Vermeulen (2014) spiegano a fondo le ragioni per cui gli studi tradizionali sull’efficienza del board risultano così contrastanti e inconcludenti. Secondo Levrau, Van den Berghe (2007) la mancanza di risultati chiari negli studi empirici su una diretta relazione tra le caratteristiche del board e la performance dell’organizzazione sono dovuti principalmente a due problematiche: (i) la mancanza di una chiara definizione delle variabili esaminate e (ii) il fare affidamento su modelli di ricerca incompleti. Il punto (i) riguarda le diverse e varie definizioni delle variabili utilizzate nella ricerca, come ad esempio la definizione di “composizione del board”. Questa può essere infatti definita in più modi, come ad esempio il numero assoluto di indipendenti, la proporzione tra indipendenti ed esecutivi, oppure attraverso una distinzione “più della metà indipendenti” / ”meno della metà”; oppure, è possibile distinguere ulteriormente tra indipendenti e affiliati, considerati come amministratori di fatto non indipendenti. Senza contare le difficoltà e le discussioni attorno alla definizione di una corretta misurazione della performance di un’organizzazione: misure basate sul mercato, sul valore contabile, fino a metodi che arrivano a prendere in considerazione fattori come la responsabilità sociale e ambientale. Il punto (ii) invece afferma che i modelli utilizzati nelle ricerche siano incompleti: in particolare, si concentrano su una relazione diretta tra le caratteristiche del consiglio e la performance dell’impresa ignorando il potenziale delle variabili intermedie (intervening variables) (Levrau, Van den Berghe 2007). In questo contesto McCahery e Vermeulen (2014) aggiungono che la preoccupazione riguardo la riduzione dei costi di agenzia e il focus nel lungo termine limita la nostra comprensione del board of directors. È necessario quindi andare oltre l’approccio tradizionale e comprendere appieno in che modo un consiglio di amministrazione influisca sulla performance di un’impresa, partendo da un’estensione dei ruoli giocati dal board nell’organizzazione. 13
1. Il ruolo di servizio e il ruolo strategico Compito del Consiglio di Amministrazione non è solamente quello di monitorare l’operato del management in un’ottica di riduzione dei costi di agenzia. Il secondo ruolo del board, definito di servizio (Levrau, Van den Berghe 2007) deriva dalla teoria della dipendenza da risorse e dalla stewardship theory. Il board infatti può essere visto come un “veicolo per cooptare le relazioni con importanti organizzazioni esterne nei confronti delle quali l’impresa è interdipendente” (Pfeffer e Salancick, 1978); avrebbe insomma l’importante ruolo di stabilire contatti e relazioni strategiche con l’ambiente esterno e raccogliere risorse critiche come ad esempio informazioni o contatti, e grazie ad esse consigliare e supportare il management. La stewardship theory (Donaldson, Davis 1991) propone un approccio opposto a quello della teoria dell’agenzia: i manager sono buoni amministratori delle risorse dell’organizzazione perché sono guidati da una serie di motivazioni non necessariamente economiche, come la soddisfazione per una buona performance, il bisogno di riconoscimento e realizzazione di sé. In quest’ottica il ruolo di controllo viene meno per far spazio all’idea di un board come importante strumento strategico di servizio, attraverso l’attiva partecipazione al processo decisionale e alla formulazione della strategia; in tal senso ruolo di servizio e quello strategico si sovrappongono parzialmente. Il ruolo strategico può essere visto alternativamente come “attivo” o “passivo”. Golden e Zajac (2001) spiegano come alcuni studiosi vedano il consiglio come lo stampino o lo strumento del management, in quanto altamente dipendente da esso per avere una leadership, ottenere direzione e informazioni (Golden e Zajac citano Herman, 1981; Pfeffer, 1972, pag. 219). Parte degli studiosi invece considera il board of directors come un gruppo di agenti indipendenti che intraprendono un ruolo attivo nella definizione delle decisioni strategiche dell’organizzazione. Tale ottica sta ricevendo crescente attenzione dal mondo accademico e da quello economico, mentre non è ancora stata affrontata nelle riforme normative (Nicholson, Kiel, 2004) che si sono concentrate invece sul ruolo di controllo, come ad esempio il Sarbenes Oxley Act e il Dodd-Frank Act precedentemente citati. Essendo chiaro come il board possa avere anche un impatto dal punto di vista strategico sull’operato di una società, cambia anche l’approccio alla valutazione della sua efficienza, e si delinea la necessità di utilizzare modelli più complessi e dinamici che si concentrino sui meccanismi interni al board piuttosto che sulle sue caratteristiche in senso assoluto. 14
2. Il capitale intellettuale Un primo modello per comprendere come funzioni un Consiglio è quello ideato da Nicholson e Kiel nel 2004, basato sul concetto di capitale intellettuale. Il modello si basa su alcuni componenti chiave: una serie di input portano alla formazione di un particolare mix di capitale intellettuale; gli elementi che costituiscono il capitale generano i comportamenti del board. Infine, il board mobilizza il suo capitale intellettuale per svolgere i propri ruoli, la cui natura dipende dalle necessità dell’organizzazione, producendo degli output. Gli input nel modello sono i confini entro la quale l’organizzazione opera; rappresentano quindi le condizioni operative o altri fattori materiali. Questi input sono cinque: (i) il tipo di organizzazione: considera la natura e lo scopo dell’organizzazione, al di là della struttura organizzativa (for-profit, non-profit, governativa, ecc.). (ii) il contesto sociale e legislativo in cui si inserisce l’organizzazione, cioè le regole entro le quali essa opera; (iii) l’atto costitutivo, in quanto raccoglie le regole definite tra la proprietà e gli altri membri dell’organizzazione; (iv) la storia dell’organizzazione: questo quarto input si differenzia dagli altri tre in quanto riflette in che gli eventi passati, l’impatto delle diverse fasi di sviluppo dell’impresa influenzino le attività correnti. Per esempio, la performance passata, la cultura organizzativa, i valori condivisi, influenzeranno le decisioni riguardo che siede nel board e quali attività esso compie; (v) l’input finale è la strategia, il modo in cui l’impresa utilizza le proprie risorse, che aiuterà a determinare i ruoli che deve coprire il board e il capitale intellettuale necessario ad adempiere ad essi. Tali input vengono trasformati in output attraverso un processo dinamico. Ciò che permette al board di svolgere i propri ruoli è il proprio capitale intellettuale, definito come “le risorse intellettuali come la conoscenza, le informazioni, l’esperienza, le relazioni, le routines e le procedure che un board può utilizzare per creare valore”. (Nicholson, Kiel 2004). Il capitale intellettuale è formato da diverse componenti: il capitale umano, sociale, strutturale e culturale. Il capitale umano è costituito dalle conoscenze, abilità e competenze possedute da ciascun componente del board e rappresenta il punto di partenza per comprendere la dinamica del processo decisionale; il capitale sociale invece è costituito dalle risorse disponibili in virtù delle relazioni sociali tra gli attori del sistema. Il terzo componente, il capitale strutturale, 15
rappresenta le conoscenze del board, come ad esempio procedure, routines, processi e metodi che sono stati sviluppati esplicitamente o implicitamente. Infine il capitale culturale è costituito dai valori, dalle norme e dalle regole determinate dalle istituzioni dominanti, ad esempio aspettative di onestà, trasparenza e così via. Il modello spiega i comportamenti e le dinamiche all’interno del board come un’interazione tra le diverse componenti del capitale intellettuale. Le componenti del capitale rappresentano lo stock presente negli attori del sistema o nel gruppo, mentre le dinamiche sono le attività intraprese dagli attori che cambiano lo stock di capitale del board. Una dinamica genera quindi un cambiamento nel capitale intellettuale, così come può accadere viceversa, quando è un cambiamento in un componente del capitale a generare una dinamica all’interno del board. Prendiamo ad esempio il caso in cui un nuovo amministratore entri a far parte del consiglio: in questo caso il capitale umano è variato. Il nuovo membro del board, dopo aver seguito il processo di inserimento, pensa che questo possa essere migliorato e ne parla durante una riunione del consiglio: ciò costituisce una dinamica. Tale dinamica può generare un cambiamento nel capitale intellettuale in vari modi, a seconda del risultato della discussione: se il processo di inserimento viene cambiato, ciò rappresenta un cambiamento nel capitale strutturale, mentre se il consiglio decide di non cambiarlo allora la discussione produrrà comunque dei cambiamenti nel capitale sociale, cioè nelle relazioni interpersonali tra gli amministratori. I ruoli del board sono definiti dagli autori come il controllare l’organizzazione, consigliare il management e fornire accesso a risorse critiche attraverso relazioni e contatti con l’ambiente esterno: l’abilità nell’adempiere a questi compiti determinerà l’efficacia del board. Non tutte le organizzazioni tuttavia devono rispondere alle stesse necessità, che variano a seconda di diversi fattori contingenti. Per concludere, l’attività del board genera degli output non solo a livello dell’organizzazione nel complesso ma anche a livello gruppo e a livello di singolo amministratore (soddisfazione e riconoscimento per esempio). Nicholson e Kiel dimostrano come questo modello possa essere utilizzato come strumento di diagnosi di problemi all’interno del consiglio attraverso un modello a dieci step (adattato da Nadler e Tushman, 1980 pag. 48). È quindi possibile utilizzare questo modello per testare l’efficacia di un board, e per risolvere eventuali problematiche riscontrate. (i) Identificazione dei sintomi: il primo step consiste nel raccogliere dati sui problemi riscontrati dal board nello svolgimento delle proprie attività; (ii) Specificazione degli input: il passo successivo consiste nell’identificare le influenze chiave nei processi del board, ossia identificare gli input del processo, e in particolare esaminare la missione e la strategia dell’impresa nel complesso; 16
(iii) Identificazione degli output: dopo l’esame degli input, è necessario individuare chiaramente gli output desiderati, gli obiettivi che ci si aspetta il board raggiunga; (iv) Identificazione del problema: metre nel punto (i) si trattava di individuare i sintomi dei problemi osservati dagli amministratori, in questo punto è necessario scoprire la fonte di tali sintomi, comparando i risultati attesi e i risultati effettivamente ottenuti; (v) Descrizione del capitale intellettuale: una volta chiarito il problema, il quinto step consiste nell’individuare le sue cause, partendo da una descrizione del capitale intellettuale del board dell’impresa; (vi) Descrizione dei ruoli del board: lo step successivo consiste nel comprendere i ruoli svolti dal consiglio; (vii) Verifica dei ruoli: identificati i ruoli svolti dal board, è necessario comprendere se questi ruoli sono adatti alle necessità della società e in linea con la strategia; (viii) Verifica del capitale intellettuale rispetto ai ruoli: l’ottavo step consiste nel verificare la compatibilità tra i ruoli svolti dal board e i suoi componenti, utilizzando i dati raccolti negli step precedenti; (ix) Sviluppo di ipotesi: con i dati raccolti è ora possibile formulare un’ipotesi sul perché dell’esistenza del problema, collegando cioè il problema identificato nel punto 4 con le analisi svolte nei punti successivi ad esso; (x) Sviluppo del piano d’azione: lo step finale consiste nello pianificare una serie di azioni volte a risolvere le incongruenze e il problema osservato. Quello di Nicholson e Kiel è un primo tentativo interessante di schematizzare le dinamiche che si creano all’interno di un Consiglio di Amministrazione. Si tratta di un modello che lascia aperte ancora molte domande –sono stati evidenziati tutti gli elementi chiave? Le relazioni evidenziate sono davvero la chiave per comprendere il funzionamento del board?- ma si tratta di un importante punto di partenza in quanto manca un modello generale di problem-solving per i boards (Nicholson e Kiel 2004). Sebbene ogni situazione di governance sia unica, il modello può essere utile per capire se ci sono dei problemi comuni che i consigli di amministrazione devono affrontare. 17
3. Le variabili intermedie Levrau e Van den Berghe (2007) costruiscono un modello basato sull’individuazione di tre intervening variables, variabili intermedie, che caratterizzano l’attività del board e ne influenzano la performance; caratteristica importante di queste variabili è che possono essere misurate all’interno del consiglio interpellando gli amministratori stessi con questionari o interviste. Le tre variabili in questione descrivono l’andamento dei processi all’interno di un gruppo e sono: coesione, dibattito e norme di conflitto. Innanzitutto gli autori suggeriscono che un certo livello di coesione tra i membri del consiglio sia indispensabile, in quanto si tratta di un organo collegiale e come tale i suoi membri devono prendere decisioni attraverso la cooperazione e compiendo sforzi comuni e condivisi. Solo se gli individui che lo compongono sono in grado di formare un gruppo unito può emergere un giudizio collettivo compiuto. La coesione è definita come “l’intensità con la quale i membri del gruppo sono legati gli uni agli altri e sono motivati a restare nel gruppo” (Levrau e Van den Berghe citano Shaw, 1976 pag.197). La coesione e il senso di appartenenza al gruppo sono caratteristiche importanti nella valutazione del board, e possono essere valutati attraverso concetti come lo spirito di gruppo e il lavoro di gruppo. La seconda variabile proposta è il dibattito, cioè “l’aperta discussione sulle differenti visioni del lavoro del gruppo e del sostegno da parte degli amministratori di diversi approcci al processo decisionale in questione”. Il dibattito è insomma lo strumento fondamentale di lavoro di qualsiasi gruppo che deve prendere una decisione, e rappresenta l’opportunità per ciascun membro di esprimere la propria opinione data dalle sue esperienze e dalla sua personale prospettiva. Il dibattito può essere esaminato all’interno del consiglio chiedendo agli amministratori di valutare affermazioni come “le discussioni durante le riunioni sono costruttive”, “diversi membri propongono diversi approcci al problema”, “i membri mettono alla prova apertamente le opinioni degli altri”. Le norme di conflitto infine si inseriscono nel modello con un ruolo di moderatore. Tali norme costituiscono “un insieme di regole informali e non scritte derivate da concezioni condivise che regolano il comportamento dei membri del board” (Levrau e Van den Berghe citano Shaw, 1976). I membri del gruppo infatti si comportano in modo diverso l’uno dall’altro, ma tutti si interessano a come sono percepiti dagli altri e rispettano le norme del gruppo. Sono tali norme tacitamente rispettate da tutti che creano un’atmosfera in cui gli amministratori si sentano liberi di esprimere la propria opinione e che permettano l’emergere di un aperto dibattito: senza tali regole, il board non potrebbe sfruttare quindi la propria 18
diversità e l’esperienza a sua disposizione. Per questo motivo le norme di conflitto si differenziano rispetto alle altre variabili intermedie: il dibattito è generato dalla grandezza, dalla diversità e dall’indipendenza del board, e la coesione sarà influenzata dalle stesse; le norme di conflitto invece permettono di sfruttare le caratteristiche del board nella generazione di un’aperta discussione. Le dinamiche del modello sono costituite da una serie di proposizioni: le prime descrivono l’impatto delle caratteristiche del board sulla coesione e sul dibattito, mentre le ultime descrivono il ruolo delle norme di conflitto e infine l’impatto di coesione e dibattito sulla performance del board. Nelle prime tre proposizioni gli autori riassumono ciò che abbiamo visto precedentemente riguardo le caratteristiche del board. L’aumento della dimensione causa una migliore generazione di dibattito, ma esisterà un punto in cui l’aumento dei costi in termine di gestione della comunicazione e perdita di produttività supereranno i benefici. Un maggior numero di amministratori indipendenti, in grado di osservare da un punto di vista esterno le operazioni dell’impresa e per questo in grado di metterle in discussione, avrà un effetto positivo sul dibattito; tuttavia, proprio perché si tratta di membri esterni all’organizzazione, che interagiscono tra di loro solo in occasione del lavoro sul board, farà diminuire il grado di coesione nel gruppo di amministratori. Come per la dimensione infine, una maggiore eterogeneità all’interno del board arricchirà il dibattito ma se il board è troppo diversificato la comprensione di punti di vista e metodi di espressione diversi potrebbero danneggiare la comunicazione e la produttività. Crescente eterogeneità danneggia la coesione, più facile tra persone simili tra loro per background o esperienze. La relazione tra dimensione, indipendenza, diversità e dibattito diventa più forte all’aumentare delle norme di conflitto: ciò accade perché come abbiamo visto le norme di conflitto permettono la creazione di una discussione in cui tutti gli amministratori possono esprimersi, consentendo al board di sfruttare i diversi punti di vista. In assenza di tali regole, un aumento della diversità o della dimensione non avrebbero alcun impatto sul dibattito in quanto gli amministratori non potrebbero esprimersi adeguatamente. Per concludere gli autori descrivono l’impatto delle variabili intermedie sulla performance de board. Rispetto agli studi precedenti quindi, le caratteristiche del board non ne influenzano la performance direttamente, ma attraverso le tre variabili precedentemente esaminate. Per essere svolte efficacemente le complesse mansioni del board richiedono un certo livello di legame interpersonale tra i membri del gruppo, cioè coesione. La performance del board migliora se gli amministratori lavorano in un ambiente collegiale, basato sulla fiducia e il rispetto, in cui tutti partecipano attivamente alle diverse mansioni, coltivando un senso di 19
collettività. Possiamo però dire che non si tratti di una relazione lineare: un eccessivo livello di coesione potrebbe portare gli amministratori a conformarsi agli standard del gruppo al fine di facilitarne l’unanimità, a discapito della messa in discussione costruttiva delle affermazioni e della performance stessa, un fenomeno chiamato groupthink (Levrau e Van den Berghe citano Janis, 1983). Per concludere un dibattito costruttivo non può che migliorare il processo decisionale di un board of directors che ha a che fare con decisioni strategiche e di controllo molto complesse. Il dibattito fa emergere i diversi punti di vista, incoraggia la valutazione critica; citando Eisenhardt et al. (1997, pag.43) gli autori affermano che “il dibattito fornisce un insieme più vasto di informazioni, una maggiore comprensione del problema, e più possibili soluzioni”. Il modello presentato rappresenta un interessante passo avanti rispetto agli studi precedentemente esaminati, riguardo l’impatto delle caratteristiche del board sulla performance. È sempre più evidente come sia il metodo di lavoro del board a dover essere preso in considerazione, prendendo spunto anche da altre discipline come la sociologia e la psicologia per comprendere le dinamiche all’interno del gruppo. Come tutti i modelli teorici tuttavia è delimitato da una serie di condizioni: altre variabili intermedie potrebbero essere inserite nel modello, e le relazioni tra i diversi elementi potrebbero non essere mono-direzionali; manca inoltre una verifica empirica. 4. Innovazione e creazione di valore Nel loro recente lavoro McCahery e Vermeulen (2014) sviluppano il concetto di ruolo strategico del board chiarendone il significato: il board of directors ha un ruolo chiave nell’innovazione e nella creazione di valore, e le dinamiche all’interno di esso possono guidare il cambiamento nella strategia d’impresa. Per affermare ciò, gli autori partono da una breve analisi del caso Apple dopo il ritorno di Steve Jobs come CEO nel 1997, quando la società si trovava in una situazione di profonda crisi, con più di un miliardo di dollari di perdite nell’anno precedente. Il 6 agosto 1997 alla Macworld Expo a Boston, Jobs con uno dei suoi grandi discorsi annuncia la nomina di alcuni nuovi amministratori. “Uno dei primi passi da compiere” afferma Jobs “è partire dall’alto. Apple deve cambiare molto e penso che il cambiamento debba partire dall’alto, dal Board of Directors”. Il CEO di Apple credeva fortemente che cambiare la composizione del board fosse un passo 20
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