Troppi infortuni: cosa fare con la sicurezza sul lavoro in Italia?
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Troppi infortuni: cosa fare con la sicurezza sul lavoro in Italia? Negli ultimi tempi il problema degli incidenti mortali sul lavoro (e dei troppi infortuni) è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica. In Italia da anni ci sono stabilmente tra i tre e i quattro incidenti mortali sul lavoro ogni giorno. In proporzione al numero di lavoratori, nel 2015 sono stati 2,4 ogni 100.000. Nello stesso anno, in Germania sono stati 1 e in Inghilterra 0,8 (fonte: ILO). Eppure, invece di sviluppare una strategia per fronteggiare questa calamità con uno sforzo continuato, ce ne ricordiamo solo quando qualcosa colpisce l’attenzione. Recentemente è stato il caso di una giovane madre, rimasta presa in una macchina tessile in Toscana. Poi un operaio è morto schiacciato da un carico che è caduto dall’alto nel bergamasco. Una esplosione in un laboratorio di cannabis terapeutica ha causato due morti e tre feriti in Umbria. Due operai sono stati asfissiati dalle esalazioni tossiche in una fabbrica di farine per mangimi vicino a Pavia. E poi la strage del Mottarone: quattordici morti e un solo sopravvissuto, un bambino, che è pure rimasto gravemente ferito, a causa della caduta della cabina di una funivia. Cosa si sta facendo per la Sicurezza dei lavoratori in Italia? Se è vero che alle non conformità occorre reagire con azioni correttive, cosa si sta facendo per fermare questa strage? Tante chiacchiere senz’altro. Siamo un paese di sessanta milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio, che recentemente hanno intrapreso la carriera di virologi, tra l’altro registrando una delle peggiori prestazioni in assoluto
di fronte alla pandemia: sesti nella classifica mondiale dei decessi, preceduti da Stati Uniti, Brasile, India, Messico e Gran Bretagna. Tutte nazioni con popolazioni di gran lunga più numerose della nostra, anche se il Regno Unito solo di una manciata di milioni di persone. Una ricetta infallibile per diminuire gli infortuni? Ora è il momento di dare una ricetta infallibile su come diminuire gli infortuni. Che ci vuole? Eccola qua. Con veramente poca fantasia, occorre aumentare i controlli, rincarare le sanzioni, fare più formazione. Controlli Per quello che riguarda i controlli, è vero. Sono veramente pochi. In Italia, secondo i dati ISTAT, sono attive circa quattro milioni e quattrocentomila imprese. Sapere quanti sono i funzionari ispettivi e qual è l’attività che viene svolta, anno per anno, non è così facile: nel 2008 il legislatore, nel Decreto Legislativo 81, stabilì l’istituzione di un Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro, con l’obiettivo di raccogliere, e fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia dell’attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, indirizzando le attività, compresa quella di vigilanza. L’INAIL doveva garantirne la gestione tecnica ed informatica, ma per ora, esiste solo una pagina statica e non ci sono dati da interrogare. Sanzioni Per quanto riguarda le sanzioni, un infortunio mortale in circostanze che facciano scattare la responsabilità amministrativa dell’ente, definita con il Decreto Legislativo 231 del 2001, può portare ad una condanna, parlando solo della
sanzione amministrativa pecuniaria, di oltre un milione e mezzo di euro. Ma questo non è il costo netto di una morte in azienda. Occorre aggiungere le spese legali, le sanzioni accessorie, il risarcimento dei danni. Non mi sembra che sia una cosa che possa essere messa in conto con leggerezza da un imprenditore. Che viene a buon mercato, per così dire. Che faccio? Perdo un migliaio di euro di incassi o corro il rischio di pagare una vagonata di milioni? No. Ci deve essere qualcos’altro. Formazione Per quanto riguarda la formazione, chi si occupa di sicurezza sa che il vero spartiacque è stato il 2011. Nel dicembre di quell’anno, infatti fu approvato il primo accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni, che ha finalmente definito un contenuto minimo per i corsi di formazione per i lavoratori, e che è stato seguito in breve tempo da analoghi accordi per le figure di altri ruoli rilevanti, quali RSPP, dirigenti e preposti e, finalmente, per i corsi abilitativi per gli operatori di particolari attrezzature di lavoro. Prima di allora la formazione era lasciata agli accordi contrattuali, quando c’erano e c’era la volontà di rispettarli. Altrimenti al buon cuore dei datori di lavoro. Volete sapere quanti infortuni mortali ci sono stati nel 2011, l’ultimo anno prima dell’applicazione degli Accordi? 1.361. L’anno successivo, il primo anno di applicazione, quando tutti sono corsi a mettersi in regola? 1.336. Nel 2019, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati, sono stati 1.184. Forse la formazione è rilevante, ma nemmeno questa è la chiave delle pessime prestazioni del sistema produttivo italiano in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. Il Testo Unico, il decreto
legislativo 2008 Proviamo ad allargare lo sguardo. Qual è stato un altro anno fondamentale per la sicurezza in azienda? Nel 2008 è stato promulgato il Testo Unico, il decreto legislativo 2008. Quell’anno 1.104 infortuni mortali, che sono diventati 1.032 nel 2009 e balzati di nuovo a 1.464 nel 2010. Ma il Testo Unico non ha veramente cambiato le carte in tavola, fondamentalmente si è trattato di una riverniciatura del vecchio Decreto Legislativo 626 del 1994, quello che, adottando i principi della direttiva 89/391/CEE ha inteso modificare radicalmente il modo in cui si gestisce la sicurezza in azienda: da affare meramente tecnico a questione di politica e di organizzazione aziendale. Quanti infortuni mortali ci sono stati nell’anno che ha preceduto la sua entrata in vigore? 1.328. Per gli amanti delle cifre, nel 1994 in Italia sono state lavorate oltre 40 miliardi e mezzo di ore. Sono state quasi 43 miliardi nel 2016 (fonte: ISTAT). Forse ci siamo: adottare normative più avanzate non ha avuto nessun effetto. Effettivamente, chi ha avuto l’occasione di conoscere come sono state applicate le direttive sociali in Europa, resta sorpreso di come in Italia sia stata imboccata una strada che le ha pervertite. Il contenuto di norme che erano nate come la “promozione” a legge delle prassi tecniche e organizzative più avanzate che l’industria aveva prodotto, caratterizzate da un approccio quanto mai pragmatico e diretto all’organizzazione aziendale, solo nel nostro paese sono diventate il brodo di coltura degli azzeccagarbugli, separate e respinte dal mondo produttivo. I tecnici si sono fatti spauriti produttori di carta in quantità industriale, tutti alla ricerca dell’essere “a norma”, ma senza concretamente incidere su nulla. La promozione della competenza, la faticosa ricerca del consenso sulle buone prassi e il controllo tra i pari, che sono i veri motori del cambiamento, sono difficili da organizzare. E così da noi si è percorsa la facile strada della sanzione e della
repressione. Di fatto, con la 231 le pene pecuniarie sono aumentate a dismisura, e ci sono stati processi famosi in cui sono state offerte interpretazioni innovative dei capi di imputazione, sempre per aumentare le pene. Possiamo dire che è servito a qualcosa? Ventisette anni di applicazione delle direttive sociali, ma ancora troppi infortuni e incidenti mortali Una lettura disincantata e documentata dei ventisette anni di applicazione delle direttive sociali, magari affiancandola allo studio dei paesi dove questi stessi concetti hanno avuto invece successo, potrebbe essere l’occasione per spezzare questa coazione a ripetere, la nostra tendenza come sistema a porci nelle presenti condizioni dolorose, senza che ci rendiamo conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Il convitato di pietra, qui, sono le associazioni datoriali: sono loro le responsabilità più gravi di questa situazione, perché hanno risorse e strumenti di pressione, che fino ad oggi hanno utilizzato poco e male. È necessario ricondurre la gestione della sicurezza nel suo ambito naturale: il mondo dell’industria e le discipline dell’organizzazione, dove queste regole sono nate e si sono sviluppate, fino al momento in cui sono diventate leggi. Da qui, con il supporto degli ordini e delle associazioni professionali, devono nascere buone prassi che siano veramente tali, e non patetici tentativi di troncare e sopire, cercando di non scontentare nessuno senza in realtà accontentare alcuno. In questi anni chi si occupa di sicurezza ha assistito ad un innegabile miglioramento delle attrezzature, delle macchine, dei DPI, delle competenze dei vari soggetti coinvolti, lavoratori,
preposti, dirigenti, RSPP. Escluso uno: il datore di lavoro. Le associazioni datoriali devono fare del miglioramento professionale dei loro associati la loro bandiera. Non solo i corsi volontari che si fanno oggi, ma percorsi di formazione e di aggiornamento obbligatori, se si vuole conservare l’iscrizione alle associazioni. Iniziative periodiche e ripetute, finalizzate al miglioramento di singoli aspetti della sicurezza in azienda, pubblicizzate e rendicontate pubblicamente secondo il ciclo di Deming, a scadenze serrate, della durata di due o tre anni, in parallelo e contemporanee. Devono nascere buone prassi: come? Occorre sottrarre la gestione delle politiche per la salute e la sicurezza ai professionisti della salute e della giurisprudenza. Magari hanno fatto del loro meglio, ma la mancanza di competenze e una forma mentis non adatta, hanno contribuito allo sfacelo attuale. In Inghilterra Health and Safety Executive è un ente tecnico governativo che dipende dal Department for Work and Pension. Il suo mestiere è definire gli standard attuativi delle norme di legge, fare formazione, eseguire ispezioni ed ha il monopolio delle indagini sugli incidenti industriali. Poi è il prosecutor che istruisce il processo, ma la danza la conduce il tecnico di Health and Safety Executive. Questa organizzazione garantisce uniformità di trattamento, un rapporto diretto tra chi scrive le regole, chi le fa applicare e chi vigila sulla sua applicazione, e rende molto difficile il nonsenso tutto italiano, dove ci si focalizza sul documento che dovrebbe essere la registrazione di una attività e non sull’attività reale. Noi in Italia avevamo l’ISPESL, che faceva quasi la stessa cosa. Invece di potenziarla abbiamo deciso di diluirla nell’INAIL. Questo è anche il paese in cui ogni ASL e ogni tribunale pretende di avere la sua propria, indiscutibile, versione della Verità. Pensate che si è dovuto limitare per legge – D.Lgs. 81/2008 art. 2 c. 1 lett. z) – la torrenziale
emissione di “linee guida” interpretative che aveva caratterizzato gli anni di applicazione del D.Lgs. 626/1994, quando ogni ente si faceva la sua regola. Ora, con la pandemia, ci siamo inventati i “protocolli”. Tutti (quasi) uguali. Fino a quando continueremo con la pubblica indignazione, francamente offensiva per le vittime e i loro cari, fintanto che poi si prosegue come nulla fosse capitato? (Quando non indicato differentemente, tutti i dati sugli infortuni sono stati ricavati dal sito di INAIL)
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