Troppi infortuni: cosa fare con la sicurezza sul lavoro in Italia?

Pagina creata da Marco De Rosa
 
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Troppi infortuni: cosa fare
con la sicurezza sul lavoro
in Italia?
Negli ultimi tempi il problema degli incidenti mortali sul
lavoro (e dei troppi infortuni) è tornato all’attenzione
dell’opinione pubblica. In Italia da anni ci sono stabilmente
tra i tre e i quattro incidenti mortali sul lavoro ogni
giorno. In proporzione al numero di lavoratori, nel 2015 sono
stati 2,4 ogni 100.000. Nello stesso anno, in Germania sono
stati 1 e in Inghilterra 0,8 (fonte: ILO). Eppure, invece di
sviluppare una strategia per fronteggiare questa calamità con
uno sforzo continuato, ce ne ricordiamo solo quando qualcosa
colpisce l’attenzione. Recentemente è stato il caso di una
giovane madre, rimasta presa in una macchina tessile in
Toscana. Poi un operaio è morto schiacciato da un carico che è
caduto dall’alto nel bergamasco. Una esplosione in un
laboratorio di cannabis terapeutica ha causato due morti e tre
feriti in Umbria. Due operai sono stati asfissiati dalle
esalazioni tossiche in una fabbrica di farine per mangimi
vicino a Pavia. E poi la strage del Mottarone: quattordici
morti e un solo sopravvissuto, un bambino, che è pure rimasto
gravemente ferito, a causa della caduta della cabina di una
funivia.

Cosa   si   sta  facendo    per   la
Sicurezza dei lavoratori in Italia?
Se è vero che alle non conformità occorre reagire con azioni
correttive, cosa si sta facendo per fermare questa strage?
Tante chiacchiere senz’altro. Siamo un paese di sessanta
milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio, che
recentemente hanno intrapreso la carriera di virologi, tra
l’altro registrando una delle peggiori prestazioni in assoluto
di fronte alla pandemia: sesti nella classifica mondiale dei
decessi, preceduti da Stati Uniti, Brasile, India, Messico e
Gran Bretagna. Tutte nazioni con popolazioni di gran lunga più
numerose della nostra, anche se il Regno Unito solo di una
manciata di milioni di persone.

Una   ricetta   infallibile                             per
diminuire gli infortuni?
Ora è il momento di dare      una ricetta infallibile su come
diminuire gli infortuni.       Che ci vuole? Eccola qua. Con
veramente poca fantasia,      occorre aumentare i controlli,
rincarare le sanzioni, fare    più formazione.

Controlli
Per quello che riguarda i controlli, è vero. Sono veramente
pochi. In Italia, secondo i dati ISTAT, sono attive circa
quattro milioni e quattrocentomila imprese. Sapere quanti sono
i funzionari ispettivi e qual è l’attività che viene svolta,
anno per anno, non è così facile: nel 2008 il legislatore, nel
Decreto Legislativo 81, stabilì l’istituzione di un Sistema
informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro,
con l’obiettivo di raccogliere, e fornire dati utili per
orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia
dell’attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali, indirizzando le attività, compresa quella di
vigilanza. L’INAIL doveva garantirne la gestione tecnica ed
informatica, ma per ora, esiste solo una pagina statica e non
ci sono dati da interrogare.

Sanzioni
Per quanto riguarda le sanzioni, un infortunio mortale in
circostanze che facciano scattare la responsabilità
amministrativa dell’ente, definita con il Decreto Legislativo
231 del 2001, può portare ad una condanna, parlando solo della
sanzione amministrativa pecuniaria, di oltre un milione e
mezzo di euro. Ma questo non è il costo netto di una morte in
azienda. Occorre aggiungere le spese legali, le sanzioni
accessorie, il risarcimento dei danni. Non mi sembra che sia
una cosa che possa essere messa in conto con leggerezza da un
imprenditore. Che viene a buon mercato, per così dire. Che
faccio? Perdo un migliaio di euro di incassi o corro il
rischio di pagare una vagonata di milioni? No. Ci deve essere
qualcos’altro.

Formazione
Per quanto riguarda la formazione, chi si occupa di sicurezza
sa che il vero spartiacque è stato il 2011. Nel dicembre di
quell’anno, infatti fu approvato il primo accordo in sede di
Conferenza Stato-Regioni, che ha finalmente definito un
contenuto minimo per i corsi di formazione per i lavoratori, e
che è stato seguito in breve tempo da analoghi accordi per le
figure di altri ruoli rilevanti, quali RSPP, dirigenti e
preposti e, finalmente, per i corsi abilitativi per gli
operatori di particolari attrezzature di lavoro. Prima di
allora la formazione era lasciata agli accordi contrattuali,
quando c’erano e c’era la volontà di rispettarli. Altrimenti
al buon cuore dei datori di lavoro. Volete sapere quanti
infortuni mortali ci sono stati nel 2011, l’ultimo anno prima
dell’applicazione degli Accordi? 1.361. L’anno successivo, il
primo anno di applicazione, quando tutti sono corsi a mettersi
in regola? 1.336. Nel 2019, l’ultimo anno per il quale sono
disponibili dati, sono stati 1.184. Forse la formazione è
rilevante, ma nemmeno questa è la chiave delle pessime
prestazioni del sistema produttivo italiano in relazione alla
salute e alla sicurezza dei lavoratori.

Il      Testo          Unico,          il       decreto
legislativo 2008
Proviamo ad allargare lo sguardo. Qual è stato un altro anno
fondamentale per la sicurezza in azienda? Nel 2008 è stato
promulgato il Testo Unico, il decreto legislativo 2008.
Quell’anno 1.104 infortuni mortali, che sono diventati 1.032
nel 2009 e balzati di nuovo a 1.464 nel 2010. Ma il Testo
Unico non ha veramente cambiato le carte in tavola,
fondamentalmente si è trattato di una riverniciatura del
vecchio Decreto Legislativo 626 del 1994, quello che,
adottando i principi della direttiva 89/391/CEE ha inteso
modificare radicalmente il modo in cui si gestisce la
sicurezza in azienda: da affare meramente tecnico a questione
di politica e di organizzazione aziendale. Quanti infortuni
mortali ci sono stati nell’anno che ha preceduto la sua
entrata in vigore? 1.328. Per gli amanti delle cifre, nel 1994
in Italia sono state lavorate oltre 40 miliardi e mezzo di
ore. Sono state quasi 43 miliardi nel 2016 (fonte: ISTAT).
Forse ci siamo: adottare normative più avanzate non ha avuto
nessun effetto.

Effettivamente, chi ha avuto l’occasione di conoscere come
sono state applicate le direttive sociali in Europa, resta
sorpreso di come in Italia sia stata imboccata una strada che
le ha pervertite. Il contenuto di norme che erano nate come la
“promozione” a legge delle prassi tecniche e organizzative più
avanzate che l’industria aveva prodotto, caratterizzate da un
approccio quanto mai pragmatico e diretto all’organizzazione
aziendale, solo nel nostro paese sono diventate il brodo di
coltura degli azzeccagarbugli, separate e respinte dal mondo
produttivo. I tecnici si sono fatti spauriti produttori di
carta in quantità industriale, tutti alla ricerca dell’essere
“a norma”, ma senza concretamente incidere su nulla. La
promozione della competenza, la faticosa ricerca del consenso
sulle buone prassi e il controllo tra i pari, che sono i veri
motori del cambiamento, sono difficili da organizzare. E così
da noi si è percorsa la facile strada della sanzione e della
repressione. Di fatto, con la 231 le pene pecuniarie sono
aumentate a dismisura, e ci sono stati processi famosi in cui
sono state offerte interpretazioni innovative dei capi di
imputazione, sempre per aumentare le pene. Possiamo dire che è
servito a qualcosa?

Ventisette anni di applicazione
delle direttive sociali, ma ancora
troppi   infortuni   e  incidenti
mortali
Una lettura disincantata e documentata dei ventisette anni di
applicazione delle direttive sociali, magari affiancandola
allo studio dei paesi dove questi stessi concetti hanno avuto
invece successo, potrebbe essere l’occasione per spezzare
questa coazione a ripetere, la nostra tendenza come sistema a
porci nelle presenti condizioni dolorose, senza che ci
rendiamo conto di averle attivamente determinate, né del fatto
che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze.

Il convitato di pietra, qui, sono le associazioni datoriali:
sono loro le responsabilità più gravi di questa situazione,
perché hanno risorse e strumenti di pressione, che fino ad
oggi hanno utilizzato poco e male. È necessario ricondurre la
gestione della sicurezza nel suo ambito naturale: il mondo
dell’industria e le discipline dell’organizzazione, dove
queste regole sono nate e si sono sviluppate, fino al momento
in cui sono diventate leggi. Da qui, con il supporto degli
ordini e delle associazioni professionali, devono nascere
buone prassi che siano veramente tali, e non patetici
tentativi di troncare e sopire, cercando di non scontentare
nessuno senza in realtà accontentare alcuno. In questi anni
chi si occupa di sicurezza ha assistito ad un innegabile
miglioramento delle attrezzature, delle macchine, dei DPI,
delle competenze dei vari soggetti coinvolti, lavoratori,
preposti, dirigenti, RSPP. Escluso uno: il datore di lavoro.
Le associazioni datoriali devono fare del miglioramento
professionale dei loro associati la loro bandiera. Non solo i
corsi volontari che si fanno oggi, ma percorsi di formazione e
di aggiornamento obbligatori, se si vuole conservare
l’iscrizione alle associazioni. Iniziative periodiche e
ripetute, finalizzate al miglioramento di singoli aspetti
della sicurezza in azienda, pubblicizzate e rendicontate
pubblicamente secondo il ciclo di Deming, a scadenze serrate,
della durata di due o tre anni, in parallelo e contemporanee.

Devono nascere buone prassi: come?
Occorre sottrarre la gestione delle politiche per la salute e
la sicurezza ai professionisti della salute e della
giurisprudenza. Magari hanno fatto del loro meglio, ma la
mancanza di competenze e una forma mentis non adatta, hanno
contribuito allo sfacelo attuale. In Inghilterra Health and
Safety Executive è un ente tecnico governativo che dipende dal
Department for Work and Pension. Il suo mestiere è definire
gli standard attuativi delle norme di legge, fare formazione,
eseguire ispezioni ed ha il monopolio delle indagini sugli
incidenti industriali. Poi è il prosecutor che istruisce il
processo, ma la danza la conduce il tecnico di Health and
Safety Executive. Questa organizzazione garantisce uniformità
di trattamento, un rapporto diretto tra chi scrive le regole,
chi le fa applicare e chi vigila sulla sua applicazione, e
rende molto difficile il nonsenso tutto italiano, dove ci si
focalizza sul documento che dovrebbe essere la registrazione
di una attività e non sull’attività reale.

Noi in Italia avevamo l’ISPESL, che faceva quasi la stessa
cosa. Invece di potenziarla abbiamo deciso di diluirla
nell’INAIL. Questo è anche il paese in cui ogni ASL e ogni
tribunale pretende di avere la sua propria, indiscutibile,
versione della Verità. Pensate che si è dovuto limitare per
legge – D.Lgs. 81/2008 art. 2 c. 1 lett. z) – la torrenziale
emissione di “linee guida” interpretative che aveva
caratterizzato gli anni di applicazione del D.Lgs. 626/1994,
quando ogni ente si faceva la sua regola. Ora, con la
pandemia, ci siamo inventati i “protocolli”. Tutti (quasi)
uguali.

Fino a quando continueremo con la pubblica indignazione,
francamente offensiva per le vittime e i loro cari, fintanto
che poi si prosegue come nulla fosse capitato?

(Quando non indicato differentemente, tutti i dati sugli
infortuni sono stati ricavati dal sito di INAIL)
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