TRACCE DEL CONCORSO A 10 POSTI DA PROCURATORE DELLO STATO
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TRACCE DEL CONCORSO A 10 POSTI DA PROCURATORE DELLO STATO La Scuola, che non organizza un corso specifico per questo concorso, ha tenuto una lezione il giorno prima delle prove, riservata alle quattro tracce per materia selezionate e alla tecnica di redazione dell’elaborato. Dunque, com’è tradizione, non si fa riferimento a un generico argomento, trattato a distanza dalle prove scritte o nel contesto di altre decine di argomenti, ma alla: 1. formulazione testuale della traccia; 2. imminenza rispetto alle prove; 3. numero minimo di tracce selezionate. Di seguito il raffronto tra tracce selezionate e tracce assegnate al concorso. Diritto civile: - Concorso, 8 gennaio 2019 > “Il recupero del contratto invalido. Tratti il candidato altresì della convalida tacita del negozio annullabile e della sua rilevabilità d’ufficio in giudizio”. - Lezione 7 gennaio 2019: “La rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali, anche con riguardo agli accertamenti incidentali. Dica altresì il candidato della c.d. nullità sopravvenuta.”. Diritto amministrativo: - Concorso, 9 gennaio 2019 > “Elementi essenziali del provvedimento, nullità strutturale e tutele giurisdizionali”. - Lezione 7 gennaio 2019: “Nullità dell’atto amministrativo per difetto assoluto di attribuzione. Dica il candidato del rapporto tra azione di nullità per violazione o elusione del giudicato e giudizio di ottemperanza” (tema non rientrante nelle quattro tracce, ma utilizzato nella spiegazione della tecnica di redazione della prova scritta. La nullità strutturale dell’atto e la tutela giurisdizionale naturalmente rientra nel programma del corso ordinario e intensivo per magistratura, ma questo non rileva nella presente analisi). Diritto penale: Concorso, 10 gennaio 2019 > “Delineati gli elementi costitutivi ed i caratteri differenziali dei reati di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio, con particolare riferimento alle forme dell'agevolazione, si soffermi il candidato sui problemi applicativi di tali fattispecie nelle ipotesi di cosiddetta eutanasia attiva e passiva. Tratti altresì il candidato, con riguardo al principio di correlazione tra accusa e sentenza, dei poteri del giudice e delle facoltà riconosciute alle parti a seguito delle modificazioni della contestazione.”. - Lezione 7 gennaio 2019: “Premessa la distinzione tra omicidio del consenziente e aiuto al suicidio, tratti il candidato della condotta di agevolazione della morte a fini compassionevoli del medico e del laico. I possibili esiti del procedimento penale, anche con riguardo all’ipotesi di incidente di costituzionalità”.
ANALISI La traccia di penale ha una prossimità impressionante. In questi termini si tratta, naturalmente, di caso fortuito: la selezione delle tracce, ancorché condotta con strumenti scientifici, può individuare l’argomento e al più una determinata angolazione. Una tale prossimità, addirittura linguistica, della traccia, è un evento eccezionale, rimessa all’ispirazione di chi la immagina. Per quanto attiene alle tracce di civile e amministrativo, la Scuola aveva individuato l’area delle invalidità negoziali e delle tematiche processuali connesse, dirigendosi sulla nullità. La trattazione della rilevabilità d’ufficio delle nullità sarà risultata utile tanto per il profilo della traccia di civile attinente alla rilevabilità d’ufficio della convalida tacita (i principi processuali sono gli stessi), quanto per le questioni processuali attinenti alla nullità strutturale (quella più vicina al diritto civile) in diritto amministrativo. Considerato l’esiguo numero di tracce selezionate (peraltro limite necessario, altrimenti la tecnica di selezione delle tracce finisce per confondersi con un normale corso in cui sono trattati una molteplicità di temi) e il fatto di averle trattate il giorno prima del concorso, un risultato eccezionale. Con un po’ di buona sorte. Di seguito uno stralcio testuale dei primi tre punti della dispensa – assegnata agli allievi della full immersion on-line e spiegata a lezione – sulla traccia di penale. *** 1. Omicidio del consenziente e aiuto al suicidio vs. eutanasia 2. La condotta del medico 3. La condotta del laico 1. Omicidio del consenziente e aiuto al suicidio Art. 579. Omicidio del consenziente. Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno. Art. 580. Istigazione o aiuto al suicidio. Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a
dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio. Gli articoli 579 e 580 c.p. puniscono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. L’art. 579 c.p. individua una fattispecie speciale rispetto all’omicidio volontario, in cui l’elemento specializzante è costituito dal consenso della vittima: la pena è della reclusione da sei a undici anni. L’art. 580 c.p., invece, punisce condotte “collaterali” rispetto al suicidio, che, di per sé, non costituisce un fatto penalmente rilevante: la pena “base” è della reclusione da cinque a dodici anni. Per entrambe le fattispecie, dunque, il legislatore prevede una pena meno severa di quella dell’art. 575 c.p. La distinzione tra i due delitti è comunemente individuata assumendo come discrimen la condotta dalla quale deriva causalmente la morte: se la condotta che ha cagionato la morte è posta in essere dal terzo, la fattispecie applicabile sarà quella di omicidio del consenziente; se, invece, è posta in essere direttamente dalla vittima, a venire in considerazione sarà un’ipotesi di istigazione o aiuto al suicidio. Si pensi, a titolo esemplificativo, al soggetto che decida di darsi la morte mediante l’assunzione di un potente barbiturico: l’art. 579 c.p. può trovare applicazione nel caso in cui un terzo provveda alla materiale somministrazione del farmaco, mentre l’art. 580 c.p. si applicherà nel caso in cui il terzo procuri il farmaco all’aspirante suicida, che procede poi, autonomamente, all’assunzione dello stesso. La Corte di cassazione, in una delle rare pronunce registratesi al riguardo, ha ritenuto di dover valorizzare non solo la condotta, intesa nella sua dimensione meramente oggettivo-causale, ma anche la volontà della vittima rispetto a quella dell’agente. Più esattamente, si «avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all'aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l'iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria»1. 1 A. Massaro, L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 10
Questa distinzione entra in crisi nelle ipotesi di eutanasia consensuale, ossia – sintetizzando l’ampio raggio di situazioni riconducibili al concetto – la morte su richiesta del malato terminale. La distinzione tra 579 e 580 c.p. può sembrare – ma non è – speculare a quella tra eutanasia attiva e passiva: distinzione imposta dalla linea di demarcazione che intercorre tra azione ed omissione, e che si traduce in quella tra “uccidere e lasciar morire”. L’illiceità dell’eutanasia attiva consensuale, caratterizzata dalla commissione di una condotta – la somministrazione per via orale di un cocktail letale di farmaci – produttiva della morte di un paziente su richiesta di costui ha trovato avallo anche a livello sovranazionale presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha confermato, nel 2002, l’inesistenza di un vero e proprio “diritto a morire” con l’aiuto di un terzo che ponga in essere una condotta attiva diretta a tale scopo, statuendo che l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto alla vita di ogni persona, sancisce innegabilmente un divieto di ricorso alla forza o a qualsiasi altro comportamento idoneo a provocare la morte di ogni essere umano, ma non attribuisce, in senso contrario, all’individuo il diritto di morire per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità. Il divieto di suicidio assistito previsto dal diritto penale degli Stati membri, ulteriormente, non costituisce, per la Corte, un trattamento inumano e degradante, fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 3 della convenzione. Completamente diversa è la situazione di eutanasia passiva consensuale, ossia l‘ipotesi in cui si omette di intervenire su un paziente che consapevolmente rifiuta, esercitando il diritto fondamentale di autodeterminazione, un trattamento medico di sostegno vitale, e valutano tale condotta come lecita. Nella dicotomia attiva/passiva rientrano i casi Welby, Anglaro, Dj Fabo. Eppure non vi è una piena identità – sul piano materiale prima che giuridico – tra tali episodi, posto che nei primi due è stato ipotizzato il reato di cui all’art. 579, nel terzo si è proceduto per il reato di cui all’art. 580. L’elemento comune, che sul piano etico-ideologico assorbe l’attenzione, è la condizione di esistenza non dignitosa in cui versa il malato e la sua ferma determinazione, espressa (Welby e Dj Fabo) o implicita (Anglaro), a porre fine alla vita mercé l’aiuto di terzi. Ma vi è una profonda differenza sul piano naturalistico: a) nei casi Welby-Anglaro il malato non è autonomo e la condotta che causa la morte è del terzo; b) nel caso Dj Fabo il malato conserva quel grado minimo di autonomia da far si che condotta che causa la morte sia la sua.
Il c.d. ‘diritto alla morte’ assume pertanto una diversa rilevanza: come diritto a lasciarsi morire, interrompendo i trattamenti salva-vita, nella ipotesi sub a); ovvero come diritto a morire, assumendo un farmaco mortale, nella ipotesi sub b). Nella prima ipotesi lo schema sembra quello dell’eutanasia passiva (omissione di intervento medico), ma la condotta si estrinseca attraverso atti positivi, poiché si tratta di eliminare l’intervento medico già in corso. Nella seconda ipotesi lo schema sembra quello dell’eutanasia attiva (somministrazione di farmaci), ma la condotta è realizzata dalla vittima. Vero è, come vedremo, che in entrambe le ipotesi il terzo non si limita ad omettere, ma interviene materialmente nel processo causale della morte. La differenza è in ciò; - nell’ipotesi a) l’intervento causa la morte in concorso con la malattia (art. 41, comma 1 c.p.); - nell’ipotesi b) l’intervento causa la morte in concorso con l’azione della persona offesa (art. 41, comma 3 c.p.). Salvo verificare se l’intervento terzo è punibile solo se condicio sine qua non o, anche, se meramente agevolatore (sul paradigma del concorso di persone), alla luce della lettera del 580 c.p. che punisce anche l’istigazione e l’agevolazione dell’esecuzione. 2. La condotta del medico Con riferimento all’ipotesi di interruzione di trattamenti vitali, occorre preliminarmente inquadrare il tema del diritto di rifiutare le cure. ▪ Cass. I 21748/07 Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il principio del consenso informato - il quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico - ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell’art. 13, che proclama l’inviolabilità della libertà personale, nella quale «è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo» (Corte cost., sentenza n. 471 del 1990); e nell’art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e
ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze. Nella legislazione ordinaria, il principio del consenso informato alla base del rapporto tra medico e paziente è enunciato in numerose leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (legge 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo avere premesso, all’art. 1, che «La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana», sancisce, all’art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. Il principio è, altresì, costantemente accreditato dalle fonti internazionali e dalla giurisprudenza della Cassazione. […] Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Allorché il rifiuto della cura da parte del diretto interessato sia informato, autentico ed attuale non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996). Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.
Il quadro compositivo dei valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza. Anche in tale situazione, pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali. Il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione del trattamento vitale di idratazione e alimentazione artificiali soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, deve essere negata l’autorizzazione, perché allora va data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa. ▪ Cass. III 22658/08 Deve essere riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita. Il conflitto tra i due beni - entrambi costituzionalmente tutelati - della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diviene per ciò solo illegittima, perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali. Tuttavia, allorché il paziente si trovi in stato di incoscienza, la manifestazione del «non consenso» a un determinato trattamento sanitario, ancorché salvifico, dovrà ritenersi vincolante per i medici soltanto se contenuta in una dichiarazione articolata, puntuale, ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà, oppure proveniente da un rappresentante ad acta, designato dallo stesso interessato, e all’esito dell’informazione sanitaria. ▪ S.U. 2437/09 Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dalla legge, secondo quanto previsto dall’art. 32, secondo comma, Cost. e dal diritto alla salute, inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che “giustifica” il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole - salvo i casi di necessità e di incapacità di
manifestare il proprio volere - della persona che a quel trattamento si sottopone. (Il «consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» Corte costituzionale, sentenza n. 438 del 2008). Ove manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare Ciò posto, occorre capire se la condotta di interruzione del trattamento vitale da cui scaturisce la morte del malato abbia natura omissiva (omissione delle cure salva-vita) o attiva (il distacco dei macchinari e la somministrazione di farmaci sedativi). 2.1 Tesi della condotta omissiva penalmente lecita Benché lo spegnimento dei macchinari sia condotta naturalisticamente attiva, si ritiene che significato giuridico dell’atto è un altro. E’, cioè, quello di determinare l’interruzione del trattamento che il medico stesso, a suo tempo, aveva iniziato. L’applicazione del respiratore altro non è che un trattamento praticato a un paziente che non sia più sufficientemente in grado di respirare da solo; sicchè la sua interruzione non può non essere riguardata quale omissione dell’ulteriore trattamento, e ciò anche se tale omissione debba essere attuata attraverso una condotta naturalisticamente attiva. Si tratta cioè, sul piano giuridico, di omissione mediante azione, secondo la quale occorre prescindere dall’aspetto fenotipico dell’azione, per ricondurla, in una visione correlata al senso sociale dell’interruzione tecnica, nell’ambito delle omissioni di cure. La norma di riferimento per la giuridica rilevanza di detta condotta è dunque l’art. 40, c. 2 Cp. C’è a carico del medico l’obbligo di impedire l’evento morte? La risposta è no. Prescrive l’art. 32 cod. deont. che “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente“, e prosegue stabilendo che “In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”. A questo e solo a questo è obbligato il medico, e la sua posizione di garanzia, pertanto, termina, là dove alla prestazione di cure sia opposto il rifiuto cosciente e volontario del paziente.
Sicchè, in ultimo, in via di principio, si può concludere che, là dove entrano in conflitto il rispetto del diritto di autodeterminazione del singolo in ordine alle cure, tutelato dall’art. 32, co. 2, Cost., e il rispetto del diritto alla vita, tutelato all’art. 2 Cost., ci si trova di fronte ad un vero e proprio conflitto di doveri, che va risolto secondo la regola logico-giuridica del principio di prevalenza. In merito deve rilevarsi che il diritto alla vita è dall’ordinamento tutelato rispetto alle aggressioni esterne al soggetto, cioè dalle condotte e scelte altrui (non viene punito il tentato suicidio), e che, ai sensi dell’art. 32 richiamato, il principio di autodeterminazione subisce un limite unicamente nell’ipotesi in cui l’esercizio di tale diritto coinvolge la salute pubblica. Conseguentemente, deve ritenersi, in base al principio di prevalenza, che il diritto di autodeterminazione va ritenuto prevalente finchè la scelta del singolo non incide sulla condizione di salute altrui, ciò anche quando si tratta di scegliere in merito agli ultimi istanti della propria vita. E poiché il nostro ordinamento giuridico non prevede un obbligo di cura ma, al contrario, un divieto generale dei trattamenti sanitari “obbligatori” (ex art. 32, co. 2, Cost.), l’omettere gli accertamenti e i trattamenti medici, a seguito di rifiuto del paziente di sottoporvisi, costituisce un fatto non solo conforme al diritto ma anche conforme allo speculare dovere, il cui inadempimento può essere qualificato quale violenza privata ex art. 610 cp. Di conseguenza il medico non è responsabile, sussistendo il diritto costituzionale di rifiuto della permanenza del trattamento medico, del decorso della malattia, e la causa della morte è, quindi, interamente riferibile solo alla malattia. In altri termini, una volta che è stata definita la natura omissiva della condotta, il distacco dal presidio strumentale di mantenimento in vita realizza unicamente quel diritto di non curarsi fino a lasciarsi morire che, come visto, trova anzitutto nelle norme costituzionali la garanzia del suo accoglimento. 2.2 Tesi della condotta attiva penalmente illecita Se l’interruzione del trattamento sanitario da parte del medico è "causa" della morte si tratta di una condotta suscettibile di pluriqualificazione. Omissiva (40, comma 2 Cp) ma, ancor prima, attiva (40, comma 1 Cp). Ragioni di ordine logico impongono che quest’ultima qualificazione sia preliminare, il che fa piazza pulita di ogni considerazione sulla rilevanza della volontà del paziente ai fini della liceità del fatto. E’ reato. Precisamente omicidio del consenziente. Prova ne sia che la stessa condotta se viene posta in essere da un soggetto che non è titolare del dovere di protezione non è penalmente neutra (in assenza della possibilità di qualificarla ex art. 40, comma 2 Cp) ma costituisce reato. Se proprio si vuole disquisire può distinguersi tra trattamenti automatici (in grado, una volta instaurati, di autoalimentarsi) e trattamenti che richiedono una continuità nell’assistenza medica. In
tale ultimo caso, forse, l’interruzione sarebbe un’omissione già sul piano naturalistico (vi è non prosecuzione e non già interruzione). Il che non esclude - secondo una certa teoria - che la stessa possa qualificarsi ex art. 40, comma 1 Cp (indipendentemente, cioè, dal dovere di impedire l’evento), poichè l’omicidio è reato a forma libera, suscettibile di realizzazione mercè mere omissioni, ove capaci di orientare il processo causale verso un esito diverso da quello che si sarebbe verificato in loro assenza. Alla tesi colpevolista si obietta che l’art. 40 stabilisce la relazione, per il diritto penale, di rilevanza della condotta (la norma fa riferimento all’azione e all’omissione: ad una condotta, appunto) rispetto all’evento. In questa cornice normativa, si deve tenere in debito conto, giacchè ne ha piena contezza anche il legislatore (art. 56 cp), la distinzione tra atto e l’azione (rilevante ex art. 40 quale condizione necessaria dell’evento), là dove inevitabilmente, e secondo logica, per “atto” non può che intendersi qualsiasi gesto corporeo che produca, sul piano fenomenico, una qualsiasi modificazione del mondo esterno, mentre per “azione” o “omissione” (e quindi “condotta attiva o omissiva“) non può non intendersi che (tenuto conto dell’apporto che alla nozione di azione adducono le disposizioni in tema di delitto tentato e reati colposi) quel complesso di comportamenti che nel loro insieme sono ricompresi nella fattispecie di reato, e che il legislatore mira ad impedire che si verifichino. Alla luce delle differenze (appena enunciate) normativamente imposte, il gesto di premere il pulsante (o girare la manopola) della macchina di respirazione artificiale va giuridicamente qualificato quale “atto”. Ma tale “atto” è volto ad esprimere non una condotta attiva di soppressione della vita, bensì una complessiva condotta statica, omissiva di interruzione (o astensione, nel caso in cui sia espresso il rifiuto all’avvio stesso del trattamento) del trattamento sanitario e successiva astensione da altre condotte salvavita in prossimità del sopraggiungere della morte per soffocamento. Il premere il pulsante sancisce il realizzarsi di una condotta statica di sospensione delle “cure“, lato sensu intese, e perciò di una condotta omissiva. I due punti fondamentali delle anzidette obiezioni (l’interruzione del trattamento è atto ma non azione, penalmente rilevante come omissione - sicchè non sarebbe causa ex 40, comma 1 Cp - e l’omissione non è penalmente rilevante come causa al di fuori di una norma tipizzante - specifica o aperta come il 40, comma 2 Cp -) non rispondono alle leggi della fisica. Se sul secondo aspetto il legislatore penale può - forse - prescinderne, non altrettanto può fare con riguardo al primo, per le considerazioni già svolte a suo tempo in materia di causalità. Il che, come avevo detto, è assorbente. Di seguito la sentenza di non luogo a procedere sul caso Welby, che opta per la qualificazione della condotta come attiva, ritenendo il medico non punibile ex art. 51 c.p. (adempimento del dovere)
▪ GUP Tribunale di Roma – 17 ottobre 2007, n. 2049 Nell’ordinanza di rigètto della richiesta di archiviazione, con contestuale imposizione dell’imputazione contro Riccio Mario per il reato di omicidio del consenziente, il GIP individua nei seguenti punti il suo percorso decisionale : a) rincontestabile esistenza di un principio alla libertà di cura sancito dall’art. 32 Cost. comporta conseguentemente, secondo il GIP, che di esso «debba essere data attuazione anche in assenza di una specifica normativa, con il solo limite degli altri diritti costituzionalmente garantiti Tra essi deve essere ovviamente compreso il diritto alla vita». Tra questi diritti non esiste un rapporto di gerarchia o di incompatibilità sostanziale, ma devono essere «armonizzati», senza che, però, «l’assenza di una disciplina normativa» comporti «l’impossibilità di dare attuazione al diritto del paziente di rifiuto di cure, quando da tale rifiuto ne derivi la morte». Secondo tale AG, pertanto, la necessità di bilanciamento dei diversi principi in questo campo «comporta che sia rimessa al Giudice l’interpretazione o meglio l’individuazione della regola di interpretazione da adottare nel caso specifico»; b) in ottemperanza al criterio procedurale di valutazione caso per caso da parte del Giudice, il Gip procedeva a tale operazione, ritenendo che “il diritto alla vita nella sua sacralità, inviolabilità ed indisponibilità costituisca il limite per tutti gli altri diritti, che, come quello affermato dall’art. 32, Cost., siano posti a tutela della dignità umana”. L’espressione di una prevalenza del diritto alla vita, in ogni caso, si rinviene, secondo il Gip, nell’ordinamento giuridico nella previsione dei reati di cui agli artt. 579 e 580, c.p., nonché nel divieto sancito dall’art. 5, c.c.; c) nel caso di specie non vi è stato alcun accanimento terapeutico, in quanto non era stata applicata alcuna terapia in senso stretto, non essendo qualificabile come terapia il mero sostegno vitale costituito dall’applicazione del ventilatore meccanico; d) il GIP afferma, poi,”la necessità di una disciplina normativa che preveda delle regole alle quali attenersi in simili casi, fissando in particolare il momento in cui la condotta del medico rientri nel divieto di accanimento terapeutico; ma, in assenza di disciplina, il principio di cui all’art 32, Cost., non può essere riconosciuta un estensione tale da superare il limite insuperabile del diritto alla vita”, ed inoltre “il timore evocato dal Giudice civile sulla possibilità che l’atutazione di un diritto, in assenza di una disciplina normativa, sia rimessa alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta si è rivelato fondato” ed in particolare le “modalità adottate per dare attuazione al diritto di interrompere la terapia di ventilazione artificiale sono discutibili anche sotto il profilo etico”; e) sussiste nel caso in esame, secondo il Gip, il reato di cui all’art. 579 c.p., con riferimento sia all’elemento oggettivo della condanna, sia all’elemento soggettivo del dolo, e segnatamente sotto quest’ultimo profilo tale AG rileva che era stato lo stesso Riccio, incurante della decisione del Giudice civile e rispondendo più a motivazioni di carattere politico, a farsi avanti per interrompere la terapia al Welby, senza essere il suo medico curante e sulla base di un rapporto professionale “del tutto superficiale”.
segue la motivazione con cui il GUP di Roma ha confutato questa tesi […] In conclusione, si può, quindi, affermare che l’imputato Mario Riccio ha agito alla presenza di un dovere giuridico che ne scimina l’illiceità della condotto causativa della morte altrui e si può affermare che egli ha posto in essere tale condotta dopo aver verificato la presenza di tutte quelle condizioni che hanno legittimato l’esercizio del diritto da parte della vittima di sottrarsi ad un trattamento sanitario non voluto. Va pertanto dichiarato il proscioglimento di Riccio Mario perché non punibile in ragione della sussistenza della esimente di cui all’art. 51, c.p. PQM Visto l’art. 425 c.p.p. dichiara non luogo a procedere nei confronti di Riccio Mario perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere Nel caso Anglaro il problema fu risolto a monte. In attuazione di Cass. I 21748/07 cit. la condotta del medico fu autorizzata dal giudice. • Corte di appello Milano 9 luglio 2008 Su richiesta del tutore è autorizzata l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di una persona che è alimentata e idratata con sondino naso-gastrico, in quanto ricorrono entrambe le condizioni - l’irreversibilità dello stato vegetativo e la corrispondenza della richiesta, sulla base di elementi di prova chiari, univoci e convincenti, rispetto alla «voce del paziente» risultante da precedenti dichiarazioni, dalla sua personalità, dal suo stile di vita - richieste nel principio di diritto stabilito dalla Cassazione, e sono dettate apposite disposizioni accessorie da rispettare in sede attuativa. Il principio di diritto elaborato dalla Cassazione è compatibile con la Costituzione sia 1) con riguardo all’affermazione del diritto dell’incapace ad autodeterminarsi, attraverso il proprio tutore, rifiutando il trattamento di sostegno forzato; 2) con riguardo, all’opposto, ai limiti coessenziali all’espressione ditale opzione volitiva da parte del tutore. Sotto il primo profilo vengono in rilievo i precetti di cui agli artt. 2, 3, 13 e 32, attuati e non violati dall’affermata regola, anche sotto il profilo del rispetto del principio solidaristico, che non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori. Sotto il primo profilo viene in rilievo la peculiarità della situazione, che - impedendo al soggetto un’attuale libera scelta - impone, per giungere all’interruzione del trattamento vitale, il riferimento, da un lato, all’ineluttabilità della malattia (privandosi, altrimenti, il titolare della possibilità futura di esercitare il proprio diritto) e, dall’altro, la certa ricostruzione della sua volontà.
La questione della responsabilità del medico in questo ambito è oggi risolta dalla legge, mentre resta aperta la sua responsabilità per la realizzazione di condotte volte ad accelerare la morte, cagionandola per cause diverse dalla malattia. ▪ Legge 219 del 2017 – DAT Art. 1 Consenso informato 1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignita' e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario puo' essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. 2. E' promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilita' del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l'equipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo. 3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonchè riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Puo' rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l'eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 4. Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, e' inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria
sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l'accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 6. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali. 3. La condotta del laico Se il medico può sottrarsi alla responsabilità penale per aver materialmente concorso a provocare la morte del malato che dichiari di rifiutare la prosecuzione del trattamento salvifico (prima in virtù della scriminante dell’adempimento del dovere, oggi per esplicita previsione di legge), non altrettanto può dirsi per il laico che cooperi nell’attuare la volontà del paziente. Dunque, quando la sua condotta si inquadri nel 579 c.p., egli sarà responsabile, a meno che la norma non sia ritenuta incostituzionale. Tale questione si è posta con riguardo all’art. 580 c.p. nel caso di Dj Fabo. Le questioni traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive. All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile. Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.
Di seguito a ciò, aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica. Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”». Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima. In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia. Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale. Su ordinanza di imputazione coatta M.C era stato tratto a giudizio davanti per il reato di cui all’art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione. La Corte di assise aveva escluso la condotta di istigazione, mentre riteneva provata quella di aiuto, adottando un’interpretazione di “agevolare l’esecuzione del suicidio” come comprensiva delle condotte che, pur intervenendo in una fase anteriore all’esecuzione del suicidio, ne facilitano l’esecuzione: posto che l’“esecuzione” del suicidio è atto che, per non sfociare in un omicidio del consenziente, deve rimanere saldamente nelle mani del suicida stesso, l’aiuto penalmente rilevante non sia solamente quello prestato nella «fase esecutiva», ma anche l’aiuto della «fase esecutiva» del suicidio.
Nella specie la condotta dell’imputato è un fattore remoto (accompagnare il malato sul luogo del suicidio assistito dai medici) e, tuttavia, supera il vaglio causale poiché il 580 c.p. non è fattispecie causalmente orientata sull’evento morte, in cui la condotta tipica è la condicio sin qua non sotto leggi di copertura, ma fattispecie che incrimina condotte anche priva del valore di condizione della morte, che siano agevolatori del suicidio. CORTE D'ASSISE DI MILANO, ORD. 14 FEBBRAIO 20182 1. Con l’ordinanza in esame la Corte d’Assise di Milano solleva “questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui: - incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo; - prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione.” I giudici milanesi ritengono infatti che, in forza del combinato disposto degli artt. 3, 13 co. 1 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, il suicidio costituisca esercizio di una libertà dell’individuo. Pertanto solo azioni idonee a pregiudicare l’autodeterminazione dello stesso costituirebbero offesa al bene giuridico tutelato dalla norma in esame, e solo queste risultano meritevoli di sanzione penale. Alla luce di tali considerazioni, l’aiuto di Cappato, per come realizzatosi nell’ipotesi di specie, non risulta idoneo a ledere alcun bene giuridico, giacché il proposito suicidiario dell’Antoniani si era già cristallizzato da tempo e il contributo dell’imputato si è concretizzato nel mero trasporto dello stesso nella clinica Dignitas, in Svizzera. Sulla base di tali premesse, le norme che i giudici milanesi assumono violate trovano fondamento costituzionale negli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 il cui combinato disposto sancisce i principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena in relazione all’offensività del fatto. 2. Pare anzitutto opportuno dare brevemente conto della disciplina prevista dalla norma in esame, anche al fine di coglierne la rilevanza nel caso di specie, prestando particolare attenzione alla diversità delle condotte in essa delineate. 2 https://www.penalecontemporaneo.it/d/5861-la-corte-dassise-di-milano-nel-caso-cappato-sollevata- questione-di-legittimita-costituzionale-della
Rubricata “istigazione e aiuto al suicidio”, la disposizione di cui all’art. 580 c.p. si configura come un reato a fattispecie alternative volto ad incriminare tre diverse condotte, che differiscono le une dalle altre per la diversa incidenza sulla formulazione del proposito suicidiario. Le prime due condotte, che la rubrica colloca entrambe sotto la n ozione di istigazione, si distinguono in “determinazione” e “rafforzamento” dell’altrui proposito, indicandosi con la prima qualsiasi condotta idonea a far sorgere in un individuo un proposito prima inesistente, e con la seconda qualsiasi condotta volta al rafforzamento di un’intenzione che, seppur blanda, fosse già presente nell’individuo. Tali condotte incidono ed invadono la sfera deliberativa dell’individuo, viziandone la autonomia e spontaneità, sì da costituire contributo causale alla realizzazione dell’evento suicidio. La terza condotta, identificata nell’aiuto al suicidio, incrimina invece chiunque ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione. L’interpretazione dell’art. 580 c.p. secondo il diritto vivente, che oggi orienta le decisioni degli interpreti, risale ad un’unica ed isolata pronuncia del 1998, nella quale la Cassazione ha ritenuto che le tipologie di condotte, così come disciplinate, siano previste in via tra loro alternativa. Proprio in forza di tale alternatività, qualunque azione agevolativa del suicidio, che possa causalmente risultare connessa all’evento, deve considerarsi idonea ad integrare il reato in quanto condotta di “aiuto” al suicidio, ancorché estranea alla formazione del processo deliberativo del soggetto passivo (Cass. pen., sez. I, n. 3147 del 6.2.1998). La norma assume rilevanza nel caso di specie proprio in relazione a questa terza ed ultima ipotesi. Infatti, la condotta dell’imputato, nel dar attuazione alla volontà dell’Antoniani accompagnandolo fisicamente in Svizzera, seppur non possa dirsi in alcun modo rafforzativa del proposito suicida (come invece affermato nel capo di imputazione), rientra nel novero delle condotte riconosciute come idonee ad agevolare il suicidio, e come tali represse dalla disposizione in esame. 3. Una tale lettura si espone tuttavia, secondo la Corte milanese, a fondati dubbi di incompatibilità con la Costituzione. I giudici osservano innanzitutto che alla base delle norme sull’istigazione e aiuto al suicidio, introdotte dal legislatore del 1930, vi era la considerazione del suicidio come un disvalore: solo per preminenti ragioni di politica criminale era stato ritenuto inutile e dannoso punirne il tentativo. La sanzione prevista dalla norma era pensata a tutela del “diritto alla vita”, concepito come valore in sé, indipendentemente dalle deliberazioni del titolare. Leggendo oggi la medesima norma alla luce dei principi costituzionali, appare però evidente la necessità di mutare quei concetti propri dell’epoca pre-costituzionale. In particolare, afferma la Corte milanese, dalla lettura complessiva del testo si apprezza una nuova e diversa considerazione del diritto alla vita che, sebbene non trovi espressa definizione nel testo costituzionale, si pone come presupposto degli altri diritti riconosciuti all ’individuo e attraverso questi si definisce. Inoltre, introducendo l’innovativo principio personalistico enunciato all’art. 2 e l’inviolabilità della libertà individuale di cui all’art. 13, la Carta costituzionale ha sancito una vera e propria inversione di rotta: è infatti l’uomo, e non più lo
Stato, al centro della vita sociale. Ed è proprio alla luce di tale invertita centralità che la vita umana non può essere concepita in funzione di un fine eteronomo. Inoltre, ad ogni individuo viene garantita dalla costituzione la libertà da interferenze arbitrarie dello Stato (art. 13); e da questo diritto primario derivano sia “il potere della persona di disporre del proprio corpo”, che l’impossibilità per ogni individuo di essere costretto “a subire un trattamento sanitario non voluto, in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga”. Principio quest’ultimo che trova massima espressione nell’art. 32 Cost., che, nell’affermare la libertà dell’individuo alla autodeterminazione in termini di rifiuto di cure e corrispondente obbligo per l’ordinamento di rispettarne la decisione, pone anche i limiti oltre i quali non può spingersi il potere/dovere dello Stato di intervenire nella tutela della salute dei cittadini, anche nell’ipotesi in cui da tale scelta potesse der ivarne la sua morte. Svariate le pronunce giurisprudenziali di merito richiamate dall’ordinanza in commento in cui si conferma detta interpretazione, che risultano informate al principio personalistico proprio della carta costituzionale concependo l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo, e non viceversa. In definitiva, affermano i giudici, il fatto che il diritto alla libertà non incontri un limite in funzione di considerazioni eteronome della vita (in funzione di obblighi solidaristici), si evince ad esempio implicitamente dall’assenza di divieti di porre in essere attività pericolose per la propria incolumità e anche dall’assenza di un obbligo di curarsi (come più volte ribadito con riferimento al rifiuto di emotrasfusioni espresso dai testimoni di Geova). L’obbligo di sottoporsi ad una determinata terapia può infatti intervenire solo per legge e solo al fine di evitare pericolo per gli altri. In altri termini, è solo in queste ipotesi specifiche che il diritto alla libertà individuale può essere legittimamente compromesso. 4. L’iter argomentativo dell’ordinanza in esame prosegue analizzando l’evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu che – valorizzando il diritto alla vita ex art. 2 Cedu e le garanzie della persona di fronte ad arbitrarie ingerenze delle pubbliche autorità ex art. 8 Cedu – è di recente giunta “ad affermare il ‘diritto di un individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà’ e [che] l’intervento repressivo degli Stati in questo campo può avere solo la finalità di evitare ‘rischi di abuso’, ovvero di ‘indebita influenza’ nei confronti dei soggetti particolarmente valutabili, come sono le persone che hanno perso interesse per la vita”. La Corte si sofferma segnatamente su tre pronunce emblematiche del processo evolutivo della giurisprudenza europea. Punto di partenza di tale ricostruzione è la pronuncia Pretty c. Regno Unito, nella quale la Corte Edu ha affermato: (i) che l’art. 2 Cedu non può essere interpretato – in negativo – nel senso di conferire il diritto di morire, e non può neppure far nascere un diritto all’autodeterminazione circa la scelta se vivere o morire; (ii) che le norme nazionali che puniscono l’aiuto al suicidio non violano l’art. 3 Cedu; (iii) che l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente può costituire una violazione dell’art. 8 Cedu. L’ordinanza in esame sottolinea però che in due più recenti sentenze la Corte Edu supera i principi espressi in Pretty, in particolare riconoscendo espressamente il “diritto di un individuo di decidere il
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