TEORIA E ANALISI DEL DISCORSO 2021-22 - PROF. ILARIA TANI - Modalità compatibilità
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TEORIA E ANALISI DEL DISCORSO 2021-22 PROF. ILARIA TANI
Gli strumenti dell’enunciazione • Indici di persona • Indici dell’ostensione • Forme della temporalità • Forme dell’illocutività • Modalità Sono interni ed esterni alla lingua: pur facendo parte del sistema (in quanto forme), trovano il loro senso solo nella situazione del discorso, in cui il parlante, attraverso un atto individuale, si appropria della lingua mettendola in funzionamento e presentandosi così come soggetto. Questi elementi consentono «la conversione del linguaggio in discorso» (La natura dei pronomi, 1956/2009: 141). Il locutore attualizza la langue in parole attraverso «atti discreti e ogni volta unici» (ivi: 138).
• Gli indici di persona, (io, tu) hanno la funzione di mettere in rapporto costante e necessario il locutore con la propria enunciazione (1970/2009: 122). La loro funzione è quella di rimandare sempre a individui che fanno parte della situazione di enunciazione e non a concetti fissi. Per stabilire qual è il loro riferimento bisogna osservare chi parla (qual è l’enunciatore). • Pur restando strutturalista, Benveniste introduce per primo il soggetto e il referente nell’analisi linguistica. • Distinzione tra semiotica e semantica: la prima dimensione è relativa alla lingua come sistema di segni, la seconda riguarda l’enunciazione e l’universo del discorso. La dimensione semiotica è una proprietà della lingua, quella semantica risulta dall’attività del parlante che la mette in funzione (Della soggettività nel linguaggio). • Benveniste rinvia alla prospettiva pragmatica di Morris: «L’enunciato contenente io appartiene a quel tipo o livello di linguaggio che Morris chiama pragmatico e che include, con i segni, coloro che se ne servono» (La natura dei pronomi, 1956/2009:139)
• I nomi hanno una referenza fissa, indipendente dal soggetto che li pronuncia, rinviano sempre e solamente a concetti, rimandano ad una classe di oggetti. • Bisogna però «distinguere le entità che hanno nella lingua uno statuto pieno e permanente e quelle che derivando dall’enunciazione, esistono solo nel repertorio di “individui” che l’enunciazione crea e in rapporto al “qui” e “ora” del locutore» (123). • I pronomi come io e tu assumono una referenza variabile a seconda del soggetto che li pronuncia; • non rimandano ad una classe di oggetti (come i nomi), né ad un individuo fisso; • innescano un riferimento non esterno, ma interno al linguaggio, in quanto “queste forme ‘pronominali’ […] rimandano all’enunciazione, ogni volta unica, che le contiene, e riflettono così il loro proprio uso” (La natura dei pronomi,1956). • Analogamente si comportano gli indici di ostensione (questo, qui, ecc.), «termini che implicano un gesto indicante l’oggetto mentre viene pronunciata l’istanza del termine» (122). • Sono organizzati in maniera da riprodurre la correlazione di personalità (es. questo/codesto in relazione a io/tu). • Si riferiscono agli oggetti in maniera coestensiva rispetto allo spazio e al tempo dell’enunciazione (qui e ora). Ordinano lo spazio a partire da un punto centrale che è ego. Sono una classe di «individui linguistici”, rinviano sempre soltanto a individui (persone, tempi, spazi), in quanto prodotti in un evento individuale.
• Forme temporali: i tempi verbali sono organizzati a partire dalla posizione di Ego, centro dell’enunciazione. La loro forma assiale è il ‘presente’, che coincide con il momento della enunciazione. • La temporalità non è una dimensione innata, ma «prodotta all’interno e per mezzo dell’enunciazione. Il presente dell’enunciazione «è propriamente la sorgente del tempo» «l’uomo non dispone di nessun altro modo per vivere «l’adesso» e renderlo attuale se non realizzandolo con l’inserzione del discorso nel mondo» (123). • Il sistema temporale assume il presente come espressione del tempo coestensivo alla situazione di enunciazione: in questo senso il presente linguistico non ha alcuna realtà oggettiva esterna, ma è sui-referenziale. Il presente è l'unico tempo inerente al linguaggio: sono gli altri tempi, diversi dal presente, che hanno bisogno di essere esplicitati, come punti di vista proiettati indietro o in avanti a partire da esso. Questo lo porta a distinguere due sistemi temporali complementari, manifestazione di due modi diversi di organizzare l'esperienza temporale: (i) quello della storia, e (ii) quello del discorso (1959).
• Forme dell'illocutività ("grandi funzioni sintattiche", 2009: 123): l’enunciatore se ne serve per influenzare il comportamento dell’enunciatario: • Interrogazione (prodotta per ottenere una risposta: forme lessicali e sintattiche: particelle, pronomi, sequenza, intonazione, ecc.) • Intimazione: ordini, richieste (imperativo, vocativo) • Asserzione: modalità della certezza, «è la manifestazione più comune della presenza del locutore nell’enunciazione» (124). .
Modalità: marca gli atteggiamenti dell’enunciatore nei confronti del proprio enunciatore. Può essere realizzata attraverso • Modi verbali (indicativo, ottativo, ecc.) atti ad esprimere attenzione, augurio, apprensione, • Verbi che esprimono un atteggiamento (proposizionale) del parlante verso l’enunciato, come supposer, présumer, croire, ecc. • Espressioni fraseologiche (forse, senza dubbio, probabilmente), che indicano incertezza, possibilità, indecisione o sicurezza ecc. Infine, «bisognerebbe distinguere l’enunciazione parlata dalla enunciazione scritta. Quest’ultima si muove su due binari: lo scrittore si enuncia scrivendo e, all’interno della sua scrittura, fa sì che degli individui si enuncino. Dalla cornice formale qui abbozzata si intravedono ampie prospettive per l’analisi delle forme complesse del discorso» (2009: 127).
• Secondo Benveniste ((“I livelli dell’analisi linguistica”, 1964, ripreso da Lacan), l’unità più ampia dell’analisi linguistica è costituita dalla frase la linguistica strutturale opera grazie a due operazioni: segmentazione e sostituzione (o, con Hjelmslev, commutazione). Si prendono entità linguistiche di una certa taglia, le si segmenta in parti, e grazie alla sostituzione si perviene agli elementi che le compongono: in questo modo non facciamo appello all’intuizione quando sosteniamo che “ci sono” parole, radici, fonemi, ma proviamo quel che diciamo con metodo. L’identità di un elemento, comprovata in questo modo, è sempre da intendersi in relazione ad una entità̀ di rango superiore da cui l’elemento stesso dipende e che va a “saturare” insieme con gli altri elementi del medesimo rango. • Ma – questo è il punto - non c’è una unità di rango superiore alla frase, da cui la frase stessa dipenda: la frase non integra una unità più̀ vasta, non costituisce una classe di unità distintive di una entità più vasta. La prova della sostituzione applicata ad una frase non dà risultati sensati. La frase dunque non è oggetto della linguistica; essa appartiene al dominio del discorso, del quale potrà̀ occuparsi un’altra disciplina, certo non in contraddizione con la linguistica, e tuttavia differente (Galofaro, Recensione a Milner 2009, Ocula 2010).
I pronomi ! Struttura delle relazioni di persona nel verbo 1946 ! La natura dei pronomi, 1956 (qui compare per la prima volta l’espressione «enunciazione») ! La soggettività nel linguaggio, 1958 «Io e il nome di una qualsiasi nozione lessicale non si distinguono soltanto per le differenze formali, estremamente varie, imposte dalla struttura morfologica e sintattica delle singole lingue; di differenze ve ne sono altre, attinenti al processo dell’enunciazione linguistica e di natura più generale e profonda. L’enunciato contenente io appartiene a quel tipo o livello di linguaggio che Morris chiama pragmatico e che include, con i segni, coloro che se ne servono» (1956/2009: 138-139). «Le istanze di impiego dell’io, però, non costituiscono una classe di riferimento, perché non esiste un “oggetto” definibile come io al quale queste istanze possano univocamente rimandare. Ogni io ha una sua propria referenza e corrisponde ogni volta a un essere unico, posto in quanto tale» ivi: 139) Il riferimento del pronome io è definito solo in rapporto alla situazione di enunciazione, ovvero alla «realtà del discorso»: «L’io può essere definito solo in termini di “locuzione” e non in termini di oggetto, come lo è invece un sostantivo. Io significa “la persona che enuncia l’attuale istanza di discorso contenente io”. Istanza unica per definizione e che vale solo nella sua unicità» (ibid.)
Interno/esterno • I pronomi innescano una serie di riferimenti interni al discorso, diversamente dai nomi, che attivano un riferimento esterno e costante: «la deissi è concomitante alla istanza di discorso che include l’indicatore di persona» (ivi: 140). • «è un fatto originale e fondamentale che queste forme “pronominali” non rimandino né alla “realtà” né a posizioni oggettive nello spazio e nel tempo, ma alla enunciazione, ogni volta unica, che le contiene, e riflettano così il loro proprio uso» (ivi: 141).
• Rilevanza di Bühler, Sprachtheorie, 1934: funzione deittica del linguaggio articolata nella triade io-qui-ora. Il campo deittico veniva identificato con il campo percettivo del locutore (gesti indicativi) (deiknumi: indicare e parlare). • La teoria dei due campi (simbolico e di indicazione) di Bühler riemerge nella distinzione di Benveniste tra semantica del nome e semantica del pronome: • «I nomi fungono da simboli e conseguono la loro specifica pienezza e precisione di significato in un articolato campo semantico: propongo la denominazione di “campo simbolico” per quest’altro ordine, che non va in alcun caso confuso con i momenti situazionali» (Bühler 1934: 133). • «Il campo di indicazione del linguaggio nello scambio comunicativo diretto costituisce il sistema qui-ora-io dell’orientamento soggettivo: emittente e ricevente vivono sempre, allo stato di veglia, secondo tale orientamento» (ivi: 201). • I termini di indicazione sono nel linguaggio l’analogo dei gesti
Le relazioni di persona nel verbo • «Il verbo, insieme al pronome, è l’unica categoria linguistica subordinata a quella della persona» (1946/2009: 128). • La tradizione grammaticale che risale ai greci distingue tre persone, considerando questa suddivisione naturale, iscritta nell’ordine delle cose. Tuttavia la categoria delle persone nel verbo non è stata ben fondata dal punto di vista linguistico: «Occorre quindi scoprire come ogni persona si opponga all’insieme delle altre e su quale principio si fondi la loro opposizione: possiamo coglierle soltanto a partire da ciò che le differenzia» (ivi: 129). • Benveniste individua una opposizione radicale tra le prime due persone (che rinviano alla situazione di discorso) e la terza (che invece ne è indipendente).
Una guida è offerta dalla grammatica araba: • 1° persona (al-mutakallimu) “Colui che parla” • 2° persona (al-muhatabu) “Colui al quale ci si rivolge” • 3° persona (al-ga’ibu) “Colui che è assente” Le prime due persone: - sono gli attori del processo e della situazione comunicativi - sono invertibili nei turni di parola - svolgono un ruolo comunicativo fondamentale rendendo padroneggiabile la lingua, poiché il parlante le prende a prestito, senza che esse lo designino in modo rigido.
• «Nelle prime due persone sono implicati sia una persona, sia un discorso su questa persona. “Io” designa chi parla e implica nello stesso tempo un enunciato sul conto di “io”: dicendo “io” non posso non parlare di me. Nella seconda persona, “tu” è necessariamente designato da “io” e non può essere pensato al di fuori di una situazione posta a partire da “io”; al contempo “io” enuncia qualcosa come predicato del “tu”. Nella terza persona, invece, si enuncia un predicato, ma soltanto al di fuori dell’“io-tu”; questa forma così rimane esterna alla relazione con cui si specificano “io” e “tu”. La sua legittimità come “persona” va messa in discussione» (1946/2009: 131) • La qualifica di «persona» spetta dunque solo ai pronomi “io” e “tu” che delimitano la situazione di intersoggettività comunicativa; alla terza persona manca «l’elemento variabile»: la sua referenza non cambia come quella della prima e della seconda persona: è in effetti una non-persona, l’assente. • Nella maggior parte delle lingue la terza persona è infatti trattata in modo differente dalle prime due: nel semitico, nel turco, nelle lingue ugro-finniche, nelle lingue amerinde la terza persona presenta un demarcatore zero o puro tema; al contrario in inglese la terza persona riceve un marcatore (-s), che le prime due non hanno. I sintesi, il riferimento specifico delle prime due persone si oppone a un riferimento indeterminato della terza persona.
Correlazione di personalità e correlazione di soggettività «A ogni modo, è un fatto originale e fondamentale che queste forme “pronominali” non rimandino né alla “realtà” né a posizioni “oggettive” nello spazio o nel tempo, ma all’enunciazione, ogni volta unica, che le contiene, e riflettano così il loro proprio uso. L’importanza della loro funzione è direttamente proporzionale alla natura del problema che aiutano a risolvere, quello, cioè, della comunicazione intersoggettiva. Il linguaggio lo ha risolto creando un insieme di segni “vuoti”, non referenziali rispetto alla “realtà”, sempre disponibili, e che diventano “pieni” non appena il parlante li assume in un’istanza qualsiasi del suo discorso. Privi di referenza concreta, è difficile che siano impiegati male; poiché non asseriscono nulla, non sono soggetti alla condizione di verità e sfuggono a ogni possibilità di negazione. Il loro compito è di fornire lo strumento di quella che potremmo chiamare conversione del linguaggio in discorso» (1956/2009: 141). A ben vedere «i deittici rimandano alla realtà forse ancor di più che gli altri termini, e questa realtà è del tutto oggettiva: solo che per sapere a quale frammento di realtà rimandano bisogna integrare il loro significato (che è molto povero ma non è nullo) con i dati che vengono dalla situazione di discorso» (Fumagalli, Da Peirce a Benveniste: gli indicatori e la teoria dell’enunciazione, «Semiotiche», 2, 2004: 31-48). A livello di codice il pronome funziona «come una “istruzione” che permette di collocare l’espressione in relazione alla situazione concreta che si viene a creare nell’effettivo funzionamento della comunicazione” (Manetti, L’enunciazione, Mondadori, 2008: 12)
Le forme dell’enunciazione manifestano tre proprietà fondamentali: 1. Unicità di io e tu. L’io e il tu sono ogni volta unici: indicano quell’unica persona che parla in quel momento e in quello spazio e quell’unica persona cui l’io si rivolge 2. Convertibilità di io e tu. Io e Tu manifestano la categoria della persona, ma solo alternativamente assumono la funzione di soggetto, designandosi come “io”. Io e Tu si definiscono a partire dall’atto che essi stessi realizzano, iscrivendosi così in uno spazio non esclusivamente linguistico ma pragmatico. 3. Asimmetria della terza persona. La terza persona non è propriamente una “persona”, non prende parte pariteticamente allo scambio comunicativo, per questo può designare tanto degli oggetti quanto dei soggetti umani, che comunque non vengono posti in quel caso come persone. Sottratta al carattere di personalità, la terza persona può svolgere altre funzioni – ad es. forma di cortesia e di rispetto, che pone l’interlocutore in una posizione asimmetrica e più elevata, oppure forma di disprezzo o di offesa, che degrada un individuo a non-persona (Benveniste 1946/2009: 134).
Personalità + – Soggettività – + io tu egli Manetti, L’enunciazione, Mondadori 2008: 14; Benveniste 1946/2009: 134.
Pluralizzazione «nei pronomi personali il passaggio dal singolare al plurale non implica una semplice pluralizzazione. In un certo numero di lingue si è prodotta, anzi, una differenziazione della forma verbale di prima persona plurale sotto due diversi aspetti, inclusivo ed esclusivo, che mostra una particolare complessità» . «È chiaro, infatti, che l’unicità e la soggettività inerenti all’“io” contraddicono la possibilità di una pluralizzazione. Se non possono esserci più “io” concepiti dallo stesso “io” che parla, è perché “noi” non è una moltiplicazione di oggetti identici, bensì una giunzione tra l’“io” e il “non-io”, qualunque sia il contenuto di questo “non-io”. Tale giunzione forma una totalità nuova e tutta particolare, in cui i componenti non si equivalgono: in “noi” è sempre “io” che predomina, in quanto vi è “noi” solo a partire da “io”, e questo “io”, per la sua qualità trascendente, subordina l’elemento “non-io”. La presenza dell’“io” è costitutiva del “noi”» (1946/2009: 135)
Forme inclusive ed esclusive «“Noi” può significare sia “me + voi” sia anche “me + loro”. Sono le forme inclusive ed esclusive a differenziare il plurale del pronome e del verbo di prima persona in gran parte delle lingue amerinde, australiane, in papuano, in maleopolinesiano, in dravidico, in tibetano, in manciù e tunguz, in nama, e così via. I termini “inclusivo” ed “esclusivo” non sono certo esaustivi; si basano infatti sull’inclusione o l’esclusione del “voi”, ma in rapporto a “loro” le designazioni possono addirittura invertirsi. È difficile, tuttavia, trovare termini più appropriati. Sarà meglio analizzare la categoria “inclusivo- esclusivo” dal punto di vista delle relazioni di persona» (1946/2009: 135-136). Il plurale esclusivo congiunge le due forme che si collocano sull’opposizione di personalità, il plurale inclusivo congiunge le due forme che si collocano sull’opposizione di soggettività. In generale però nelle lingue indoeuropee il plurale non serve tanto a marcare il congiungimento di io e non-io ma una predominanza di “io”, che in certi casi può arrivare a sostituire il singolare con il plurale come forma di “io dilatato” (anziché quantificato) (noi maiestatico e noi di modestia). «in definitiva, la pluralizzazione dei pronomi personali “io” e “tu” rappresenta “un fattore di illimitatezza, non di moltiplicazione”. La distinzione abituale tra singolare e plurale risulta essere in effetti una distinzione tra una persona ristretta (=singolare) e una persona amplificata (=plurale)» (Manetti 2008: 15).
La soggettività nel linguaggio «È nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce in quanto soggetto, perché solo il linguaggio fonda nella realtà, nella sua realtà che è quella dell’essere, il concetto di “ego”» (1958/2009: 112). La soggettività si realizza solo nel linguaggio, solo nella lingua possiamo trovare le espressioni della soggettività, perché solo nel linguaggio verbale (non in altri sistemi semiotici) si trovano espressioni a referenza variabile. «La soggettività su cui vogliamo ragionare in questa sede è la capacità del parlante di porsi come “soggetto”. Si definisce non in base al sentimento che ognuno prova a essere se stesso (nella misura in cui se ne può tenere conto, tale sentimento è comunque solo un riflesso), ma come unità psichica trascendente rispetto alla totalità delle esperienze vissute che riunisce e che assicura il permanere della coscienza. Noi supponiamo che questa “soggettività”, non importa se intesa da un punto di vista fenomenologico o psicologico, sia l’affiorare, nell’essere, di una proprietà fondamentale del linguaggio. È “ego” che dice “ego”. Ecco il fondamento della “soggettività”, che si determina attraverso lo status linguistico della “persona”» (ivi: 112-113). [cfr. Foucault: il soggetto è una figura del discorso]
«La coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione è un tu. Questa condizione di dialogo è costitutiva della persona, perché implica che io diventi tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io, e viceversa. È un principio dal quale, secondo noi, si sviluppano conseguenze volte in tutte le direzioni. Il linguaggio è possibile solo per il fatto che il parlante si pone come soggetto, riferendosi a se stesso come io nel suo discorso. Per lo stesso motivo, io pone un’altra persona, che, per quanto completamente esterna a “me”, diventa la mia eco a cui io dico tu e che mi dice tu. La polarità delle persone, è questa la condizione fondamentale nel linguaggio, il cui processo di comunicazione, dal quale siamo partiti, è una conseguenza esclusivamente pragmatica» (ivi: 113). Per Benveniste il fondamento della soggettività si trova solo nell’esercizio della lingua, che sola fornisce le forme adeguate per l’emergere della soggettività nella situazione di discorso: non si danno altri modi per attestare l’identità del soggetto. In tal modo Benveniste «smitizza» la soggettività filosofica come coscienza di sé irriducibile ad altri (Krysinski 1987; cit. in Manetti 2008: 18)
«A che cosa si riferisce allora io? A qualcosa di molto singolare, ed esclusivamente linguistico: si riferisce all’atto di discorso individuale nel quale è pronunciato, e di cui designa il parlante. È un termine che può essere identificato solo in quello che altrove abbiamo chiamato istanza di discorso e che ha una referenza unicamente attuale. La realtà alla quale rinvia è la realtà del discorso. È nell’istanza di discorso in cui io designa il parlante che quest’ultimo si enuncia come “soggetto”. Il fondamento della soggettività sta quindi veramente nell’esercizio della lingua. A ben rifletterci, non vi sono testimonianze oggettive dell’identità del soggetto fuorché quella che egli stesso dà in tal modo su di sé. Il linguaggio concede a ogni parlante di appropriarsi della lingua intera designandosi come io» (1956/2009: 114). Cfr. Peirce, Questioni riguardo a certe pretese capacità umane, 1868: seconda questione: Se abbiamo un’autocoscienza intuitiva. Per Peirce la testimonianza (degli altri) è all’origine dell’autocoscienza (per contrasto e differenza). La coscienza dell’io privato (personale) viene costruita per inferenza dalla consapevolezza dell’ignoranza e dell’errore (vs Cartesio). «Così il linguaggio è ciò che rende possibile la soggettività, perché contiene le forme appropriate alla sua espressione, mentre il discorso ne provoca l’emergere, perché consiste in istanze discrete. Il linguaggio propone delle forme “vuote” , di cui il parlante si appropria nell’esercizio del discorso e che ascrive alla sua “persona”, definendo al contempo se stesso come io e un partner come tu. L’istanza di discorso è allora costitutiva di tutte le coordinate che definiscono il soggetto; qui abbiamo indicato solo le più evidenti» (ibid.).
Modo semiotico e modo semantico " I livelli dell’analisi linguistica (1964) " La forma e il senso del linguaggio (1966) " Semiologia della lingua (1969) Semiotico è il modo di significare del segno, in quanto elemento della lingua, indipendente dalla situazione discorsiva. Semantico è il modo di significazione proprio del discorso e dell’enunciazione. Questa distinzione non va confusa con quella di Saussure tra langue e parole, entrambe le dimensioni fanno parte della lingua: si tratta delle «due modalità fondamentali della funzione linguistica, cioè quella di significare, relativa alla semiotica, e quella di comunicare, che riguarda la semantica. La nozione di semantica introduce al campo della lingua nel suo impiego e in atto; della lingua consideriamo questa volta la sua funzione di mediatrice fra l’uomo e l’uomo, fra l’uomo e il mondo, fra la mente e le cose, cioè la funzione di trasmettere informazioni, comunicare esperienze, imporre adesioni, suscitare risposte, implorare, costringere: in breve, quella di organizzare l’intera vita degli uomini […]. Solo il funzionamento semantico della lingua consente l’integrazione nella società e l’adeguamento al mondo, quindi l’organizzazione del pensiero e lo sviluppo della coscienza» (1966/2009: 64) «Con il semantico, entriamo nel modo specifico di significanza che sorge con il discorso. I problemi che si pongono qui sono funzione della lingua come produttrice di messaggi. Il semantico, poi, si fa necessariamente carico dell’insieme dei referenti, mentre il semiotico è per principio sganciato e autonomo da ogni referenza. L’ordine semantico si identifica con il mondo dell’enunciazione e l’universo del discorso […]. Il semiotico (segno) deve essere riconosciuto; il semantico (discorso) deve essere compreso» (1969/2009:20)
La dimensione semantica si caratterizza per due aspetti del tutto assenti nella dimensione semiotica: # La presenza del locutore «La presenza del locutore nella propria enunciazione fa sì che ogni istanza di discorso costituisca un nucleo di riferimento interno» (1970/2009:122) # La frase, che porta il carico della possibilità del riferimento e dell’«intento» del locutore stesso (Manetti 2008: 25) Nella produzione del discorso ciò che è in gioco «non è il significato del segno, ma quello che chiameremo l’intento, che è ciò che il locutore vuol dire, l’attualizzazione linguistica del suo pensiero […] con il segno si coglie la realtà intrinseca della lingua; con la frase, ci si ricollega alle cose esterne alla lingua. mentre il segno ha come parte costituente il significato che gli inerisce, il senso della frase implica un riferimento alla situazione di discorso e l’attività del locutore» (La forma e il senso del linguaggio, 1966/2009: 65). Il senso della frase implica il riferimento alla situazione del discorso e alla disposizione del locutore.
Commento di Ricoeur Nella discussione a La forma e il senso del linguaggio (1966/2009: 74): «La distinzione tra semiotico e semantico è di rilevante fecondità filosofica; consente di tornare sul problema fondamentale della chiusura dell’universo linguistico. La linguistica si è affermata proprio proclamando questa chiusura e istituendola; ha separato così la costituzione interna del sistema dei segni nella lingua dalla presa del linguaggio sulla realtà. Contemporaneamente la linguistica ha creato un paradosso, facendo decadere la funzione essenziale del segno che è quella di dire qualcosa. Ora, la doppia linguistica di Benveniste dà nuova luce al problema, il suo concetto di semantico permette di ristabilire una serie di mediazioni fra il mondo chiuso dei segni, in una semiotica, e la presa che il nostro linguaggio, in quanto semantico, ha sul reale. La distinzione tra semiotico e semantico va al di là della dicotomia saussuriana fra langue e parole. Benveniste rivisita infatti il problema intuito da Meillet quando distingueva nella lingua l’immanenza e la trascendenza, cioè i rapporti interni alla lingua e il superamento che essa opera verso qualcosa d’altro. La doppia linguistica di Benveniste fa capire che il linguaggio si costituisce in un mondo di segni circoscritto, ma supera se stesso in direzione di ciò che tali segni dicono (2009:75).
Specificità della frase «la frase si distingue dalle altre entità linguistiche perché non costituisce una classe di unità distintive che siano, come i fonemi o i morfemi, membri di unità superiori. Il fondamento di questa differenza è che la frase contiene dei segni, ma non è essa stessa un segno» (I livelli dell’analisi linguistica, 1964, 2009: 55) Per questo, diversamente dalle unità inferiori, fonemi, morfemi, parole, le frasi non possono essere contate. «Perciò con la frase si abbandona il campo della lingua come sistema di segni e si entra in un altro universo, quello della lingua come strumento di comunicazione la cui espressione è il discorso. Si tratta di due universi eterogenei, benché attinenti alla stessa realtà, e che danno luogo a due linguistiche diverse, benché i loro itinerari si incrocino di continuo. Da un lato vi è la lingua, insieme di segni formali, rilevati da procedure rigorose, disposti in classi, combinati in strutture e in sistemi, dall’altro la manifestazione della lingua nella comunicazione vivente» (1964/2009: 55-56). «La frase appartiene propriamente al discorso» (ibid.)
Le tre funzioni predicative della frase Asserzione, interrogazione, ingiunzione (proposizioni assertive, interrogative, imperative) riflettono «i tre comportamenti fondamentali dell’uomo che, con il discorso, parla e agisce sul suo interlocutore: vuole trasmettergli un sapere, ottenere un’informazione o intimargli un ordine. Sono le funzioni interumane del discorso impresse nelle tre modalità dell’unità della frase, ognuna corrispondente a un atteggiamento del parlante». La funzione predicativa conferisce alla frase una duplice proprietà: quella di avere un senso (in quanto «informata di significato») e quella di avere una referenza, in quanto «si riferisce a una situazione data» (referenza situazionale). Perciò la frase è una unità completa. «È nel discorso, attualizzato in frasi, che la lingua si forma e si configura. Là comincia il linguaggio. Rivedendo una formula classica, potremmo dire: “nihil est in lingua quod non prius fuerit in oratione”» (1964/2009: 56).
Performatività Comprenderemo meglio la natura di questa “soggettività” osservando gli effetti che il cambiamento di persona produce sul significato di alcuni verbi dichiarativi. Si tratta di verbi il cui significato denota un atto individuale di portata sociale: “giurare, promettere, garantire, certificare”, con alcune varianti in locuzioni quali “impegnarsi a…, farsi forti di…”. Nelle condizioni sociali di impiego della lingua, gli atti denotati da questi verbi sono considerati costrittivi. Qui la differenza tra enunciazione “soggettiva” e “non soggettiva» emerge non appena ci si accorge della natura della opposizione tra le “persone” del verbo. […]. Ora, “io giuro” è una forma che ha un valore singolare, in quanto situa la realtà del giuramento in colui che si enuncia come io. Questa enunciazione è un compimento: “giurare” consiste appunto nell’enunciazione “io giuro”, alla quale Ego è vincolato. L’enunciazione “io giuro” è l’atto stesso che mi impegna, non la descrizione dell’atto che compio. Nel dire “prometto” e “garantisco”, “prometto” e “garantisco” davvero. Le conseguenze sociali e giuridiche del mio giuramento, della mia promessa, si sviluppano a partire dall’istanza di discorso che contiene “io giuro”, “io prometto”. L’enunciazione si identifica con l’atto stesso. Ma questa condizione non sta nel senso del verbo; è la soggettività del discorso a renderla possibile. Che le due cose siano diverse lo si capisce sostituendo “io giuro” con “egli giura”. Mentre “io giuro” è un impegno, “egli giura” è soltanto una descrizione, sullo stesso piano di “egli corre”, “egli fuma”. […] Molte nozioni della linguistica, e forse anche della psicologia, appariranno sotto una luce diversa se riportate nella cornice del discorso […]» (1958/2009: 117-118)
Cfr. Benveniste, La filosofia analitica e il linguaggio, 1963 • Qui Benveniste commenta la distinzione austiniana tra performativo e constativo (lo legge nel volume La philosophie analityque, Paris 1962). • Respinge la conclusione cui approdava Austin: che non ci sia un criterio certo per mantenere la distinzione tra enunciati performativi e constativi. • Dichiara di essere arrivato nel 1958 attraverso la categoria di enunciato performativo alle stesse conclusioni cui arriva Austin: «Nel descrivere, qualche anno fa, le forme soggettive dell’enunciazione linguistica, indicavamo sommariamente la differenza tra io giuro, che è un atto, ed egli giura, che è solo una informazione. Non venivano ancora usati i termini «esecutivo» [performativo] e «constatativo» [constativo], la sostanza della definizione era tuttavia la stessa» (1963/1971: 324) «Gli enunciati performativi sono enunciati in cui un verbo dichiarativo-ingiuntivo alla prima persona del presente è costruito con un dictum. Così: ordino (o comando, decreto ecc.) che la popolazione sia mobilitata. È effettivamente un dictum, poiché ne è indispensabile l’enunciazione espressa perché il testo abbia valore esecutivo» (ivi: 325)
Caratteristiche degli enunciati performativi • Unicità (analogamente ai pronomi di prima e seconda persona): possono essere realizzati come atti linguistici solo in circostanze particolari, in un tempo e in un luogo definiti: ogni nuovo atto è differente dai precedenti. • Sui-referenzialità: si riferiscono a una realtà che essi stessi costituiscono. L’atto deve essere nominato perché la sua enunciazione implichi l’esecuzione di un’azione. Nella enunciazione «dichiaro aperta la seduta» viene nominata la dichiarazione esecutiva e il suo locutore (ivi: 328): «Tutto ciò porta a riconoscere all’esecutivo [performativo] una proprietà peculiare, quella di essere sui-referenziale, di riferirsi a una realtà che costituisce esso stesso, per il fatto di essere effettivamente enunciato in condizioni che lo fanno atto. Ne deriva che è contemporaneamente manifestazione linguistica, in quanto deve essere pronunciato, e fatto di realtà, in quanto effettuazione di un atto. L’atto si identifica quindi con l’enunciato dell’atto. Il significato è identico al referente. E ne fa fede la clausola «con la presente”. L’enunciato che prende se stesso come referenza è appunto sui-referenziale» (ivi: 327)
Condizioni perché un enunciato sia performativo • L’enunciato deve contenere un verbo che denomina l’atto che l’enunciato stesso compie: «Un enunciato è performativo in quanto denomina l’atto seguito, per il fatto che l’Ego pronuncia una formula contenente il verbo alla prima persona del presente» (1966/1971: 328). • Il verbo deve essere «al presente e alla prima persona» (ibid.). Perciò, diversamente da Austin, Benveniste nega che un cartello con la scritta «Cane feroce» sia un performativo perché l’espressione linguistica non compie alcun atto di avvertimento: «È evidente allora che un imperativo non equivale a un enunciato esecutivo per il motivo che non è né enunciato né esecutivo. Non è enunciato perché non serve per costruire una proposizione con verbo personale; e non è esecutivo, per il fatto che non denomina l’atto dichiarativo da seguire. Venez! È sì un ordine, ma linguisticamente è una cosa completamente diversa dal dire: Ordino che voi veniate. Non vi è enunciato esecutivo se non contiene la menzione dell’atto, vale a dire ordino, mentre l’imperativo potrebbe essere sostituito da qualsiasi procedimento che produca il medesimo risultato, un gesto per esempio, e non avere più alcuna realtà linguistica. il criterio non è quindi il comportamento che ci si aspetta dall’interlocutore, ma la forma dei rispettivi enunciati» (ivi: 328-329)
Ambiti specifici degli enunciati performativi: • Atti di autorità, formule ufficiali: «La proclamo vincitore», «Vi incarico di questa missione»; ma anche forme impersonali: «La cattedra di Botanica è dichiarata vacante»; «Si decreta che…» • Enunciati che pongono un impegno personale per colui che li enuncia, ad es. quelli che contengono un verbo di obbligazione (giuro, mi impegno, faccio voto, abiuro, ecc.). «In ogni caso, un enunciato esecutivo non ha realtà se non quando sia autenticato come atto. Al di fuori delle circostanze che lo rendono esecutivo, un enunciato del genere non è più niente. Chiunque può gridare in piazza: «io decreto la mobilitazione generale». Non potendo essere atto in mancanza dell’autorità richiesta, l’argomento resta solo parola; si riduce a un vano clamore, bambinata o demenza. Un enunciato esecutivo che non sia atto non esiste. Non ha esistenza che come atto d’autorità. Ma gli atti di autorità sono in primo luogo e sempre enunciazioni proferite da chi ha il diritto di enunciarle. Quando si tratta dell’esecutivo, si deve sempre supporre soddisfatta tale condizione di validità, relativa alla sua persona enunciante e alla circostanza di enunciazione. Il criterio sta in ciò e non nella scelta dei verbi» (ivi: 326- 327) [cfr. Foucault].
Verbi di atteggiamento proposizionale «In generale, quando uso il presente di un verbo nelle tre persone (secondo la terminologia tradizionale), la differenza di persona non sembra comportare alcun mutamento di significato nella forma verbale coniugata. “Io mangio, tu mangi, egli mangia” hanno in comune il fatto che la forma verbale presenta la descrizione di un’azione, attribuita rispettivamente, e nello stesso identico modo, a “io”, a “tu”, a “egli” […]. Ma un gran numero di verbi sfugge a questo permanere del significato al mutare delle persone […]. Posso considerare “credo” come una descrizione di me stesso allo stesso titolo di “sento”? Quando dico “credo (che…)” sto forse descrivendomi nell’atto di credere? Sicuramente no. L’operazione di pensiero non è per nulla l’oggetto dell’enunciato; “credo (che…)” equivale a un’asserzione mitigata. Quando dico “credo (che…)” converto in un’enunciazione soggettiva il fatto asserito impersonalmente, cioè “il tempo sta per cambiare”, che è la vera proposizione» (1958/2009: 116).
In “io suppongo, io presumo” c’è l’indicazione di un atteggiamento, non la descrizione di un’operazione. Includendo nel mio discorso “io suppongo, io presumo”, implico che assumo un certo atteggiamento nei riguardi dell’enunciato che segue. Si sarà notato, infatti che tutti i verbi menzionati sono seguiti da che e una proposizione: è quest’ultima il vero enunciato, non la forma verbale personale che la regge. In compenso, questa forma personale è, se così si può dire, un indicatore di soggettività. Dà all’asserzione che segue il contesto soggettivo – dubbio, supposizione, inferenza – che caratterizza l’atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato che proferisce. La manifestazione della soggettività prende peso solo alla prima persona» (1958/2009: 117). Cfr. L’apparato formale dell’enunciazione, 1970, a proposito delle modalità formali: • Modi verbali (ottativo, congiuntivo), che esprimono attesa, augurio, apprensione; • Espressioni fraseologiche (forse, senza dubbio, probabilmente) che indicano incertezza, possibilità, indecisione o un deliberato rifiuto di asserzione.
Il problema del tempo • La soggettività nel linguaggio, 1958 • Le relazioni di tempo nel verbo francese, 1959 • Il linguaggio e l’esperienza umana, 1965 • L’apparato formale dell’enunciazione, 1970 Il discrimine fondamentale del sistema del tempo è il presente a partire dal quale si organizzano gli altri tempi (passato = qualcosa che non è più presente; futuro = qualcosa che non lo è ancora). Il presente non è semplicemente «il tempo in cui si è» ma è «il tempo in cui si parla». Il presente linguistico non ha alcuna realtà oggettiva esterna ma è sui-referenziale, ancorato di volta in volta alla situazione d’enunciazione. La concettualizzazione linguistica del tempo non è il calco del tempo oggettivo.
Tre dimensioni della temporalità Il linguaggio e l’esperienza umana, 1965/2009: 38-41. Tempo fisico: continuum uniforme e illimitatamente segmentabile, che scorre in maniera lineare e irreversibile, misurato da ciascuno sulla base delle proprie emozioni e del ritmo della vita interiore. Tempo cronico: tempo degli avvenimenti sottoposto alla misurazione collettiva degli orologi e dei calendari, oggettivato e socializzato, è il tempo della storia e in quanto tale può essere ripercorso anche all’indietro. Tempo linguistico: forma linguistica di organizzazione dell’esperienza temporale, irriducibile sia al tempo cronico che al tempo fisico. Questa dimensione è legata all’esercizio della parola, si definisce in funzione del discorso.
Il tempo linguistico «ha il suo centro – insieme generatore e assiale – nel presente dell’istanza di parole. Ogni volta che un parlante impiega la forma grammaticale del “presente” (o un suo equivalente), situa l’avvenimento come contemporaneo all’istanza del discorso che lo menziona. È evidente che questo presente, in quanto funzione del discorso, non può essere collocato in una particolare divisione del tempo cronico, perché le ammette tutte e non ne richiede nessuna. Il parlante situa come “presente” tutto ciò che considera tale in virtù della forma linguistica impiegata. Il presente è reinventato ogni volta che un uomo parla, dato che è, alla lettera, un momento nuovo, non ancora vissuto» (ivi: 41). «Il presente linguistico è il fondamento delle opposizioni temporali della lingua. Questo presente che si sposta con l’avanzare del discorso, pur restando presente, costituisce la linea di separazione fra due momenti che esso genera e che sono inerenti all’esercizio della parole: il momento in cui l’avvenimento non è più contemporaneo al discorso, esce dal presente e deve essere evocato tramite la memoria e il momento in cui l’avvenimento non è ancora presente, sta per diventarlo e appare in prospettiva. Si noterà che in realtà la lingua dispone di una sola espressione temporale, il presente, il quale, segnalato dalla coincidenza dell’avvenimento e del discorso, è per sua stessa natura implicito. Quando viene formalmente esplicitato, accade per la frequenza di ridondanze nell’uso quotidiano. Al contrario, i tempi non-presenti, cioè il passato e il futuro, sempre esplicitati nella lingua, non si trovano allo stesso livello temporale del presente. […] La lingua deve necessariamente ordinare i tempi partendo da un asse e tale asse è sempre e solamente l’istanza del discorso» (ivi: 41-42).
A partire dal carattere personale e soggettivo dell’enunciazione, il tempo diventa un fattore di intersoggettività, riflettendo il carattere della relazione di reciprocità tra parlante e interlocutore: «Un ultimo aspetto di questa temporalità merita attenzione: è il suo modo di entrare nei processi comunicativi. Finora abbiamo parlato del tempo linguistico in seno all’istanza del discorso, che lo contiene in potenza e lo attualizza di fatto. Ma l’atto di parola è necessariamente individuale; l’istanza specifica da cui emerge il presente è ogni volta nuova. La temporalità linguistica dovrebbe quindi realizzarsi, nell’universo intrapersonale del parlante, come una esperienza irrimediabilmente soggettiva e impossibile da trasmettere». Eppure nel discorso accade «qualcosa di singolare, di molto semplice e di infinitamente importante» che «produce quello che sembra logicamente impossibile: la temporalità che è mia, nell’ordinare il mio discorso, viene immediatamente accettata come sua dal mio interlocutore. Il mio “oggi” si converte nel suo “oggi”, benché lui non l’abbia instaurato nel mio proprio discorso, e il mio “ieri” nel suo “ieri”.[…]. Il tempo del discorso non è riconducibile alle divisioni del tempo cronico e non è rinchiuso in una soggettività solipsista. Funziona come un fattore di intersoggettività: proprio quello che dovrebbe essere personale lo rende onnipersonale. Solo la condizione di intersoggettività permette la comunicazione linguistica» (1965/2009: 43-44)
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