SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 12-14 MAGGIO 2021 - PROF. ILARIA TANI - Modalità compatibilità
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SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 12-14 MAGGIO 2021 PROF. ILARIA TANI
Contro l’intuizione Saggi anticartesiani di Peirce (1868-69): • Questioni riguardo a certe pretese capacità umane (Questions concerning Certain Faculties Claimed for Man) • Alcune conseguenze di quattro incapacità (Some consequences of Four Incapacities) • Fondamenti di validità delle leggi logiche: ulteriori conseguenze delle quattro incapacità (Grounds of Validity of the Laws of Logic) La confutazione dell’intuizionismo contenuta in questi saggi segna il passaggio dal pensiero ottocentesco a quello del Novecento. Tesi centrale: Tutto il pensiero è un processo inferenziale che si sviluppa attraverso segni. Peirce rifiuta ogni forma di intuizionismo e di capacità introspettiva: non si dà alcun rapporto diretto tra la cognizione e il suo oggetto trascendentale, ma ogni conoscenza è sempre mediata da altre cognizioni precedenti; l’oggetto non è il primum posto al di fuori del processo semiotico ma un termine ideale del processo delle nostre rappresentazioni.
Peirce muove contro quell’intuizionismo che ammette un contatto diretto e immediato con la realtà esterna. Questa concezione è un ostacolo per la filosofia scientifica che considera unico criterio di validità di una conoscenza la verifica empirica, inscindibile dal fallibilismo. Non si dà contatto diretto tra la realtà esterna e il soggetto che conosce. Fondazione del modello triadico della semiotica, che fonde realismo scolastico e idealismo: il soggetto gestisce e produce il senso, la realtà esterna svolge il ruolo di agente “formante”. La conoscenza è come un velo o uno strato di vernice che viene gettato su qualcosa di invisibile per farne emergere i tratti. Ciò che conosciamo è lo strato da noi stessi gettato, ma questo strato è lo strumento plasmato da una presenza esterna e oggettiva, che si rivela con delle regolarità che testimoniano della realtà di leggi generali. Questo strato è il segno. Tutta la conoscenza è in segni e il segno è mediazione tra soggetto e realtà: come un cieco, possiamo dire che conosciamo solo attraverso il bastone, ma il mondo è ciò che modifica il comportamento del nostro bastone, indipendentemente dalla nostra volontà. I nostri sensi funzionano come il bastone.
Questioni riguardo a certe pretese capacità umane (1868a) Come sappiamo di avere intuizioni? L’esistenza di intuizioni in senso cartesiano è a sua volta qualcosa di conoscibile mediante intuizioni? Abbiamo una intuizione delle intuizioni? La critica all’intuizione viene condotta in termini operazionali, a partire cioè dal modo in cui sarebbe possibile ottenere intuizioni. Intuizione (Vedi nota a., p. 75): La parola intuitus viene adottata come termine tecnico per la prima volta da S. Anselmo nel Monologium (1076) per indicare la nostra conoscenza delle cose finite, in quanto distinta dalla nostra conoscenza di Dio (speculazione), ovvero: A) conoscenza del presente in quanto presente (dunque contrapposta alla conoscenza astratta). (Questa distinzione viene riproposta in Kant nella distinzione tra sensibile e non- sensibile). Ma la filosofia medievale ha adottato anche una seconda accezione di intuizione: B) cognizione non determinata da una cognizione precedente (e in quanto tale opposta a cognizione discorsiva): in questa accezione la usa Scoto, ma poi anche Kant e Peirce, che contrappone al conoscere intuitivamente la «cognizione determinata da una cognizione precedente», cioè l’interpretazione o segno.
Questione 1. Se per pura contemplazione di una cognizione, indipendentemente da ogni cognizione precedente e senza un ragionamento sui segni, siamo in grado di giudicare se quella stessa conoscenza sia stata determinata da una conoscenza precedente o se si riferisca immediatamente al suo oggetto» (62). «In questo articolo userò il termine intuizione per indicare una cognizione non determinata da una cognizione precedente dello stesso oggetto e perciò determinata da qualcosa di esterno alla coscienza. Vorrei che il lettore notasse che intuizione in questo caso è quasi come dire «premessa che non è essa stessa una conclusione»; con la sola differenza che le premesse e le conclusioni sono giudizi, mentre un’intuizione, per definizione, può essere una conoscenza qualsiasi. Ma proprio come una conclusione (buona o cattiva) è determinata nella mente di chi ragiona dalla sua premessa, le cognizioni che non sono giudizi possono essere determinate da cognizioni precedenti; una cognizione che non sia determinata in questo modo e che sia dunque determinata direttamente dall’oggetto tascendentale deve essere chiamata intuizione» (ibid.)
A. Abbiamo una intuizione delle intuizioni? • Se l’esistenza di intuizioni si cogliesse intuitivamente ci dovrebbe essere tra filosofi competenti unanimità su quello che è conoscenza intuitiva e quello che non lo è, cosa che non si verifica (p. 63). • D’altronde, anche le testimonianze in tribunale dimostrano quanto sia generalmente arduo distinguere nettamente ciò che è stato visto o udito dalla interpretazione di ciò che è stato visto o udito. Lo stesso vale per le prestazioni di un medium spiritico o di un prestigiatore professionista, ma anche nella ricostruzione di un sogno: dov’è il confine tra intuizione e interpretazione? • Tuttavia alcune conoscenze sembrano intuitivamente riconducibili ad una dimensione intuitiva: la più ovviamente intuitiva sembra essere la coscienza che ciascuno può sperimentare di se stesso come di un unico soggetto pensante. Ma l’osservazione psicologica insegna che i bambini non hanno una tale conoscenza e vi pervengono solo gradualmente e con un certo sforzo: l’idea di se stessi come individui autonomi con i propri pensieri è favorita dai discorsi degli adulti e infine saldamente conquistata come una ipotesi che costituisce un nucleo attorno a cui si possono spiegare utilmente errori, apprendimenti e successi, bisogni, desideri e sogni.
Per quanto riguarda la conoscenza dei dati sensoriali, ciò che a una prima considerazione potrebbe sembrare cognizione assolutamente immediata è stato spesso smontato dall’analisi psicologica come il risultato di un processo: • è il caso della terza dimensione dello spazio, una volta ritenuta frutto di intuizione, e della quale, dopo la pubblicazione del libro di Berkeley sulla visione, «pressoché tutti ammettono che è conosciuta mediante inferenza». Altri esempi: • Punto cieco della retina: la psicologia e la fisiologia della percezione provano che nell’immagine mentale della nostra visione il vuoto percettivo del punto cieco della retina viene integrato dal cervello in modo che non ne siamo coscienti fino a quando non ne verifichiamo l’esistenza con un apposito esperimento: «Ne deriva che lo spazio che vediamo immediatamente (quando l’occhio è chiuso) non è, come avevamo pensato, un ovale continuo, ma un anello il cui riempimento è affidato all’opera dell’intelletto» (p. 64).
• Distinzione di diversi tipi di tessuto. Per distinguere diversi tipi di tessuto attraverso la sensazione (feeling), dobbiamo muovere le dita e così paragonare le sensazioni di un istante con quelle dell’istante successivo. Si tratta di cognizioni non immediate ma inferenziali, in quanto richiedono l’intervento di un confronto fra diverse percezioni distinte. E queste percezioni distinte non sono esempi di intuizioni immediate. Giacché si esprimono necessariamente in giudizi percettivi della forma “Questo è liscio”, “Questo è rosso”, che presuppongono un processo di mediazione. • La percezione dell’altezza di un tono dipende dalla rapidità della sequenza con cui certe impressioni raggiungono la mente, dunque «la sensazione di un tono è determinata da cognizioni precedenti. Nondimeno ciò non sarebbe mai stato scoperto per mera contemplazione di quella sensazione (feeling)». • La continuità dell’«impressione dello spazio non può essere realizzata da nessuno dei singoli punti nervosi, tanto meno può essere realizzata da tutti i punti messi insieme» (64-65). • Dunque le nostre stesse strutture sensoriali sono costruite in modo inferenziale.
In sintesi, questi esempi provano che ciò che a prima vista appare diretto e intuitivo è invece il prodotto di un processo di integrazione e interpretazione di dati primitivi discontinui 1) ogni predicazione di qualità pare non poter prescindere in nessun modo da una serie di percezioni di contrasti, di distinzioni, di comparazioni in un mutuo gioco dialettico (non posso percepire alcunché come rosso, senza prima avvertire questo alcunché come contrastante e insieme relato al suo ambito percettivo); 2) ogni percezione manifesta un netto scarto, una profonda differenza costitutiva rispetto alla struttura della sua specifica sensazione quale si può inferire dai risultati della fisiopsicologia – così ad esempio la visione dell’estensione implica una sintesi e non può essere dettata dalla sensazione.
Ciò si spiega in base a «una nota legge della mente che quando si presentano fenomeni di estrema complessità, che sarebbero ridotti all’ordine o alla semplicità mediata applicando un certo concetto, prima o poi quel concetto emergerà e si applicherà a quei fenomeni» (66). «c’è una moltitudine di fatti che si possono spiegare più facilmente supponendo di non avere una facoltà intuitiva di distinguere le cognizioni intuitive da quelle mediate» (ibid.) Dunque: non possiamo distinguere intuitivamente tra intuizioni e conoscenze mediate («impossibilità di distinguere i risultati intellettuali dai dati intuitivi per pura contemplazione»: p. 64).
B. Possiamo forse riconoscere inferenzialmente una cognizione intuitiva? Ciò può solo significare dover supporre l’intuizione per spiegare dei fenomeni che l’inferenza non può spiegare, cioè dover fare una ipotesi. Se invece li possiamo spiegare senza ricorrere alla intuizione, abbiamo il dovere logico di farlo: entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem (rasoio di Ockham). Si tratta allora di considerare se le diverse conoscenze richiedono per essere spiegate l’ipotesi della intuizione. La conoscenza in generale si divide in diverse modalità: percepiamo, immaginiamo, crediamo. Inoltre possediamo un mondo interiore fatto di passioni, desideri, volontà. Infine possediamo un Io personale, conosciuto attraverso l’autoconsapevolezza. Queste modalità di conoscenza e questi fenomeni interiori si possono conoscere inferenzialmente (per ipotesi) o è necessario supporre una conoscenza intuitiva di essi?
Questione 2. Se abbiamo un’autocoscienza intuitiva (cogito cartesiano) «Il termine autocoscienza, come viene usato in questo articolo, deve essere distinto sia dalla coscienza in generale, dal senso interno, sia dalla pura appercezione. Qualsiasi cognizione è una coscienza dell’oggetto in quanto rappresentato; per autocoscienza si intende una conoscenza di noi stessi. Non è una mera sensazione (feeling) di condizioni soggettive della coscienza, ma dei nostri “io” personali. L’appercezione pura è l’autoasserzione pura dell’ego; per autocoscienza si intende qui il riconoscimento del mio io privato. Io so che io esisto. La questione è come lo so; per una facoltà intuitiva particolare o per cognizioni precedenti?» (66) Peirce ha già dimostrato che non possiamo intuitivamente distinguere un’intuizione da una cognizione determinata da altre cognizioni. Per provare la non autoevidenza dell’autocoscienza, Peirce riflette sulla costruzione dell’io nel bambino: • Innanzitutto, «non c’è alcuna autocoscienza di cui si debba rendere conto per quanto riguarda i bambini molto piccoli», come ha dimostrato Kant (cfr. anche Cassirer), l’uso della parola “io” compare relativamente tardi; • Il bambino è però in grado di pensare molto prima di dire “io”, e «Non c’è ragione di mettere in dubbio un simile grado di pensiero per quanto riguarda il rapporto con se stessi»; • Nel bambino molto piccolo l’attenzione dello sguardo si rivolge intensamente al proprio corpo: «solo ciò che esso tocca ha una sensazione effettiva e puntuale; solo ciò che esso incontra ha un colore effettivo; solo ciò che è sulla sua lingua ha un gusto effettivo» (67).
• Tuttal’attenzione del bambino è dunque ancora rivolta all’oggetto della percezione e non a sé che lo percepisce. • Poi il bambino scopre che le cose possono cambiare a seguito del contatto con il suo corpo. E questo «rende questo corpo ancora più importante e centrale dal momento che stabilisce una connessione tra la disposizione di una cosa al cambiamento e una tendenza di questo corpo a toccare la cosa prima che essa cambi». • Il passaggio successivo è segnato dall’acquisizione del linguaggio: «nella sua mente si stabilisce una connessione fra certi suoni e certi fatti» dopo aver «osservato la connessione tra questi suoni e i movimenti delle labbra di corpi in qualche modo simili a quello centrale […]. Così connette il linguaggio con corpi simili a quello centrale e per sforzi, così minimi che forse li si dovrebbe chiamare più istintivi che volontari, impara a produrre questi suoni. Così comincia a conversare» (67). • E allora comincia a scoprire la correlazione tra ciò che la gente dice e l’evidenza di fatto: «Questa scoperta è così importante che la testimonianza diventa un indice di un fatto più dei fatti stessi o piuttosto di ciò che deve essere ora pensato come apparenza» (e questo atteggiamento permane, al punto che «la testimonianza può convincere un uomo di essere matto»).
• «Un bambino sente dire che la stufa è calda. Non è vero, egli dice; in effetti, il corpo centrale non la sta toccando e solo ciò che esso tocca può essere caldo o freddo. Allora egli la tocca e scopre che la testimonianza viene dolorosamente confermata. Così diventa consapevole dell’ignoranza ed è necessario supporre un io al quale questa ignoranza possa inerire. In questo modo la testimonianza è all’origine dell’autocoscienza» (68). • C’è però «una classe di apparenze che noi sappiamo essere emozionali, ma che egli distingue per la loro connessione con i movimenti di quella stessa persona centrale (questo tavolo vuole muoversi ecc.). Questi giudizi sono generalmente negati dagli altri. Inoltre egli ha motivo di pensare che anche gli altri abbiano tali giudizi, che sono affatto contraddetti dal resto della gente. Così aggiunge al concetto di apparenza come attualizzazione di un fatto, il concetto di essa come qualcosa di privato e di valido per un corpo. In breve, compare l’errore ed esso può essere spiegato solo supponendo un io fallibile. • Questa entità separata, alla quale si riferisce il “non sapere”, l’ignoranza, e che produce l’errore di previsione, è l’io personale, un io separato da quello degli altri individui o “corpi centrali” capaci di esprimere previsioni diverse. La sua esistenza viene così costruita per inferenza. L’autocoscienza è prodotta per inferenza dalla consapevolezza dell’ignoranza e dell’errore. • «l’ignoranza e l’errore sono le sole cose che distinguono i nostri “io” privati dall’ego assoluto della pura appercezione» (68). • «non c’è alcuna necessità di supporre un’autocoscienza intuitiva, visto che l’autocoscienza può benissimo essere il risultato di un’inferenza» (69).
• Il nostro io è dunque una faticosa conquista che segna una delle acquisizioni più importanti della prima infanzia: il fatto che io sono non semplicemente un- io, ma questo-io è sostanzialmente il risultato di una serie di fallimenti cognitivi e pratici che portano ognuno di noi a staccare da sé la realtà (e in essa, gli altri io) che gli resiste. • Risultato: la verità è collettiva mentre l’uomo individuale nella sua esistenza separata si manifesta solo attraverso l’ignoranza e l’errore, «si dà proprietà privata solo dell’errore e dell’ignoranza» (Fadda 2013: 36) • Non solo non vi è introspezione intuitiva, non vi è introspezione tout court, cioè neppure una introspezione non intuitiva, che proceda da altre conoscenze precedenti – per quanto riferentisi a un ambito interno. • Tale introspezione non è richiesta per spiegare alcunché: né le cognizioni né la volizione, che Peirce definisce come una sorta di astrazione (astrazione dell’oggetto su cui voglio agire): giacché l’astrazione non richiede introspezione, neanche la volizione la richiederà (Fadda 2013: 31).
Questione 3. Se abbiamo una capacità intuitiva di distinguere fra elementi soggettivi di diversi tipi di cognizioni (69). In ogni conoscenza occorre distinguere due elementi: uno oggettivo (“il contenuto” della cognizione), l’oggetto immediato, e uno soggettivo: «Ogni cognizione implica qualcosa di rappresentato, ciò di cui siamo consci, e qualche azione o passione dell’io attraverso la quale essa viene rappresentata». «L’elemento soggettivo non è necessariamente noto immediatamente, ma è possibile che tale intuizione del carattere dell’elemento soggettivo della cognizione, sia esso un sogno, un’immaginazione, un concetto, una credenza ecc., accompagni ogni cognizione. Il problema è se le cose stanno davvero così». Es. della mela: se la vedo, la sogno o la immagino, l’oggetto reale di queste diverse cognizioni è sempre la mela; quello che cambia sono gli elementi soggettivi, le modalità della conoscenza. Ma come faccio a sapere se la percepisco, la sogno o la immagino? Per intuizione o per inferenza? A prima vista l’esistenza di una capacità intuitiva di distinguere diverse modalità soggettive della cognizione sembra evidente. La differenza tra percepire e immaginare un colore è agevole, lo stesso si può dire della differenza tra sogno e realtà: nella percezione il modo in cui l’oggetto è rappresentato è decisamente diverso da quello dell’immaginazione.
Tuttavia la differenza tra ciò che è immaginato o sognato e ciò che è esperito di fatto «non è un argomento a favore di questa capacità», quella cioè della intuizione. Ciò che è in questione, infatti, non è l’esistenza di distinzioni in ciò che è presente alla mente, ma «se, indipendentemente da ogni distinzione di questo genere negli oggetti immediati della coscienza, abbiamo una capacità immediata di distinguere diversi modi di coscienza» (69). «il fatto stesso dell’immensa differenza tra gli oggetti immediati del senso e dell’immaginazione, rende sufficientemente ragione della distinzione tra queste facoltà», il che non dimostra l’esistenza di una capacità intuitiva di distinguere gli elementi soggettivi della coscienza. La distinzione tra il credere (credenza) che una conoscenza sia reale e il pensare semplicemente (concezione) un oggetto o un evento senza supporlo reale si basa in molti casi su una peculiare sensazione di convinzione, e la credenza può essere definita come «il giudizio che è accompagnato da questa sensazione o come il giudizio sulla base del quale uno agisce. Potremmo convenientemente chiamare la prima credenza sensoriale e la seconda credenza attiva». Nel primo caso «la capacità intuitiva di riorganizzarla coinciderà semplicemente con la capacità di percepire la sensazione che accompagna il giudizio. Questa sensazione è un oggetto di coscienza e, dunque, la capacità di rendersene conto non implica alcun riconoscimento intuitivo degli elementi soggettivi della coscienza. Se la credenza è invece considerata in senso attivo, può essere rilevata per osservazione dei fatti esterni e per inferenza a partire dalla sensazione di convinzione che di solito l’accompagna.
In conclusione Possiamo distinguere il vedere qualcosa dal semplice immaginarlo non grazie a una intuizione ma grazie a riscontri esterni (così non possiamo dire se stiamo sognando mentre sogniamo). Le intuizioni, se ci fossero, non sarebbero autonome, perché per comprendere se qualcosa è una intuizione avremmo comunque bisogno di qualcosa che non è intuizione.
Questione 4. Se abbiamo delle capacità introspettive o se l’intera nostra conoscenza del mondo interno derivi dalla osservazione dei fatti esterni (p. 70) • La questione è se i fatti interni «siano conosciuti altrimenti che per inferenza» dai fatti esterni. «Per “introspezione” intendo una percezione diretta del mondo interno, ma non necessariamente una percezione di esso come interno». • Ogni sensazione è in parte determinata da condizioni interne: «Così la sensazione del rosso è com’è grazie alla costituzione della mente; e in questo senso è qualcosa di interno. Di conseguenza possiamo trarre una conoscenza della mente dalla considerazione di questa sensazione, ma quella conoscenza sarebbe di fatto un’inferenza dal rosso come predicato di qualcosa di esterno». • Ci sono poi altre sensazioni (feelings), tra cui le emozioni, che sembrano riferite solo alla mente (non nascere da predicati), il che genera la domanda se si possa ottenere una conoscenza della mente che non dipenda da inferenze relative a cose esterne.
• La capacità di introspezione non è autoevidente: non abbiamo una facoltà che consente di distinguere diversi modi soggettivi di coscienza. La conoscenza di tale capacità (se esiste) deve essere inferita dal fatto di non poter spiegare i fatti altrimenti che assumendola come esistente. • Per conoscere il mondo interiore delle emozioni e dei desideri, allo stesso modo, non è necessario supporre una facoltà di introspezione nel senso di «una percezione diretta del mondo interno». La conoscenza del mondo interiore non solo non è intuitiva, ma non è neppure possibile se non è derivata dalla osservazione di eventi esterni. • Le emozioni derivano da osservazioni esterne perché hanno il carattere di predicati e si applicano a oggetti e situazioni esterne: Es. dell’uomo arrabbiato: «la sua rabbia consiste nel dire a se stesso “questa cosa è vile, abominevole”» ed «è piuttosto un segno del ritorno a sé il dire “sono arrabbiato”». • «allo stesso modo un’emozione è un predicato che riguarda un oggetto e la più grande differenza tra essa e un giudizio intellettuale oggettivo è che mentre quest’ultimo è relativo alla natura umana o alla mente in generale, il primo è relativo alle circostanze particolari e alla disposizione di un certo uomo in un certo momento» (71).
Cfr. Conseguenze, p. 90: «ogni emozione ha un oggetto. Se un uomo è arrabbiato, vuol dire che dice a se stesso che questo o quello è vile o oltraggioso. Se è felice, vuol dire che dice a se stesso: “Questo è stupendo”. Se si sta interrogando, vuol dire che sta dicendo: “Questo è strano”. In breve, ogni qualvolta un uomo ha delle sensazioni, sta pensando a qualcosa. Anche le passioni che non hanno un oggetto definito – come la malinconia – giungono alla coscienza solo colorando degli oggetti del pensiero. […] Le emozioni […] nascono quando la nostra attenzione si concentra molto su circostanze complesse e inconcepibili. La paura nasce quando non possiamo predire il nostro destino; la gioia nasce nel caso di certe sensazioni indescrivibili e particolarmente complesse […]. Quando accade qualcosa che non so spiegarmi, nasce la meraviglia. Quando cerco di immaginarmi un piacere futuro che non riesco mai a realizzare, spero. “Non ti capisco” è la frase di un uomo arrabbiato. L’indescrivibile, l’ineffabile, l’incomprensibile, eccita comunemente un’emozione; nulla, invece, è raggelante come una spiegazione scientifica. Così una emozione è un predicato semplice che viene sostituito a un predicato altamente complesso attraverso una operazione mentale».
• Lo stesso vale per la bellezza e la moralità: «buono e cattivo sono sensazioni che sorgono innanzi tutto come predicati e quindi o sono predicati del non-io o sono determinati da cognizioni precedenti (visto che non abbiamo una capacità intuitiva di distinguere gli elementi soggettivi della coscienza»). • E lo stesso può dirsi della volizione, «capacità di concentrare la propria attenzione, di astrarre»: «la conoscenza della capacità di astrarre può essere inferita dagli oggetti astratti proprio come la conoscenza della capacità di vedere è inferita da oggetti colorati». «Sembra allora che non vi sia alcuna ragione per supporre una capacità introspettiva e, di conseguenza, il solo modo di studiare un problema psicologico è per inferenza a partire da fatti esterni» (71).
Questione 5. Se possiamo pensare senza segni (71) Tentativo di confutare la tesi secondo cui il pensiero deve poter procedere senza segni se non vogliamo andare a ritroso all’infinito. Il pensiero può essere conosciuto solo da fatti esteriori e da questo punto di vista possiamo conoscere pensieri solo nella forma dei segni e attraverso segni. «Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste, quindi tutto il pensiero deve necessariamente essere per segni» (71). «Un uomo dice fra sé e sé: “Aristotele è un uomo, quindi è fallibile”. Non ha forse pensato ciò che non ha detto a sé stesso, cioè che tutti gli uomini sono fallibili? La risposta è che ci ha pensato e che ciò viene detto nel quindi. Se è così, la nostra domanda non si riferisce a un fatto ma è una mera richiesta di distinzione del pensiero» (p. 71)
Cfr. Conseguenze, pp. 98-99: «La mente è un segno che si sviluppa secondo le leggi della inferenza. Che cosa distingue un uomo da una parola? Non c’è dubbio che una distinzione ci sia. Le qualità materiali, le forze che costituiscono la pura applicazione denotativa e il significato del segno umano sono tutte estremamente complicate rispetto a quelle della parola. Ma queste differenze sono solo relative. […] L’uomo segno acquisisce informazioni e arriva a significare più cose di quante non ne significasse prima. Ma anche le parole fanno lo stesso. L’elettricità non significa forse più cose ora di quanto non facesse al tempo di Franklin? L’uomo crea la parola e la parola non significa altro che ciò che l’uomo ha voluto e questo significato vale solo per lui. Poiché l’uomo, però, pensa solo con le parole o con altri simboli esteriori, questi ultimi possono tornare a lui e dirgli: “Tu non puoi voler dire altro che ciò che ti abbiamo insegnato e anche questo lo puoi fare solo in quanto usi alcune parole come interpretanti del tuo pensiero”. Dunque di fatto gli uomini e la parole si educano a vicenda; ogni aumento della informazione di un uomo implica ed è implicato da un corrispondente aumento dell’informazione di una parola. […] la parola o il segno che l’uomo usa è l’uomo stesso. Infatti, il fatto che ogni pensiero è un segno aggiunto al fatto che la vita è un flusso di pensiero prova che l’uomo è un segno; allo stesso modo, il fatto che ogni pensiero sia un segno esteriore prova che l’uomo è un segno esteriore. Voglio dire che l’uomo e il segno esteriore sono identici nello stesso senso in cui le parole homo e man sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso perché l’uomo è il pensiero».
«Dalla proposizione che ogni pensiero è un segno segue che ogni pensiero deve essere rivolto a qualche altro segno, deve determinarne un altro, visto che questa è l’essenza di un segno» (72). «Dire che il pensiero non può accadere in un istante ma richiede del tempo, non è che un altro modo di dire che ogni pensiero deve essere interpretato da un altro, o che tutto il pensiero si svolge tramite segni» (72). L’espressione cartesiana, Cogito, ergo sum, può essere allora sostituita dalla espressione «Segno, dunque penso» (cfr. Fadda 2013).
Questione 6. Se un segno possa avere un significato nel caso in cui esso sia un segno di qualcosa di completamente inconoscibile (72). «Tutti i nostri concetti sono ottenuti per astrazioni e combinazioni di cognizioni che sono emerse per la prima volta in giudizi d’esperienza. Di conseguenza non ci può essere alcun concetto dell’assolutamente inconoscibile, dato che nulla del genere accade nell’esperienza. Ma il significato di un termine è il concetto che esso trasmette. Dunque un termine non può avere un tale significato. Se si dicesse che il termine inconoscibile è un concetto composto dei concetti di non e di conoscibile, si può rispondere che non è un mero termine sincategorematico e non un concetto di per sé». Ciò che penso e ciò di cui posso fare esperienza hanno natura di cognizione, «di conseguenza, il concetto più elevato che può essere raggiunto per astrazione dai giudizi di esperienza […] è il concetto di qualcosa che ha natura di una cognizione. Non, allora, o ciò che è altro da, se è un concetto, è un concetto del conoscibile. Quindi, non conoscibile, se è un concetto, è un concetto che ha la forma “A, non-A” ed è quantomeno contraddittorio». Il non conoscibile ha dunque la forma della contraddizione: afferma e nega qualcosa di qualcos’altro al tempo stesso.
«Così ignoranza ed errore possono solo essere concepiti come correlativi della conoscenza reale e della verità, e questi ultimi hanno una natura cognitiva. Al di là di una qualsiasi cognizione c’è una realtà ignota ma conoscibile; ma oltre ogni cognizione possibile c’è solo l’autocontraddittorietà. L’inconoscibile non può dirsi logicamente, né può occorrere nella esperienza, senza perciò risultare in qualche modo conosciuto e dotato di un significato: «In breve, la conoscibilità (nel suo senso più ampio) e l’essere non sono solo la stessa cosa da un punto di vista metafisico, ma sono termini sinonimi» (72). Per il realista, diversamente dal nominalista, la realtà non è indipendente dalla relazione rappresentativa.
Esistenza / Realtà Le cose sono dotate di esistenza, nel loro bruto accadere, ma assumono realtà, cioè significato, solo nel circolo della mediazione segnica, in quanto entrano in relazione con un «representamen» che ne stabilisce il senso e lo mette in relazione con altre interpretazioni future. La realtà è il prodotto dell’azione mentale e non la sua causa inconoscibile (W2:471), vive nei segni che la indicano; al di fuori dei segni è pura esistenza, mero fatto senza ragione (Secondness).
Peirce ha dimostrato che non si danno intuizioni prime: la forma dei giudizi più apparentemente diretti della coscienza di sé e della percezione si è rivelata inferenziale anziché intuitiva. Si potrebbe ancora pensare di difendere la tesi dell’esistenza di conoscenze intuitive inferenzialmente, sostenendo che ogni conoscenza inferenziale debba alla fin fine poggiare su qualche nascosta premessa intuitiva, perché altrimenti mancherebbe del necessario punto di partenza e poggerebbe sul vuoto di un regresso all’infinito. Ma l’argomento è un circolo vizioso: si fonda sull’assunto che il processo conoscitivo debba avere un punto di partenza dato, un momento di rigida e inesplicabile determinazione. Se si prova a respingere l’idea di un’ultima, misteriosa e inanalizzabile folgorazione intuitiva, la conoscenza si risolverà senza residui in un processo continuo di approssimazione ipotetica, in cui la ricerca non viene bloccata dalla tesi della conoscenza perfetta quale chimerico punto di partenza obbligato, ma si distende in un flusso di interpretazioni nel quale ogni pensiero precedente suggerisce qualcosa al pensiero seguente.
Questione 7. Se ci sia una cognizione non determinata da una cognizione precedente (73) Argomento: dal momento che ogni conoscenza è determinata da qualche conoscenza precedente, «ci deve essere stato un primo in questa serie o altrimenti il nostro stato di conoscenza in ogni momento è determinato completamente, secondo le leggi logiche, dal nostro stato in un momento anteriore» (73). La risposta a questo argomento non può che avvenire per inferenza ipotetica, giacché è impossibile conoscere intuitivamente. Il solo modo di spiegare le determinazioni di una conoscenza è far riferimento a una conoscenza precedente da cui quella è stata determinata. «Ciò vuol dire che pensare che una cognizione sia determinata esclusivamente da qualcosa di assolutamente esteriore significa pensare che le sue determinazioni non siano spiegabili. Ora, quest’ipotesi non ha alcuna garanzia fattuale, perché la sola giustificazione possibile per un’ipotesi è che essa spiega i fatti e dire che essi sono spiegati e allo stesso pensare che essi siano inesplicabili è autocontraddittorio». «Se si volesse obiettare che il carattere peculiare del rosso non è determinato da alcuna cognizione precedente, rispondo che quel carattere non è il carattere rosso inteso come cognizione; infatti, se ci fosse un uomo al quale le cose che a me sembrano rosse sembrassero blu e viceversa, i suoi occhi lo istruirebbero sugli stessi fatti su cui lo istruirebbero se egli fosse come me».
• Non possiamo conoscere alcuna facoltà d’intuizione: l’intuizione dovrebbe essere il primo istante di una cognizione e questa facoltà dovrebbe cogliere l’intuizione al di fuori del tempo. • «Inoltre tutte le capacità cognitive delle quali siamo a conoscenza sono relative e di conseguenza i loro prodotti sono relazioni. Ma la cognizione di una relazione è determinata da cognizioni precedenti. Non si può avere allora nessuna cognizione non determinata da una cognizione precedente» (73). Risposta all’argomento secondo cui ci deve essere un primo: «recuperando il percorso dalle conclusioni alle premesse o da cognizioni determinate a quelle che le determinano, alla fine raggiungiamo sempre un punto al di là del quale la coscienza della cognizione determinata è più vivida della coscienza della cognizione che la determina» (73) Ad esempio la coscienza della cognizione che determina la nostra cognizione della terza dimensione è più sfocata della cognizione stessa; la coscienza delle impressioni che determinano la sensazione di un tono è più sfocata della sensazione stessa. Esempio del triangolo capovolto che viene progressivamente immerso nell’acqua (paradosso di Achille, della scomposizione infinita dello spazio e del tempo: infinito potenziale vs infinito in atto). «La cognizione sorge per un processo iniziale esattamente come succede a ogni altro cambiamento» (74).
La conoscenza è un processo infinito, senza inizio e senza fine. Non esiste cognizione che non sia determinata da una cognizione precedente: Supponiamo che una linea orizzontale rappresenti la conoscenza di una cosa e la sua lunghezza indichi il grado di vivacità della conoscenza stessa. Supponiamo che vi siano molte di queste linee, di lunghezza via via minore, fino a terminare con un punto privo di lunghezza. Avremo così tracciato un ideale triangolo, in cui le linee rappresentano le differenti cognizioni che possiamo avere di un oggetto, e l’oggetto è rappresentato dal punto privo di dimensioni. Tra una linea e il punto si potranno dare sempre infinite linee, ognuna determinata da quella precedente .
• Cfr. Conseguenze, p. 99: «L’elettricità non significa forse più cose ora di quanto non facesse al tempo di Franklin? […] ogni aumento dell’informazione di un uomo implica ed è implicato da un aumento dell’informazione di una parola». • L’informazione e il ragionamento, lo scontro delle opinioni e delle interpretazioni di una comunità di persone, garantiscono a livello pubblico ciò che è da considerarsi vero, cioè reale (significativo) e che questa verità è inviata al percorso futuro e potenzialmente infinito della catena significante. In sintesi la verità non è mai di una sola persona, né di un solo tempo; essa è l’oggetto pubblico delle interpretazioni accettate e tramandate dalla comunità non solo degli uomini ma delle culture, di ogni essere vivente «anche dotato di sensi diversi dai nostri»
Riepilogando • Ogni cognizione è determinata da un’altra, cioè è inferenziale; contro l’idea di una conoscenza intuitiva, caratterizzata dal fatto di essere una conoscenza prima. • Non esiste introspezione, perché ogni conoscenza deve partire da qualche tipo di esperienza esterna. • Le cognizioni che hanno ad oggetto elementi esterni sono segni (degli oggetti), dunque tutte le conoscenze e i pensieri sono segni. • Il campo del pensiero e quello dei segni sono coestensivi, entrambi procedono per inferenza (anti-intuizionismo): ogni segno è tale in quanto ne interpreta almeno un altro (principio di interpretanza): ogni segno deve essere premessa rispetto a certi segni e conclusione rispetto ad altri. Per questo logica e semiotica sono tutt’uno. • Cartesio e Peirce condividono l’identificazione dell’essere umano con il pensiero; però i cartesiani enfatizzano il carattere cosciente del pensiero, mentre Peirce ritiene essenziale il carattere temporale-sequenziale del pensiero, inteso come serie di cognizioni-segni che si determinano l’un l’altro. Perciò in Peirce la coscienza è svalutata. • Quella di Peirce è una critica radicale allo spirito del cartesianesimo: non si può pensare da soli: dobbiamo sempre partire da quello che altri hanno pensato prima di noi e quello che pensiamo avrà valore solo se tutti potranno accettarlo.
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