SEGNI DEI TEMPI: DA THE MAN IN THE GREEN BLANKET

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SEGNI DEI TEMPI: DA THE MAN IN THE GREEN BLANKET
                        A #RhodesMustFall

                                  PIER PAOLO FRASSINELLI1
                      UNIVERSITY OF JOHANNESBURG – SOUTH AFRICA

La storia raccontata in questo capitolo è composta da rappresentazioni mediali e interventi
artistici che ci portano dai “campi della morte di Marikana”i alla nascita del movimento
#RhodesMustFall all’Università di Città del Capo (UCT) tre anni dopo. Parto da una fotografia
del fotoreporter di “City Press” Leon Sadiki, uno scatto che immortala “l’uomo con la coperta
verde” [the man in the green blanket] circondato da minatori in sciopero nei pressi di
Wonderkop, periferia della piccola città di Marikana, nella provincia del Nordovest del
Sudafrica, solo poche ore prima che trentaquattro di loro venissero uccisi dai proiettili sparati
dalla polizia, il 16 agosto 2012 (Figura 6.1). Questa immagine, o parte di essa, sarebbe diventata
una delle rappresentazioni del massacro più frequentemente riprodotte: un giovane avvolto in
una coperta color verde acceso, braccio destro teso con il pugno chiuso e una lancia abbassata
nella mano sinistra, colto dall’obiettivo fotografico mentre incita i suoi compagni. Il suo nome
era Mgcineni Noki, noto anche come Mambush, trivellista di trent’anni senza una mansione
specifica nell’azienda. Veniva dal villaggio di Thwalikhulu, nella provincia del Capo Orientale,
dove era nato il 2 febbraio 1982.ii Era uno dei leader dei minatori che avevano incrociato le
braccia il 10 agosto 2012 per chiedere un salario mensile di 12.500 rand (circa 800 euro/950
dollari USA). L’indumento con cui avrebbe finito per essere identificato gli era stato dato da
un compagno di sciopero il giorno prima dell’eccidio,iii e Mambush lo indossava ancora quando
fu crivellato di proiettili. Fra le ferite riportate ce n’erano “una alla testa provocata da una
pallottola”, così come “ferite da arma da fuoco sul lato sinistro del volto e del collo, sulla coscia
destra, sulle natiche, sul polpaccio destro e sulla gamba sinistra”.iv
         Il massacro rappresentò il culmine di un tentativo coordinato da parte della corporation
transnazionale Lonmin e del governo sudafricano di interrompere uno sciopero “senza
protezione” [cioè indetto senza seguire le procedure previste dalla legge sudafricana, N.d.T.]
nel corso del quale i minatori avevano contestato sia il loro datore di lavoro che la National
Union of Mineworkers [“Sindacato nazionale dei minatori”] (NUM). A conti fatti, “i lavoratori
continuarono la lotta finché, il 18 settembre, raggiunsero un accordo che assicurava loro la
vittoria”.v Ma fu una vittoria ottenuta a un prezzo intollerabilmente alto in termini di vite umane.
Il nome della piccola città dove ebbe luogo il massacro è diventato il segno di una svolta storica,
una nuova periodizzazione secondo la quale il paese è entrato in quella che potremmo chiamare
l’epoca post-Marikana: i postumi di un evento che rappresenta il punto più basso del Sudafrica
post-apartheid. In Murder at Small Koppie: The Real History of the Marikana Massacre
[“Assassinio sulla collinetta: la vera storia del massacro di Marikana”] (2016), Greg Marinovich
ricorda:

        Allo stesso modo in cui il trentenne Mambush era diventato il leader dei minatori prima della
        sua morte, così in seguito diventò il martire dello sciopero. Quando migliaia di minatori
        marciarono sul pozzo Karee 3, tre settimane dopo la sua morte, tenevano in mano alcune
        fotocopie della fotografia di Noki. Egli divenne il volto della loro lotta.vi

1
 Da Sovvertire i confini. Traduzioni, media e lo sguardo dal sud, in uscita per l’editore Ombre Corte, che ha
concesso gentilmente la pubblicazione qui.

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Questo capitolo racconta la storia di come Mgcineni Noki è diventato l’uomo con la coperta
verde: un’immagine non solo della lotta dei minatori di Marikana in sciopero, ma della
decolonizzazione in generale.vii

Figura 6.1 L’uomo con la coperta verde.
Fonte: Fotografia di Leon Sadiki.

    1. L’uomo con la coperta verde
Nelle riproduzioni e ricontestualizzazioni da parte di diversi media e artisti, l’immagine
dell’uomo con la coperta verde è stata elevata al livello di quello che Roland Barthes chiama
“mito”, un “metalinguaggio”, o “un sistema semiologico secondo” in cui ciò “che è segno (cioè
totale associativo di un concetto e di un’immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa
semplice significante”.viii Il mito crea il suo sistema di significazione associando un segno ad
altri segni e contesti. Quando entra nel linguaggio del mito, un’immagine non parla più solo
dell’evento o degli individui che ritrae. Essa si appropria di discorsi e concetti: diventa un
“linguaggio oggetto” dotato di una funzione significante propria.ix Nel caso dell’uomo con la
coperta verde ci troviamo davanti alla politicizzazione di questo tipo di discorso tramite la
creazione di un “contro-mito”:x un messaggio che va controcorrente rispetto alle narrazioni e
razionalizzazioni ideologiche dominanti.
        Nella fotografia di Sadiki incontriamo Mambush e i minatori delle miniere di platino in
sciopero in un momento critico.xi Mambush sta incitando gli altri lavoratori negli aridi campi
invernali di Marikana. Ma non si tratta di un raduno. Mambush non si trova davanti ai suoi
compagni. Lo vediamo in piedi fra i minatori in sciopero, rivolto verso la macchina fotografica.
Il punto di vista dell’angolo di ripresa, all’altezza degli occhi, è frontale. Vediamo i minatori,
la maggior parte dei quali guarda nella nostra direzione, seduti per terra: presumibilmente in

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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

attesa che accada qualcosa. Sembrano seri, nessuno sorride, ma la loro postura è relativamente
rilassata. Mambush, l’unica persona in piedi, è al centro dell’immagine. Se gli altri personaggi
sono paragonabili a un coro, lui è il corifeo che cattura la nostra attenzione, con la sua coperta
verde rischiarata dalla luce del sole invernale, di grande impatto visivo.
        Nelle parole di Stuart Hall, “In [una] foto vi sono molti significati […] potenziali. Ma
non c’è un solo, autentico significato. Il significato ‘fluttua’. Non può essere fissato. Tuttavia,
cercare di ‘fissarlo’ è il lavoro della pratica rappresentazionale”.xii La foto di Mambush con la
sua coperta verde è un’immagine considerevolmente polisemica, che non si lascia facilmente
fissare in un solo significato. Possono esserle attribuiti molteplici significati. Essa si presta a
esser vista come qualcosa che connota, in primo luogo, una vulnerabilità. La coperta è un
semplice capo di vestiario, è ciò che le persone senzatetto indossano per proteggersi dalle
intemperie. Ma non c’era molta possibilità di proteggersi nei campi di battaglia di Marikana,
quando si dovevano affrontare poliziotti armati, veicoli blindati e la forza militare dello stato
sudafricano. La coperta verde diventa allora un indice di sfida e coraggio. E può anche essere
letta come significante di un’identità: la coperta è un capo indossato da africane e africani di
diversa origine etnonazionale durante le cerimonie di iniziazione e altre attività rituali,
specialmente nelle aree rurali.xiii
        Un altro elemento significante cruciale di quest’immagine – e che è stato non soltanto
sottolineato, ma anche amplificato nelle sue riproduzioni – è la singolarità della figura al suo
centro: l’uomo con la coperta verde. Nella fotografia originale, Mambush è circondato dai suoi
compagni in sciopero, i quali in termini semiotici possono essere descritti a seconda del punto
di vista come attanti, adiuvanti e partecipanti.xiv Essi sostengono Mambush e sono parte degli
eventi narrati dalla fotografia. Il soggetto dell’enunciazione della fotografia è plurale. Anche se
Mambush è al centro dell’immagine ed è l’unico in piedi, sono i minatori seduti a dare
significato alla fotografia. Come vedremo, sono stati cancellati da molte delle riproduzioni
dell’immagine. Eppure sono indelebili. Restano parte dell’immagine come presenza
fantasmatica anche quando vediamo l’uomo con la coperta verde da solo. Perché il significato
dell’immagine va cercato nella loro presenza e lotta collettiva. Anche quando l’immagine
dell’uomo con la coperta verde è decontestualizzata, essa non è mai quella di un eroe
individuale. Egli è un leader dello sciopero, una singolarità che è una parte inestricabile di un
collettivo.
        Prendo in prestito il termine “singolarità” dagli scritti di Michael Hardt e Antonio Negri,
i quali lo impiegano nella loro teorizzazione della forma di soggettività politica che chiamano
moltitudine. La moltitudine è costituita da una molteplicità di singolarità intersecanti. Essa
rappresenta l’alternativa alle concezioni della soggettività sociale e politica che cancellano la
differenza: “La moltitudine [. . .] non è unificata ma rimane plurale e molteplice. [. . .] La
moltitudine è composta da un complesso di singolarità, ove per singolarità intendiamo soggetti
sociali le cui differenze non possono essere ridotte ad alcuna identità: differenze che restano
differenti”.xv Nel nostro contesto, enfatizzare la singolarità è produttivo sia da un punto di vista
discorsivo che politico, perché scardina la narrazione dominante prodotta dal governo e
amplificata dai principali media in risposta agli eventi del 16 agosto 2012. Tale narrazione era
definita da una modalità della rappresentazione che cancellava la molteplicità di desideri,
motivazioni, bisogni, passioni e impulsi che aveva indotto i minatori a unirsi a una lotta tramite
la quale si erano trasformati in una soggettività collettiva.
        Subito dopo il massacro, i minatori in sciopero furono dipinti come “un’orda ribelle e
pericolosa da controllare e arginare”.xvi Le loro voci furono silenziate. Come mostra Jane
Duncan nel suo studio sulla copertura mediatica iniziale del massacro:

        su quanto era realmente avvenuto durante il massacro fu citato un solo minatore, e disse
        che la polizia aveva sparato per prima. Alla maggior parte dei minatori nelle interviste

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Pier Paolo Frassinelli

       fu chiesto conto delle storie che circolavano e secondo le quali essi avevano fatto ricorso
       al muti [la medicina tradizionale africana] per difendersi dalle pallottole della polizia,
       oltre che delle loro condizioni di vita e di lavoro.xvii

Pur riconoscendo l’eccesso di uso della forza da parte della polizia, e in particolare i pericoli
dell’utilizzo di proiettili veri – cosa che sarebbe stato troppo complicato negare – ciò nonostante
le diverse versioni di questa narrazione riuscirono a far ricadere la colpa su quelle che, poco
dopo l’evento, il segretario generale della National Union of Mineworkers (NUM) Frans Baleni
descrisse come “forze oscure in grado di ingannare i nostri membri, di far loro credere di avere
il potere di trasformare la propria vita dal giorno alla notte”.xviii I minatori in sciopero furono
sistematicamente dipinti come persone arretrate e tradizionaliste ingannate da forze
opportuniste e reazionarie. Il segretario generale del Partito comunista del Sudafrica (SACP)
Blade Nzimande, per esempio, chiese un’indagine su

       credenze e pratiche fondamentalmente retrograde in segmenti della classe operaia [...]
       Come faccia un sangoma [guaritore tradizionale] a essere in grado di convincere
       segmenti della classe operaia che le pallottole si trasformino in acqua se hai usato
       “intelezi” [una medicina erboristica tradizionale] è qualcosa di cui non dovremmo più
       parlare sottovoce, ma che invece dovremmo affrontare apertamente, anche se con
       delicatezza.xix

Analogamente, un portavoce della polizia sostenne in un’intervista: “avevamo a che fare con
persone che sembravano possedute, o che si credevano invulnerabili”.xx
        Questa strategia discorsiva razionalizzava il massacro tramite l’alterizzazione dei
minatori, presentandoli come creduloni e ingenui, ingannati dai “sangoma” e “trasformati in
automi dal muti, indotti dalla propria superstizione a credersi invulnerabili”.xxi Inoltre, i primi
servizi giornalistici attribuirono il conflitto alla rivalità intersindacale fra la NUM e
l’Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU). In linea con questa
interpretazione, i giornalisti “sembravano presumere che l’inclusione nei loro servizi delle
affermazioni dei sindacalisti bastasse a ‘dar conto’ delle voci dei lavoratori”,xxii le cui azioni
potevano essere spiegate facendo riferimento al ruolo svolto da “un sindacato di dubbia fama,
o da agitatori, o da piantagrane politici”.xxiii
        La medesima cancellazione delle voci dei lavoratori viene reiterata nel rapporto
compilato dalla Commissione di inchiesta Farlam, consegnato al presidente del Sudafrica il 31
marzo 2015 e reso pubblico il 25 giugno dello stesso anno. Le conclusioni del rapporto sono
basate sul concetto di “intento comune”, per il quale i minatori sono visti come un’entità
omogenea e monolitica. Come ha sottolineato subito dopo la pubblicazione del rapporto il
direttore dell’Istituto per i diritti socioeconomici del Sudafrica Stuart Wilson:

       il rapporto tende a trattare i vivi e i morti, in particolare i minatori, in maniera assai
       generica. Vengono attribuite intenzioni e motivazioni a gruppi di persone, non agli
       individui. [...] Quel che il giudice Farlam propone è una narrazione insoddisfacente di
       folle senza volto e decisioni malaccorte, in cui la responsabilità, ammesso che sia
       attribuita a qualcuno, è assegnata col contagocce e in astratto.xxiv

Di fronte a questa situazione, l’immagine di Mambush, l’uomo con la coperta verde, e il suo
elevamento a contro-mito fungono da contro-discorso, da riscoperta di una singolarità che crea
problemi all’alterizzazione, alla deumanizzazione e alle narrazioni omogeneizzanti dei
principali media che hanno seguito il massacro e hanno colpevolizzato le vittime.

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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

    2. La creazione dell’uomo con la coperta verde
Anche se non era fra i trivellisti che avevano dato inizio allo sciopero, Mambush aveva già fatto
irruzione sulla scena la settimana prima del massacro. Era stato eletto nel comitato dello
sciopero il 12 agosto, e lo si può vedere nel pluripremiato documentario di Rehad Desai Miners
Shot Down [“Minatori abbattuti a colpi d’arma da fuoco”] (2014) mentre negozia con il
generale Mpembe, vicecommissario della provincia del Nordovest, lunedì 13 agosto.xxv
        L’espressione “l’uomo con la coperta verde” è stata usata per la prima volta il 17 agosto
2012, il giorno dopo il massacro, in un articolo pubblicato sul quotidiano di Johannesburg “The
Star” e intitolato The Man in the Green Blanket Is Forever Silenced [“L’uomo con la coperta
verde messo a tacere per sempre”].xxvi L’articolo racconta la storia di come l’autore, con il quale
Mambush aveva collaborato facendo da contatto, ne avesse ritrovato il corpo esanime nei campi
insanguinati di Marikana:

        Non aveva mai voluto che sapessi il suo nome. Il suo nome non importava in quella
        situazione ostile. Potevo facilmente individuarlo da lontano con la sua caratteristica
        coperta verde.
                Era stata quella coperta verde acceso a calamitare la mia attenzione, mentre mi
        stavo avvicinando in una zona di fronte a un kraal dove diversi uomini giacevano sul
        terreno, morti o gravemente feriti.
                Mi rivolsi a un collega: disse che la coperta sembrava quella del mio contatto.
        Mi avvicinai. Era lui. Giaceva a faccia in giù. Dalla sua testa colava sangue fresco.xxvii

Mambush riapparve il mese successivo in un altro articolo, pubblicato anch’esso su “The Star”
e scritto da Poloko Tau, il quale ne aveva seguito il cadavere nel suo viaggio verso il villaggio
natale, dove fu portato per essere seppellito dai suoi compagni minatori:

        In cima a montagne che formavano una specie di onda ricoperta di arbusti, nella frazione
        di Mqanduli chiamata Thwalikhulu, nel Capo Orientale, nel fine settimana si videro
        sgorgare da anime in pena canti tristi e ritmi lenti.
                In una capanna vicina, un gruppo di donne desolate circondavano la sua vedova,
        con i loro occhi stanchi fissi sulla bara accanto a lei. Una bara che conteneva un corpo
        crivellato di pallottole.
                Fuori un gruppo di uomini cantava con un tono triste Ingwenyama ise khaya.
        Battendo delicatamente le mani, si raggrupparono e si ranicchiarono.
                Questi erano alcuni dei minatori della Lonmin in sciopero, venuti a dire addio
        all’uomo che vedevano come un eroe e un simbolo di coraggio, come confermato dalla
        canzone da loro cantata, che vuol dire “il leone ora è a casa”.xxviii

In seguito, le parole dell’articolo sono state ricomposte da Allan Kolski Horwitz in una poesia
initolata The Man in the Green Blanket [“L’uomo con la coperta verde”] (2013).xxix E nel 2014
aaliyah sanKara ha caricato su YouTube una videopoesia in cui le parole, leggermente alterate
in The man with the green blanket, sono pronunciate mentre il video si apre con la fotografia di
Sadiki che va in dissolvenza, trasformandosi nelle immagini quotidiane di Mambush e di altri
lavoratori. Ecco l’inizio della poesia:

        L’uomo con la coperta verde mai sospettò che il tessuto verde appoggiato alla sua spalla
        avrebbe dovuto un giorno ripararlo da qualcosa di più del freddo/ L’uomo la cui coperta
        verde non fu mantello dell’invisibilità quando quattordici volte gli spararono e ne

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Pier Paolo Frassinelli

       frantumarono l’anima come un tempo avevano tranciato il Sudafrica/ Lo chiamavano
       Mambush zio e padre il leader il comandante futuro trivellista duro lavoro nelle viscere
       della terra / Lui che non vide mai abbastanza sole da sognare l’acqua corrente un
       percorso chiaro non da schiavo ma da padrone verso il futuro luminoso del figlio a lui
       caro.xxx

        Ma è nelle rappresentazioni visuali e nelle ricontestualizzazioni che l’immagine
dell’uomo con la coperta verde è stata risemantizzata nel modo più creativo. E qui non si può
non partire dalla mostra del poeta e scultore Pitika Ntuli intitolata Marikana Hill to Constitution
Hill [lett. “Dalla Collina di Marikana alla Collina della Costituzione”] (2013-2015). Con un
gesto assai pregnante dal punto di vista simbolico, questa mostra (Figura 6.2) ha portato il
massacro di Marikana nel luogo che forse più di ogni altro rappresenta gli ideali e le aspirazioni
che hanno accompagnato la transizione dal regime dell’apartheid al nuovo ordinamento
democratico: in mezzo agli edifici che celebrano la Costituzione della Repubblica Sudafricana
del 1996. Nel discorso ufficiale che ha inaugurato la mostra, Tinyiko Sam Maluleke ha
menzionato la stridente giustapposizione di significati creata da questa ambientazione: “la
connessione fra Constitution Hill e la collina su cui sono caduti gli uomini di Marikana. L’una
è una collina della vergogna, l’altra la collina della giustizia”. xxxi La mostra raffigurava alcune
figure umane fatte di semplici oggetti quotidiani e materiali di scarto: pietre, zappe riciclate,
lamiere, carriole, vanghe, tubi, sedie vecchie, pignoni di ruota, aste e schede madri di computer:

       Questa è una mostra di scultura su persone che sono state gettate via. Le sculture sono
       fatte di materiali di scarto abbandonati formalmente usati come strumenti o come
       componenti di altri strumenti: strumenti inutili usati per dipingere persone “inutili” e
       che di fatto sono trattate come se fossero strumenti senza valore. Eppure, le sculture
       raffigurano queste persone levarsi in piedi per affermare la propria umanità tramite
       questi stessi detriti, in mezzo ai residui delle culture e di strumenti moderni e non troppo
       moderni.xxxii

Fra le sculture c’era quella dell’uomo con la coperta verde, assai notevole da un punto di vista
visivo: una struttura di metallo ricoperta da un pezzo di lamiera che aggiunge un ulteriore livello
di significato al soggetto che rappresenta, facendo riferimento al materiale usato dagli abitanti
delle baraccopoli per costruirsi una casa nelle vicinanze delle township e negli insediamenti
informali. La figura è semplice eppure drammatica, con la lamiera a riprodurre la plasticità
della coperta verde e la struttura di metallo sul piedistallo coronata da una specie di casco.

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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

Figura 6.2 Pitika Ntuli, mostra Marikana Hill to Constitution Hill.
Fonte: Fotografia di Pitika Ntuli.

        Associando “Marikana Hill” a “Constitution Hill”, la mostra ricontestualizzava il
massacro in una costellazione che lo metteva in relazione con un’epoca di cui si riteneva che la
Costituzione del 1996 avesse segnato la fine. Nelle parole di Pitika Ntuli, “penso che quel che
ci abbia colpito di più in quanto società sia che pensavamo che l’era dei massacri fosse terminata
con l’apartheid. Vedere il nostro governo democratico permettere questo è scioccante”. xxxiii
All’inaugurazione della mostra Maluleke sintetizzò questa lunga storia ricordando al pubblico
la cronologia dei massacri di stato in Sudafrica: Sharpeville (21 marzo 1960), Soweto (a partire
dal 16 giugno 1976), Boipatong (17 giugno 1992), Bisho (7 settembre 1992), Marikana (16
agosto 2012). Successivamente, si chiese quale fosse il significato del ripresentarsi di eventi di
questo tipo, i quali riportavano nel periodo post-apartheid i giorni più bui della storia del
Sudafrica: “Se l’ordinamento democratico non ci ha curati dai nostri riti di sangue, cosa mai ci
potrà curare?”xxxiv

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Pier Paolo Frassinelli

    3. Da Marikana a #RhodesMustFall
Il recente dibattito sulla decolonizzazione, inizialmente suscitato dalla riuscita campagna per la
rimozione della statua dell’arci-imperialista britannico Cecil John Rhodes dalla parte alta del
campus dell’Università di Città del Capo nel 2015, offre una modalità alternativa per inquadrare
la questione. La rimozione della statua di Cecil John Rhodes non è stata un evento isolato. Essa
ha segnato nelle università sudafricane l’inizio di un’ondata di lotte portate avanti da
studentesse e studenti e da lavoratrici e lavoratori esternalizzati, lotte prolungatesi fino al 2016
inoltrato. Identificate da una serie di hashtag, fra i quali i più prominenti erano
#RhodesMustFall [“Rhodes deve cadere”] e #FeesMustFall [“Le rette devono scendere”],
queste lotte hanno conseguito vittorie importanti, fra le quali la rimozione della statua, la
cancellazione del previsto aumento delle rette per il 2016 e l’impegno da parte di diverse
amministrazioni accademiche a decolonizzare il curriculum e internalizzare il personale delle
pulizie e altro personale in subappalto entro un periodo di tempo concordato.xxxv Nelle parole
di una dichiarazione rilasciata dal collettivo #RhodesMustFall dell’Università di Città del Capo,
il “mandato decoloniale” che ha portato nel 2015 a “concentrarsi su Cecil John Rhodes come
figura simbolica centrale dell’eredità del colonialismo” mostra il fatto che il 1994 non ha
cancellato il lascito del colonialismo e dell’apartheid. La transizione alla democrazia del
Sudafrica non è sfociata in una nuova era “postcoloniale”, semmai in un’epoca in cui l’eredità
del passato coloniale e dell’apartheid continua a farsi sentire nelle “realtà materiali e
ideologiche” neocoloniali “[...] legate a quella stessa eredità”. xxxvi In altre parole, la questione
ha a che fare con la temporalità. È la domanda posta dalla scrittrice e attivista Leigh-Ann
Naidoo nella sua lezione commemorativa in onore di Ruth First del 2016 all’Università del
Witswatersrand, a Johannesburg. “Qual è l’epoca in cui ci troviamo?” “Eppure”, aggiunge,
“dire in che epoca ci troviamo è una faccenda complessa in questa società. In una certa misura,
siamo nel post-apartheid, ma sotto molti altri aspetti no. Viviamo in una democrazia che è al
tempo stesso violentemente e patologicamente iniqua.”xxxvii I movimenti studenteschi del 2015
e del 2016 sono partiti con la richiesta di rimuovere il simbolo del razzismo e del colonialismo
rappresentato dalla statua di John Cecil Rhodes alla UCT, e da lì hanno ampliato il significato
della decolonizzazione fino a elaborare una critica esaustiva della struttura della società
sudafricana contemporanea:

       Nel 2015 gli studenti stavano resistendo alla mercificazione dell’istruzione tramite la
       rivendicazione di un’istruzione gratuita, decolonizzata e di qualità, esprimendo la loro
       insoddisfazione per il tasso e la profondità dei cambiamenti a un ventennio di distanza
       dalla democratizzazione del Sudafrica. I e le giovani stavano criticando il razzismo
       istituzionale e l’oppressione razzializzata che hanno continuato a esistere in tutto il
       Sudafrica, rendendolo probabilmente il paese più iniquo al mondo.xxxviii

La rivendicazione della decolonizzazione da parte dei movimenti “per la caduta” andava ben
oltre i “cambiamenti cosmetici di facciata” associati all’idea di trasformazione che nelle
università tradizionalmente bianche del Sudafrica, a partire dal 1994, avevano accompagnato
le lente trasformazioni della demografia e l’inclusione di un numero maggiore di accademici
neri e di contenuti maggiormente africani. Ha invece rivendicato “la profonda trasformazione
strutturale dell’università come istituzione, derivante da preoccupazioni riguardo alla
demografia dello staff, i piani di studi eurocentrici, il razzismo istituzionale e altre forme di
oppressione quali patriarcato e omofobia”.xxxix È una rivendicazione il cui senso abita
temporalità che trascendono l’immediatezza delle politiche istituzionali e di partito. È inserita
nella longue durée della storia che comincia con secoli di occupazione coloniale, attraversa i
quasi cinquant’anni di apartheid istituzionalizzata (1948-1994) e ci porta nella transizione

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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

tuttora incompleta verso una società libera dalle diseguaglianze e dalle strutture di oppressione,
dominazione e discriminazione ereditate da questa lunga storia.
         Secondo lo studioso decoloniale Ramón Grosfoguel, “Uno dei miti più potenti del
Novecento è stata la concezione secondo la quale l’eliminazione delle amministrazioni
coloniali equivaleva alla decolonizzazione del mondo. Questo ha portato al mito di un ‘mondo
postcoloniale’”.xl È la frantumazione di questo mito che lega il massacro di Marikana al
movimento #RhodesMustFall. Come ha affermato Joseph Mathunjwa, presidente della
Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU), in un’intervista rilasciata dopo
un discorso all’Università di Città del Capo nell’agosto del 2015: “Ricordatevi che quando i
minatori scioperavano nel 2012, stavano cercando di disfarsi dell’eredità di Cecil John Rhodes.
Perciò è naturale che essi sostengano le azioni del movimento RhodesMustFall”.xli
         Questa associazione ci riporta all’uomo con la coperta verde. Una versione
dell’immagine di Mambush avvolto nell’indumento che lo contraddistingueva è la stampinatura
intitolata Remember Marikana [“Ricordatevi di Marikana”] prodotta dal Tokolos Stencils
Collective, un collettivo il cui nome è preso dai “Tokoloshe, Tikoloshe o Tokolos (in slang)”,
una “creatura simile a un nano della mitologia xhosa e zulu che si dice venga evocato dai
sangoma (guaritori tradizionali), di solito per rabbia o gelosia”.xlii Isolato dai minatori in
sciopero che nella fotografia originale lo circondano, l’uomo con la coperta verde è qui
trasformato nell’incarnazione della memoria della loro lotta collettiva (Figura 6.3). La
stampinatura, descritta dal Tokolos Stencils Collective come un “catalizzatore per il recupero
della memoria storica del passato più recente”,xliii è stata dipinta con lo spray su muri,
monumenti ed edifici pubblici da Città del Capo a Johannesburg. Nel maggio 2014, alla vigilia
di un dibattito se rimuovere o lasciare al suo posto la statua di Rhodes all’Università di Città
del Capo, la stampinatura apparve sul suo piedistallo.xliv
         Posta sulle scale che conducono alla parte alta del campus, la statua ritrae Rhodes in
posa da pensatore con lo sguardo rivolto verso nord, in direzione di quel continente che
notoriamente sognava di conquistare dal Capo al Cairo. La sua presenza era un richiamo sia
all’eredità del colonialismo che a come in essa fosse implicata l’università, le cui strutture
furono trasferite nel 1928 su terreni donati da Rhodes, fondatore della società mineraria De
Beers. Il modo in cui il permanere della statua in una posizione di primaria importanza
nell’università storicamente bianca di Città del Capo costellasse il passato e il presente fu messo
in rilievo dall’azione di protesta poi identificata con la nascita di #RhodesMustFall: il momento
in cui lo studente dell’UCT “Chumani Maxwele gettò della materia fecale che aveva raccolto
dai wc portatili a Khayelitsha sul viso dell’ormai tristemente nota statua di Cecil John Rhodes,
in uno sforzo di evidenziare le spiacevoli realtà di degradazione e oppressione”.xlv L’azione
faceva riferimento alle “proteste della cacca” che avevano avuto luogo in precedenza a Città
del Capo, dove gli abitanti delle varie township e degli insediamenti informali disseminati
intorno alla città avevano gettato materia fecale sugli edifici pubblici al fine di attirare
l’attenzione sulla scarsità di strutture igieniche e la mancata fornitura di servizi nelle loro aree.
Portando degli escrementi umani dalla township storicamente nera di Khayelitsha nel quartiere
agiato e storicamente bianco di Rodenbosch, dove si trova la UCT, Maxwele attraversò la
barriera razziale e sociale che continua a definire la geografia umana della città. Mise in scena
così il conflitto fra due mondi che nella vita quotidiana del Sudafrica restano perlopiù segregati.

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Pier Paolo Frassinelli

Figura 6.3 Ricordando Marikana, stampinatura del Tokolos Stencils Collective.
Fonte: Fotografia scattata dall’autore nel 2014.

        La campagna #RhodesMustFall e, prima di essa, l’apparire della stampinatura
Remember Marikana sul piedistallo della statua di Cecil John Rhodes ci ricordano come, nei
momenti di disgiunzione politica, i monumenti diventino luoghi di conflitto.xlvi In questo caso,
la disgiunzione è nella persistenza delle strutture coloniali e neocoloniali di diseguaglianza in
una società postcoloniale e post-apartheid che ha ancora bisogno di essere decolonizzata. È
questa la disgiunzione che Nelson Maldonado-Torres e altri pensatori e pensatrici decoloniali
hanno chiamato “colonialità”, termine che “si riferisce a una logica, metafisica, ontologia, e a
una matrice di potere che continua a esistere dopo l’indipendenza formale e la desegregazione”.
Alla persistenza della colonialità, il progetto della decolonialità oppone “la produzione di
contro-discorsi, contro-conoscenze, atti di contro-creazione e contro-pratiche che cercano di
smantellare la colonialità e schiudere altri modi di essere al mondo”. xlvii È a tale processo di
smantellamento che il Tokolos Stencils Collective riteneva di contribuire con il suo Remember
Marikana:

       utilizzare la memoria di Marikana per lottare, come Mambush, per sbarazzarci di questa
       società capitalista e suprematista bianca in cui viviamo. L’arte può usare Marikana per
       sostenere movimenti che aspirano a liberare il nostro paese dal colonialismo e dal
       privilegio dei bianchi una volta per sempre.xlviii

        Molti altri si sono appropriati dell’immagine dell’“uomo con la coperta verde”. È stata
trasformata in una silhouette verde stilizzata per poster e magliette utilizzate come materiale
pubblicitario per Marikana – The Musical di Aubrey Sekhabi, che è stato giustamente criticato
per non essere riuscito a “rappresentare Noki e i minatori, limitandosi a dipingerli come uomini
neri danzanti pericolosi e mossi dal muti”.xlix Anche parecchie campagne e organizzazioni
politiche hanno utilizzato l’immagine per un lavoro di mobilitazione e di solidarietà legato a
Marikana: dalla riproduzione con lo spray spuntata in tutta Johannesburg per la campagna del

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2015 di Amandla.mobi “Manda un messaggio di solidarietà alle vedove di Marikana”, fino alla
riproduzione della foto originale di Leon Sadiki accanto alla frase “è meglio morire per una
causa che morire per niente” sugli striscioni della Association of Mineworkers and Construction
Union nel giorno della commemorazione di Marikana.l
        C’è tuttavia un’immagine che è stata fatta circolare ed è stata riprodotta sui social media
e sul web, dove l’ho trovata, e con la quale voglio concludere. L’immagine sovrappone
Mambush al continente africano (Figura 6.4): i suoi piedi sono sul Sudafrica; la lancia taglia la
parte sud del continente; il braccio destro con il pugno chiuso si allunga sul Sahel, a nord del
Golfo di Guinea; e la testa leggermente inclinata e la spalla sinistra indicano verso nordovest,
parallelamente alla costa del Mar Rosso. Il continente è dipinto di nero, con una stella rossa sul
Deserto del Sahara. Le binarietà, dualità e i paradossi spesso associati al significante Africa
sono qui risemantizzati dal contrappunto di significati prodotto dalla sua giustapposizione con
la tragedia e l’eroismo rappresentati simultaneamente dalla figura di Mambush.

Figura 6.4 L’uomo con la coperta verde.

        Il 3 dicembre 2011 “The Economist” pubblicava The Hopeful Continent: Africa Rising
[“Il continente della speranza: l’Africa in ascesa”], articolo accompagnato da un’immagine di
un ragazzo che fa volare un aquilone multicolore in un cielo azzurro. L’articolo inizia con una
descrizione dell’affollato mercato di Onitsha, nella Nigeria meridionale: una celebrazione del
consumismo sfrenato in una terra dell’abbondanza dove ogni giorno è come “la stagione
natalizia dello shopping” e “i negozi hanno scaffali alti un metro e ottanta pieni di merci”,
mentre “le strade sono piene zeppe di clienti, venditrici e venditori”. L’articolo continua
raccontando a lettrici e lettori della classe media più in rapida crescita al mondo dell’altissimo

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Pier Paolo Frassinelli

tasso di investimenti esteri, della potenziale crescita economica paragonabile a quella dell’Asia,
e dei seicento milioni di utenti di telefonia mobile in Africa. L’articolo, beninteso, menziona
anche la corruzione, il malgoverno, le persistenti “siccità e carestie” in alcune parti del
continente, insieme al peggioramento del clima, alla “deforestazione e desertificazione”.li Il
messaggio implicito, però, è chiaro. È riassunto dal titolo dell’ultima sezione dell’articolo,
“More trade than aid” [“Più commercio che aiuti”]. Kevin Bloom e Richard Poplak fanno notare
che questo tipo di discorso:

       fa conoscere a un pubblico occidentale selezionato un fatto che gli attori economici
       cinesi o indiani avrebbero probabilmente ritenuto talmente ovvio da non considerarlo
       degno di menzione: che l’Africa non era un continente fallito bisognoso di aiuti e
       iniziative di sviluppo, bensì un mercato enorme in espansione che aveva bisogno di
       servizi. E mentre questo cominciava a far cambiare le percezioni dell’Africa al di fuori
       del continente, la questione di cosa pensassero le africane e gli africani, o di come queste
       categorie si applicassero alla vita vissuta di qualunque essere umano, in gran parte non
       furono oggetto di commenti.lii

In un contesto in cui le astrazioni statistiche della logica del mercato rimpiazzano il
paternalismo sviluppista nel silenziare le voci africane e cancellano altre modalità dell’essere
al mondo, la giustapposizione dell’immagine dell’uomo con la coperta verde armato di lancia
e con il pugno chiuso evoca un tipo di insurrezione radicalmente diverso.

    4. Conclusione
Inserito in una sequenza politica che risale fino alla lotta di liberazione, il massacro di Marikana
sembra essere tratto da uno dei passaggi sulle “Disavventure della coscienza nazionale” de I
dannati della terra di Frantz Fanon (1972 [1961]), in cui l’élite postcoloniale, agendo da
intermediaria per il capitale transnazionale e incapace di “razionalizzare la prassi popolare”,
produce un tale livello di “sfruttamento e una tale diffidenza per lo stato” da scatenare
“inevitabilmente lo scontento al livello delle masse. In queste condizioni il regime si
inasprisce”.liii Come ha scritto Richard Pithouse nel 2014:

       “Marikana” è ora il nome delle occupazioni delle terre in tutto il paese, così come una
       ribellione dei lavoratori, un massacro e uno sciopero straordinario. E dalla cintura del
       platino intorno a Rustenburg alle baraccopoli di Durban e oltre, la gente sta investendo
       politicamente sempre più sulla propria resilienza. Nuove forze si stanno muovendo. Il
       nazionalismo d’élite sta iniziando a perdere la sua presa su una cittadinanza sempre più
       militante [...] L’accordo che ci ha aiutato a superare gli ultimi vent’anni non è più in
       vigore.liv

Queste parole suonano ancor più vere oggi, in mezzo alla calma apparente seguita ai tumulti e
alla confusione dell’era di Jacob Zuma, quando nel compromesso post-apartheid continuano a
palesarsi crepe sempre più grandi.lv Forse le domande più urgenti generate dai recenti
sconvolgimenti sono quali modalità della soggettività politica stiano emergendo dal frantumarsi
dell’accordo del 1994, e se saranno in grado di costruire e sostenere movimenti capaci di
produrre i cambiamenti socioeconomici richiesti tanto dai minatori in sciopero di Marikana,
quanto dalle quasi quotidiane proteste nelle township e negli insediamenti informali del
Sudafrica.

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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

        Ma il massacro di Marikana non è solo una storia sudafricana. La Lonmin spa, la società
mineraria di cui erano dipendenti i lavoratori uccisi dalla polizia sudafricana, è una corporation
multinazionale il cui quartier generale è a Londra, ed è quotata alla borsa di quest’ultima; la sua
presenza in Sudafrica risale a quando essa fu costituita nel Regno Unito il 13 maggio 1909, con
il nome di London and Rhodesian Mining and Land Company Limited. Nel Sudafrica si trova
l’80 per cento delle riserve mondiali conosciute di platino. La piccola città di Marikana fa parte
della cintura del platino, che va dalle province del Nordovest, del Gauteng e dello Mpumalanga
fino al Limpopo.lvi La sua collocazione geografica è quindi sia “locale” che “globale”: essa è
inserita nel circuito transnazionale del capitale che delinea l’economia geopolitica
dell’estrazione di minerali. Questo ci ricorda ancora una volta che l’integrazione globale non si
manifesta sotto forma di inserimento omogeneo nel processo di “globalizzazione”, né come
movimento di migrazione unidirezionale verso il nord globale evocato dalle crisi dei migranti
e dei rifugiati che saturano i discorsi e i media occidentali. Essa è costituita da complesse
relazioni di diseguaglianza, sfruttamento, potere, lotta e resistenza, così come da flussi e balzi
multidirezionali come quelli che continuano a condurre le multinazionali occidentali, e sempre
più anche quelle orientali, nelle enclaves ricche di minerali e di risorse naturali dell’Africa sub-
sahariana.lvii Sembra dunque appropriato chiudere questo libro lasciando che lo sguardo che
emana dall’ultima foto da me proposta perseguiti il confine sud-nord.

Bionota: Pier Paolo Frassinelli was Professor of Communication and Media Studies at the
University of Johannesburg. He had a laurea (summa cum laude) from the University of Pisa
and a PhD from the University of Southampton. He was advisory chair of the South African
Communication Association (SACOMM), book and film reviews editor of Journal of African
Cinemas, and a member of the International Advisory Board of Journal of African Media
Studies. His recent and forthcoming publications include Borders, Media Crossings and the
Politics of Translation: The Gaze from Southern Africa (Routledge, 2019) and Sovvertire i
confini: traduzioni, media e lo sguardo dal sud (Ombre Corte, 2021 in corso di stampa). In
2020, he was a writing fellow at the Johannesburg Institute for Advanced Studies and in 2021
he was a writing fellow at the Stellenbosch Institute for Advanced Studies. Before his death he
was currently working on a book project on African cinemas.

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Pier Paolo Frassinelli

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i
   Ho preso in prestito questa espressione da Greg Marinovich, The Murder Fields of Marikana: The Cold Murder
Fields of Marikana, in “Daily Maverick”, 8 September 2012 (ultimo accesso 14 giugno 2018),
https://www.dailymaverick.co.za/article/2012-09-08-the-murder-fields-of-marikana-the-coldmurder-fields-of-
marikana/ .
ii
    Anthandiwe Saba, The Man in the Green Blanket, in Thanduxolo Jika, Lucas Ledwaba, Sebabatso Mosamo,
Athandiwe Saba e Felix Dlangamandla (a cura di), We Are Going to Kill Each Other Today: The Marikana Story,
Tafelberg, Cape Town 2013, loc. Kindle 445-450.
iii
     Ivi, p. 645.
iv
    Ivi, p. 427.
v
    Peter Alexander, Analysis and Conclusion, in Peter Alexander, Botsang Mmope, Thapelo Lekgowa, Luke
Sinwell e Bongani Xezwi (a cura di), Marikana: A View from the Mountain and a Case to Answer, Jacana,
Johannesburg 2012, p. 195.
vi
    Greg Marinovich, Murder at Small Koppie: The Real Story of the Marikana Massacre, Penguin Random House
South Africa, Johannesburg 2016, p. 211.
vii
      Nel resto del capitolo lo chiamerò Mambush. È con questo nome che lo conoscevano i suoi compagni, ed è
anche il nome associato all’immagine dell’uomo con la coperta verde. Viene dal soprannome di un calciatore
ammirato da Mambush, Daniel “Mambush” Mudau.
viii
      Roland Barthes, Miti d’oggi, trad. it. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1974 [1957], p. 196 (in corsivo nell’originale).
ix
    Ivi, p. 204.
x
    Julie Reid, Myth and Stereotype, in Julie Reid (a cura di), Looking at Media: An Introduction to Visual Studies,
Pearson, Cape Town 2013, p. 101. Barthes definisce il mito “nella società borghese” come “parola depoliticizzata”.
Con questa espressione Barthes fa riferimento al modo in cui il linguaggio del mito assegna alle “cose” che
significa – miti nazionali o stili di vita e valori associati a certi beni di consumo – “le istituisce come natura e come
eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione”. In altre parole,
per Barthes il mito è un linguaggio semplificante che spoliticizza il discorso riducendone o eliminandone le
complessità e contraddizioni storico-sociali a fronte di una comprensione del “politica nel senso profondo, come
insieme dei rapporti umani nella loro struttura reale, sociale, nel loro potere di fabbricazione del mondo” (Barthes,
Miti d’oggi, cit., p. 223, (in corsivo nell’originale).
xi
     Sulla fotografia come incontro, si veda Ariella Azoulay, What Is a Photograph? What Is Photography?, in
“Philosophy of Photography”, 1 (1), 2010, pp. 9-13.
xii
     Stuart Hall, The Spectacle of the “Other”, in Stuart Hall, Jessica Evans e Sean Nixon (a cura di) Representation,
2nd ed., Sage, London 2013, p. 218.
xiii
      Nel corso degli ultimi anni, ho discusso di questa fotografia con gli studenti del mio corso avanzato in
Comunicazione, Media e Società all’Università di Johannesburg. Studenti e studentesse sudafricani spesso
insistono sul legame connotativo fra il modo in cui Mambush indossa la coperta e l’identità e la leadership africana.
Parte dei dibattiti è reperibile qui: https://twitter.com/CMS2A11 .
xiv
      Si veda Algirdas Julien Greimas, Semantica strutturale. Ricerca di metodo, trad. it., Meltemi, Roma 2000
[1966].
xv
     Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, trad. it. e cura
di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004 [2004], p. 124 (in corsivo nell’originale).

Echo 3, 2021                                                                                                         246
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall

xvi
     Luke Sinwell, Thapelo Lekgowa, Botsang Mmope e Bongani Xezwi, Introduction: Encounters in Marikana, in
Peter Alexander, Botsang Mmope, Thapelo Lekgowa, Luke Sinwell e Bongani Xezwi (a cura di), Marikana: A
View from the Mountain and a Case to Answer, Jacana, Johannesburg 2012, p. 3.
xvii
      Jane Duncan, The Rise of the Securocrats: The Case of South Africa, Jacana, Johannesburg 2014, p. 182.
xviii
       Frans Baleni, Baleni on Lonmin Killings and Violence (20 August), 2012 (ultimo accesso 29 aprile 2017),
https://www.youtube.com/watch?v=1eLzskhdYwY .
xix
     Blade Nzimande, Our Condolences and Sympathies to the Marikana and Pomeroy Victims, in “Umsebenzi”, in
23 August 2012 (ultimo accesso 15 dicembre 2015), https://www.sacp.org.za/main.php?ID=3724 .
xx
     Cit. in Duncan, The Rise of the Securocrats, cit., p. 191.
xxi
     Ivi, p. 191.
xxii
      Ivi, p. 187.
xxiii
        Julian Brown, South Africa’s Insurgent Citizens: On Dissent and the Possibility of Politics, Jacana,
Johannesburg 2015, p. 12.
xxiv
       Stuart Wilson, Judge Farlam’s Accidental Massacre, in “Daily Maverick”, 26 June 2015 (ultimo accesso 15
dicembre 2016), https:// www.dailymaverick.co.za/opinionista/2015-06-26-judge-farlams-accidental-massacre/.
xxv
     Luke Sinwell e Siphiwe Mbatha, The Spirit of Marikana: The Rise of Insurgent Trade Unionism in South Africa,
Pluto Press, London 2016, pp. 9 e 42-43.
xxvi
       L’articolo non è firmato, mentre l’immagine e la didascalia che l’accompagnano sono attribuite a Tiro
Ramathlatse.
xxvii
       The Star, The Man in the Green Blanket Is Forever Silenced, 17 August 2012 (ultimo accesso 20 ottobre 2016),
https://www.iol.co.za/the-star/the-man-in-the-green-blanket-is-foreversilenced-1364499 .
xxviii
        Poloko Tau, “The Man in the Green Blanket” Mourned, in “The Star”, 10 September 2012 (ultimo accesso
20 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/news/crime-courts/man-in-the-greenblanket-
mourned-1379101 .
xxix
       Allan Kolski Horwitz, The Man in the Green Blanket, in Raphael d’Abdon (a cura di), Marikana: A Moment
in Time, Geko, Johannesburg 2013, pp. 45-48.
xxx
        aaliyah sanKara, The Man with the Green Blanket, 2014 (ultimo accesso 2 novembre 2016),
https://www.youtube.com/watch?v=_lUjapnL6Ds .
xxxi
      Tinyiko Sam Maluleke, The Marikana Massacre: Just a Little Atrocity?, 15 February 2013 (ultimo accesso 23
ottobre 2016), www.pitikantuli.com/exhibitions/ .
xxxii
       Ibidem.
xxxiii
         Ntuli, cit. in Dimakatso Motau, Artists Lament Miners’ Tragedy, in “The Sowetan”, 30 November 2012
(ultimo accesso 26 ottobre 2016) https://www.sowetanlive.co.za/entertainment/2012/11/30/artists-lament-miners-
tragedy?service=print .
xxxiv
        Maluleke, The Marikana Massacre, cit.
xxxv
       Si veda Pier Paolo Frassinelli, Hashtags: #RhodesMustFall, #FeesMustFall and the Temporalities of a Meme
Event, in Bruce Mutsvairo e Beschara Karam (a cura di), Perspectives on Political Communication in Africa,
Palgrave, Houndsmill-New York, 2018, pp. 61-76.
xxxvi
        #RhodesMustFall, Right of Response: #RhodesMustFall: Careful, Rebecca Hodes, Your Colour Is Showing,
in        “Daily        Maverick”,    25     August       2015    (ultimo    accesso     25     ottobre      2016),
https://www.dailymaverick.co.za/article/2015-08-25-right-of-response-rhodesmustfallcareful-rebecca-hodes-
your-colour-is-showing/#.WA7n_yRU57h .
xxxvii
         Leigh-Ann Naidoo, Hallucinations, lezione commemorativa in onore di Ruth First, University of the
Witwatersrand, 2016, (ultimo accesso 20 aprile 2019),
http://witsvuvuzela.com/wpcontent/uploads/2016/08/Hallucinations_RUTHFIRST_August2016_FINAL.pdf . In
corsivo nell’originale.
xxxviii
         Leigh-Ann Naidoo, Contemporary Student Politics in South Africa: The Rise of the Black-Led Student
Movements of #RhodesMustFall and #FeesMustFall in 2015, in Anne Hefferman e Noor Nieftagodien (a cura di),
Students Must Rise: Youth Struggle in South Africa before and Beyond Soweto ’76, Wits University Press,
Johannesburg 2016, p. 180.
xxxix
        Ivi, p. 182-183.
xl
    Ramón Grosfoguel, Decolonizing Post-Colonial Studies and Paradigms of Political-Economy: Transmodernity,
Decolonial Thinking, and Global Coloniality, in “Transmodernity: Journal of Peripheral Cultural Production of
the Luso-Hispanic World”, 1 (1), 2011 (ultimo accesso 15 aprile 2018), https://escholarship.org/uc/item/21k6t3fq,
p. 14.
xli
     Mathunjwa, cit. in African News Agency, Pressure on UCT over Lonmin Connection, “Cape Times”, 20 August
2015 (ultimo accesso 26 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/capetimes/pressure-onuct-over-lonmin-connection-
1903238 .
xlii
      Tokolos Stencils Collective, We Send Our Tokoloshe to Battle with Those Trying to Make Us Forget the
Atrocities of Marikana, in “Africa Is a Country”, 20 January 2014 (ultimo accesso 20 ottobre 2016),

Echo 3, 2021                                                                                                   247
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