SEGNI DEI TEMPI: DA THE MAN IN THE GREEN BLANKET
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SEGNI DEI TEMPI: DA THE MAN IN THE GREEN BLANKET A #RhodesMustFall PIER PAOLO FRASSINELLI1 UNIVERSITY OF JOHANNESBURG – SOUTH AFRICA La storia raccontata in questo capitolo è composta da rappresentazioni mediali e interventi artistici che ci portano dai “campi della morte di Marikana”i alla nascita del movimento #RhodesMustFall all’Università di Città del Capo (UCT) tre anni dopo. Parto da una fotografia del fotoreporter di “City Press” Leon Sadiki, uno scatto che immortala “l’uomo con la coperta verde” [the man in the green blanket] circondato da minatori in sciopero nei pressi di Wonderkop, periferia della piccola città di Marikana, nella provincia del Nordovest del Sudafrica, solo poche ore prima che trentaquattro di loro venissero uccisi dai proiettili sparati dalla polizia, il 16 agosto 2012 (Figura 6.1). Questa immagine, o parte di essa, sarebbe diventata una delle rappresentazioni del massacro più frequentemente riprodotte: un giovane avvolto in una coperta color verde acceso, braccio destro teso con il pugno chiuso e una lancia abbassata nella mano sinistra, colto dall’obiettivo fotografico mentre incita i suoi compagni. Il suo nome era Mgcineni Noki, noto anche come Mambush, trivellista di trent’anni senza una mansione specifica nell’azienda. Veniva dal villaggio di Thwalikhulu, nella provincia del Capo Orientale, dove era nato il 2 febbraio 1982.ii Era uno dei leader dei minatori che avevano incrociato le braccia il 10 agosto 2012 per chiedere un salario mensile di 12.500 rand (circa 800 euro/950 dollari USA). L’indumento con cui avrebbe finito per essere identificato gli era stato dato da un compagno di sciopero il giorno prima dell’eccidio,iii e Mambush lo indossava ancora quando fu crivellato di proiettili. Fra le ferite riportate ce n’erano “una alla testa provocata da una pallottola”, così come “ferite da arma da fuoco sul lato sinistro del volto e del collo, sulla coscia destra, sulle natiche, sul polpaccio destro e sulla gamba sinistra”.iv Il massacro rappresentò il culmine di un tentativo coordinato da parte della corporation transnazionale Lonmin e del governo sudafricano di interrompere uno sciopero “senza protezione” [cioè indetto senza seguire le procedure previste dalla legge sudafricana, N.d.T.] nel corso del quale i minatori avevano contestato sia il loro datore di lavoro che la National Union of Mineworkers [“Sindacato nazionale dei minatori”] (NUM). A conti fatti, “i lavoratori continuarono la lotta finché, il 18 settembre, raggiunsero un accordo che assicurava loro la vittoria”.v Ma fu una vittoria ottenuta a un prezzo intollerabilmente alto in termini di vite umane. Il nome della piccola città dove ebbe luogo il massacro è diventato il segno di una svolta storica, una nuova periodizzazione secondo la quale il paese è entrato in quella che potremmo chiamare l’epoca post-Marikana: i postumi di un evento che rappresenta il punto più basso del Sudafrica post-apartheid. In Murder at Small Koppie: The Real History of the Marikana Massacre [“Assassinio sulla collinetta: la vera storia del massacro di Marikana”] (2016), Greg Marinovich ricorda: Allo stesso modo in cui il trentenne Mambush era diventato il leader dei minatori prima della sua morte, così in seguito diventò il martire dello sciopero. Quando migliaia di minatori marciarono sul pozzo Karee 3, tre settimane dopo la sua morte, tenevano in mano alcune fotocopie della fotografia di Noki. Egli divenne il volto della loro lotta.vi 1 Da Sovvertire i confini. Traduzioni, media e lo sguardo dal sud, in uscita per l’editore Ombre Corte, che ha concesso gentilmente la pubblicazione qui. Echo 3, 2021 231
Pier Paolo Frassinelli Questo capitolo racconta la storia di come Mgcineni Noki è diventato l’uomo con la coperta verde: un’immagine non solo della lotta dei minatori di Marikana in sciopero, ma della decolonizzazione in generale.vii Figura 6.1 L’uomo con la coperta verde. Fonte: Fotografia di Leon Sadiki. 1. L’uomo con la coperta verde Nelle riproduzioni e ricontestualizzazioni da parte di diversi media e artisti, l’immagine dell’uomo con la coperta verde è stata elevata al livello di quello che Roland Barthes chiama “mito”, un “metalinguaggio”, o “un sistema semiologico secondo” in cui ciò “che è segno (cioè totale associativo di un concetto e di un’immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante”.viii Il mito crea il suo sistema di significazione associando un segno ad altri segni e contesti. Quando entra nel linguaggio del mito, un’immagine non parla più solo dell’evento o degli individui che ritrae. Essa si appropria di discorsi e concetti: diventa un “linguaggio oggetto” dotato di una funzione significante propria.ix Nel caso dell’uomo con la coperta verde ci troviamo davanti alla politicizzazione di questo tipo di discorso tramite la creazione di un “contro-mito”:x un messaggio che va controcorrente rispetto alle narrazioni e razionalizzazioni ideologiche dominanti. Nella fotografia di Sadiki incontriamo Mambush e i minatori delle miniere di platino in sciopero in un momento critico.xi Mambush sta incitando gli altri lavoratori negli aridi campi invernali di Marikana. Ma non si tratta di un raduno. Mambush non si trova davanti ai suoi compagni. Lo vediamo in piedi fra i minatori in sciopero, rivolto verso la macchina fotografica. Il punto di vista dell’angolo di ripresa, all’altezza degli occhi, è frontale. Vediamo i minatori, la maggior parte dei quali guarda nella nostra direzione, seduti per terra: presumibilmente in Echo 3, 2021 232
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall attesa che accada qualcosa. Sembrano seri, nessuno sorride, ma la loro postura è relativamente rilassata. Mambush, l’unica persona in piedi, è al centro dell’immagine. Se gli altri personaggi sono paragonabili a un coro, lui è il corifeo che cattura la nostra attenzione, con la sua coperta verde rischiarata dalla luce del sole invernale, di grande impatto visivo. Nelle parole di Stuart Hall, “In [una] foto vi sono molti significati […] potenziali. Ma non c’è un solo, autentico significato. Il significato ‘fluttua’. Non può essere fissato. Tuttavia, cercare di ‘fissarlo’ è il lavoro della pratica rappresentazionale”.xii La foto di Mambush con la sua coperta verde è un’immagine considerevolmente polisemica, che non si lascia facilmente fissare in un solo significato. Possono esserle attribuiti molteplici significati. Essa si presta a esser vista come qualcosa che connota, in primo luogo, una vulnerabilità. La coperta è un semplice capo di vestiario, è ciò che le persone senzatetto indossano per proteggersi dalle intemperie. Ma non c’era molta possibilità di proteggersi nei campi di battaglia di Marikana, quando si dovevano affrontare poliziotti armati, veicoli blindati e la forza militare dello stato sudafricano. La coperta verde diventa allora un indice di sfida e coraggio. E può anche essere letta come significante di un’identità: la coperta è un capo indossato da africane e africani di diversa origine etnonazionale durante le cerimonie di iniziazione e altre attività rituali, specialmente nelle aree rurali.xiii Un altro elemento significante cruciale di quest’immagine – e che è stato non soltanto sottolineato, ma anche amplificato nelle sue riproduzioni – è la singolarità della figura al suo centro: l’uomo con la coperta verde. Nella fotografia originale, Mambush è circondato dai suoi compagni in sciopero, i quali in termini semiotici possono essere descritti a seconda del punto di vista come attanti, adiuvanti e partecipanti.xiv Essi sostengono Mambush e sono parte degli eventi narrati dalla fotografia. Il soggetto dell’enunciazione della fotografia è plurale. Anche se Mambush è al centro dell’immagine ed è l’unico in piedi, sono i minatori seduti a dare significato alla fotografia. Come vedremo, sono stati cancellati da molte delle riproduzioni dell’immagine. Eppure sono indelebili. Restano parte dell’immagine come presenza fantasmatica anche quando vediamo l’uomo con la coperta verde da solo. Perché il significato dell’immagine va cercato nella loro presenza e lotta collettiva. Anche quando l’immagine dell’uomo con la coperta verde è decontestualizzata, essa non è mai quella di un eroe individuale. Egli è un leader dello sciopero, una singolarità che è una parte inestricabile di un collettivo. Prendo in prestito il termine “singolarità” dagli scritti di Michael Hardt e Antonio Negri, i quali lo impiegano nella loro teorizzazione della forma di soggettività politica che chiamano moltitudine. La moltitudine è costituita da una molteplicità di singolarità intersecanti. Essa rappresenta l’alternativa alle concezioni della soggettività sociale e politica che cancellano la differenza: “La moltitudine [. . .] non è unificata ma rimane plurale e molteplice. [. . .] La moltitudine è composta da un complesso di singolarità, ove per singolarità intendiamo soggetti sociali le cui differenze non possono essere ridotte ad alcuna identità: differenze che restano differenti”.xv Nel nostro contesto, enfatizzare la singolarità è produttivo sia da un punto di vista discorsivo che politico, perché scardina la narrazione dominante prodotta dal governo e amplificata dai principali media in risposta agli eventi del 16 agosto 2012. Tale narrazione era definita da una modalità della rappresentazione che cancellava la molteplicità di desideri, motivazioni, bisogni, passioni e impulsi che aveva indotto i minatori a unirsi a una lotta tramite la quale si erano trasformati in una soggettività collettiva. Subito dopo il massacro, i minatori in sciopero furono dipinti come “un’orda ribelle e pericolosa da controllare e arginare”.xvi Le loro voci furono silenziate. Come mostra Jane Duncan nel suo studio sulla copertura mediatica iniziale del massacro: su quanto era realmente avvenuto durante il massacro fu citato un solo minatore, e disse che la polizia aveva sparato per prima. Alla maggior parte dei minatori nelle interviste Echo 3, 2021 233
Pier Paolo Frassinelli fu chiesto conto delle storie che circolavano e secondo le quali essi avevano fatto ricorso al muti [la medicina tradizionale africana] per difendersi dalle pallottole della polizia, oltre che delle loro condizioni di vita e di lavoro.xvii Pur riconoscendo l’eccesso di uso della forza da parte della polizia, e in particolare i pericoli dell’utilizzo di proiettili veri – cosa che sarebbe stato troppo complicato negare – ciò nonostante le diverse versioni di questa narrazione riuscirono a far ricadere la colpa su quelle che, poco dopo l’evento, il segretario generale della National Union of Mineworkers (NUM) Frans Baleni descrisse come “forze oscure in grado di ingannare i nostri membri, di far loro credere di avere il potere di trasformare la propria vita dal giorno alla notte”.xviii I minatori in sciopero furono sistematicamente dipinti come persone arretrate e tradizionaliste ingannate da forze opportuniste e reazionarie. Il segretario generale del Partito comunista del Sudafrica (SACP) Blade Nzimande, per esempio, chiese un’indagine su credenze e pratiche fondamentalmente retrograde in segmenti della classe operaia [...] Come faccia un sangoma [guaritore tradizionale] a essere in grado di convincere segmenti della classe operaia che le pallottole si trasformino in acqua se hai usato “intelezi” [una medicina erboristica tradizionale] è qualcosa di cui non dovremmo più parlare sottovoce, ma che invece dovremmo affrontare apertamente, anche se con delicatezza.xix Analogamente, un portavoce della polizia sostenne in un’intervista: “avevamo a che fare con persone che sembravano possedute, o che si credevano invulnerabili”.xx Questa strategia discorsiva razionalizzava il massacro tramite l’alterizzazione dei minatori, presentandoli come creduloni e ingenui, ingannati dai “sangoma” e “trasformati in automi dal muti, indotti dalla propria superstizione a credersi invulnerabili”.xxi Inoltre, i primi servizi giornalistici attribuirono il conflitto alla rivalità intersindacale fra la NUM e l’Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU). In linea con questa interpretazione, i giornalisti “sembravano presumere che l’inclusione nei loro servizi delle affermazioni dei sindacalisti bastasse a ‘dar conto’ delle voci dei lavoratori”,xxii le cui azioni potevano essere spiegate facendo riferimento al ruolo svolto da “un sindacato di dubbia fama, o da agitatori, o da piantagrane politici”.xxiii La medesima cancellazione delle voci dei lavoratori viene reiterata nel rapporto compilato dalla Commissione di inchiesta Farlam, consegnato al presidente del Sudafrica il 31 marzo 2015 e reso pubblico il 25 giugno dello stesso anno. Le conclusioni del rapporto sono basate sul concetto di “intento comune”, per il quale i minatori sono visti come un’entità omogenea e monolitica. Come ha sottolineato subito dopo la pubblicazione del rapporto il direttore dell’Istituto per i diritti socioeconomici del Sudafrica Stuart Wilson: il rapporto tende a trattare i vivi e i morti, in particolare i minatori, in maniera assai generica. Vengono attribuite intenzioni e motivazioni a gruppi di persone, non agli individui. [...] Quel che il giudice Farlam propone è una narrazione insoddisfacente di folle senza volto e decisioni malaccorte, in cui la responsabilità, ammesso che sia attribuita a qualcuno, è assegnata col contagocce e in astratto.xxiv Di fronte a questa situazione, l’immagine di Mambush, l’uomo con la coperta verde, e il suo elevamento a contro-mito fungono da contro-discorso, da riscoperta di una singolarità che crea problemi all’alterizzazione, alla deumanizzazione e alle narrazioni omogeneizzanti dei principali media che hanno seguito il massacro e hanno colpevolizzato le vittime. Echo 3, 2021 234
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall 2. La creazione dell’uomo con la coperta verde Anche se non era fra i trivellisti che avevano dato inizio allo sciopero, Mambush aveva già fatto irruzione sulla scena la settimana prima del massacro. Era stato eletto nel comitato dello sciopero il 12 agosto, e lo si può vedere nel pluripremiato documentario di Rehad Desai Miners Shot Down [“Minatori abbattuti a colpi d’arma da fuoco”] (2014) mentre negozia con il generale Mpembe, vicecommissario della provincia del Nordovest, lunedì 13 agosto.xxv L’espressione “l’uomo con la coperta verde” è stata usata per la prima volta il 17 agosto 2012, il giorno dopo il massacro, in un articolo pubblicato sul quotidiano di Johannesburg “The Star” e intitolato The Man in the Green Blanket Is Forever Silenced [“L’uomo con la coperta verde messo a tacere per sempre”].xxvi L’articolo racconta la storia di come l’autore, con il quale Mambush aveva collaborato facendo da contatto, ne avesse ritrovato il corpo esanime nei campi insanguinati di Marikana: Non aveva mai voluto che sapessi il suo nome. Il suo nome non importava in quella situazione ostile. Potevo facilmente individuarlo da lontano con la sua caratteristica coperta verde. Era stata quella coperta verde acceso a calamitare la mia attenzione, mentre mi stavo avvicinando in una zona di fronte a un kraal dove diversi uomini giacevano sul terreno, morti o gravemente feriti. Mi rivolsi a un collega: disse che la coperta sembrava quella del mio contatto. Mi avvicinai. Era lui. Giaceva a faccia in giù. Dalla sua testa colava sangue fresco.xxvii Mambush riapparve il mese successivo in un altro articolo, pubblicato anch’esso su “The Star” e scritto da Poloko Tau, il quale ne aveva seguito il cadavere nel suo viaggio verso il villaggio natale, dove fu portato per essere seppellito dai suoi compagni minatori: In cima a montagne che formavano una specie di onda ricoperta di arbusti, nella frazione di Mqanduli chiamata Thwalikhulu, nel Capo Orientale, nel fine settimana si videro sgorgare da anime in pena canti tristi e ritmi lenti. In una capanna vicina, un gruppo di donne desolate circondavano la sua vedova, con i loro occhi stanchi fissi sulla bara accanto a lei. Una bara che conteneva un corpo crivellato di pallottole. Fuori un gruppo di uomini cantava con un tono triste Ingwenyama ise khaya. Battendo delicatamente le mani, si raggrupparono e si ranicchiarono. Questi erano alcuni dei minatori della Lonmin in sciopero, venuti a dire addio all’uomo che vedevano come un eroe e un simbolo di coraggio, come confermato dalla canzone da loro cantata, che vuol dire “il leone ora è a casa”.xxviii In seguito, le parole dell’articolo sono state ricomposte da Allan Kolski Horwitz in una poesia initolata The Man in the Green Blanket [“L’uomo con la coperta verde”] (2013).xxix E nel 2014 aaliyah sanKara ha caricato su YouTube una videopoesia in cui le parole, leggermente alterate in The man with the green blanket, sono pronunciate mentre il video si apre con la fotografia di Sadiki che va in dissolvenza, trasformandosi nelle immagini quotidiane di Mambush e di altri lavoratori. Ecco l’inizio della poesia: L’uomo con la coperta verde mai sospettò che il tessuto verde appoggiato alla sua spalla avrebbe dovuto un giorno ripararlo da qualcosa di più del freddo/ L’uomo la cui coperta verde non fu mantello dell’invisibilità quando quattordici volte gli spararono e ne Echo 3, 2021 235
Pier Paolo Frassinelli frantumarono l’anima come un tempo avevano tranciato il Sudafrica/ Lo chiamavano Mambush zio e padre il leader il comandante futuro trivellista duro lavoro nelle viscere della terra / Lui che non vide mai abbastanza sole da sognare l’acqua corrente un percorso chiaro non da schiavo ma da padrone verso il futuro luminoso del figlio a lui caro.xxx Ma è nelle rappresentazioni visuali e nelle ricontestualizzazioni che l’immagine dell’uomo con la coperta verde è stata risemantizzata nel modo più creativo. E qui non si può non partire dalla mostra del poeta e scultore Pitika Ntuli intitolata Marikana Hill to Constitution Hill [lett. “Dalla Collina di Marikana alla Collina della Costituzione”] (2013-2015). Con un gesto assai pregnante dal punto di vista simbolico, questa mostra (Figura 6.2) ha portato il massacro di Marikana nel luogo che forse più di ogni altro rappresenta gli ideali e le aspirazioni che hanno accompagnato la transizione dal regime dell’apartheid al nuovo ordinamento democratico: in mezzo agli edifici che celebrano la Costituzione della Repubblica Sudafricana del 1996. Nel discorso ufficiale che ha inaugurato la mostra, Tinyiko Sam Maluleke ha menzionato la stridente giustapposizione di significati creata da questa ambientazione: “la connessione fra Constitution Hill e la collina su cui sono caduti gli uomini di Marikana. L’una è una collina della vergogna, l’altra la collina della giustizia”. xxxi La mostra raffigurava alcune figure umane fatte di semplici oggetti quotidiani e materiali di scarto: pietre, zappe riciclate, lamiere, carriole, vanghe, tubi, sedie vecchie, pignoni di ruota, aste e schede madri di computer: Questa è una mostra di scultura su persone che sono state gettate via. Le sculture sono fatte di materiali di scarto abbandonati formalmente usati come strumenti o come componenti di altri strumenti: strumenti inutili usati per dipingere persone “inutili” e che di fatto sono trattate come se fossero strumenti senza valore. Eppure, le sculture raffigurano queste persone levarsi in piedi per affermare la propria umanità tramite questi stessi detriti, in mezzo ai residui delle culture e di strumenti moderni e non troppo moderni.xxxii Fra le sculture c’era quella dell’uomo con la coperta verde, assai notevole da un punto di vista visivo: una struttura di metallo ricoperta da un pezzo di lamiera che aggiunge un ulteriore livello di significato al soggetto che rappresenta, facendo riferimento al materiale usato dagli abitanti delle baraccopoli per costruirsi una casa nelle vicinanze delle township e negli insediamenti informali. La figura è semplice eppure drammatica, con la lamiera a riprodurre la plasticità della coperta verde e la struttura di metallo sul piedistallo coronata da una specie di casco. Echo 3, 2021 236
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall Figura 6.2 Pitika Ntuli, mostra Marikana Hill to Constitution Hill. Fonte: Fotografia di Pitika Ntuli. Associando “Marikana Hill” a “Constitution Hill”, la mostra ricontestualizzava il massacro in una costellazione che lo metteva in relazione con un’epoca di cui si riteneva che la Costituzione del 1996 avesse segnato la fine. Nelle parole di Pitika Ntuli, “penso che quel che ci abbia colpito di più in quanto società sia che pensavamo che l’era dei massacri fosse terminata con l’apartheid. Vedere il nostro governo democratico permettere questo è scioccante”. xxxiii All’inaugurazione della mostra Maluleke sintetizzò questa lunga storia ricordando al pubblico la cronologia dei massacri di stato in Sudafrica: Sharpeville (21 marzo 1960), Soweto (a partire dal 16 giugno 1976), Boipatong (17 giugno 1992), Bisho (7 settembre 1992), Marikana (16 agosto 2012). Successivamente, si chiese quale fosse il significato del ripresentarsi di eventi di questo tipo, i quali riportavano nel periodo post-apartheid i giorni più bui della storia del Sudafrica: “Se l’ordinamento democratico non ci ha curati dai nostri riti di sangue, cosa mai ci potrà curare?”xxxiv Echo 3, 2021 237
Pier Paolo Frassinelli 3. Da Marikana a #RhodesMustFall Il recente dibattito sulla decolonizzazione, inizialmente suscitato dalla riuscita campagna per la rimozione della statua dell’arci-imperialista britannico Cecil John Rhodes dalla parte alta del campus dell’Università di Città del Capo nel 2015, offre una modalità alternativa per inquadrare la questione. La rimozione della statua di Cecil John Rhodes non è stata un evento isolato. Essa ha segnato nelle università sudafricane l’inizio di un’ondata di lotte portate avanti da studentesse e studenti e da lavoratrici e lavoratori esternalizzati, lotte prolungatesi fino al 2016 inoltrato. Identificate da una serie di hashtag, fra i quali i più prominenti erano #RhodesMustFall [“Rhodes deve cadere”] e #FeesMustFall [“Le rette devono scendere”], queste lotte hanno conseguito vittorie importanti, fra le quali la rimozione della statua, la cancellazione del previsto aumento delle rette per il 2016 e l’impegno da parte di diverse amministrazioni accademiche a decolonizzare il curriculum e internalizzare il personale delle pulizie e altro personale in subappalto entro un periodo di tempo concordato.xxxv Nelle parole di una dichiarazione rilasciata dal collettivo #RhodesMustFall dell’Università di Città del Capo, il “mandato decoloniale” che ha portato nel 2015 a “concentrarsi su Cecil John Rhodes come figura simbolica centrale dell’eredità del colonialismo” mostra il fatto che il 1994 non ha cancellato il lascito del colonialismo e dell’apartheid. La transizione alla democrazia del Sudafrica non è sfociata in una nuova era “postcoloniale”, semmai in un’epoca in cui l’eredità del passato coloniale e dell’apartheid continua a farsi sentire nelle “realtà materiali e ideologiche” neocoloniali “[...] legate a quella stessa eredità”. xxxvi In altre parole, la questione ha a che fare con la temporalità. È la domanda posta dalla scrittrice e attivista Leigh-Ann Naidoo nella sua lezione commemorativa in onore di Ruth First del 2016 all’Università del Witswatersrand, a Johannesburg. “Qual è l’epoca in cui ci troviamo?” “Eppure”, aggiunge, “dire in che epoca ci troviamo è una faccenda complessa in questa società. In una certa misura, siamo nel post-apartheid, ma sotto molti altri aspetti no. Viviamo in una democrazia che è al tempo stesso violentemente e patologicamente iniqua.”xxxvii I movimenti studenteschi del 2015 e del 2016 sono partiti con la richiesta di rimuovere il simbolo del razzismo e del colonialismo rappresentato dalla statua di John Cecil Rhodes alla UCT, e da lì hanno ampliato il significato della decolonizzazione fino a elaborare una critica esaustiva della struttura della società sudafricana contemporanea: Nel 2015 gli studenti stavano resistendo alla mercificazione dell’istruzione tramite la rivendicazione di un’istruzione gratuita, decolonizzata e di qualità, esprimendo la loro insoddisfazione per il tasso e la profondità dei cambiamenti a un ventennio di distanza dalla democratizzazione del Sudafrica. I e le giovani stavano criticando il razzismo istituzionale e l’oppressione razzializzata che hanno continuato a esistere in tutto il Sudafrica, rendendolo probabilmente il paese più iniquo al mondo.xxxviii La rivendicazione della decolonizzazione da parte dei movimenti “per la caduta” andava ben oltre i “cambiamenti cosmetici di facciata” associati all’idea di trasformazione che nelle università tradizionalmente bianche del Sudafrica, a partire dal 1994, avevano accompagnato le lente trasformazioni della demografia e l’inclusione di un numero maggiore di accademici neri e di contenuti maggiormente africani. Ha invece rivendicato “la profonda trasformazione strutturale dell’università come istituzione, derivante da preoccupazioni riguardo alla demografia dello staff, i piani di studi eurocentrici, il razzismo istituzionale e altre forme di oppressione quali patriarcato e omofobia”.xxxix È una rivendicazione il cui senso abita temporalità che trascendono l’immediatezza delle politiche istituzionali e di partito. È inserita nella longue durée della storia che comincia con secoli di occupazione coloniale, attraversa i quasi cinquant’anni di apartheid istituzionalizzata (1948-1994) e ci porta nella transizione Echo 3, 2021 238
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall tuttora incompleta verso una società libera dalle diseguaglianze e dalle strutture di oppressione, dominazione e discriminazione ereditate da questa lunga storia. Secondo lo studioso decoloniale Ramón Grosfoguel, “Uno dei miti più potenti del Novecento è stata la concezione secondo la quale l’eliminazione delle amministrazioni coloniali equivaleva alla decolonizzazione del mondo. Questo ha portato al mito di un ‘mondo postcoloniale’”.xl È la frantumazione di questo mito che lega il massacro di Marikana al movimento #RhodesMustFall. Come ha affermato Joseph Mathunjwa, presidente della Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU), in un’intervista rilasciata dopo un discorso all’Università di Città del Capo nell’agosto del 2015: “Ricordatevi che quando i minatori scioperavano nel 2012, stavano cercando di disfarsi dell’eredità di Cecil John Rhodes. Perciò è naturale che essi sostengano le azioni del movimento RhodesMustFall”.xli Questa associazione ci riporta all’uomo con la coperta verde. Una versione dell’immagine di Mambush avvolto nell’indumento che lo contraddistingueva è la stampinatura intitolata Remember Marikana [“Ricordatevi di Marikana”] prodotta dal Tokolos Stencils Collective, un collettivo il cui nome è preso dai “Tokoloshe, Tikoloshe o Tokolos (in slang)”, una “creatura simile a un nano della mitologia xhosa e zulu che si dice venga evocato dai sangoma (guaritori tradizionali), di solito per rabbia o gelosia”.xlii Isolato dai minatori in sciopero che nella fotografia originale lo circondano, l’uomo con la coperta verde è qui trasformato nell’incarnazione della memoria della loro lotta collettiva (Figura 6.3). La stampinatura, descritta dal Tokolos Stencils Collective come un “catalizzatore per il recupero della memoria storica del passato più recente”,xliii è stata dipinta con lo spray su muri, monumenti ed edifici pubblici da Città del Capo a Johannesburg. Nel maggio 2014, alla vigilia di un dibattito se rimuovere o lasciare al suo posto la statua di Rhodes all’Università di Città del Capo, la stampinatura apparve sul suo piedistallo.xliv Posta sulle scale che conducono alla parte alta del campus, la statua ritrae Rhodes in posa da pensatore con lo sguardo rivolto verso nord, in direzione di quel continente che notoriamente sognava di conquistare dal Capo al Cairo. La sua presenza era un richiamo sia all’eredità del colonialismo che a come in essa fosse implicata l’università, le cui strutture furono trasferite nel 1928 su terreni donati da Rhodes, fondatore della società mineraria De Beers. Il modo in cui il permanere della statua in una posizione di primaria importanza nell’università storicamente bianca di Città del Capo costellasse il passato e il presente fu messo in rilievo dall’azione di protesta poi identificata con la nascita di #RhodesMustFall: il momento in cui lo studente dell’UCT “Chumani Maxwele gettò della materia fecale che aveva raccolto dai wc portatili a Khayelitsha sul viso dell’ormai tristemente nota statua di Cecil John Rhodes, in uno sforzo di evidenziare le spiacevoli realtà di degradazione e oppressione”.xlv L’azione faceva riferimento alle “proteste della cacca” che avevano avuto luogo in precedenza a Città del Capo, dove gli abitanti delle varie township e degli insediamenti informali disseminati intorno alla città avevano gettato materia fecale sugli edifici pubblici al fine di attirare l’attenzione sulla scarsità di strutture igieniche e la mancata fornitura di servizi nelle loro aree. Portando degli escrementi umani dalla township storicamente nera di Khayelitsha nel quartiere agiato e storicamente bianco di Rodenbosch, dove si trova la UCT, Maxwele attraversò la barriera razziale e sociale che continua a definire la geografia umana della città. Mise in scena così il conflitto fra due mondi che nella vita quotidiana del Sudafrica restano perlopiù segregati. Echo 3, 2021 239
Pier Paolo Frassinelli Figura 6.3 Ricordando Marikana, stampinatura del Tokolos Stencils Collective. Fonte: Fotografia scattata dall’autore nel 2014. La campagna #RhodesMustFall e, prima di essa, l’apparire della stampinatura Remember Marikana sul piedistallo della statua di Cecil John Rhodes ci ricordano come, nei momenti di disgiunzione politica, i monumenti diventino luoghi di conflitto.xlvi In questo caso, la disgiunzione è nella persistenza delle strutture coloniali e neocoloniali di diseguaglianza in una società postcoloniale e post-apartheid che ha ancora bisogno di essere decolonizzata. È questa la disgiunzione che Nelson Maldonado-Torres e altri pensatori e pensatrici decoloniali hanno chiamato “colonialità”, termine che “si riferisce a una logica, metafisica, ontologia, e a una matrice di potere che continua a esistere dopo l’indipendenza formale e la desegregazione”. Alla persistenza della colonialità, il progetto della decolonialità oppone “la produzione di contro-discorsi, contro-conoscenze, atti di contro-creazione e contro-pratiche che cercano di smantellare la colonialità e schiudere altri modi di essere al mondo”. xlvii È a tale processo di smantellamento che il Tokolos Stencils Collective riteneva di contribuire con il suo Remember Marikana: utilizzare la memoria di Marikana per lottare, come Mambush, per sbarazzarci di questa società capitalista e suprematista bianca in cui viviamo. L’arte può usare Marikana per sostenere movimenti che aspirano a liberare il nostro paese dal colonialismo e dal privilegio dei bianchi una volta per sempre.xlviii Molti altri si sono appropriati dell’immagine dell’“uomo con la coperta verde”. È stata trasformata in una silhouette verde stilizzata per poster e magliette utilizzate come materiale pubblicitario per Marikana – The Musical di Aubrey Sekhabi, che è stato giustamente criticato per non essere riuscito a “rappresentare Noki e i minatori, limitandosi a dipingerli come uomini neri danzanti pericolosi e mossi dal muti”.xlix Anche parecchie campagne e organizzazioni politiche hanno utilizzato l’immagine per un lavoro di mobilitazione e di solidarietà legato a Marikana: dalla riproduzione con lo spray spuntata in tutta Johannesburg per la campagna del Echo 3, 2021 240
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall 2015 di Amandla.mobi “Manda un messaggio di solidarietà alle vedove di Marikana”, fino alla riproduzione della foto originale di Leon Sadiki accanto alla frase “è meglio morire per una causa che morire per niente” sugli striscioni della Association of Mineworkers and Construction Union nel giorno della commemorazione di Marikana.l C’è tuttavia un’immagine che è stata fatta circolare ed è stata riprodotta sui social media e sul web, dove l’ho trovata, e con la quale voglio concludere. L’immagine sovrappone Mambush al continente africano (Figura 6.4): i suoi piedi sono sul Sudafrica; la lancia taglia la parte sud del continente; il braccio destro con il pugno chiuso si allunga sul Sahel, a nord del Golfo di Guinea; e la testa leggermente inclinata e la spalla sinistra indicano verso nordovest, parallelamente alla costa del Mar Rosso. Il continente è dipinto di nero, con una stella rossa sul Deserto del Sahara. Le binarietà, dualità e i paradossi spesso associati al significante Africa sono qui risemantizzati dal contrappunto di significati prodotto dalla sua giustapposizione con la tragedia e l’eroismo rappresentati simultaneamente dalla figura di Mambush. Figura 6.4 L’uomo con la coperta verde. Il 3 dicembre 2011 “The Economist” pubblicava The Hopeful Continent: Africa Rising [“Il continente della speranza: l’Africa in ascesa”], articolo accompagnato da un’immagine di un ragazzo che fa volare un aquilone multicolore in un cielo azzurro. L’articolo inizia con una descrizione dell’affollato mercato di Onitsha, nella Nigeria meridionale: una celebrazione del consumismo sfrenato in una terra dell’abbondanza dove ogni giorno è come “la stagione natalizia dello shopping” e “i negozi hanno scaffali alti un metro e ottanta pieni di merci”, mentre “le strade sono piene zeppe di clienti, venditrici e venditori”. L’articolo continua raccontando a lettrici e lettori della classe media più in rapida crescita al mondo dell’altissimo Echo 3, 2021 241
Pier Paolo Frassinelli tasso di investimenti esteri, della potenziale crescita economica paragonabile a quella dell’Asia, e dei seicento milioni di utenti di telefonia mobile in Africa. L’articolo, beninteso, menziona anche la corruzione, il malgoverno, le persistenti “siccità e carestie” in alcune parti del continente, insieme al peggioramento del clima, alla “deforestazione e desertificazione”.li Il messaggio implicito, però, è chiaro. È riassunto dal titolo dell’ultima sezione dell’articolo, “More trade than aid” [“Più commercio che aiuti”]. Kevin Bloom e Richard Poplak fanno notare che questo tipo di discorso: fa conoscere a un pubblico occidentale selezionato un fatto che gli attori economici cinesi o indiani avrebbero probabilmente ritenuto talmente ovvio da non considerarlo degno di menzione: che l’Africa non era un continente fallito bisognoso di aiuti e iniziative di sviluppo, bensì un mercato enorme in espansione che aveva bisogno di servizi. E mentre questo cominciava a far cambiare le percezioni dell’Africa al di fuori del continente, la questione di cosa pensassero le africane e gli africani, o di come queste categorie si applicassero alla vita vissuta di qualunque essere umano, in gran parte non furono oggetto di commenti.lii In un contesto in cui le astrazioni statistiche della logica del mercato rimpiazzano il paternalismo sviluppista nel silenziare le voci africane e cancellano altre modalità dell’essere al mondo, la giustapposizione dell’immagine dell’uomo con la coperta verde armato di lancia e con il pugno chiuso evoca un tipo di insurrezione radicalmente diverso. 4. Conclusione Inserito in una sequenza politica che risale fino alla lotta di liberazione, il massacro di Marikana sembra essere tratto da uno dei passaggi sulle “Disavventure della coscienza nazionale” de I dannati della terra di Frantz Fanon (1972 [1961]), in cui l’élite postcoloniale, agendo da intermediaria per il capitale transnazionale e incapace di “razionalizzare la prassi popolare”, produce un tale livello di “sfruttamento e una tale diffidenza per lo stato” da scatenare “inevitabilmente lo scontento al livello delle masse. In queste condizioni il regime si inasprisce”.liii Come ha scritto Richard Pithouse nel 2014: “Marikana” è ora il nome delle occupazioni delle terre in tutto il paese, così come una ribellione dei lavoratori, un massacro e uno sciopero straordinario. E dalla cintura del platino intorno a Rustenburg alle baraccopoli di Durban e oltre, la gente sta investendo politicamente sempre più sulla propria resilienza. Nuove forze si stanno muovendo. Il nazionalismo d’élite sta iniziando a perdere la sua presa su una cittadinanza sempre più militante [...] L’accordo che ci ha aiutato a superare gli ultimi vent’anni non è più in vigore.liv Queste parole suonano ancor più vere oggi, in mezzo alla calma apparente seguita ai tumulti e alla confusione dell’era di Jacob Zuma, quando nel compromesso post-apartheid continuano a palesarsi crepe sempre più grandi.lv Forse le domande più urgenti generate dai recenti sconvolgimenti sono quali modalità della soggettività politica stiano emergendo dal frantumarsi dell’accordo del 1994, e se saranno in grado di costruire e sostenere movimenti capaci di produrre i cambiamenti socioeconomici richiesti tanto dai minatori in sciopero di Marikana, quanto dalle quasi quotidiane proteste nelle township e negli insediamenti informali del Sudafrica. Echo 3, 2021 242
Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall Ma il massacro di Marikana non è solo una storia sudafricana. La Lonmin spa, la società mineraria di cui erano dipendenti i lavoratori uccisi dalla polizia sudafricana, è una corporation multinazionale il cui quartier generale è a Londra, ed è quotata alla borsa di quest’ultima; la sua presenza in Sudafrica risale a quando essa fu costituita nel Regno Unito il 13 maggio 1909, con il nome di London and Rhodesian Mining and Land Company Limited. Nel Sudafrica si trova l’80 per cento delle riserve mondiali conosciute di platino. La piccola città di Marikana fa parte della cintura del platino, che va dalle province del Nordovest, del Gauteng e dello Mpumalanga fino al Limpopo.lvi La sua collocazione geografica è quindi sia “locale” che “globale”: essa è inserita nel circuito transnazionale del capitale che delinea l’economia geopolitica dell’estrazione di minerali. Questo ci ricorda ancora una volta che l’integrazione globale non si manifesta sotto forma di inserimento omogeneo nel processo di “globalizzazione”, né come movimento di migrazione unidirezionale verso il nord globale evocato dalle crisi dei migranti e dei rifugiati che saturano i discorsi e i media occidentali. Essa è costituita da complesse relazioni di diseguaglianza, sfruttamento, potere, lotta e resistenza, così come da flussi e balzi multidirezionali come quelli che continuano a condurre le multinazionali occidentali, e sempre più anche quelle orientali, nelle enclaves ricche di minerali e di risorse naturali dell’Africa sub- sahariana.lvii Sembra dunque appropriato chiudere questo libro lasciando che lo sguardo che emana dall’ultima foto da me proposta perseguiti il confine sud-nord. Bionota: Pier Paolo Frassinelli was Professor of Communication and Media Studies at the University of Johannesburg. He had a laurea (summa cum laude) from the University of Pisa and a PhD from the University of Southampton. He was advisory chair of the South African Communication Association (SACOMM), book and film reviews editor of Journal of African Cinemas, and a member of the International Advisory Board of Journal of African Media Studies. His recent and forthcoming publications include Borders, Media Crossings and the Politics of Translation: The Gaze from Southern Africa (Routledge, 2019) and Sovvertire i confini: traduzioni, media e lo sguardo dal sud (Ombre Corte, 2021 in corso di stampa). In 2020, he was a writing fellow at the Johannesburg Institute for Advanced Studies and in 2021 he was a writing fellow at the Stellenbosch Institute for Advanced Studies. Before his death he was currently working on a book project on African cinemas. Bibliografia e filmografia African News Agency, Pressure on UCT over Lonmin Connection, “Cape Times”, 20 August 2015 (ultimo accesso 26 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/capetimes/pressure-onuct-over- lonmin-connection-1903238 . Peter Alexander, Analysis and Conclusion, in Peter Alexander, Botsang Mmope, Thapelo Lekgowa, Luke Sinwell e Bongani Xezwi (a cura di), Marikana: A View from the Mountain and a Case to Answer, Jacana, Johannesburg 2012, pp. 169-195. Ariella Azoulay, What Is a Photograph? What Is Photography?, in “Philosophy of Photography”, 1 (1), 2010, pp. 9-13. Frans Baleni, Baleni on Lonmin Killings and Violence (20 August), 2012 (ultimo accesso 29 aprile 2017), https://www.youtube.com/watch?v=1eLzskhdYwY . Roland Barthes, Miti d’oggi, trad. it. di L. Lonzi, con uno scritto di U. Eco, Einaudi, Torino 2005 [1957]. Kevin Bloom e Richard Poplak, Continental Shift: A Journey into Africa’s Changing Fortunes, Jonathan Ball, Johannesburg 2016. Patrick Bond, Looting Africa: The Economics of Exploitation, University of KwaZulu-Natal Press, Pietermaritzburg 2006. Echo 3, 2021 243
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Segni dei tempi: da “The Man in the Green Blanket” a #RhodesMustFall xvi Luke Sinwell, Thapelo Lekgowa, Botsang Mmope e Bongani Xezwi, Introduction: Encounters in Marikana, in Peter Alexander, Botsang Mmope, Thapelo Lekgowa, Luke Sinwell e Bongani Xezwi (a cura di), Marikana: A View from the Mountain and a Case to Answer, Jacana, Johannesburg 2012, p. 3. xvii Jane Duncan, The Rise of the Securocrats: The Case of South Africa, Jacana, Johannesburg 2014, p. 182. xviii Frans Baleni, Baleni on Lonmin Killings and Violence (20 August), 2012 (ultimo accesso 29 aprile 2017), https://www.youtube.com/watch?v=1eLzskhdYwY . xix Blade Nzimande, Our Condolences and Sympathies to the Marikana and Pomeroy Victims, in “Umsebenzi”, in 23 August 2012 (ultimo accesso 15 dicembre 2015), https://www.sacp.org.za/main.php?ID=3724 . xx Cit. in Duncan, The Rise of the Securocrats, cit., p. 191. xxi Ivi, p. 191. xxii Ivi, p. 187. xxiii Julian Brown, South Africa’s Insurgent Citizens: On Dissent and the Possibility of Politics, Jacana, Johannesburg 2015, p. 12. xxiv Stuart Wilson, Judge Farlam’s Accidental Massacre, in “Daily Maverick”, 26 June 2015 (ultimo accesso 15 dicembre 2016), https:// www.dailymaverick.co.za/opinionista/2015-06-26-judge-farlams-accidental-massacre/. xxv Luke Sinwell e Siphiwe Mbatha, The Spirit of Marikana: The Rise of Insurgent Trade Unionism in South Africa, Pluto Press, London 2016, pp. 9 e 42-43. xxvi L’articolo non è firmato, mentre l’immagine e la didascalia che l’accompagnano sono attribuite a Tiro Ramathlatse. xxvii The Star, The Man in the Green Blanket Is Forever Silenced, 17 August 2012 (ultimo accesso 20 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/the-star/the-man-in-the-green-blanket-is-foreversilenced-1364499 . xxviii Poloko Tau, “The Man in the Green Blanket” Mourned, in “The Star”, 10 September 2012 (ultimo accesso 20 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/news/crime-courts/man-in-the-greenblanket- mourned-1379101 . xxix Allan Kolski Horwitz, The Man in the Green Blanket, in Raphael d’Abdon (a cura di), Marikana: A Moment in Time, Geko, Johannesburg 2013, pp. 45-48. xxx aaliyah sanKara, The Man with the Green Blanket, 2014 (ultimo accesso 2 novembre 2016), https://www.youtube.com/watch?v=_lUjapnL6Ds . xxxi Tinyiko Sam Maluleke, The Marikana Massacre: Just a Little Atrocity?, 15 February 2013 (ultimo accesso 23 ottobre 2016), www.pitikantuli.com/exhibitions/ . xxxii Ibidem. xxxiii Ntuli, cit. in Dimakatso Motau, Artists Lament Miners’ Tragedy, in “The Sowetan”, 30 November 2012 (ultimo accesso 26 ottobre 2016) https://www.sowetanlive.co.za/entertainment/2012/11/30/artists-lament-miners- tragedy?service=print . xxxiv Maluleke, The Marikana Massacre, cit. xxxv Si veda Pier Paolo Frassinelli, Hashtags: #RhodesMustFall, #FeesMustFall and the Temporalities of a Meme Event, in Bruce Mutsvairo e Beschara Karam (a cura di), Perspectives on Political Communication in Africa, Palgrave, Houndsmill-New York, 2018, pp. 61-76. xxxvi #RhodesMustFall, Right of Response: #RhodesMustFall: Careful, Rebecca Hodes, Your Colour Is Showing, in “Daily Maverick”, 25 August 2015 (ultimo accesso 25 ottobre 2016), https://www.dailymaverick.co.za/article/2015-08-25-right-of-response-rhodesmustfallcareful-rebecca-hodes- your-colour-is-showing/#.WA7n_yRU57h . xxxvii Leigh-Ann Naidoo, Hallucinations, lezione commemorativa in onore di Ruth First, University of the Witwatersrand, 2016, (ultimo accesso 20 aprile 2019), http://witsvuvuzela.com/wpcontent/uploads/2016/08/Hallucinations_RUTHFIRST_August2016_FINAL.pdf . In corsivo nell’originale. xxxviii Leigh-Ann Naidoo, Contemporary Student Politics in South Africa: The Rise of the Black-Led Student Movements of #RhodesMustFall and #FeesMustFall in 2015, in Anne Hefferman e Noor Nieftagodien (a cura di), Students Must Rise: Youth Struggle in South Africa before and Beyond Soweto ’76, Wits University Press, Johannesburg 2016, p. 180. xxxix Ivi, p. 182-183. xl Ramón Grosfoguel, Decolonizing Post-Colonial Studies and Paradigms of Political-Economy: Transmodernity, Decolonial Thinking, and Global Coloniality, in “Transmodernity: Journal of Peripheral Cultural Production of the Luso-Hispanic World”, 1 (1), 2011 (ultimo accesso 15 aprile 2018), https://escholarship.org/uc/item/21k6t3fq, p. 14. xli Mathunjwa, cit. in African News Agency, Pressure on UCT over Lonmin Connection, “Cape Times”, 20 August 2015 (ultimo accesso 26 ottobre 2016), https://www.iol.co.za/capetimes/pressure-onuct-over-lonmin-connection- 1903238 . xlii Tokolos Stencils Collective, We Send Our Tokoloshe to Battle with Those Trying to Make Us Forget the Atrocities of Marikana, in “Africa Is a Country”, 20 January 2014 (ultimo accesso 20 ottobre 2016), Echo 3, 2021 247
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